Tra Covid e costi, a Sanremo sventola bandiera bianca?

Le Olimpiadi di Tokyo? A un passo dall’annullamento. Il Festival di Glastonbury, appuntamento clou dell’estate rock britannica? Cancellato. Gli Europei itineranti di calcio? Si va verso le finali solo nella “bolla” russa. Sanremo? Nessuno ancora si azzarda a sventolare la bandiera bianca. Con l’Italia chiusa per pandemia, la kermesse è confermata dal 2 al 6 marzo. Ma occhio: con il virus fuori controllo montano perplessità anche sul ponte di comando. “Lavoriamo compatti oppure ci rivediamo nel 2022”, ammette Amadeus. Gli fa eco il suo manager Lucio Presta: “Tutti uniti oppure si salta un giro di valzer. Rai, discografia, Comune, autorità”. Parole a metà tra il monito e lo smarcamento strategico, quelle del superagente, storicamente partecipe al Festival con molte iniziative collaterali. Da Viale Mazzini lasciano filtrare: “Le priorità sono la sicurezza e la salute”. Sì, ma il piano per uscire sani e salvi dall’agguato del virus non è stato elaborato nei dettagli: c’è tempo almeno fino a martedì, quando il direttore di Rai1 Coletta dovrà illustrarne una bozza alla Commissione di Vigilanza. L’idea è isolare chirurgicamente l’Ariston, predisponendo “uno show tv” e trasformando la città rivierasca in una sorta di presidio sanitario in cui nessuno pascoli a caccia di cantanti o di vip. La “zona rossa” in una Sanremo con bar e ristoranti chiusi al tramonto, alberghi e residenze da controllare a vista e nessun evento “esterno” è già uno snaturamento devastante per la tradizione festivaliera e una mazzata fatale per la città, che sull’indotto della settimana contava di risanare le casse, come ogni anno. Niente apertura del Museo della Canzone, niente red carpet ma concreti rischi di contagio per i residenti. Il sindaco Biancheri è a dir poco contrariato per questa edizione di guerra, mentre il prefetto di Imperia Intini ha intanto vietato l’ingresso del pubblico pagante all’Ariston. La Rai ha virato sull’ingaggio di 380 figuranti, tamponati ma non necessariamente vaccinati: un’altra spesa di produzione per la tv pubblica, dove si spremono gli ingegni per supplire all’impossibilità di allestire un palco a Piazza Colombo, quella adiacente all’Ariston, per i concerti targati Nutella. È, questa, una grana colossale: senza piano B la Ferrero non elargirà i 10 milioni di euro concordati. Né è dato di sapere se e quanto la nave di Costa Crociere, ora che è tramontata l’ipotesi di ospitarvi il pubblico (resta in piedi il pensiero di sistemarvi le maestranze) potrebbe fruttare alla Rai: prima si parlava di 7 milioni, ora chissà. Di certo, a Viale Mazzini sono disperatamente aggrappati alla conferma della manifestazione: in queste ore si moltiplicano felpate sollecitazioni per una condivisione di responsabilità al Cts e al Ministero della Salute, ma le mezze risposte non suonano incoraggianti. Il perché la tv pubblica sia “costretta” ad andare avanti è spiegato dai numeri. L’edizione dello scorso anno era costata 18 milioni (compresi i 5 elargiti al Comune, proprietario del marchio, attraverso una convenzione rinnovata per il 2021 su base solo annuale) ma ne aveva incamerati 37 con la pubblicità. Cifre impossibili da replicare, mentre i bilanci dell’azienda sprofondano in un rosso da 115 milioni. Sanremo è la rituale boccata d’ossigeno del “periodo di garanzia” primaverile, a maggio sarebbe tardi. Ma come fare per evitare – oltre ai possibili cluster locali e, Dio non voglia, nel cuore dell’organizzazione – i boomerang d’immagine per la Rai? Il mondo dello spettacolo e della cultura minaccia di scendere in piazza contro il Festival. Che, sussurra qualcuno, potrebbe a questo punto essere ripensato autoralmente e produttivamente. Come? Lasciando all’Ariston Amadeus, Fiorello, l’orchestra e gli ospiti e disseminando i cantanti in gara in più teatri (vuoti) sparsi per l’Italia, magari facendoli introdurre da attori e registi. Hai visto mai.

“Proietti mi ha insegnato ad aver paura del palco Sanguineti a godere la vita”

Se parla di libri inanella una serie di citazioni, richiami, passioni, ispirazioni da critico letterario; se tocca lo sport, il rugby diventa una metafora della vita, o almeno una scuola dalla quale attingere; se fa riferimento al suo campo, quello attoriale, Volonté si tramuta in paradigma ed Elio Petri torna al ruolo – purtroppo spesso dimenticato – di regista da studiare, anche come riferimento sociale; se poi uno gli nomina Berlinguer, allora è necessario il taccuino, mente sgombra e tomi di riferimento, perché può incrociare la critica gramsciana con il marxismo, misto ai dilemmi atavici della sinistra.

Lino Guanciale sorride, scherza, ma neanche troppo: lui è in missione, è consapevole, riservatissimo, teme più la propria coscienza che i carichi sulle spalle, e con il “suo” commissario Ricciardi (produzione Rai fiction, da domani sera su Rai1) ha in comune un’attitudine alla quotidianità non figlia di questo tempo.

Anni fa ha dichiarato: “Il mio carattere forte è stato limato con pazienza”.

Si riferisce a quello che riguarda me?

Sì.

Qui è fondamentale la gavetta, poi la vita e l’esperienza in generale; (ci pensa) la determinazione è una virtù enorme, ma va associata alla pazienza e alla capacità di mettersi in una posizione dialettica; chi è portato alla testardaggine trova in questa virtù il proprio principale nemico. Su questo punto è stata fondamentale la scoperta e lo studio di Brecht.

In particolare…

È tra le sue pagine che ho trovato i vari livelli di senso del termine ‘dialettica’, ma in sostanza la realtà è trasformabile e si può incidere anche sulla propria indole.

Chi le ha consigliato Brecht?

Inizialmente l’Accademia Silvio D’Amico; quando mi sono iscritto ero un neofita assoluto, non ero quasi mai andato a teatro, anche perché la mia città, Avezzano (cittadina dell’Abruzzo), non ne ha avuto uno per lungo tempo; (sorride) il mio approccio al palco era solo quello scolastico.

