Io, una stronza: “Abolirei la caccia e salverei la Terra, ma la rivoluzione è solo un emoticon”

 

“Ho lanciato un petizione online ma nessuno mi fila, tutti struzzi”

Buongiorno Selvaggia, io sono una stronza, di quelle a cui la vita ha tolto le inibizioni e i filtri. Io sono una pseudovegetariana, mangio le uova della mia gallina, prima ero latto-ovo-vegetariana, ma sono una coerente in tutto, non come quelli che si “autoclassificano” tali, solo perché hanno tolto la carne dal loro menù. Io sono anche una canara, ho quattro cani, due levrieri salvati: uno dal mondo delle corse ed un altro dalla realtà di morte e violenza della Spagna che, ogni anno, ne conta più di 50mila trucidati. Gli altri due cani li ho comprati in allevamento, da allevatori seri, quelli che li tengono sui loro divani e che prima di darti il cane ti studiano bene e lo abbracciano prima di consegnartelo. Io sono una che crede a quello in cui crede, per davvero. Io sono una che usa i social per fare denuncia, non per mettere il proprio ritratto ritoccato o la foto del dolce che ho preparato. Io sono una che, come successo, se vede una lite in un parcheggio e un uomo assalire la sua compagna, non si gira dall’altra parte, ma interviene… però non dimentico che quando successe a me, da ragazza, aggredita in macchina, tutti si girarono dall’altra parte perché il mio aggressore indossava una divisa. Io sono una che ama gli animali, ama questo pianeta, si sente in sintonia con la natura e, allo stesso tempo, lontanissima dalla società occidentale in cui vive, ma anche da quella orientale che mangia ogni sorta di essere vivente del pianeta, e lo sfrutta fino allo sfinimento. Io sono una che non trova pace, che vorrebbe cambiare le cose, ma si rende conto che agli altri non importa cambiare le cose. Vedo continuamente scene di violenza su animali, vedo continuamente persone che si indignano, ma tutto rimane lì, limitato all’emoticon con una faccetta arrabbiata.

Sull’onda dei miei sentimenti e dell’esigenza di darmi dare fare, mi sono concentrata su un argomento che tutti conosciamo: la caccia. L’ultimo referendum fu fatto nel 1997 e sebbene sia stato una plebiscito a favore dell’abolizione della caccia, non raggiunse il quorum. Ai tempi, tutti i partiti “invitarono” il proprio elettorato ad “andare al mare”. Ho deciso quindi di aprire una petizione per richiedere un nuovo referendum per l’abolizione della caccia, l’ho pubblicato sul mio profilo, tieni conto che di 400 “amici” su Facebook, 300 non li conosco personalmente, ma siamo accomunati dall’avere salvato un levriero dal mondo della caccia. L’ho pubblicato su un gruppo che si chiama “i difensori della natura” con quasi 20mila iscritti. Due persone hanno firmato la mia petizione. Lo so che non si cambia nulla, che una petizione deve diventare virale per ottenere attenzione, ma in tutto ci sono due, ripeto, due persone su 20.300 che si sono proclamate contro la caccia. Questo era per sottolineare quanto il nostro mondo viva di faccine arrabbiate, commenti velenosi, senza mai impegnarsi davvero: meglio giudicare senza fare nulla; o piangere sulla foto del gattino bagnato senza buttarsi nel fiume per riprenderlo; restare scioccati da come uccidono i cani in Cina per mangiarli, ma se poi il vicino tiene il proprio alla catena o sul balcone troppo a lungo nessuno lo denuncia. Io mi sono stancata. Io questo mondo non lo salvo, io non salvo l’umanità, presa solo dai propri interessi, dall’ignoranza, dal credersi immortale e superiore a qualsiasi forma di vita diversa su questo pianeta. Tutti credono di essere nel giusto e nessuno si sporca le mani.

Quando decisi di intraprendere la strada per diventare vegetariana mi iscrissi ad un gruppo di vegetariani. Premetto che per me è stata una scelta puramente etica e, visto che sono una “precisini” che non vuole mai tornare indietro, ho deciso di iniziare a piccoli passi, togliendo prima la carne e i suoi derivati. Non essendo un’esperta, mi sono affacciata su uno di questi “gruppi vegan” dicendo di avere iniziato in questo modo: non hai idea come sono stata aggredita, tanto che ne sono immediatamente uscita. Io non mi sento meglio di alcun carnivoro o peggio di alcun vegano, mi sento una persona normale, particolarmente sensibile per il mondo animale, con una grande empatia che mi fa vedere negli occhi di un animale la stessa sofferenza che trovo negli uomini. Vorrei fare qualcosa che non riguarda il mio ego, ma la reale possibilità di aiutare la natura, che è l’unica parte di questo mondo alla quale mi sento profondamente legata, ma capisco che sono sola.

Credo di essere una persona umana, e questa è l’unica cosa di cui io mi faccio un vanto! E sono umana fuori da internet, perché io i cani li aiuto davvero, non condivido solo il video del bassottino che gioca col gatto o del labrador, così simpatico, che si fa la doccia in giardino con lo spruzzino per annaffiare le piante. Grazie, scusa per lo sfogo. So bene che le tue battaglie sono lontane dalle mie, ma a volte sento più amica una come te, battagliera e fiera che cammina su questa Terra, di tutte le persone che mi circondano.

Noemi

 

Cara Noemi, ti capisco su tutto, tranne che su un passaggio: in che modo firmare online una petizione per avere un nuovo referendum sulla caccia, sarebbe passare dal virtuale al reale? Il punto, casomai, è: quanti poi, in caso di referendum, andrebbero a firmare con una biro?

Selvaggia Lucarelli

Informazione. L’appello di Bergoglio: “Andate e vedete, altrimenti si fanno i giornali fotocopia”

Avrebbe meritato maggiore evidenza il messaggio di papa Francesco per la cinquantacinquesima giornata mondiale delle comunicazioni sociali, diffuso sabato scorso. Perché mai come questa volta il pontefice riflette sul nostro mestiere di giornalisti in questa lunga era di transizione, a cavallo tra gli old media e il web, compresi i social. Così ne viene fuori l’appello a rifarsi alla più antica tradizione di questo lavoro, sovente considerata come vuota retorica: consumare le fatidiche suole delle scarpe.

