Favori per sesso, 9 anni all’ex pm: sentenza Cavallo salva 3 imputati

Aggiustava inchieste e in cambio otteneva sesso e favori. È di 9 anni la condanna rimediata in primo grado dall’ex pm di Lecce Emilio Arnesano: una pena che seppur più bassa dei 12 anni chiesti dalla Procura di Potenza, conferma integralmente le accuse sostenute dal procuratore Francesco Curcio e dal sostituto Anna Piccininni. Condannata a un anno e 4 mesi la giovane avvocata leccese Manuela Carbone – in cambio di sesso aveva chiesto l’intervento del magistrato per bloccare un procedimento disciplinare – e gli ex vertici dell’Asl salentina: 3 anni e 8 mesi all’ex dg Ottavio Narracci e 5 anni a Carlo Siciliano, responsabile della Medicina del Lavoro dell’ospedale leccese. Per Narracci l’accusa è di aver corrotto il pm per pilotare un processo in cui era accusato di peculato: Arnesano avrebbe avuto due battute di caccia gratis e uno sconto di 17mila euro sulla barca di dieci metri di Siciliano, oltre all’assunzione per un certo periodo di parenti e amici.

Ma anche le assoluzioni di questo processo fanno rumore. In particolare quelle degli avvocati Mario Ciardo, Augusto Conte, ex presidente dell’Ordine di Brindisi, e Federica Nestola. Dalle intercettazioni raccolte dalla microspia piazzata nell’ufficio di Arnesano, era emerso che questi aveva avvicinato Conte per chiudere l’affare Carbone mentre con Ciardo aveva “sistemato” l’esame per l’iscrizione all’albo della Nestola ricevendo da quest’ultima prestazioni sessuali. Gli audio, però, sono stati dichiarati inutilizzabili per via della sentenza della Cassazione sul caso “Cavallo”, che vieta l’utilizzo delle intercettazioni autorizzate per reati diversi e tra i quali non vi sia una connessione. Quegli elementi, quindi, non sono diventate prove e gli imputati sono stati assolti.

Causa Eni, le ong per i diritti stanno col Fatto “Controllare i potenti è dovere della stampa”

Solidarietà al Fatto Quotidiano da parte di quattro organizzazioni non governative internazionali: Global Witness, Heda, Re:common e The Corner House s’impegnano a sostenere il nostro giornale e a segnalare nelle sedi internazionali la causa civile promossa da Eni contro il Fatto. “Date le numerose accuse di corruzione contro l’azienda”, scrivono le quattro ong, “il Fatto è da lodare per aver fatto luce sull’attività di Eni. Il controllo dei potenti, nell’interesse pubblico, è il primo dovere della stampa. Il pubblico ha il diritto di sapere che Eni è accusata di corrompere i politici. La candida sensibilità dell’azienda e dei suoi dirigenti non deve ostacolare la diffusione di tali notizie”.

La causa civile intentata al Fatto da Eni riguarda non un singolo articolo ritenuto diffamatorio, ma l’intera produzione di articoli, inchieste, cronache politiche, interventi, commenti, perfino schede e calendari giudiziari riguardanti la compagnia petrolifera, pubblicati dal nostro giornale negli ultimi anni. Le 63 pagine dell’atto di citazione civile allineano ben 29 articoli, indicati come denigratori e diffamatori, tanto da meritare una richiesta di danni per 350 mila euro, a cui aggiungere una non precisata sanzione pecuniaria per il direttore del Fatto e una ridicola “restituzione dell’illecito arricchimento” che il nostro giornale avrebbe conseguito per il solo fatto di scrivere di Eni. Poi, censura finale: richiesta di rimuovere dal web tutti gli articoli del Fatto su Eni sgraditi a Eni. “Molti giornali”, continuano le ong, “si trattengono dal denunciare la corruzione per la minaccia di azioni legali o per timore che le società possano ritirare la pubblicità. Il Fatto si è rifiutato di farsi intimidire in questo modo. Ha coraggiosamente messo l’interesse pubblico al primo posto e la difesa di tale interesse dovrebbe essere una preoccupazione per tutti noi. La libertà di stampa e la libertà di espressione sono tra i principali baluardi che difendono la democrazia contro l’autoritarismo. Siamo quindi solidali con il Fatto e lo elogiamo per aver resistito ai tentativi di metterlo a tacere”. Concludono le ong: “Ricordiamo all’Eni che qualsiasi danno alla sua reputazione è dovuto all’Eni stessa, per le numerose accuse di corruzione che la circondano, e non al Fatto per averle rese pubbliche. Seguiremo passo passo la vicenda e ci impegneremo a fare tutto il possibile per supportare il giornale, se richiesti, anche in sede processuale. Esortiamo tutti a fare altrettanto e a pubblicizzare la propria solidarietà”.