E poi?

Brecht l’ho approfondito con il mio amico e sodale Claudio Longhi, oggi direttore del Piccolo di Milano: con lui lavoro da 17 anni; (ci pensa) comunque non lo prendo come esempio di vita.

Cosa non la convince di Brecht?

Come tutte le grandi personalità egoiche, ha trattato molte esistenze intorno alla sua come se ne fosse il padrone, e lo trovo irrispettoso: se “dialettica” è una parola chiave, l’altra resta “libertà”, e si impara attraverso la maturità. Questo concetto me lo ha trasmesso Sanguineti.

Il suo lavoro è pieno di personalità egoiche.

Ovviamente sono tante, ma non credo molte di più rispetto ad altri ambienti; il mestiere dell’attore uno lo approccia o per volontà di esibizione o per trovare una strada di comunicazione con il prossimo.

Lei sarà nella seconda lista…

Davvero, sono arrivato al teatro relativamente tardi, a 19 anni, nell’anno della Maturità, quando mi sono iscritto a un corso solo per togliermi uno sfizio, per non vivere con il rimpianto di non averci provato.

Qual era la sua strada?

Medico come mio padre.

Come andava a scuola?

Bene, soprattutto grazie a curiosità e memoria: amavo gli insegnanti che si affidavano ai testi invece di sciorinare nozioni.

Voto finale?

Sessanta sessantesimi, eppure ho studiato realmente solo per l’esame di Maturità, gli altri anni mi sono sempre ridotto all’ultimo, con nottate insonni per prepararmi alle interrogazioni.

Conta il risultato.

Sì, come sostengono soprattutto gli allenatori della Juventus; (sorride) tifo per la Fiorentina.

Ad Avezzano?

Eredità di mio padre, sono cresciuto con l’idea che fosse la squadra che “tremare il mondo fa”, più del Bologna.

Avezzano ora ha due personalità di rilievo: lei e Gianni Letta.

Bella polarità, in ogni senso.

Un po’.

Forse ci unisce solo l’amore per il teatro, sul resto niente.

A Roma si è mai sentito un provinciale?

Sempre, ma in qualche modo lo rivendico: amo molto la città, provo un’affinità elettiva, sto a mio agio con rumore e dinamicità, anche quando non ne prendo parte, però non ho trovato una “patria”; la patrie alla francese. La terra natia resta Avezzano.

C’è pure un ma…

Chi arriva in città da piccoli centri ha un modo diverso di misurare la quotidianità e una differente attitudine all’umiltà: può essere una risorsa.

Un suo difetto.

Testardo in maniera imbarazzante, in qualche modo l’ho confessato prima.

Permaloso?

Come tutti gli abruzzesi, un po’ alla Flaiano: permaloso e autoironico allo stesso tempo.

Flaiano docet.

Di lui sottoscrivo quasi tutto e mi diverto molto a ripescare tra le sue carte.

Per la carriera a cosa ha rinunciato?

Quando stai crescendo artisticamente e professionalmente, dire dei “no” è spesso più utile dei “sì”; (cambia tono) quando sei sull’onda che ti sta portando in alto, devi sottrarre qualcosa per recuperare il substrato affettivo e relazionale; uno dei grandi pericoli per l’attore è che il proprio lavoro diventi il terreno esclusivo della vita.

Non va ai party, niente pubbliche relazioni.

Agli inviti spesso la mia replica è: “Devo lavorare”. E forse, a livello inconscio, questa risposta deriva dalle priorità istintive: realmente non ho mai rinunciato a una serata sul palco o allo studio.

Una stupidaggine, mai?

(Accento romano) Potrei fa’ ‘n elenco immane, proprio per questa necessità di mettere insieme più situazioni belle.

Esempio.

Per molti anni non ho curato gli amici di quando ero ragazzo, magari i compagni del rugby; e poi l’aver avuto paura di coltivare prima la mia passione per il teatro: se avessi iniziato negli anni precedenti avrei preparato chi mi stava attorno.

I suoi genitori?

Hanno dimostrato una capacità straordinaria di accompagnarmi pure su una strada che gli incuteva ansia; dopo il test superato a Medicina, rivelai a papà le mie intenzioni, e lui dopo uno sbigottimento iniziale ha cambiato prospettiva: “E adesso come ti aiuto?”

Ha portato a teatro La classe operaia va in paradiso. Me lei è molto differente da geni dannati come Volonté o Fantastichini…

Con Ennio ho lavorato nel mio primo film, ed è stata un’esperienza tanto divertente quanto formativa: lui era capace di un rigore fortissimo come di un divertimento raro; alternava autorevolezza e gioco; (ci pensa) poi quasi tutti gli attori della mia generazione sono cresciuti con il culto di Volonté.

Cosa legge?

Molta narrativa e saggistica, soprattutto di ambito storico e politico; (sorride) sul comodino ho sempre un libro di Sanguineti, a mo’ di santino, e Apocalittici e integrati (di Umberto Eco, ndr).

Il suo personaggio letterario.

Il principe di Homburg di Kleist, Sigismondo de La vita è sogno di Calderón de la Barca e Julien Sorel de Il rosso e il nero.

Se cita pure Proust abbiamo l’en plein.

Allora aggiungo Musil e Canetti: vanno ricordati sempre.

Il suo incontro con Sanguineti.

Stavamo preparando un testo monstre di Edoardo, Storie naturali; mentre sono sul palco, al buio, vedo una figura inconfondibile e penso: “Quella sembra la silhouette di Sanguineti che ho visto in un suo libro”.

Poi…

Mi sono accorto che era proprio lui, e ho scoperto una persona di una gentilezza unica, con un’umiltà che non tradiva nulla dei propri mezzi. Si è pure presentato.

E lei?

Non ci volevo credere, gli avrei voluto rispondere: “So chi è, lei è lo stadio più avanzato del secondo Novecento poetico italiano”; con il tempo ho poi scoperto che era simpatico e in grado di godersi i lati belli della vita.

Quali sono?

Il gelato alla mela verde con sopra il Calvados.

Lo beve?

Con lui ne ho appreso l’esistenza, la prima volta che l’ho provato mi ha sdraiato; ancora oggi, se voglio pensare a lui, lo ordino.