Leggiamo: “Pensiamo al grande tema dell’informazione. Voci attente lamentano da tempo il rischio di un appiattimento in ‘giornali fotocopia’ o in notiziari tv e radio e siti web sostanzialmente uguali, dove il genere dell’inchiesta e del reportage perdono spazio e qualità a vantaggio di una informazione preconfezionata, ‘di palazzo’, autoreferenziale, che sempre meno riesce a intercettare la verità delle cose e la vita concreta delle persone, e non sa più cogliere né i fenomeni sociali più gravi né le energie positive che si sprigionano dalla base della società”.

Di qui l’invito: “La crisi dell’editoria rischia di portare a un’informazione costruita nelle redazioni, davanti al computer, ai terminali delle agenzie, sulle reti sociali, senza mai uscire per strada, senza più ‘consumare le suole delle scarpe’, senza incontrare persone per cercare storie o verificare de visu certe situazioni”. Papa Francesco introduce il suo messaggio con la scena di uno dei più straordinari reportage dell’umanità, non solo un libro fondamentale per i credenti: il Vangelo. Le fede cristiana inizia per “conoscenza diretta, non per sentito dire”. Scrive il pontefice: “Ai primi discepoli che vogliono conoscerlo, dopo il battesimo nel fiume Giordano, Gesù risponde: ‘Venite e vedrete’ (Gv 1,39), invitandoli ad abitare la relazione con Lui. Oltre mezzo secolo dopo, quando Giovanni, molto anziano, redige il suo Vangelo, ricorda alcuni dettagli ‘di cronaca’ che rivelano la sua presenza nel luogo e l’impatto che quell’esperienza ha avuto nella sua vita”,

Venite e vedrete, dunque. Ché non si tratta solamente di andare in un posto e raccontare, ma bisogna anche sapere guardare. Gli occhi sono decisivi per la narrazione. Per citare Sant’Agostino: “Nelle nostre mani ci sono i libri, nei nostri occhi i fatti”. Quello di andare e vedere è l’unica strada non solo per evitare la deformazione del giornalismo fotocopia da scrivania e da velina, ma anche per stroncare la tendenza social alle fake news, tipica soprattutto di populismo e sovranismo: “Sono diventati evidenti a tutti, ormai, anche i rischi di una comunicazione social priva di verifiche. Abbiamo appreso già da tempo come le notizie e persino le immagini siano facilmente manipolabili, per mille motivi, a volte anche solo per banale narcisismo”.

Ergo, andare, vedere e infine condividere. Per scovare storie soprattutto là dove nessuno vuole andare, tra gli ultimi della Terra. Per esempio, si chiede Francesco in questo tragico tempo pandemico: “Chi ci racconterà l’attesa di guarigione nei villaggi più poveri dell’Asia, dell’America Latina e dell’Africa?”.

 

La foto ridens degli Italovivi: quelli bravi a comunicare

Quando uno con la comunicazione è bravo, c’è poco da fare. Nella bolla patologica dei social, dove marcia la psicopolitica attuale, è comparsa giorni fa una foto, rilanciata dagli account dei più prestigiosi “deputati e senatori di Italia Viva”. Italia Viva, ricorderete, è il partito che ha fatto di tutto per far cadere il governo nel momento più delicato della pandemia e della crisi economica solo per obbedire all’ego del capo. La foto ritrae questi soggetti, per lo più esimi sconosciuti, in un selfie

-assembramento tipo attori nella notte degli Oscar. Tutti sorridono, in un presumibile dopocena al ristorante, alcuni tanto contenti da spanciarsi dalle risate. Defilato vicino alla vetrina dei gelati, lui, il distruttore, abbraccia due donne ignote (significative solo in quanto voti in Parlamento) e se la ride della grossa, con l’espressione di chi ne ha appena detta una delle sue.

La didascalia dice: “I deputati e senatori di Iv osservano con preoccupazione lo stallo istituzionale di questi giorni, la difficile situazione sanitaria e i drammatici dati economici del nostro Paese”. Scusate, ma non ci riesce di fare ironia. Nella poco probabile ipotesi che nessuno, nella filiera dei tweet e dei retwitt, si sia accorto della stridente discordanza tra immagini e parole, cos’è la foto se non uno sfregio ai morti, ai malati, a chi chiude l’attività? (La foto senza mascherine è stata scattata prima della chiusura dei locali, s’immagina).

Le ministre e il sottosegretario fatti dimettere vengono poi ringraziati “per la straordinaria dimostrazione di coraggio, libertà e spirito di squadra che hanno dato… combattendo per le idee e gli ideali non solo di Italia Viva”. E di chi altro? Posto che i detestabili sono già detestati da tutta la nazione, cosa pensa la pur esigua base del 2% di potenziali elettori di Iv di questo gesto miserrimo, rancoroso, e in definitiva infame?

Rally Dakar. Israeliani in gara, i sauditi non sono più nemici

Tra i team che si sono lanciati sulle dune del deserto con le loro auto, moto e camion al Rally Dakar in Arabia Saudita, c’erano due team israeliani, la loro presenza sarebbe stata impensabile un anno fa. Nel 2020 c’è stato tra Israele e Stati arabi un riavvicinamento che è andato a gonfie vele e che è stato alimentato dal silenzioso consenso di Riyad, anche se l’Arabia Saudita non ha ancora deciso se aprirsi a veri rapporti diplomatici con lo Stato ebraico. In totale, dieci conducenti, navigatori e personale di supporto sono entrati nel regno wahabita con passaporti israeliani.

Per decenni, l’Arabia Saudita, luogo di nascita dell’Islam e acceso sostenitore della causa palestinese, ha evitato i contatti ufficiali con Israele, anche se in forma segreta nell’ultimo decennio le relazioni “pericolose” fra i due Stati si sono consolidate per far fronte al nemico comune: l’Iran. Riyad ha dato il suo assenso alla formalizzazione delle relazioni fra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, con la mediazione statunitense, anche se si è trattenuto dal creare legami pieni con lo Stato ebraico.

Un incontro nel deserto fra il premier israeliano Benjamin Netanyahu e il principe ereditario Mohammed Bin Salman non ha dato esito (per l’opposizione di sua maestà Re Salman). Comunque ora agli aerei di linea israeliani è permesso attraversare lo spazio aereo saudita, riducendo così notevolmente i loro tempi di volo.