Ponza, la perizia: “Pozzi fu picchiato poi è precipitato”

Non è stata una caduta accidentale, quella che ha ucciso Gianmarco Pozzi, il 28enne ex campione italiano di kick-boxing morto a Ponza il 9 agosto 2020. Il giovane è stato percosso, forse anche con un oggetto contundente, quindi è precipitato nel vuoto. Lo si legge nella perizia di parte firmata dal professor Vittorio Fineschi, direttore dell’Istituto di medicina legale della Sapienza di Roma. Ieri il documento è stato depositato dai legali della famiglia alla procura di Cassino, che indaga contro ignoti per omicidio volontario.

“In definitiva – scrive il consulente – allo stato della interpretazione dei reperti cadaverici, del sopralluogo e dei dati circostanziali (…)” è “suffragata l’ipotesi dell’azione di terza persona che dopo una colluttazione sia riuscita a costringere il Pozzi contro il muretto delimitante il campo, sovrastante il corridoio tra le abitazioni posto a 3.20 metri di profondità dal muretto stesso, così da provocarne la precipitazione e il conseguente grave complesso lesivo pluridistrettuale (cranico-rachideo e toracico) che è la causa di morte del Pozzi”.

Segre, Adro nega la cittadinanza Anpi: “Pericoloso”

“Attilio Emilio Mena nato in Adro deportato e morto nel campo di sterminio di Dachau e Luigi Tonoli nato in Adro e morto prigioniero a Birkenau”. Con questi due nomi l’Anpi Adro, nel Bresciano, replica al rifiuto del sindaco del paese – noto per la scuola elementare marchiata con il “Sole delle Alpi” voluto dall’ex primo cittadino leghista Oscar Lancini – di concedere la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. “Crediamo che la cittadinanza onoraria abbia senso se la città che la concede ha avuto una parte anche piccola nel percorso di vita di una persona”, era stata la risposta del sindaco leghista Paolo Rosa. Da “una amministrazione in cui non esiste opposizione non ci si può che aspettare altre parole come quelle scritte dal primo cittadino”, aggiunge Gualtiero Tonoli, figlio di Luigi e oggi presidente dell’Anpi locale che aveva presentato la richiesta al Comune. Per Lucio Pedroni, figlio del partigiano “Modroz” e segretario Anpi provinciale, “il rifiuto è un tentativo di revisionismo. Una risposta pericolosa”.

Ultimo rimpasto a Roma: via Luca Bergamo, il vice della Raggi che criticò la ricandidatura

A pochi mesi dalle elezioni amministrative, la giunta guidata da Virginia Raggi cambia. La sindaca M5s di Roma ha infatti silurato Luca Bergamo, suo vice e assessore alla Cultura, e il responsabile del Commercio Carlo Cafarotti. Una mossa per compattare l’organo esecutivo in vista della campagna elettorale, dopo i malumori emersi – senza neanche che se ne facesse mistero – proprio a causa della ricandidatura della prima cittadina.