Ha lavorato con Proietti.

E qui si torna all’apocalissi e l’integrazione: Gigi era mostruosamente potente, capace di un’empatia non comune

Che lezione le ha lasciato…

Era incredibile ammirarlo prima dell’entrata in scena: emozionato più di noi, agitato, a chi per consolarlo gli ricordava “guarda che il pubblico ti adora, a prescindere”, lui rispondeva: “Regà, al palcoscenico non gli devi mai dare del tu”.

Quindi, lei…

In ansia prima del sipario o del ciak; se non lo sono mi preoccupo.

Questa estate si è sposato in segreto. Il web inferocito.

Da un punto di vista è stato interessante verificare le conseguenze, ma il matrimonio è un momento privato e personale e tale deve restare.

Primo set…

Con Carlos Saura regista, interpretavo Mozart: il giorno prima, per la prova costume, per errore mi sono messo in coda con le comparse e pensavo fosse un atteggiamento democratico; poi mi sono venuti a recuperare.

E…

Ho vissuto quel set con la convinzione di dovermela godere: ero certo si fossero sbagliati a prendermi, così mi ripetevo “e quando ti ricapita”.

Poi Woody Allen.

(Ride) Ha pure pronunciato il mio nome senza sbagliarlo, e dopo mi ha chiesto se una battuta che aveva scritto mi suonava bene. Io spiazzato.

Risposta?

Ho cercato di risultare un professionista: “Maestro funziona, se poi trovo altre soluzioni gliele propongo”; dopo quel ciak non l’ho più incontrato molto, tutti noi sul set avevamo la sensazione che fosse a Roma più per una bella vacanza che per girare, però ho lo stesso imparato tanto.

Tipo?

Gira in una maniera tale che uno quasi non capisce dov’è la macchina da presa e si è costretti a muoversi come a teatro; poi lo incrociavo mentre saliva su delle macchine che lo portavano al ristorante per assaggiare una nuova cacio e pepe.

Il supereroe.

Da ragazzo Cattivik, poi Lomu (il più grande giocatore di rugby) e mio fratello: ha due anni in meno di me, è psicologo e riesce a prender la vita con responsabilità e lievità.

La pornostar del cuore.

Qui giocano le memorie puberali, quindi Moana.

Enrico Berlinguer.

Uno degli ultimi retaggi di una politica in grado di non utilizzare l’urlo come strumento persuasivo (e inizia una lunghissima analisi su rivoluzione e riformismo, matrice marxiana, la Nato, il pensiero di Elio Petri e ovviamente quello gramsciano); comunque non sono un fan della linea del Migliore (soprannome di Togliatti).

Uno sfizio che si è tolto.

Con il primo stipendio ho comprato un regalo ai miei e mi sono pagato le tasse universitarie.

Qualcosa di biecamente materiale?

Una Alfa Romeo Giulietta, non d’epoca; era un piccolo sogno, non troppo borghese, più proletario.

Niente cabrio.

Alcuni colleghi mi hanno preso in giro.

Chi è lei?

Cacchio, questa è difficile; un flâneur, ed è un modo di partecipare alla vita con passione.

Spesso l’intervista viene chiusa da una canzone. Con lei vedo bene Guccini…

Allora La locomotiva.

(“Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava. Quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l’immagine sua: gli eroi son tutti giovani e belli”).

 

Telestalking, la legge è ferma da tre anni

Si continuano a ricevere ogni giorno decine e decine di telefonate moleste, al limite dello stalking, perché la legge che dovrebbe mettere la parola fine al telemarketing selvaggio, agli inizi di febbraio compirà tre anni ma non è mai entrata in vigore. Un assedio continuo che ormai è diventato pura beffa.

Sarebbe dovuta partire il 1° dicembre l’estensione del Registro delle opposizioni anche ai numeri di telefonia mobile e ai fissi non inclusi negli elenchi (per un totale di 117 milioni di utenze) e, invece, è rimasta al palo. Solo l’altro ieri, dopo il sì del Senato, la commissione Attività produttive della Camera ha dato il via libera al Regolamento attuativo, che esiste da gennaio 2020, definendo così “sbloccata l’impasse”.

Bene, ma non benissimo. Dopo i continui rimpalli tra Parlamento, Consiglio di Stato, Agcom, Garante della Privacy e ministero dello Sviluppo economico, questo ennesimo passaggio istituzionale non sarà affatto l’ultimo: ora il testo è tornato sul tavolo del Mise che lo dovrà consegnare al governo. Ma per farlo entrare in vigore, si dovrà approvare nel Consiglio dei ministri. Crisi di governo permettendo. Poi, una volta approvato, il testo va trasmesso alla Fondazione Bordoni (su incarico del ministero dello Sviluppo economico gestisce il Registro delle opposizioni) che dovrà riorganizzare la gestione delle iscrizioni.

Insomma continuerà ancora per un po’ la via crucis degli italiani per liberarsi dalle chiamate indesiderate a tutte le ore, di giorno e di notte, che hanno lo scopo di estorcere contratti di cui non si hanno ben chiari informazioni, clausole e prezzi. Sempre che compilando la tessera punti al supermercato non ci si dimentichi di barrare la casella che impedisce di utilizzare i propri dati per scopi commerciali. Ma non basta solo cedere più o meno consapevolmente il consenso al marketing a una società.

In attesa dell’entrata in vigore della nuova legge, c’è un mercato che non conosce crisi: quello dei dati personali. Le società, soprattutto in sub-appalto, possono continuare ad acquistare indisturbate i numeri dei cellulari per 5 centesimi a nominativo. E a nulla serve iscriversi al Registro delle opposizioni, dove restano censiti solo i numeri di telefonia fissa. L’unica novità rilevante è che da due anni alcuni call center si sono assunti già l’obbligo di rendere riconoscibili le chiamate commerciali con un prefisso. Ma sono veramente pochi. Del resto non è prevista ancora nessuna sanzione per chi non si adegua. Mentre con la nuova legge chi farà telemarketing selvaggio pagherà multe salate e la responsabilità non sarà soltanto del call center che fa le telefonate ma anche del committente che usa quel call center.

