Una mia amica gestisce una pizzeria-ristorante fondata dai suoi genitori alcuni decenni or sono: la sento al telefono per gli auguri di rito. Pur essendo una donna riservata, capisco che ha bisogno di sfogarsi: vuole raccontare le difficoltà che sta incontrando dallo scorso marzo.
Sa bene che è tutta la categoria ad essere in crisi (e si stupisce che le associazioni di categoria non abbiano chiesto al governo lo “stato di crisi”), ma ormai sente di essere allo stremo. Le crisi di nervi sono all’ordine del giorno. Il timore di chiudere l’azienda creata in famiglia sta diventando giorno dopo giorno, con un Dpcm dopo l’altro, uno spettro sempre più vicino. Un anno fa aveva sei dipendenti, ora ne ha due, uno dei quali in cassa integrazione a zero ore. Le chiedo: e gli aiuti governativi? – “Ho ricevuto 4000 euro a fondo perduto, che non sono stati sufficienti neppure a pagare le bollette delle utenze arretrate, per le quali speravamo che ci si venisse incontro (stupidi che eravamo!), l’affitto dei muri del locale, le spese condominiali, le tasse e le imposte…”. Ma non c’erano i prestiti agevolati? – incalzo. “Sì, abbiamo ottenuto 25.000 euro, che dobbiamo restituire, ovviamente, trattandosi di prestito e non di donazione. Sono serviti a pagare stipendi, Tfr ai dipendenti che ci hanno lasciato volontariamente, e forniture di beni e servizi che noi rateizziamo. Sono durati insomma circa due mesi”. Non ho bisogno di incoraggiarla a parlare, a continuare il suo racconto… “E le chiusure forzate, con quel minimo di ‘asporto’, con gli orari ridotti, hanno prodotto esiti a dir poco deludenti. Portiamo due pizze margherita per un importo di 10 euro (e capita che chi consegna, e io pago, debba fare 10 chilometri tra andata e ritorno, perché il cliente abita lontano dal nostro locale!). E dire che avevamo investito per ottemperare alle prime disposizioni anti-Covid: due porte, una di ingresso una di uscita, un percorso interno, sanificazione e bonifica dei locali, eliminazione del 40% dei tavoli, dispositivi sanitari, e così via. Tutte somme spese senza alcun ritorno. E poi ci hanno impedito di nuovo di lavorare…”. Si infervora e sento che sta per esplodere: infatti, la voce si altera quando racconta dell’impegno per preparare un pranzo di Natale e uno di Capodanno. Lo sforzo creativo per definire il menu, la spesa, e poi la doccia fredda: “Noi serviamo solo sempre prodotti freschi. Non potevamo certo congelare cozze, vongole, branzini, orate… Tutta roba presa al mercato del pesce… Non ci è rimasto che fare pranzi di famiglia (in segreto, come carbonari! E questo è stato persino più avvilente del resto). Una parte consistente della merce l’abbiamo regalata ai nostri vicini, il fruttivendolo, il minimarket egiziano, il cinese che vende chincaglieria, il panettiere, il tabaccaio. La verdura ha avuto la stessa sorte”. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E ha dovuto liquidare la ditta che faceva le pulizie nel locale (una piccola ditta individuale: “Ho avuto una stretta al cuore quando la titolare si è messa a piangere davanti a me, raccontandomi che ormai tutti i ristoranti stavano rinunciando al servizio…”) e le pulizie se le fa lei stessa, pur non essendo più una giovinetta, alle sette del mattino, prima di cominciare il lavoro, “perché comunque c’è sempre da fare nel ristorante”. Mi racconta poi di suo padre, che assiste incredulo e smarrito alla catastrofe della creatura di cui andava fiero, e non ha più neppure un buon consiglio da dare, in questa situazione inedita, imprevedibile, angosciosa. E di suo figlio adolescente che quest’anno ha iniziato le Superiori e che tra l’ultimo anno delle Medie e questo primo del Liceo praticamente non ha mai visto in faccia i suoi compagni, e i docenti solo in video. Si è chiuso in se stesso, sta tutto il giorno in camera con le finestre sbarrate e le tende abbassate. Non parla più, non vuole uscire, vive davanti al piccolo schermo del tablet per le lezioni e per la sua vita “sociale”, in cui non v’è più posto per le parole. Le chiedo, convinto di usare una buona carta: ma in questi ultimi giorni, non avete fatto un po’ di incasso? Mi dice: “All’Epifania abbiamo incassato, di asporto (essendo costretti alla chiusura), 115 euro…” ; io provo a dire: “In fondo non male”. La sua replica è raggelante: “L’anno scorso, al 6 gennaio (l’Epifania è sempre stata una giornata-top per noi) avevamo incassato 1747 euro”. Sono sgomento. Lei non mi dà tregua e aggiunge: “Sai come pago ora stipendi, Tfr residui, bollette, fornitori? Rinuncio al mio stipendio, che già era più basso di tutti i miei dipendenti, e verso, in questi ultimi mesi, sul conto del ristorante, che è vicino allo zero, una somma sufficiente. Ma ora anche il mio conto è esaurito, e il mese prossimo se non arrivano gli agognati ristori, io chiuderò. E ben difficilmente potrò aprire di nuovo”. Aggiunge che le dispiace soprattutto per suo padre, per il quale un atto del genere sarebbe una sentenza di morte. “Io mi aggiusterò. Andrò a lavare le scale nei condomini, a fare pulizie in qualche studio legale…”. Tento di interromperla, ma rinuncio. Sento che sta piangendo. E aspetto il suo saluto che a mezza voce mi giunge: “Auguri, comunque, spero che a te vada meglio che a me”.