Il rimpasto vedrà ora una ridistribuzione delle deleghe, con Pietro Calabrese, fedelissimo della Raggi e attuale assessore ai Trasporti, pronto a prendere il posto di Bergamo, mentre Lorenza Fruci e Andrea Coia sono in pole per le caselle della Cultura e del Commercio. Quel che è certo è che l’allontanamento di Bergamo e Cafarotti è stato tutt’altro che amichevole. Naufragato il tentativo della sindaca di ottenere un passo indietro da parte dei suoi assessori, nella serata di venerdì è arrivato il comunicato stampa con cui si annunciava la fine della loro esperienza in giunta. A pesare, soprattutto nel caso di Bergamo, è stata la contrarietà di quest’ultimo nei confronti della ricandidatura della Raggi, tema che non a caso ieri è tornato al centro delle reazioni social dell’ormai ex vicesindaco: “Avevo espresso mesi fa riserve su modi e tempi della scelta di ricandidarsi, perché così fatta, senza confrontarsi, senza riflettere sui limiti dell’esperienza, poteva disperdere la parte buona del lavoro fatto. Mi pare di averci visto giusto”. Bergamo lascia pure intendere che il suo lavoro, pur lontano dalla Raggi, possa non finire qui: “Riflettere serenamente sull’esperienza di questi anni può aiutare a superarne evidenti limiti e dare forma al progetto di futuro che non emerge dal confronto politico quotidiano. Nei limiti del possibile concorrerò a farlo”. Nell’agosto scorso, quando la Raggi annunciò di voler correre per un secondo mandato al Campidoglio, l’allora vicesindaco ne prese le distanze in diverse interviste, convinto che quella mossa precludesse un’alleanza più ampia col centrosinistra. Una posizione condivisa, anche se mai con gli stessi toni in pubblico, dall’assessore Cafarotti, accompagnato alla porta insieme a Bergamo proprio per evitare sgambetti o crepe interne a ridosso del voto.

Il mestiere di vivere appesi ai ristori

Una mia amica gestisce una pizzeria-ristorante fondata dai suoi genitori alcuni decenni or sono: la sento al telefono per gli auguri di rito. Pur essendo una donna riservata, capisco che ha bisogno di sfogarsi: vuole raccontare le difficoltà che sta incontrando dallo scorso marzo.