Che si tratti di un mercato florido si capisce dalle multe milionarie che si sono viste richiedere solo negli scorsi mesi alcune compagnie telefoniche ed elettriche per il trattamento illecito di dati personali nell’ambito di attività promozionali e per l’attivazione di contratti non richiesti: Tim è stata sanzionata per 27,8 milioni, Wind per 17 milioni, Vodafone per 12,25 ed Eni Gas e Luce per 11,5. Stangate che non hanno fermato la pratica del telestalking. Anzi, lo alimentano nella battaglia per riconquistare i clienti.

L’intelligence Usa compra i dati “digitali” dei cittadini

Il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è nell’utilizzo dei dati “digitali” dei cittadini ogni giorno sembra spostarsi un po’ più in là, adeguandosi a una certa relatività nell’applicazione dei concetti di giusto e sbagliato a seconda di chi, come e dove si compia il fatto.

Nei giorni scorsi il New York Times ha pubblicato la notizia secondo cui un braccio militare dell’intelligence americana avrebbe acquistato database con informazioni sui cittadini americani per svolgere le proprie indagini e senza avere regolari mandati. A rivelarlo, un promemoria scritto per il senatore Ron Wyden, democratico dell’Oregon, pubblicato poi online dalla testata. Dalle risposte fornite al senatore, emerge chiaramente che gli analisti della Defense Intelligence Agency (la Dia) hanno utilizzato gli spostamenti degli americani, e quindi la geolocalizzazione registrata dalle app, attingendo a banche dati commerciali per almeno cinque indagini negli ultimi due anni e mezzo.

“La Dia – si legge nel memorandum– attualmente fornisce finanziamenti a un’altra agenzia che acquista metadati di geolocalizzazione disponibili in commercio, aggregati dagli smartphone. I dati ricevuti dalla Dia sono di portata globale e non vengono identificati come ‘dati di posizione negli Stati Uniti’ o come ‘dati di posizione stranieri’ dal fornitore”. L’agenzia, in sostanza, compra dai broker di dati informazioni aggregate. Poi separa i due tipi di informazioni e utilizza, come le è concesso, solo quelli che riguardano il territorio statunitense. A quel punto, richiede il permesso: “Il personale – si legge ancora – può interrogare il database della posizione degli Stati Uniti solo se autorizzato tramite una procedura specifica che richiede l’approvazione dell’Ufficio di supervisione e conformità dell’Office of General Counsel (Ogc) e della leadership senior della Dia”. Permesso che sarebbe stato accordato almeno cinque volte negli ultimi due anni e mezzo.

Si tratta di dati “pubblici”, cioè disponibili online, che queste aziende specializzate aggregano per tracciare dei profili specifici degli utenti che possono poi essere a loro volta utilizzati per le pubblicità. Questo non significa dunque che a quelle informazioni sia associato un nome e un cognome, ma neanche che – con altri strumenti, altre informazioni a disposizione e lavorandoci – questo non sia poi possibile. In Europa, per dire, i regolamenti prevedono che i dati raccolti online non possano essere utilizzati per scopi diversi da quelli per cui sono stati forniti. Principi di privacy su cui già in ambito commerciale gli Usa sono distanti.

È lo stesso New York Times a ripercorrere tutti gli altri casi, sempre rintracciati dai media americani. L’anno scorso ne aveva parlato il Wall Street Journal: due agenzie del Dipartimento per la sicurezza interna – Immigrazione e Protezione doganale e di frontiera avevano utilizzato i dati per pattugliare il confine e indagare su immigrati successivamente arrestati. A ottobre, BuzzFeed aveva raccontato dell’esistenza di un promemoria del Dipartimento per la sicurezza interna in cui si affermava che era legale per le forze dell’ordine acquistare e utilizzare i dati sulla posizione dello smartphone senza un mandato. E ancora, a novembre Motherboard aveva raccontato che Muslim Pro, una app per la preghiera musulmana e il Corano, aveva inviato i dati sulla posizione dei suoi utenti a un broker chiamato X-Mode che a sua volta li ha venduti ad appaltatori della difesa e alle forze armate Usa.

La vicenda, quindi, apre per l’ennesima volta (e per la prima sotto la nuova presidenza di Joe Biden) un dibattito importante negli Usa sul tipo di dati e di casistica che rientrano sotto la tutela del Quarto emendamento. Tutto muove da una sentenza del 2018 nota come “decisione Carpenter”: la Corte Suprema stabilì la necessità di un mandato per obbligare le compagnie telefoniche a consegnare i dati sulla posizione dei loro clienti. In quel caso, è però la posizione della Dia, la decisione riguardava la necessità di conoscere la localizzazione specifica di un particolare cittadino in un determinato momento. Diverso, invece, sarebbe il caso dei dati richiesti per la sicurezza nazionale e disponibili in commercio, soprattutto se strettamente controllati e autorizzati. Non sono, è il succo, i tabulati telefonici o i dati informatici alla base dello scandalo Nsa. Ma il confine, come detto, è labile.

Il popolo di Navalny sfida zar Putin

Palle di neve sulle divise scure della polizia russa sono piovute ieri da Mosca a Ekaterinburg. Sangue, manganelli e record: in novanta città sono stati 3.450 i fermi, per l’ong Ovd-Info, fra i manifestanti scesi in strada come gesto di solidarietà verso l’oppositore Alexei Navalny; il dissidente, dopo il suo arresto avvenuto al rientro da Berlino – lì era rimasto in seguito all’avvelenamento da novichok avvenuto in Siberia – li aveva esortati a protestare. Di nuovo in manette l’attivista Ljubov Sobol, dopo aver supportato i manifestanti riunitisi, come da tradizione, a piazza Pushkin, al centro della Capitale. Fermata, ma rilasciata dopo qualche ora, Yulia Navalnaya, la moglie del blogger. Le brutalità della polizia sono filmate con i cellulari: tra i video diffusi si vede trascinare via dagli agenti perfino un bambino. In altre immagini gli Omon, uomini delle squadre anti-sommossa, si inginocchiano sul collo degli ammanettati come è successo a George Floyd in America. Le celle della Federazione hanno cominciato a riempirsi ieri a diversi fusi orari e latitudini. Oltre 15mila persone in piazza in Siberia: massive le detenzioni a Khabarovsk, gli scontri a Vladivostok, le tensioni a Novosibirsk. Hanno urlato “Putin vor”, “Putin è un ladro”, perfino a meno cinquanta gradi sotto lo zero a Yakutsk. È finita ieri una giornata di scontri nazionali, ma anche internazionali: il Cremlino ha accusato l’ambasciata Usa nella Capitale di aver reso pubblici i percorsi delle marce.