Nel sito web ufficiale del rally le due squadre – nelle categorie veicoli leggeri e camion – sono iscritte come belga e americana, un segnale palese della riluttanza ufficiale a pubblicizzare una presenza israeliana alla gara, ma i racconti dei 10 partecipanti sono su tutti i giornali israeliani con le foto ricordo.

“No comment” dell’ufficio stampa del governo saudita e dei portavoce del raduno. La gara annuale nata nel 1978 come una corsa da Parigi alla capitale senegalese Dakar, si trasferì dall’Africa in America Latina per motivi di sicurezza nel 2009, ora si svolge interamente in Arabia Saudita.

 

Guantanamo, il buco nero che nessuno vuole chiudere

Appena due giorni dopo il suo insediamento alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti, Barack Obama firmava, il 22 gennaio 2009, il decreto n.13492 (l’“executive order”) che ordinava la chiusura del “centro di detenzione” di Guantanamo Bay precisando che si sarebbe dovuto fare “appena possibile”. Inaugurato l’11 gennaio 2002, il carcere ha oggi vent’anni di vita. Vi sono detenute ancora 40 persone, 15 delle quali dall’anno della sua apertura. Dal 2002 vi hanno transitato 780 detenuti. Diventata il simbolo dello stato di non-diritto e della tortura, la prigione di Guantanamo è una vergogna per gli Stati Uniti.

Donald Trump ne ha preso regolarmente le difese. Dopo aver affermato che “la tortura funziona”, l’ex presidente Usa aveva promesso di “riempirla” di nuovo di “cattivi soggetti”. Cosa che poi non ha mai fatto. Il nuovo presidente Joe Biden non firmerà alcun decreto presidenziale al riguardo. Non ha promesso di chiudere Guantanamo appena possibile. Durante la campagna elettorale, l’ex vice presidente di Obama ha affermato che la prigione “mina la sicurezza nazionale americana alimentando il reclutamento di terroristi ed è in contraddizione con i nostri valori”. Biden è dunque favorevole alla chiusura di Guantanamo, ma non si è esposto e ha evitato di dire quando e come. “Non si potrà fare senza il Congresso”, ha poi aggiunto il neo presidente, che possiede la maggioranza nelle due Camere del Congresso. Persone del suo entourage hanno riferito al New York Times che la promessa di Obama non sarebbe stata reiterata, promessa del resto mai mantenuta, e che bisognava agire in modo diverso, di sicuro più discreto. In effetti, il Congresso, con il sostegno di una maggioranza di responsabili democratici, ha bloccato regolarmente e per otto anni tutte le iniziative avanzate da Barack Obama per ottenere la chiusura del carcere. Malgrado la ferma determinazione di Obama, rimasta tale fino agli ultimi giorni della sua presidenza, dei parlamentari democratici si sono regolarmente schierati al fianco dei repubblicani per permettere alla prigione di Guantanamo di restare aperta. Joe Biden potrà modificare l’equazione politica?

Per il neo presidente, Guantanamo rappresenta dunque un test importante, tanto più che questa prigione è un’onta per gli Stati Uniti e lo è sempre di più. Sin dalla sua creazione, Guantanamo rappresenta per gli Usa uno scandalo tanto sul piano umanitario che giuridico. È stata aperta calpestando tutti i regolamenti e le leggi internazionali, dalle Convenzioni di Ginevra ai diversi trattati, ed è stata organizzata come un prolungamento della rete di prigioni segrete della Cia, dove si praticava massivamente la tortura. Nel corso del tempo, il carcere di Guantanamo è diventato anche uno scandalo sul piano finanziario e amministrativo. Il suo funzionamento mobilita 1.500 persone (tra militari, personale amministrativo e legale, medici, ecc.) e costa più di 500 milioni di dollari all’anno, per soli 40 detenuti (13 milioni di dollari a detenuto). Dopo vent’anni, dovrebbero essere investiti centinaia di milioni di dollari per effettuare dei lavori di ristrutturazione. Tutti questi elementi basteranno per spingere l’amministrazione Biden e i democratici a “mettere fine una volta per tutte” a Guantanamo? È quanto si chiede Amnesty International, che l’11 gennaio scorso ha pubblicato un rapporto approfondito che evidenzia le violazioni dei diritti umani in corso a Guantanamo. Amnesty ricorda il discorso tenuto da Biden, il 7 febbraio 2009, alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco di Baviera: “L’America rifiuta la tortura. Chiuderemo il centro di detenzione di Guantanamo Bay. Ai nostri amici diciamo che le alleanze, i trattati e le organizzazioni internazionali che costruiamo devono essere credibili ed efficaci”. Eppure, due anni fa, a fine 2018, il Pentagono ha ordinato alla direzione della prigione di pianificare le sue operazioni per i prossimi venticinque anni. Ovvero fino al 2043! A quel punto il prigioniero più anziano avrà 96 anni, se sarà ancora vivo, mentre il più giovane 62.

Oltre a convincere i democratici, Joe Biden dovrà affrontare anche la reticenza dei militari e della Cia. Chiudere Guantanamo significa che la sorte dei 40 prigionieri sarà decisa passando per delle procedure giudiziarie ordinarie e non per le “commissioni militari”, i tribunali eccezionali creati a Guantanamo. Ma da anni è evidente che una procedura “normale” è impossibile. Essa rivelerebbe gli abusi e le torture subìte dai detenuti e porterebbe all’apertura di procedimenti giudiziari contro i loro autori: non solo l’ex presidente George Bush, il suo vice Dick Cheney, il suo segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e un intero battaglione di giuristi che hanno organizzato la tortura, ma anche centinaia di ufficiali e soldati che hanno messo in pratica i “nuovi metodi rinforzati di interrogatorio”.

La giurista Sharon Weill, autrice di uno studio importante sulla giustizia a Guantanamo, sentita alcuni mesi fa da Mediapart, ha insistito su questo punto: “È proprio la questione della tortura e della protezione di chi l’ha praticata a intralciare il funzionamento delle commissioni militari. Tutto è stato fatto per evitare la pubblicazione di informazioni relative alle torture praticate dalla Cia”, sostiene Sharon Weill. Nel suo recente rapporto Amnesty International traccia il seguente quadro della situazione: i 40 prigionieri di Guantanamo sono detenuti in questa base da almeno dodici anni. Più della metà sono passati per le prigioni segrete della Cia.