Sa bene che è tutta la categoria ad essere in crisi (e si stupisce che le associazioni di categoria non abbiano chiesto al governo lo “stato di crisi”), ma ormai sente di essere allo stremo. Le crisi di nervi sono all’ordine del giorno. Il timore di chiudere l’azienda creata in famiglia sta diventando giorno dopo giorno, con un Dpcm dopo l’altro, uno spettro sempre più vicino. Un anno fa aveva sei dipendenti, ora ne ha due, uno dei quali in cassa integrazione a zero ore. Le chiedo: e gli aiuti governativi? – “Ho ricevuto 4000 euro a fondo perduto, che non sono stati sufficienti neppure a pagare le bollette delle utenze arretrate, per le quali speravamo che ci si venisse incontro (stupidi che eravamo!), l’affitto dei muri del locale, le spese condominiali, le tasse e le imposte…”. Ma non c’erano i prestiti agevolati? – incalzo. “Sì, abbiamo ottenuto 25.000 euro, che dobbiamo restituire, ovviamente, trattandosi di prestito e non di donazione. Sono serviti a pagare stipendi, Tfr ai dipendenti che ci hanno lasciato volontariamente, e forniture di beni e servizi che noi rateizziamo. Sono durati insomma circa due mesi”. Non ho bisogno di incoraggiarla a parlare, a continuare il suo racconto… “E le chiusure forzate, con quel minimo di ‘asporto’, con gli orari ridotti, hanno prodotto esiti a dir poco deludenti. Portiamo due pizze margherita per un importo di 10 euro (e capita che chi consegna, e io pago, debba fare 10 chilometri tra andata e ritorno, perché il cliente abita lontano dal nostro locale!). E dire che avevamo investito per ottemperare alle prime disposizioni anti-Covid: due porte, una di ingresso una di uscita, un percorso interno, sanificazione e bonifica dei locali, eliminazione del 40% dei tavoli, dispositivi sanitari, e così via. Tutte somme spese senza alcun ritorno. E poi ci hanno impedito di nuovo di lavorare…”. Si infervora e sento che sta per esplodere: infatti, la voce si altera quando racconta dell’impegno per preparare un pranzo di Natale e uno di Capodanno. Lo sforzo creativo per definire il menu, la spesa, e poi la doccia fredda: “Noi serviamo solo sempre prodotti freschi. Non potevamo certo congelare cozze, vongole, branzini, orate… Tutta roba presa al mercato del pesce… Non ci è rimasto che fare pranzi di famiglia (in segreto, come carbonari! E questo è stato persino più avvilente del resto). Una parte consistente della merce l’abbiamo regalata ai nostri vicini, il fruttivendolo, il minimarket egiziano, il cinese che vende chincaglieria, il panettiere, il tabaccaio. La verdura ha avuto la stessa sorte”. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E ha dovuto liquidare la ditta che faceva le pulizie nel locale (una piccola ditta individuale: “Ho avuto una stretta al cuore quando la titolare si è messa a piangere davanti a me, raccontandomi che ormai tutti i ristoranti stavano rinunciando al servizio…”) e le pulizie se le fa lei stessa, pur non essendo più una giovinetta, alle sette del mattino, prima di cominciare il lavoro, “perché comunque c’è sempre da fare nel ristorante”. Mi racconta poi di suo padre, che assiste incredulo e smarrito alla catastrofe della creatura di cui andava fiero, e non ha più neppure un buon consiglio da dare, in questa situazione inedita, imprevedibile, angosciosa. E di suo figlio adolescente che quest’anno ha iniziato le Superiori e che tra l’ultimo anno delle Medie e questo primo del Liceo praticamente non ha mai visto in faccia i suoi compagni, e i docenti solo in video. Si è chiuso in se stesso, sta tutto il giorno in camera con le finestre sbarrate e le tende abbassate. Non parla più, non vuole uscire, vive davanti al piccolo schermo del tablet per le lezioni e per la sua vita “sociale”, in cui non v’è più posto per le parole. ​ Le chiedo, convinto di usare una buona carta: ma in questi ultimi giorni, non avete fatto un po’ di incasso? Mi dice: “All’Epifania abbiamo incassato, di asporto (essendo costretti alla chiusura), 115 euro…” ; io provo a dire: “In fondo non male”. La sua replica è raggelante: “L’anno scorso, al 6 gennaio (l’Epifania è sempre stata una giornata-top per noi) avevamo incassato 1747 euro”. Sono sgomento. Lei non mi dà tregua e aggiunge: “Sai come pago ora stipendi, Tfr residui, bollette, fornitori? Rinuncio al mio stipendio, che già era più basso di tutti i miei dipendenti, e verso, in questi ultimi mesi, sul conto del ristorante, che è vicino allo zero, una somma sufficiente. Ma ora anche il mio conto è esaurito, e il mese prossimo se non arrivano gli agognati ristori, io chiuderò. E ben difficilmente potrò aprire di nuovo”. Aggiunge che le dispiace soprattutto per suo padre, per il quale un atto del genere sarebbe una sentenza di morte. “Io mi aggiusterò. Andrò a lavare le scale nei condomini, a fare pulizie in qualche studio legale…”. Tento di interromperla, ma rinuncio. Sento che sta piangendo. E aspetto il suo saluto che a mezza voce mi giunge: “Auguri, comunque, spero che a te vada meglio che a me”.

 