Secondo gli ultimi sondaggi dello scorso dicembre del centro indipendente Levada, metà dei russi non crede alla vicenda dell’avvelenamento di Navalny, che godrebbe della fiducia solo del 4% della popolazione. Nonostante queste cifre siano basse, quelle delle piazze che rispondono ai suoi appelli sono senza precedenti: la Russia non ribolliva di rabbia così numerosa per le sue strade dalle proteste del 2017. Ieri, solo a Mosca, secondo l’agenzia Reuters, è stata registrata la presenza di 40mila persone, un dato che la polizia russa ha riportato con uno zero in meno.

I ribelli della Capitale sono riusciti a raggiungere anche la prigione di massima sicurezza Matrosskaya Tishina dove è rinchiuso il loro idolo, che ieri ha diffuso il suo ultimo video: “Sono stabile mentalmente, non voglio suicidarmi”. Il dissenso pubblico non finirà: Leonid Volkov, collaboratore dell’oppositore, ha riferito che quelle di ieri saranno scene che si ripeteranno nelle prossime settimane e per il prossimo weekend è già programmata una nuova marcia.

De Sousa vuole dribblare pandemia e ultradestra

Pandemia, astensione e ultradestra. È con queste tre incognite che il Portogallo – arrivato ieri a 10 mila morti per Covid-19 – oggi elegge il presidente della Repubblica. Elezioni anomale, non soltanto perché la pandemia con la terza ondata ha fatto collassare il sistema sanitario lusitano, ma anche perché – come già accaduto nel 2016 – il nome del vincitore è già chiaro. Stando ai sondaggi, infatti, il mandato cadrà ancora una volta sul capo di Stato uscente, Marcelo Rebelo de Sousa, del Partito socialdemocratico (Psd), appoggiato dai centristi di Cds e Popolari. Dalla sua oltre il 50% dei voti, c’è chi sostiene 60%, contro la candidata socialista Ana Gomes, non ufficialmente sostenuta dal suo partito al governo, ferma al 14,5%. Su queste previsioni, però, pesa l’astensione, data al 60% e non solo per la pandemia – sono già 246 mila su 10 milioni di elettori, i portoghesi che hanno espresso il loro voto a distanza –, ma per le crescenti divisioni sociali. Anomalia anche questa. Mentre su Rebelo de Sousa punta l’intero centrodestra in contrappeso con il primo ministro António Costa, leader del Partito socialista (Ps) e a capo di un esecutivo di minoranza, e la politica si mostra coesa con l’appoggio dell’opposizione al governo sulle misure anti-Covid e le richieste in ambito europeo, è la società a marcare un netto bipolarismo.

Bipolarismo sempre più inasprito dall’ascesa del partito dell’ultradestra, Chega, presente alla Camera con un unico rappresentante dopo l’1% dei voti ottenuto nel 2019, André Ventura, leader della formazione e ora candidato alla presidenza, il quale potrebbe conquistare il 12,5% e contendersi così il terzo posto con Marisa Matias, in corsa con il Blocco di sinistra. È con Matias che lo scontro in campagna elettorale è stato più acceso: non ultima la pioggia di accuse di sessismo e machismo cadute su Ventura dai social anche da parte di intellettuali, come la vedova dello scrittore José Saramago, Pilar del Rìo, per aver definito Matias “una bambolina” dal rossetto rosso. Contro Ventura la rete si è riempita di video di persone che mettevano il rossetto rosso con l’hashtag #vermelhoemBelém, rosso a Belém, il Palazzo sede della presidenza della Repubblica portoghese. Ma non è solo show: Chega nel suo programma ha inserito tutti i cavalli di battaglia del sovranismo, da cui ha ricevuto l’appoggio, partendo dal leghista Matteo Salvini, con cui André Ventura si mostra nella foto profilo dell’account Twitter, a Marine Le Pen. Trentotto anni, a capo di un partito che si definisce “liberale e conservatore”, l’ex opinionista sportivo, in questi mesi di pandemia ha saputo gestire il malcontento popolare e la crisi economica acuita dal Covid, per prendere sempre più piede, fino a che non si è dimostrato addirittura dirimente per la nascita del governo delle isole Azzorre. Gli slogan sono quelli dell’ultradestra europea: lotta alle élite politiche, aumento dei poteri del presidente della Repubblica, privatizzazione di sanità e istruzione, flat tax al 15%, reddito di inserimento sociale e ultimo ma non ultimo, lockdown speciale per i rom. Ventura misurerà la sua forza anche contro l’indipendente socialista Ana Gomes, ex diplomatica ed europarlamentare. L’obiettivo di Gomes è quello di impedire la vittoria del presidente uscente al primo turno per poi sfidarlo al ballottaggio il 14 febbraio rimettendo insieme la sinistra. A farle gioco sono i sei punti del Blocco di Marisa Matias, che corre alle presidenziali per la seconda volta, ma anche il 4% di Joao Ferreira, candidato del Partito comunista. Eppure il risultato di oggi pare non riservare sorprese, nonostante gli ultimi scontri su Recovery Plan, stato d’emergenza e legge sul fine vita. Marcelo Rebelo de Sousa, 72 anni, ex leader del Psd, avvocato, docente universitario e giornalista, è uno dei politici più amati in Portogallo, nonché garante dell’unità nazionale.

“Come avvocati diamo fastidio: per questo ci arrestano”

Alla vigilia del decimo anniversario della Rivoluzione di piazza Tahrir, il 25 gennaio 2011, il regime del generale Al-Sisi ha silenziato ogni refolo di dissenso. Cinque anni fa, in una Cairo blindata, Giulio Regeni è sparito dentro una stazione della metro per ricomparire ai margini dell’autostrada verso Alessandria d’Egitto e il suo corpo fu riconosciuto poi a malapena da sua madre. Mohamed Lotfy è uno dei dirigenti della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), l’ong che dal febbraio del 2016 segue legalmente il caso della morte di Regeni.