Sei sono classificati come “trasferibili”, possono cioè essere liberati e trasferiti in un altro paese, ma nessuno di loro lo è stato (e uno è “trasferibile” dal 2010). Finora solo un detenuto è stato condannato dalle commissioni militari e sta scontando l’ergastolo. Altri otto sono incriminati, ma il loro processo è ancora nella fase dell’“udienza preliminare”. Infine, venticinque detenuti non sono né incriminati né giudicati, ma restano detenuti perché considerati “altamente pericolosi” (“high value detainee”), secondo i servizi segreti e il ministero della Difesa.

Nel caso, arrivato davanti alla Corte Suprema, di Moath al-Alwi – uno yemenita accusato di essere stato la guardia del corpo di Osama Bin Laden e trasferito a Guantanamo nel 2002 –, i legali dei dipartimenti della Giustizia e della Difesa avevano persino sostenuto che la detenzione a vita, senza né incriminazione né processo, era giustificata dal momento che persiste un contesto di guerra al terrorismo in Afghanistan e Iraq. A causa della pandemia di Covid-19, gran parte dei lavori delle commissioni militari hanno subito una battuta d’arresto. Così il processo di Khalid Cheikh Mohammed, presunto organizzatore degli attentati dell’11 settembre, e di quattro dei suoi complici, è stato ancora una volta rinviato. Dopo una procedura lunga sette anni, si sarebbe dovuto tenere il mese prossimo. Nella migliore delle ipotesi si terrà invece dopo il settembre 2021, ha fatto sapere il giudice militare incaricato del caso. Oltre a proteggere gli organizzatori e gli autori della tortura, Guantanamo non ha quindi raggiunto nessuno dei suoi obiettivi, a cominciare dal primo: “giudicare e punire i terroristi”, come diceva George Bush. Ai cittadini americani è stato negato dunque un grande processo pubblico del “9/11”, ha spiegato Human Rights First, mentre “tribunali federali ordinari hanno condannato dall’11 settembre quasi 500 terroristi”. Guantanamo è sinonimo di “detenzioni inesorabilmente legate a molteplici livelli di condotta illegale da parte del governo nel corso degli anni: trasferimenti segreti, interrogatori segreti, alimentazione forzata per chi era in sciopero della fame, torture, sparizioni forzate e assenza totale di rispetto della legalità”, spiega Daphne Eviatar, una delle responsabili di Amnesty International negli Stati Uniti. Ecco una lista non esaustiva di motivi che dovrebbero rendere prioritaria per l’amministrazione Biden la chiusura di Guantanamo.

Proteste pro-Navalny, Putin dà la colpa agli Usa

Il giorno dopo il “Navalny day” la Russia non ha ancora smesso di contare: le Ong provano ad ottenere una cifra credibile degli arrestati nelle 90 città della Federazione dove si sono svolte le marce in solidarietà dell’oppositore. Centinaia di cittadini sui social, da San Pietroburgo a Novosibirsk, invece si raccontano delle ossa rotte dai manganelli delle forze dell’ordine durante le proteste di sabato, quando hanno sfidato squadre dell’antisommossa, blindati e manette di un apparato sfacciatamente potente, che, in un solo giorno, è riuscito a mettere dietro le sbarre almeno 3.500 persone in tutta la Russia.

Secondo quanto dichiarato dal Cremlino, però, le manifestazioni più numerose che il Paese ricordi dal 2017 non sono state poi così partecipate e la maggioranza della popolazione “ha votato per Putin”. Più che chiosare contro Navalny, Mosca punta l’indice contro i vertici della terra a stelle e strisce: la mappa che l’ambasciata americana a Mosca ha distribuito ai suoi cittadini era quella dei percorsi delle proteste che però, ufficialmente, non sono mai state autorizzate e ciò costituisce “interferenza negli affari interni della Federazione”. Inequivocabile e querula, lo ha riferito Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo che ora aspetta nelle sue sale i diplomatici Usa per una spiegazione riguardo “la violazione della legge russa sulle manifestazioni”. L’America di Biden ha già ribadito di “condannare l’uso dei metodi duri contro i manifestanti” che Mosca ha deciso di usare. Dopo aver disapprovato l’arresto arbitrario del dissidente, la nuova squadra al Congresso è tornata a esprimersi chiedendone il rilascio, criticando “la violazione inaccettabile dei suoi diritti umani” tramite la voce di Antony Blinken, a capo del dipartimento di Stato. “Putin è spaventato da un solo uomo”, una sola voce, un solo volto, quello di Navalny, per il cui caso si è detto pronto ad azioni diplomatiche, “ed eventuali sanzioni da parte dell’Ue” anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. “Siamo pronti a considerare gli americani nostri partner, loro non lo sono e l’amore non può essere forzato” ha risposto il portavoce del presidente Dimitry Peskov al programma Mosca. Cremlino. Putin in onda sul canale Rossia 1, assicurando però che i due Paesi riusciranno ad avere un dialogo usando “quelle piccole aree dove gli interessi coincidono”.

Se settimane fa Putin si era detto “pronto alla collaborazione per risolvere i problemi” con l’America, ieri ha riferito che l’orizzonte post-Trump non ha cambiato forma né colore: con Biden “non mi aspetto cambiamenti, tutto come al solito”. I giornali russi e americani hanno rispolverato dagli archivi una foto scattata ai due durante una visita in Russia nel 2011: Putin all’epoca era premier, Biden solo vice presidente, qualcuno si è chiesto se i due capi di Stato la prossima volta che si incontreranno sorrideranno proprio come allora.

Per aiutare le banche la Bce riduce i dividendi per gli Stati

Nel 2019, prima che la pandemia costringesse la Bce a varare uno nuovo importante stimolo monetario, i profitti realizzati dalle 5 principali banche centrali della zona euro sono arrivati a quasi 22 miliardi. Gran parte sono stati girati agli Stati, come avviene ogni anno da decenni. Una regola che però potrebbe esser messa in discussione proprio a causa delle nuove misure di stimolo. Come spesso accade con la Bce, la spiegazione di ciò che succede è legata ad acronimi inglesi, in questo caso due: tiering e dual Rate.