Sull’Everest 7 gradi e Roma Nord soffre per quattro fiocchi

In Italia – Freddo e neve in collina del 16-17 gennaio al Sud non sono stati anomali. Accade quasi ogni inverno di vedere temperature minime di 0 °C a Bari, -1 °C a Napoli, -2 °C a Lamezia Terme, e un’imbiancata sui trulli di Alberobello e a Cosenza, città che in passato ha visto nevicate anche da 30 cm e più (1985, 1987, 2007). Lo stesso vale per i quattro fiocchi di domenica a Roma Nord e, benché impressionanti a prima vista, anche i -26 °C dei Piani di Pezza (1450 m, Abruzzo) non sono eccezionali. Si tratta di conche montuose che, specie se innevate, intrappolano aria gelida nelle notti serene e calme, come fanno pure le “doline fredde” delle Alpi orientali. Ai 1768 m della Dolina Campoluzzo (Asiago) lo scorso 26 dicembre si è scesi a -40 °C, microclima peculiare di una dozzina di ettari, non rappresentativo dei dintorni e monitorato solo da pochi anni (-44 °C nel febbraio 2018), senza poter confrontare con inverni lontani più rigidi dell’attuale. Numeri che vanno dunque contestualizzati e divulgati con cautela, senza gridare ogni volta all’era glaciale. In settimana la nebbia sotto 0 °C della Valpadana, ghiacciando su miliardi di polveri inquinanti, da Pavia a Ravenna ha generato il fenomeno impropriamente detto “neve chimica” (meglio: neve da nebbia, o nebbia congelante precipitante), non più nociva dell’aria malsana che già di solito respiriamo. La vigorosa perturbazione da libeccio di venerdì e ieri ha prodotto diluvi da oltre 200 mm sull’Appennino settentrionale e 350 mm sull’alto Friuli al confine con la Slovenia: disgelo, frane e fiumi in piena a valle, ingenti nevicate in quota sulle Alpi Giulie dove ci sono ben 4,5 metri di spessore nevoso a 1800 m, e grandi valanghe di neve bagnata. Il nuovo rapporto sul rischio frane e inondazioni in Italia del Cnr-Irpi segnala 1682 vittime dal 1970, di cui 12 nel 2020, con maggiore incidenza storica in rapporto alla popolazione in Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige, fragili territori interamente montuosi.

Nel mondo – Tra Baltico e Russia si attenua il gelo dei giorni scorsi, intenso ma ordinario (-25 °C a Minsk). In Bosnia -10 °C in inverno sono normali, ma hanno reso ancora più disperate le condizioni dei migranti al campo di Lipa, dove ora il ghiaccio si è tramutato in fango. Inoltre alluvioni hanno devastato una sessantina di campi profughi nel Nord della Siria. Inondazioni anche nel Regno Unito, e il ciclone tropicale “Eloise” dopo aver colpito il Madagascar è giunto ieri in Mozambico, già funestato due anni fa da “Idai”. Troppo caldo in California, spazzata dai venti desertici El Diablo e Santa Ana (record di 33 °C), e in tutto il Sud-Ovest americano continua una siccità eccezionale in attesa che perturbazioni dal Pacifico portino sollievo questa settimana. In Asia, ben 28 °C sulla sponda iraniana del Mar Caspio, e 7 °C ai 5300 m del campo base dell’Everest! Al primo Climate Adaptation Summit di domani (www.cas2021.com) verrà presentato ai leader mondiali l’appello “Global Scientists Call for Economic Stimulus to Address Climate Adaptation and Covid-19”, con cui scienziati da tutto il mondo chiedono a politica, economia e finanza che la ripresa post-pandemia includa le cruciali scelte per l’adattamento ai cambiamenti climatici: “Se tardiamo, la pagheremo”. Tra i primi provvedimenti di Biden per rimediare alla sciagurata era di Trump c’è il rientro degli Usa nell’Accordo di Parigi. Essendo i secondi emettitori al mondo di gas serra dopo la Cina con quasi 7 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno, averli o no in difesa dell’ambiente fa la differenza. L’importante è che seguano azioni incisive e si mantenga la linea, perché la protezione del clima ha bisogno di politiche ben più a lungo termine dei brevi mandati presidenziali.

 

Stati (più) Uniti. Il sogno di pace di Biden passa anche dalla Bibbia

Invece di commentare un testo biblico, oggi vorrei tornare sulla cerimonia di insediamento del presidente americano Biden e ai molti contenuti religiosi che l’hanno contraddistinta. Negli Usa vige una rigida separazione giuridica tra Stato e religioni che ha reso possibile un’invidiabile libertà di culto e non ha impedito che le religioni, e il cristianesimo in particolare, svolgano un ruolo importante nella vita pubblica. Biden è il secondo presidente cattolico dopo Kennedy, tutti gli altri sono stati protestanti. Tutti comunque cristiani, chi in modo superficiale (e anche strumentale), chi profondamente credente pur nella tenaglia del realismo politico necessario per guidare una grande potenza. Biden è un uomo di fede, possiede un’antica Bibbia di famiglia (una tradizione protestante diffusa anche tra i cattolici americani) di ben 127 anni in cui sono segnate, su apposite pagine, le date più importanti delle varie generazioni.