Lotfy, che anniversario sarà quello di domani?

Molto diverso rispetto ad allora. La polizia era ovunque, in strada poca gente, oggi l’atmosfera è più rilassata. Il governo ha allentato le redini dopo le centinaia di arresti, il rischio di una rivolta è basso.

A livello di pressioni dal regime come ve la passate voi dell’Ecrf?

Riceviamo continue pressioni, minacce, intimidazioni.

Pensa che il vostro attivismo, soprattutto in relazione al caso Regeni, influisca?

Diamo fastidio. Non è un caso che i nostri due legali che hanno seguito da vicino il carteggio di Giulio siano stati messi fuori gioco. Halem Henish è scappato negli Stati Uniti, mentre Ibrahim Metwaly è in cella dal 2019: per due volte l’ordine di scarcerazione della Corte penale è stato vanificato da nuove imputazioni.

Il generale Tareq Saber, a capo della National Security e imputato per la morte di Regeni dalla procura italiana, è stato spostato ad altro incarico, cosa ne pensa?

Il governo parla di promozione, in realtà è stato mandato a occuparsi di passaporti e immigrazione.

E gli altri tre membri del Servizio che fine hanno fatto?

Magdy Sharif e Uhsam Helmy sono rimasti all’interno dell’Nsa. Athar Kamel, un ex addetto al traffico, è entrato nella National Security e poi, dopo il 2016 e la morte di Giulio, trasferito in un ufficio amministrativo.

Vi aspettavate che l’inchiesta parallela dell’Italia raggiungesse quel risultato?

A dire il vero no, i vostri investigatori hanno lavorato molto bene.

Cosa pensa della tenacia dei genitori di Giulio?

Sono ammirabili, non hanno mai perso la speranza. Se tutti fossero come loro il mondo sarebbe migliore. E noi dal Cairo non molliamo la presa.

Eric e Giulio senza giustizia. Egitto, morte e depistaggi

Eric Lang aveva 49 anni quando è stato trovato privo di vita dentro una cella del commissariato di polizia di Qasr el Nil, nel cuore del Cairo, il 13 settembre 2013. Addosso i segni della violenza. Lang, professore di francese, viveva stabilmente in Egitto da quasi un quarto di secolo. Amava quel Paese e il suo popolo, ormai era uno di loro, fino al punto di scherzare in maniera macabra con la sorella Karine: “Una volta mi disse ‘tornerò in Francia dentro una bara’, questo era mio fratello”.

Nessuno poteva immaginare che sarebbe successo in maniera così traumatica. Dettagli e sfumature a parte, il caso di Eric Lang sembra un copia-incolla della tragedia di Giulio Regeni di cui domani ricorre il quinto anniversario del rapimento. È solo un caso, certo, ma colpisce il fatto che le tracce di Lang si siano perse il 6 settembre, la sera in cui è stato fermato in strada assieme ad un connazionale, per poi riapparire, coperto da un lenzuolo, sette giorni dopo. Per Regeni ne sono serviti otto e per nascondere le responsabilità la National Security Agency (Nsa) ha poi costruito una serie di depistaggi. Il regime egiziano ha sbrigato la pratica accusando della morte di Lang i compagni di cella, anche se l’autopsia svolta in Francia al rientro della salma ha mostrato “inequivocabili segni di tortura, tra segni delle corde sulle caviglie e bruciature”. La sua famiglia non ha mai creduto a quella versione: “Ad uccidere Eric non sono stati i detenuti, l’inchiesta e la condanna per sei di loro non ci basta. I veri responsabili sono altri. Lo Stato francese è anch’esso colpevole per averlo lasciato morire dentro una cella. Il dossier è fermo, ma sia io che mia madre Nicole Prost, nonostante i suoi 82 anni, non molleremo mai la presa – afferma Karine Lang – il caso non è chiuso, il nostro legale sta facendo il possibile, ma il primo ostacolo è proprio il governo francese. Il recente conferimento al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi della Legione d’Onore da parte di Emmanuel Macron lo conferma”. Francia e Italia intrattengono storicamente ottimi rapporti commerciali con l’Egitto, a partire dalla vendita di armi. Al-Sisi e i suoi gaglioffi non badano al passaporto e non si preoccupano delle conseguenze diplomatiche delle loro azioni. Con la Francia, rispetto al Belpaese, i rapporti sono ottimi anche sotto il profilo strategico, con interessi condivisi nella regione. Alla giustizia italiana, al netto delle mancanze istituzionali dei governi che si sono succeduti dal febbraio 2016 dopo il rinvenimento del corpo martoriato di Giulio Regeni, vanno ascritti indubbi meriti.

Gli investigatori della Procura di Roma, dopo anni di prese in giro da parte dei colleghi del Cairo, sono arrivati a chiudere parte del fronte probatorio e ora l’inchiesta vede quattro membri della Nsa rinviati a giudizio. Il caso Lang, invece, sembra congelato da allora: “La richiesta di rogatoria internazionale non ha avuto seguito – aggiunge la sorella di Eric Lang – dalle autorità egiziane solo silenzio, la polizia francese si è adeguata senza muovere un dito nei confronti dei reali assassini di un connazionale”. La morte di Eric Lang si inserisce in un quadro politico molto delicato dell’Egitto dell’epoca. Il generale Al-Sisi, ex ministro della Difesa durante il governo dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi, aveva assunto il potere pochi mesi prima attraverso un golpe sanguinoso. Di notte vigeva il coprifuoco e l’unica colpa del professore francese era stata quella di averlo violato. Poco tempo dopo anche Giulio Regeni avrebbe iniziato il suo percorso di studi e di ricerca in Egitto: “Ricordo bene la morte del vostro Giulio – torna indietro con la memoria Karine Lang – all’epoca il caso di mio fratello era ancora fresco e a tutti, me compresa, sembrò di rivedere la morte di Eric. Solo chi, come noi, ha perso un proprio caro in questa maniera può capire quanto possa essere dura e cosa spinga ad andare avanti. I due omicidi sono stati paragonati, abbiamo ricevuto richieste di interviste da testate giornalistiche italiane e la stessa stampa francese è tornata ad interessarsi a noi. È come se l’omicidio di Eric avesse ripreso impulso sull’onda emotiva della morte del giovane studente italiano”. Infine un pensiero per i Regeni: “La prego, se ha modo, riferisca che sono con loro di tutto cuore”.