Entrambe le misure sono state introdotte da Mario Draghi nel 2019, ma è con la risposta monetaria alla pandemia che hanno assunto dimensioni significative. Il tiering non è altro che l’introduzione di una soglia di esenzione per le banche dal pagamento del tasso negativo sulla liquidità che hanno depositata presso la banca centrale. Solo quando la loro liquidità supera tale soglia, oggi pari a 6 volte il coefficiente minimo di riserva, sarà applicato sulla parte eccedente il tasso negativo del -0,5% attualmente in vigore. Il dual rate invece si riferisce all’adozione di un tasso d’interesse sui prestiti inferiore rispetto a quello fissato per i depositi, ribaltando l’impostazione tradizionale nella quale il margine di interesse, la differenza tra il tasso dei prestiti e quello dei depositi, è maggiore di zero. Questo tipo di misura è adottata per superare il cosiddetto limite inferiore dei tassi (zero lower bound) e fare in modo che il tasso trasmesso all’economia reale sia sganciato da quello praticato sui depositi delle banche commerciali. Infatti, se le banche che richiedono i prestiti a lungo termine della Bce rispettano determinati requisiti di impiego, esse si vedranno applicare il tasso di -1%, inferiore rispetto a quello al quale depositano liquidità presso la banca centrale. La Bce sta così sussidiando le banche commerciali affinché offrano alla clientela condizioni di finanziamento più favorevoli.

Il combinato di queste due misure è stato quello di aver abbassato, a volte ribaltato, il costo per le banche dei tassi negativi sui depositi. Dagli ultimi dati si può stimare, ipotizzando che vengano raggiunti i requisiti di impiego per avere il tasso sui prestiti a lungo termine più favorevole, che per le banche delle prime 5 economie della zona euro il beneficio annuo netto sia di circa 18 miliardi. Invece che pagare alla Bce 13,5 miliardi per la liquidità in eccesso depositata, ricevono dalla banca centrale circa 4,7 miliardi. Le banche francesi sono quelle che hanno il maggior beneficio (4,7 miliardi), perché in condizioni normali avrebbero pagato 4,3 miliardi alla bcce e invece, grazie al tiering e al dual rate, ottengono un risultato netto positivo di 0,4 miliardi. Dopo ci sono quelle tedesche (4,5 miliardi) e le italiane (4,2 miliardi). Al beneficio netto offerto alle banche corrisponde però un’analoga perdita da parte della Bce, che potrebbe impattare in modo significativo sui bilanci delle banche centrali. Inoltre, per come è costituita la zona euro, in cui i redditi derivanti dell’attività di politica monetaria non sono trattenuti dalle singole banche nazionali, ma sono accentrati presso la Bce e redistribuiti in base alle quote di partecipazione al capitale, la perdita può non corrispondere su base nazionale al beneficio ottenuto dalle banche, dando luogo a una sorta di trasferimento fiscale tra gli Stati.

Fino a che saranno in vigore queste misure le banche centrali nazionali vedranno una riduzione dei redditi monetari, che si somma alla riduzione degli introiti legati agli acquisti di titoli di Stato, conseguenti alla diminuzione dei tassi. Riduzione che, anche nel caso dei titoli di stato acquistati attraverso il quantitative easing e il piano di acquisti pandemico Pepp, ha effetti asimmetrici. Guardando ai profitti realizzati in questi anni, la decisione di non condividere i rischi, e i rendimenti, dei titoli acquistati dalle banche centrali nazionali, sta penalizzando quelle del nord-Europa rispetto a quelle dei Paesi periferici che ancora possono acquisire titoli di Stato con tassi positivi.

Una prima misura dell’impatto che i benefici offerti alla redditività delle banche stanno provocando l’ha fatta Bloomberg, rilevando che con buona probabilità la Banca Centrale dell’Estonia chiuderà il 2020 in perdita, mentre quella dell’Austria non distribuirà dividendi. Anche la Bundesbank ci si aspetta che riduca molto i dividendi da girare al Tesoro, da oltre 5 miliardi a 2,5. È probabile che accadrà anche per le altre banche centrali, compresa Banca d’Italia, che nel 2019 ha registrato un utile di oltre 8 miliardi, il più alto in eurozona. L’epoca dei grassi dividendi girati al Tesoro pare conclusa e nell’ipotesi che tassi negativi e misure di sussidio alla redditività delle banche continuino ancora potremmo entrare in una fase in cui alcune banche centrali, soprattutto quelle del centro, avranno bisogno di attingere al proprio patrimonio. La reazione politica non si farà attendere.

 

La “Netflix dell’arte” che rischia il flop ma fa felice il privato

Da alcune settimane ha preso forma la cosiddetta “Netflix della Cultura” voluta dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e costata finora 10 milioni di euro di fondi del Mibact e 9 della Cassa Depositi e Prestiti, oltre ad altrettanti messi dal partner privato attraverso la fornitura di “tecnologia, cassa e competenze del management”. Si chiamerà “ItsArt”, crasi per “Italy is Art”. La newco è stata formalmente creata a Roma il 22 dicembre scorso e dal 10 gennaio l’homepage del sito Itsart.tv è online con il messaggio “stiamo arrivando”. Eppure, man mano che si accumulano i dettagli, i dubbi che erano stati sollevati da più parti, sia politiche sia giornalistiche, nei mesi passati, sembrano aumentare e non diradarsi. E questo al netto della scelta dell’ennesimo anglicismo nel nome, che porta alla mente il fallimentare verybello.it.

La nuova compagnia sarà di proprietà al 51% di Cassa Depositi e Prestiti, e al 49% del gruppo Chili, piattaforma Tv on demand fondata nel 2012 da Stefano Parisi – dirigente di Confindustria ed esponente di spicco del centrodestra milanese, già candidato governatore nel Lazio – e oggi controllata da Negentropy, società di investimento con sede a Londra e fondata da Ferruccio Ferrara (che siederà nel Cda di ItsArt). Cassa Depositi e Prestiti esprimerà il presidente e altri due consiglieri di amministrazione, mentre Chili esprimerà i restanti due consiglieri. Il Ministero dei Beni Culturali quindi, nonostante i 10 milioni di euro investiti, non avrà alcun controllo diretto sulla compagnia, ma si limiterà a fornire contenuti. Il presidente sarà Antonio Garelli, in Cassa Depositi e Prestiti dal 2017, mentre gli altri due rappresentanti della Cassa nel Cda sono Sabrina Fiorino e Antonio Caccavalle, entrambi entrati nella società nella primavera 2020.