Per le preghiere, che fanno parte della cerimonia di insediamento, ha chiamato due suoi amici, uno cattolico e l’altro protestante. Leo O’Donovan, sacerdote gesuita ed ex presidente della Georgetown University, che ha detto: “Veniamo a Dio ancora di più con speranza e con i nostri occhi rialzati di nuovo alla visione di un’unione più perfetta nella nostra terra. Un’unione di tutti i nostri cittadini per promuovere il benessere generale e assicurare le benedizioni della libertà a noi stessi e ai posteri. Abbiamo persone di molte razze, fede, background nazionali, culture e stili, una grande ricchezza per il nostro Paese”. Dopo aver citato alcuni testi biblici, ha nominato anche la recente enciclica Fratelli Tutti di papa Francesco: “Da soli rischiamo di vedere miraggi. Cose che non ci sono. I sogni, invece, si costruiscono insieme”. Silvester S. Beaman, pastore della Bethel African Methodist Episcopal Church a Wilmington, Delaware, ha offerto una benedizione in cui ha invitato l’America a “fare amicizia con i soli, gli ultimi e gli esclusi” e ad “amare anche l’inamabile”. “Questa è la nostra benedizione – ha detto – che nasce da questi luoghi sacri, dove il lavoro degli schiavi ha costruito questi luoghi simbolo di libertà e democrazia; tutti sono qui rappresentati: gli indigeni nativi americani; coloro che hanno ricevuto di recente la cittadinanza; gli afroamericani, quelli i cui antenati provenivano dall’Europa e da ogni angolo del globo; dai ricchi a coloro che lottano per farcela; per ogni essere umano, indipendentemente dalle sue scelte, questo è il nostro Paese, e come tale insegnaci, o Dio… a viverlo, ad amarlo, a essere curati in esso e riconciliati gli uni con gli altri”.

Anche i cantanti hanno fatto riferimento alla tradizione biblica dell’anima americana: il cantante country Garth Brooks si è esibito con il celebre inno Amazing Grace (“Immensa grazia del Signore”), chiedendo ai presenti e al pubblico a casa di cantare insieme, e Jennifer Lopez, con un fuori programma, ha gridato in spagnolo: “Una nazione, sotto Dio indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”. Infine Amanda Gorman ha letto una poesia con un riferimento al profeta biblico Michea (4,4): “Siederanno ognuno tranquillo sotto la vite e sotto il fico e più nessuno li spaventerà, poiché la bocca del Signore onnipotente ha parlato!”.

Insomma, unità e riconciliazione per un Paese politicamente diviso e con profonde ferite sociali antiche e recenti, tra cui il razzismo. E sullo sfondo una speranza biblica e un sogno mai pienamente realizzati e magistralmente interpretati dal pastore Martin Luther King, martire dell’amore di Dio per tutti.

 

 

Casa Savoia, il perdono e il peso della memoria

Ha chiesto perdono Emanuele Filiberto, erede e rappresentante del re che ha firmato le leggi razziali del fascismo e ha iniziato la grande persecuzione che, insieme al nazismo, ha cercato di coinvolgere nel massacro tutta l’Europa. Ha chiesto perdono per quella firma omicida e quelle leggi di morte che hanno sfregiato l’Italia. Ha rinnegato e respinto (certo, per attenuare, se possibile, il disonore della propria famiglia) come qualcuno che si rende conto della enormità del delitto e sembra sapere che non si può abbandonare all’oblio e alla graduale dimenticanza quella grande barca di morti, gli ebrei italiani catturati a uno a uno, in osservanza di leggi speciali italiane, contro la stessa Costituzione del tempo e firmate dal re d’Italia.