Paradossi e molti altri arzigogoli: quando la risata sa di surreale

 

 

Continuiamo la nostra allegra passeggiata nell’antichità, in compagnia dei comici greci e latini.

 

ARGOMENTI QUASI-LOGICI

I PESI E LE MISURE

Il paragone complesso prende in prestito per una situazione quel che di solito avviene in un’altra. Gaio Pedone, vedendo al Colosseo un gladiatore che ne inseguiva un altro senza tuttavia riuscire a ferirlo, disse ironicamente: “Vuole prenderlo vivo”.

Non sbagli a bere quel che succhi, Lesbia: prendi l’acqua dove ti è necessario. (Epigr., II, 50)

CARINO: Mio padre è una mosca, non puoi fare nulla sperando di nasconderglielo. (Merc., 361)

MESSENIONE: Perché siamo venuti a Epidamno? Dobbiamo forse fare il giro di tutte le isole come fa il mare? (Men., 230-231)

DICEOPOLI: Per la paura, la cesta mi ha sporcato con uno schizzo di carbonella, come una seppia. (Ak., 350-351)

La pesatura alternativa. Ne I cavalieri di Aristofane, c’è chi vuole convincere Salsicciaio a entrare in politica:

SALSICCIAIO: Ma, amico mio, io non ho cultura: so solo leggere e scrivere, e anche male. PRIMO SERVO: Questo in effetti ti danneggia, che sai leggere e scrivere, anche se male. (Ipp., 188-190)

 

ARGOMENTI DI SUCCESSIONE/COESISTENZA

I LEGAMI DI SUCCESSIONE

Il fatto trasformato in indizio. SALSICCIAIO: E da ragazzo ne ho combinate tante! Per esempio, imbrogliavo i cuochi. Dicevo: “Guardate: una rondine! È primavera.” Loro guardavano e io gli fregavo un pezzo di carne. E la facevo franca. Se poi mi vedevano, la nascondevo fra le chiappe e giuravo di no sugli dèi. Un deputato se ne accorse e disse: “Questo ragazzo governerà il popolo!” (Ipp., 417-26)

PRIMO SERVO: Tu credi davvero all’esistenza degli dèi? SECONDO SERVO: Senza dubbio. PRIMO SERVO: E che prove hai? SECONDO SERVO: Che mi odiano. Non è abbastanza? (Ipp., 32-34)

Gemello vuole sposare Maronilla e lo desidera e si dà un gran da fare e la prega e le fa regali. È dunque così bella? Al contrario: non c’è nulla di più repellente. Cosa cerca in lei, allora, cosa gli piace? Tossisce. (Epigr., I, 10)

A Marziale basta una sola parola, messa in coda, per definire Gemello un cacciatore di dote.

La spiegazione squalificante. DEMENETO: Se voglio bene a mia moglie? Le voglio bene adesso perché non c’è. (Asin., 901)

Sei l’amante di Aufidia, Scevino, tu che eri stato suo marito. Quello che fu tuo rivale, ora è il suo sposo. Perché come moglie di un altro ti piace e come tua moglie no? Forse non ti si rizza, quando ti senti al sicuro? (Epigr., III, 70)

Carisiano dice che da molti giorni non pratica la sodomia. Poco fa gli amici gli hanno chiesto perché. Ha risposto che aveva la diarrea. (Epigr., XI, 88)

La spiegazione forzata. Perché, severo Catone, sei venuto nel mio teatro? O forse sei venuto solo per uscirne? (Epigr., I, 20-1)

Il paradosso. Un intelligentone, volendo vedere se fosse bello quando dormiva, si guardava nello specchio a occhi chiusi. (Ierocle, V sec. d. C.)

Novio è un mio vicino di casa e dalle mie finestre posso toccarlo con la mano. Non mi riesce di pranzare con lui, e neppure di vederlo, né di udirlo. Se qualcuno non vuole vedere Novio, sia suo vicino di casa o suo inquilino. (Epigr., I, 86)

Bassa, osi accoppiare tra loro due vagine e la tua stravagante lussuria compie con frode le funzioni del maschio. Hai inventato un prodigio: che dove non c’è l’uomo, ci sia adulterio. (Epigr., I, 90)

Cerco da molto tempo per tutta Roma se ci sia una fanciulla che dica di no: nessuna fanciulla dice di no. Dunque non si trova una fanciulla onesta? Ma ce ne sono mille, di oneste. Cosa fa allora la fanciulla onesta? Non si dà, però non dice di no. (Epigr., IV, 71)

Cinna si atteggia a povero; e lo è. (Epigr., VIII, 19)

La catena causale. SALSICCIAIO: Ti ricordi quei fagioli che calarono di prezzo? POPOLO: Eccome. SALSICCIAIO: Paflagone lo fece apposta. Voi a comprarli e a mangiarli, e i giudici in assemblea si asfissiavano l’un l’altro a forza di scorregge. (Ipp., 893-98)

Livia vuole sposarmi, ma io no, perché è vecchia. La sposerei volentieri, se fosse più vecchia. (Epigr., X, 8)

DEMIFONE: Che età mi dai? LISIMACO: Acherontica. (Merc., 290), scrive Plauto, per intendere “prossima alla morte”.

Confondere post hoc e propter hocFinché andava ai bagni, non è mai morto. (Gaio Sestio, II sec. a.C.)