Nonostante l’ossessivo paragone con Netflix, la piattaforma avrà ben poco a che fare con il gigante americano. I contenuti non saranno distribuiti in abbonamento e ItsArt non produrrà contenuti inediti: questi due elementi, assenti nella nuova piattaforma italiana, sono quelli che più di altri hanno contribuito al successo del modello Netflix. Non è tuttora chiaro perché il Governo abbia preferito costituire una nuova piattaforma che offra contenuti a pagamento invece di coinvolgere la Rai, che con RaiPlay e i canali culturali come Rai5 e RaiStoria avrebbe potuto fornire lo stesso servizio senza oneri ulteriori per i cittadini. Ma, se l’opzione Rai non fosse stata gradita, esistevano anche piattaforme europee in grande crescita e che ricevono fondi comunitari: Europeana, da un lato, biblioteca digitale in cui l’Italia è poco rappresentata, Arte.tv dall’altro, emittente franco-tedesca specializzata in contenuti culturali che dal 2018 è disponibile anche in italiano.

Nello scegliere la via dei contenuti a pagamento, proposta senza successo dal Ministro Franceschini anche durante una riunione dei ministri della cultura dell’Unione, Cassa Depositi e Prestiti ha scelto Chili come partner commerciale. Chili, che non risulta avere esperienza nella distribuzione di materiale diverso da quello cinematografico e a settembre 2020 registrava l’ottavo bilancio in perdita, è stata scelta attraverso una procedura comparativa, sulla base di un piano industriale, tra le aziende che hanno risposto a una manifestazione d’interesse rimasta aperta per meno di tre giorni dal 3 al 6 agosto scorsi. Il Mibact, principale fautore dell’operazione, non risulta aver dato notizia della gara, e non è stato reso noto in quanti vi abbiano partecipato. Nonostante in un comunicato stampa del 12 dicembre Chili dichiari di aver partecipato “insieme agli altri principali players di mercato – pubblici e privati, italiani e non”, fonti vicine all’operazione da noi contattate fanno sapere che né al pubblico, né ai competitors può essere fornita la lista delle aziende escluse. Va detto però che uno dei requisiti per partecipare era avere “una base clienti attiva media in Italia degli ultimi sei mesi superiore a 50 mila unità/mese” e che tutte le aziende di servizio pubblico erano escluse a priori, perché non possono vendere servizi a pagamento, come specificato dalla stessa Rai in un comunicato stampa del 3 dicembre.

Più che la scelta del partner commerciale, però, è la lungimiranza dell’intera operazione a essere dubbia. Da marzo a oggi l’interesse per i contenuti culturali online è andato costantemente scemando, stando alle ricerche su Google trends; e ItsArt esclude per statuto, ma anche per budget, di produrre contenuti propri. Il Teatro San Carlo di Napoli è riuscito a vendere 30 mila biglietti per la prima della sua “Cavalleria Rusticana” online il 3 dicembre scorso, ma proponendo il costo di 1 euro di fronte a costi di produzione enormemente superiori. La stragrande maggioranza dei musei italiani non ha il personale necessario per costruire contenuti online di qualità in grado di interessare il pubblico gratuitamente, figuriamoci a pagamento. Arte.tv, principale concorrente di mercato, ha un budget annuo di 137 milioni di euro per la produzione, e li offre gratuitamente. E in effetti nell’homepage di ItsArt si chiede al pubblico di inviare “proposte di contenuti, eventi e manifestazioni culturali”: la piattaforma conta sull’aiuto degli utenti per i contenuti?

A gennaio scorso, l’Espresso ha scritto senza mezzi termini che il vantaggio nell’operazione è tutto per Chili, mentre il rischio d’impresa sarà dei teatri, delle compagnie o dello Stato. Non potrebbe essere altrimenti, dato che sono questi a dover fornire i contenuti in cambio di una parte degli utili, mentre ItsArt si limiterà a distribuirli. ItsArt nasce con molti dubbi, e la prossima riapertura dei luoghi della cultura, non solo in Italia, ma anche in Europa, difficilmente potrà diradarli.

Tutto quello che c’è da sapere sui ristori (pure che son pochi)

Per tentare di contenere gli effetti devastanti della recessione innescata dal coronavirus, dal 17 marzo a oggi il governo ha già riversato 108 miliardi sull’economia reale. Per frenare la crisi sono stati varati 9 decreti: dal Cura Italia al Liquidità, dal Rilancio a quello di agosto, dai decreti Ristori da uno a quattro a quello di Natale. Ma il denaro pubblico non poteva risolvere tutti i problemi: sono in ginocchio agricoltura e commercio, turismo e servizi. Per questo a breve arriverà un decimo provvedimento, destinato a stanziare i 32 miliardi di scostamento di bilancio sui quali il 20 gennaio l’esecutivo ha ottenuto una nuova autorizzazione dal Parlamento. Dovrebbe essere l’ultima misura di ristoro finanziata in deficit, ma l’ultima parola spetta alla pandemia.

Dimensione degli aiuti. Nella relazione al Parlamento sullo sforamento di bilancio, il ministro del’Economia Roberto Gualtieri ha ricordato che “nel complesso sono state varate misure pari al 6,6% del Pil” oltre a moratorie su 300 miliardi di crediti e garanzie su prestiti per 150 miliardi. “È uno degli interventi più rilevanti in Europa, paragonabile solo a quello della Germania”. D’altronde il Pil lo scorso anno si è contratto del 9%. I decreti hanno avuto un impatto positivo sull’economia che ha consentito di ridurre il deficit per un 2,5% del Pil: “È la prova che questi interventi hanno una loro efficacia”.