Emanuele Filiberto è un principe fuori corso, eppure è stato il solo a vedere, in un’Italia facilmente dimentica, la necessità che qualcuno chieda perdono, a nome dei veri colpevoli, per quel grande delitto. Si è accorto che esiste un “Giorno della Memoria” che è stato votato in Parlamento come “pietra d’inciampo” contro il negazionismo e contro la nuova tecnica di gettare sul ceppo del “Giorno della Memoria” valanghe di altre memorie, votate dal Parlamento con molte ragioni e molti pretesti, allo scopo di poter dire che sono troppe, queste memorie legalizzate, e che è ora di farne a meno e di guardare al futuro.

Può darsi che Emanuele Filiberto abbia in mente un suo percorso di rientro, tentando di tornare a essere un principe di buona famiglia. Resta il fatto che ha chiesto perdono, unico italiano tra persone, dinastie o famiglie legate al potere di quel tempo omicida. Sembra essersi reso conto, lui che non sta in Parlamento come l’erede naturale della squallida Italia di allora, che le leggi firmate da suo nonno – che piacciono ancora ai sovranisti di adesso – sono la macchia da tentare di cancellare.

Quando Nedo Fiano, dieci anni fa, mi ha fatto chiedere dal figlio Lele (Emanuele) di scrivere la prefazione al suo primo libro su quegli anni della sua vita, ho cominciato a leggere e rileggere le sue pagine perché mi rendevo conto di qualcosa di cui si parla di rado con i sopravvissuti della Shoah. Parlo del peso enorme che resta per sempre con chi quella esperienza ha vissuto, che non è la memoria in generale (“i ricordi”, gli stati d’animo, gli eventi che si fissano per sempre non solo nella mente, nel corpo e in tutta la vita a venire di chi sta vivendo il dopo). Si fissano come una tormentosa catena da cui nessuno ti può liberare. Liliana Segre ne parla con dolorosa fermezza, nel suo ricordo di Fiano, ed è tra coloro che lasciano intravedere qualcosa dell’immenso non detto di ciò che è stato fatto e subìto, di ciò che viene prima e non potrà mai essere cancellato nella esistenza di chi vive e continua a sapere. Primo Levi – che l’istinto narrativo e poetico avevano portato in un aldiquà che solo in apparenza, e solo per bellezza, sembrava salvezza – non aveva mai mollato la presa (o così volevamo credere) fino a quell’ultimo istante che coincide, tanti anni dopo, con qualsiasi momento insopportabile della vita nei luoghi di sterminio.

Larry Rivers, tra i celebri artisti della Pop Art americana, dopo avere letto Se questo è un uomo nella traduzione finalmente bella, voluta e resa possibile da Philip Roth, aveva deciso “di tornare ebreo” (Larry si chiamava Rivers perché da bambino doveva attraversare il fiume per andare a scuola). E voleva l’impossibile. Voleva dipingere ritratti di Primo Levi . Rivers ascoltava, leggeva, faceva domande, a volte da bambino incredulo e meravigliato che incontra per la prima volta la storia e il peso insopportabile della memoria. Nei tre dipinti che si trovano adesso a Torino, il pittore aveva visto e narrato (nella piccola parte di chi si accosta per sapere e – come dice in molte sue poesie Edith Bruck – non saprà mai) il peso insostenibile della memoria che è diventata te stesso e da cui sai che non devi e non puoi liberarti. Ecco, questo è ciò che, come in una telepatia misteriosa, il pittore lontano aveva visto negli occhi del poeta abbattuto tanti anni dopo dal peso della sua vita ad Auschwitz: vi rendete conto di ciò che è accaduto mentre avevo cominciato a scrivere sul “Giorno della Memoria”.

Emanuele Filiberto non è nessuno, ma appartiene alla stessa gente che ha preparato le “Leggi sulla difesa della Razza” (la stessa merce di “Prima gli italiani”). Ma ha saputo di dover chiedere perdono nel suo nome di erede di quella famiglia. Nella lunga schiera dei secondari, viene molto prima di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini.