L’argomento pragmatico. LEONIDA: Salve, padrone, ma questa ragazza che abbracci è fatta di fumo? ARGIRIPPO: Perché? LEONIDA: Ti piangono gli occhi. (Asin., 619-620)

La Pace di Aristofane si apre sulla scena di due servi che stanno impastando focacce di merda per nutrire il gigantesco scarabeo stercorario con cui Trigeo vuole raggiungere Zeus. Il puzzo è tanto:

SECONDO SERVO: Qualcuno di voi mi dica se sa dove posso comprare un naso senza buchi. (Eir., 20-21)

Confondere mezzi e occasione. STAFILA: Perché maltratti me, che sono una disgraziata? EUCLIONE: Perché tu lo sia. (Aul., 42)

L’indecisione fra gli aspetti positivi e negativi di qualcosa. LISIMACO: Benissimo. DEMIFONE: E invece malissimo. LISIMACO: Allora non è più benissimo. (Merc., 300)

L’argomento per esclusione. Un tizio, rovinato dalla scarsa produttività dei suoi campi, si impiccò dopo un naufragio. Granio cinicamente commentò: “Colui che non è stato accolto né dalla terra né dal mare, stia appeso”. (Quintiliano)

L’iperbole. PERIFANE: Quando cominciavo a sproloquiare, sradicavo le orecchie alla gente. (Epid., 434)

(40. Continua)

Diritti tv, un calcio vecchio cerca soldi nuovi: difficile che li ottenga

Ipatron, a cui i soldi già non bastavano mai, figuriamoci ora con la crisi del Covid, si chiedono chi pagherà un miliardo a stagione per mandare avanti il carrozzone. I tifosi solo dove potranno vedere le partite del prossimo campionato: se non cambierà nulla con Sky, spunteranno vecchie e nuove offerte tra Mediaset, Dazn, Tim e la tanto attesa Amazon, o magari ci sarà la rivoluzione del canale della Lega, che tutti continuano ad evocare e nessuno sa bene cosa vuol dire. Insomma, se gli toccherà disdire e rifare abbonamenti (possibilmente uno solo), o arriverà l’ennesimo salasso.

Siamo già arrivati a quel momento, che ritorna periodicamente ogni tre anni, in cui la Serie A si interroga sgomenta sul suo futuro. I diritti tv devono essere riassegnati per il 2021-2024 e nessuno ha idea di chi se li aggiudicherà. C’è stato il duopolio Sky-Mediaset, poi è arrivata la poco premiata coppia Sky-Dazn, che ha scontentato tutti, tifosi (costretti al doppio abbonamento) e aziende (non ci hanno guadagnato quanto speravano). Comunque sia andata, non potrebbe più funzionare: una sentenza del Consiglio di Stato ha stangato Sky per posizione dominante, vietando nuove esclusive online. Significa che se la pay-tv dovesse comprare di nuovo le sue 7 partite su 10 a giornata, le stesse dovrebbero essere visibili altrove su internet, magari a un prezzo minore. E questo ammazza il valore del prodotto: che esclusiva è se non è più esclusiva?

Il calcio è disperato, continua a cercare nuovi soldi per il suo vecchio campionato. È anche il motivo per cui la Lega è pronta, ormai manca solo la firma, a vendersi l’anima ai fondi d’investimento stranieri: il 10% della Serie A verrà ceduto a Cvc, per circa un miliardo e mezzo. Ma poi c’è sempre la partita dei diritti tv e qui il principale finanziatore, Sky, che già era alle prese con una fase di transizione e tagli ovunque, non può svenarsi neanche se volesse. I presidenti pretendono di incassare sempre di più, vogliono minimo un miliardo l’anno, ma il mercato non è una linea retta che aumenta all’infinito. Era asfittico da tempo, il Covid è stata la mazzata finale.

Basta guardare in Francia: gli spagnoli di MediaPro (già sentiti in Italia) hanno costruito il canale, hanno smesso di pagare e se ne sono andati, lasciando i club in mezzo a una strada. Sono tempi duri, lo sta già sperimentando il bando rivolto all’estero, dove la Serie A contava di fare un balzo e invece sarà fortunata se chiuderà in pari. In casa, è peggio. Il presidente Dal Pino e l’ad De Siervo (appena rieletti in un’assemblea che ha riservato le solite imboscate ai suoi dirigenti) stanno facendo i salti mortali.

Il bando domestico prevede due offerte. Una per piattaforma: tutti prendono tutto, ognuno sul suo mezzo di distribuzione (satellite, digitale terrestre o internet). Un’altra per prodotto, con la solita divisione 7 partite da una parte, 3 dall’altra (fra cui il prezioso anticipo del sabato). Entrambe hanno buone ragioni per fallire. L’alternativa è il famoso “canale della Lega”: la Serie A che diventa editore di se stessa, produce le partite e le rivende a tanti operatori per fare più soldi. Affascinante ma anche rischioso e i presidenti del pallone non sono proprio dei cuor di leone. Vogliono solo contanti e garanzie. Sarebbe più facile da realizzare con un partner, che ci mette competenze (e un po’ di soldi). Ma l’unico credibile sarebbe proprio Sky e qui si ritorna al problema dei rapporti complicati (c’è ancora una causa in corso per oltre 100 milioni non pagati durante il lockdown, se non li copre la pay-tv è esclusa dal bando), senza dimenticare l’Antitrust.

La settimana prossima si apriranno le prime buste e rischiano di essere mezze vuote. Sky ripete di voler rimanere la casa (anzi, il “club” come lo chiamano loro) della Serie A, ma non è disposta a fare follie e ha bisogno di qualcuno che gli risolva il problema di internet, che sia la Lega o un competitor. In Champions, ad esempio, dovrebbe farlo la vecchia/nuova Mediaset, pronta a rilanciarsi sull’online: avrà le partite di coppa che Sky non può trasmettere in streaming e forse lancerà una nuova piattaforma digitale. Le farebbe comodo il campionato, ma a prezzo d’occasione o magari con un partner. Una parola che riporta spesso a Tim, concentrata sulla rete unica, il grande progetto del futuro che riguarderà tutto, anche il pallone.

Tim potrebbe parlarne con Mediaset (che alla rete ha già mostrato interesse e a volte gli interessi si intrecciano), ma di recente pare abbia parlato pure con Dazn di una possibile offerta congiunta sul campionato. Certo, poi chi ha davvero voglia, solidità aziendale, risorse per imbarcarsi nell’avventura del pallone? Amazon di sicuro. Tutti ne parlano, i tifosi la scrutano, i rivali la temono: il colosso di Jeff Bezos sta guardando con attenzione nel bando della Serie A. Il punto è se dentro ci troverà ciò che le interessa: se volesse potrebbe comprarsi tutto il campionato, ma fin qui ha sempre puntato sull’evento specifico per impreziosire Prime, come la partita del mercoledì di Champions. Un’offerta la presenterà comunque. Poi in questa lunga partita comincerà il secondo tempo delle trattative private, forse pure i supplementari: le aziende cercheranno di strappare prezzo e prodotto che vogliono, la Serie A di sopravvivere.