A chi sono andati i soldi. Tra aiuti diretti e interventi fiscali, nel 2020 le imprese hanno avuto oltre 48 miliardi, la fetta maggiore del sostegno pubblico. Al lavoro sono stati destinati circa 35 miliardi tra finanziamento della cassa integrazione, Naspi e Dis-coll. Altri 12 miliardi sono andati agli enti locali, 8 alla sanità, 4,5 ai servizi pubblici e sociali. I 4 decreti Ristoro hanno erogato in tutto circa 14 miliardi e per quest’anno ne prevedono altri 9. I contributi sono stati pari a 2,66 miliardi (672mila bonifici), dei quali 2,36 miliardi accreditati automaticamente e 300 milioni su domanda. Coi fondi dei decreti Rilancio e Agosto, il totale di ristori e contributi a fondo perduto sale a oltre 10 miliardi. Ora il dl Ristori 5 servirà a estendere la Cig per le imprese in crisi e finanziare altri capitoli di spesa (sanità, trasporti pubblici, forze dell’ordine, etc.). Ma interi settori, pur indennizzati con misure di emergenza per dimensioni eccezionali, rischiano il tracollo e sperano di averne una fetta.

Agricoltura in crisi. Secondo la Coldiretti, i danni della pandemia al settore agricolo sono stimati in 12,3 miliardi. Gli aiuti al settore valgono oltre 1 miliardo. Il pacchetto più sostanzioso è l’esonero dai versamenti previdenziali e assistenziali per il primo semestre 2020 finanziato con 426 milioni nel decreto Rilancio e 51,8 milioni nel dl Agosto. Altri 356 milioni di decontribuzione automatica sono arrivati a novembre. Alla zootecnia sono stati dedicati aiuti per 90 milioni, 100 milioni al settore vitivinicolo, 20 milioni a pesca e acquacoltura. L’Ismea ha ottenuto fondi per sostegni finanziari per 380 milioni, il Fondo per l’emergenza alimentare 340 per comprare prodotti italiani. Il presidente Ettore Prandini ricorda che “Coldiretti ha elaborato e proposto progetti concreti immediatamente cantierabili per l’agroalimentare con una decisa svolta verso la rivoluzione verde, la transizione ecologica e il digitale”.

Turismo e commercio. Il turismo è stato devastato dai lockdown. Secondo Bankitalia, nei primi dieci mesi dell’anno scorso il settore ha perso oltre 43 miliardi di incassi da stranieri (-57%), con 63 milioni di presenze in meno (-58%) rispetto al 2019 di turisti dall’estero e un calo di 91 milioni (-57%) comprese quelle italiane. Per Confindustria in Italia il fatturato è calato del 70% con una perdita stimata di 70 miliardi su 400 in Europa. Nei primi 9 mesi il saldo con l’estero s’è dimezzato a 7 miliardi.

Quanto al commercio, secondo Confcommercio l’effetto combinato di Covid e crollo dei consumi (-10,8% su base annua, 120 miliardi in meno sul 2019) porta a stimare per il 2020 la chiusura di oltre 390mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi. Al netto delle aperture, il saldo sarà di 305mila imprese in meno (-11,3%), di cui 240mila solo a causa della pandemia. Il tasso di mortalità dei negozi è quasi raddoppiato rispetto al 2019 e triplicato nei servizi: hanno chiuso un’agenzia di viaggio su 5, un bar e ristorante ogni 7, una impresa su 3 nel tempo libero.

I pubblici esercizi. Secondo la Federazione pubblici esercizi (Fipe) oltre 300mila bar, ristoranti e locali pubblici prima della crisi davano lavoro a oltre 1,2 milioni di persone. Nel 2020 i lockdown hanno fatto crollare il fatturato del settore con una perdita di 38 miliardi a fine anno rispetto al 2019. Nelle località turistiche il fatturato è calato anche dell’80%. Nei primi nove mesi del 2020 hanno chiuso oltre 16.900 imprese, ma quelle a rischio sono 50-60mila. La Cig ha assorbito 450 milioni di ore: se non sarà prorogata i 600mila dipendenti a tempo indeterminato saranno a rischio. Lo Stato ha erogato 2,5 miliardi a oltre 762mila imprese, poco più di 3mila euro per domanda. Ai ristoranti col dl Natale sono arrivati contributi automatici per altri 628 milioni. Il bonus ai ristoranti che hanno comprato prodotti italiani valeva 450 milioni, dei quali 350 già impegnati per 46.692 domande con un importo medio di quasi 7.400 euro. Non bastano: Fipe chiede contributi a fondo perduto parametrati alla perdita di fatturato su base annua, l’estensione fino ad aprile del credito d’imposta per gli affitti, la cedolare secca al 10% per chi rinegozia l’affitto con un taglio di almeno il 30% e l’esenzione dall’Imu.

Spettacolo, cinema, sci. Per teatro, lirica, musica e danza il 2020 ha segnato una perdita di incassi di 582 milioni, il 76,7% in meno rispetto al 2019. Un disastro. Secondo Domenico Barbuto dell’Associazione generale italiana spettacolo (Agis) “i ristori sono stati utili per la sopravvivenza di molte attività ma sono insufficienti. Il Fondo emergenze, che ha erogato i ristori nel 2020, ha avuto una dotazione di 435 milioni con altri 90 previsti per il 2021. Non tutte le realtà hanno potuto fruirne. Confidiamo nel decreto Ristori 5”. Le sale cinema, chiuse da domenica 23 febbraio in alcune regioni e poi dall’8 marzo in tutta Italia, nel 2020 hanno perso il 91% degli incassi. Per l’Anec al settore sono andati 15,7 milioni di ristori diretti a oltre 1.400 sale e fondi del Mibact ad altre 1.320.

Quanto agli impianti sciistici, il fatturato medio invernale di 1 miliardo prima della crisi era diviso tra circa 300 imprese, con 15mila dipendenti di cui 10mila stagionali, privi di supporti al reddito. Per Valeria Ghezzi, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funivie (Anef), “dal 1 ottobre al 10 gennaio il fatturato nazionale è di appena 7 milioni. Quale azienda sopravviverebbe 20 mesi senza incassi con costi fissi incomprimibili oltre il 70%?”. A oggi il settore ha beneficiato di moratorie su mutui e ammortamenti automatiche per le aziende sotto i 5 milioni di fatturato e per le altre con domande, possibili però solo da novembre 2020. Anef chiede che gli indennizzi considerino la struttura dei costi e la concentrazione del 90% dei ricavi tra dicembre e inizio aprile.