 

Ladri di candelabri, metronotte, beghine e monumenti regali

Dai racconti apocrifi di Paolo Buzzi. Dopo due mesi di guai (una contravvenzione, la moglie col mal di gola ricoverata in ospedale essendosi rovesciata sulle gambe la pentola dell’acqua bollente per i suffumigi, tre allievi che per ragioni di economia non prendevano più lezioni private da lui, il calamaio pieno di inchiostro capovoltosi sul tappeto in salotto, un tamponamento) il maestro elementare Luigi Bo capì finalmente che la causa di tutta quella sfortuna non poteva essere che il candelabro d’ottone a tre bracci, dei quali uno spezzato, trovato da sua moglie in soffitta due mesi addietro, e da lei sistemato in salotto sopra la credenza. Lo iettatore irradiava emanazioni malefiche! Occorreva disfarsene subito. Così, quella notte, mentre la moglie dormiva, Luigi entrò a tentoni in salotto, indirizzò una preghiera muta all’Altissimo dopo aver picchiato lo stinco contro lo spigolo di un tavolinetto infido, acciuffò il candelabro tenendolo stretto, quasi a strozzarlo, e uscì zoppicando sulla strada semibuia. Dove deporlo? Nella piazza attigua si disegnava, cupa, la sagoma bronzea di Vittorio Emanuele II a cavallo. Luigi sorrise a se stesso. Si assicurò che la piazza fosse deserta, depose il candelabro accanto a uno zoccolo del ronzino, e ritornò a casa, la sua ombra come l’impaccio della sua anima fra i piedi. Si addormentò compiangendo profondamente chi (uno spazzino? il giornalaio all’angolo? un operaio mattiniero? una beghina diretta alla messa?) si sarebbe portato a casa il candelabro micidiale nell’illusione di aver rinvenuto un tesoro. Ebbe quasi rimorso. La mattina dopo, però, il candelabro era ancora lì, sul piedistallo. Ed era ancora lì quando, dopo la mezza, Luigi tornò a casa dalla scuola. Eppure la piazzetta era animata: la gente passava, quasi sfiorava il monumento; ma nessuno sembrava accorgersi dell’incongruo elemento decorativo. Non lo vedevano? Per Luigi cominciò un’ossessione nuova: andare a controllare quattro volte al giorno se quel candelabro, che pareva schernirlo ogni volta col gestaccio del suo braccio mutilato, fosse ancora lì. Dopo due mesi di questo tormento quotidiano, decise che era ora di finirla. L’avrebbe preso e attuffato nel Tevere. Un candelabro di bronzo mica galleggia! Mezzanotte, monumento, ponte sul fiume: una spedizione facile, dopo l’esperienza della prima; ma stavolta, in piazza, c’era un metronotte. Luigi girò due volte intorno al re ippico, si inoltrò in un vicolo, e quando ritornò la guardia non c’era più. Passò frettoloso davanti al monumento, afferrò il candelabro gelido e lo nascose sotto il cappotto. Sentì una mano pesante sulla spalla. “Speravi di farla franca, eh?”. Era il metronotte.

Al processo, il giudice considerò ridicola la storiella del candelabro malefico raccontata da Luigi. Le parole della moglie non lo scagionavano? No, anzi: provavano la premeditazione casalinga. Testimoni più degni di fede, poiché non parenti, vennero ad asserire che il candelabro faceva parte integrante del monumento: uno spazzino, il giornalaio, un operaio, una beghina, il metronotte giurarono di averlo sempre visto lì, da epoca immemorabile. Negli archivi comunali non fu possibile trovare il disegno originale dell’opera, ma un esperto d’arte illustrò dottamente come quel candelabro non potesse che esserne parte essenziale, rappresentando sul piedistallo l’ardente riconoscenza della nazione per l’opera del grande sovrano. Luigi fu condannato, e il candelabro ricollocato al suo posto legittimo, cioè solidamente fissato al monumento che, scrissero i giornali, “un atto vandalico avrebbe deturpato irrimediabilmente, se una vigilanza oculata non l’avesse impedito”. Morale: quando ti accusano di aver rubato il Colosseo, comincia a nasconderti.