Trasporto su strada. Tra i settori più colpiti c’è il trasporto passeggeri con autobus, che conta circa 7mila aziende di cui 6mila private con 30mila addetti e 25mila mezzi. Giuseppe Vinella, presidente dell’associazione Anav, spiega che “nel 2020 la stima di perdita di ricavi è di circa 1,9 miliardi, il 73% in meno sul 2019. Il trasporto commerciale è fermo dal 23 febbraio. Serve un piano di lungo periodo: siamo disponibili a impiegare circa 6mila autobus fermi per la crisi del turismo per far riprendere in sicurezza la didattica in presenza anche nelle scuole superiori”. Sinora gli aiuti sono stati pari a 40 milioni per i servizi di linea, 50 per le imprese di noleggio con conducente, 20 ai Comuni per il ristoro al trasporto scolastico, ma mancano norme attuative. Le risorse versate sono stimate in 54 milioni.

Il disprezzo e l’oblio italiani per il mito Garibaldi&Anita

Una volta si diceva che non si doveva parlar male di Giuseppe Garibaldi (1807-1882). Poi tutto è cambiato. A parlarne malissimo, intanto, ci hanno pensato i revisionisti del Risorgimento, dai leghisti ai cosiddetti neoborbonici, passando per i cattolici reazionari. La rimozione costante della Storia migliore di questo Paese, quindi, ha fatto il resto. L’Eroe dei due mondi e le sue imprese procedono verso un sostanziale oblio, se non altro dopo la ripresa di interesse dovuta alle celebrazioni del 2011 per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Può anche capitare, come è successo nel 2020, in estate, che a Marsala, dove nel maggio del 1860 sbarcarono il Generale e i Mille, Garibaldi venga ricordato da qualcuno ai turisti come “quel bandito”.

Se di Garibaldi si tace o quasi, si parla poco anche di Anita (1821-1849), la sua bella e fiera compagna brasiliana morta nelle valli di Comacchio dopo la fuga da Roma in seguito alla caduta della Repubblica. E quei libri che ogni tanto vengono dedicati al Generale, ad Anita (come Anita. Storia e mito di Anita Garibaldi di Silvia Cavicchioli), e ai garibaldini, sono lodevoli eccezioni. Sono meritori pure quei comuni della Romagna, e alcune città del Brasile, che s’impegnano a fare rivivere la figura di Anita, della quale ricorre quest’anno il bicentenario della nascita. Troppo poco, tuttavia, per un’eroina, una grande donna, che va ben oltre il Risorgimento. Ha scritto lo storico Romano Ugolini che Anita non volle essere un “angelo del focolare”, ma “interpretò il suo ruolo di moglie come compagna inseparabile del suo uomo, condividendo tutti gli aspetti della sua vita, ivi compresi quelli politici e militari”.

Oblio in Italia, ma non nella vecchia Russia. A Mosca, a San Pietroburgo, il nizzardo che fece l’Italia e sua moglie Anita godono sempre di una buona popolarità. La fama, rammentava la rivista Russia Oggiha conquistato “non solo intellettuali famosi come Herzen e Tolstoj”, ma “è entrata a far parte dell’immaginario collettivo del popolo russo come mitica figura del liberatore ‘Garibaldov’ ”. E a Taganrog, il “porto russo commerciale sul Mar Nero (dove nacque Cechov)”, si ricorda ancora oggi l’arrivo di Garibaldi con la sua nave Clorinda nella primavera del 1833.

La popolarità di “Garibaldov” è dimostrata ora dall’imminente uscita della seconda edizione, in russo ovviamente, del volume Giuseppe e Anita Garibaldi. Una storia d’amore e di battaglie di Claudio Modena, polesano di Porto Tolle, autore anche di saggi su Angelo Brunetti detto Ciceruacchio e su Giacomo Matteotti. Pubblicato in Italia nel 2007 dagli Editori Riuniti, con una prefazione di Romano Ugolini, il libro due anni dopo è apparso in Russia. E nell’aprile del 2009 venne presentato alla Biblioteca delle Letterature Straniere di Mosca.

In Russia, dice Claudio Modena, “Garibaldi è sempre molto popolare, è una figura molto amata, come del resto è amata Anita, una donna straordinaria, che all’Eroe insegnò a cavalcare e a sparare. La prima edizione russa del mio libro fu stampata in diecimila copie. Venne lanciata alla Fiera del Libro di Mosca: vendette subito oltre duemila copie. Il libro, inoltre, è presente in tutte le biblioteche pubbliche russe. E adesso ne esce una seconda edizione”. Mentre “qui da noi”, aggiunge, “in Italia, per quanto concerne storia e memoria siamo allo sbando”.

Anna Maria Ribeiro da Silva, prima moglie di Giuseppe Garibaldi, nacque nell’agosto del 1821 a Morinhos, nello Stato brasiliano di Santa Catharina. Morì nella fattoria Guiccioli, vicino a Ravenna, il 4 agosto del 1849. Garibaldi l’aveva conosciuta nell’agosto del 1839 a Laguna, durante la guerra fra il Brasile imperiale e gli insorti del Rio Grande del Sud. Garibaldi racconta nelle sue memorie: “Io passeggiavo sul cassero della Itaparica, ravvolgendomi nei miei tetri pensieri; e dopo ragionamenti d’ogni specie, conchiusi finalmente di cercarmi una donna – per trarmi da una noiosa ed insopportabile condizione -. Gettai, a caso, lo sguardo verso le abitazioni della Barra – così si chiamava una collina piuttosto alta, all’entrata della Laguna, nella parte meridionale – e sulla quale scorgevansi alcune semplici e pittoresche abitazioni – Là, coll’ajuto del canochiale che abitualmente tenevo alla mano quando sul cassero d’una nave, scopersi una giovine – Ordinai mi trasportassero in terra, nella direzione di lei”.

Il futuro Eroe dei Due Mondi sbarcò. “Ed avviandomi verso le case ove dovea trovarsi l’oggetto del mio viaggio”, continua Garibaldi, “non mi era possibile rinvenirlo – quando m’incontrai con un individuo del luogo, che avevo conosciuto ai primi momenti dell’arrivo nostro – Egli invitommi a prender cafè nella di lui casa – Entrammo, e la prima persona che s’affacciò al mio sguardo, era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare – Era Anita! La madre dei miei figli! La compagna della mia vita, nella buona, e cattiva fortuna! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte!”. Restarono “entrambi estatici, e silenziosi, guardandoci reciprocamente – come due persone che non si vedono per la prima volta – e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra – qualche cosa che agevoli una reminiscenza”.