Mail box

 

 

Il Pd è come Totò ne “L’oro di Napoli”

C’è un episodio del film L’oro di Napoli in cui Totò e la sua famiglia vengono vessati dalle angherie di un vecchio compagno di scuola (più guappo di cartone che camorrista) che s’insedia nella loro casa e detta legge ad ogni pié sospinto ponendo tutta la famiglia in una condizione di schiavitù. Solo quando il guappo si sente male, Totò trova il coraggio di reagire e di cacciarlo di casa. L’episodio mostra sorprendenti analogie col rapporto Renzi-Pd. Vista la situazione di oggettiva debolezza del primo, riusciranno i nostri “eroi” a liberarsi finalmente da un così lungo e umiliante retaggio?

Michele Spirito

 

Come possiamo toglierci Calenda di torno?

Caro Travaglio, è possibile tentare delle strategie per far scomparire Calenda dall’orizzonte politico prima che diventi un nuovo Renzi? Basta con i tromboni. Che Zingaretti non si sogni di sostenere una sua eventuale autocandidatura a sindaco di Roma!

Annamaria Bardzki

 

Cara Annamaria, credo che provvederanno gli elettori.

M. Trav.

 

Le parole di Gino Strada non hanno avuto seguito

Buongiorno Direttore, ho sentito un’intervista a Gino Strada (non c’è bisogno di ricordare la sua storia) nella quale, sollecitato a esprimere un suo giudizio sul Mes, ha inequivocabilmente dichiarato che, “se si smettesse di finanziare la sanità privata coi soldi pubblici, data l’assoluta assenza di ritorno in termini di servizio per la collettività, si otterrebbe un risparmio equivalente al Mes, per ogni anno”. Trovo questa affermazione sbalorditiva e non adeguatamente messa in risalto dai “giornaloni”, ma neanche dal tuo giornale.

Gianni Tagliani

 

Caro Gianni, Strada ha ragione da vendere: è quello che pensiamo e scriviamo anche noi.

M. Trav.

 

Un ironico omaggio al nostro “Fatto”

Il Fatto che alcuni giornalisti non dicono afFatto la verità è un dato di Fatto. Il Fatto è abbastanza chiaro, hanno Fatto la scelta sbagliata da che parte stare. Se vuoi avere notizie afFatto inquinate devi leggere il Fatto.

Andrea Masina

 

Diritto di replica

In relazione all’articolo pubblicato il 19 gennaio a firma di Roberto Rotunno, la Strong Srl dichiara di non aver mai ricevuto alcuna richiesta di chiarimenti da parte della redazione, né da parte del giornalista.

La Strong richiede esplicita rettifica dei seguenti punti: – il pane sottratto dal lavoratore era idoneo alla vendita e corrispondente agli standard qualitativi, quindi non era destinato né al macero, né “era venuto male”;

– il regolamento aziendale non contempla alcuna norma che autorizzi i dipendenti ad appropriarsi di prodotti (semilavorati e/o prodotti finiti) al termine del proprio turno di lavoro;

– Il “furto di pane” è stato rilevato da un altro dipendente e non dall’ex amministratore, lo stesso è del tutto estraneo ai fatti, così come le sue personali vicende giudiziarie non possono essere riferite alla Strong Srl, che non ha mai realizzato, né tollerato – da chiunque poste in essere – intimidazioni (dirette o indirette) nei confronti di alcun dipendente;

– L’azienda è stata sempre disponibile al dialogo con tutte le parti sociali. Le recenti azioni legali si sono concluse anche a favore della Strong, essendo state rigettate le domande giudiziali dei lavoratori iscritti alla sigla sindacale citata nell’articolo.

Strong srl

Grazie per l’intervento, ma confermiamo di aver richiesto una replica all’azienda contattando gli uffici Grande Impero, ovvero il marchio di cui è titolare la società che – a sua volta – detiene il 100% delle quote Strong Srl.

Siamo in grado di dimostrare che tale e-mail è stata ricevuta e letta. Abbiamo riportato quanto riferito dalle nostre fonti che hanno anche fornito la comunicazione con cui si permetteva ai dipendenti di portare a casa un filone di pane.

Se Strong Srl fosse davvero stata “sempre dialogante con chiunque”, non sarebbe stata condannata per discriminazione, come avvenuto ad aprile 2019 al Tribunale civile di Velletri.

Rob. Rot.

Cari responsabili, “che ve serve?”

 

 

“A Fra’, che te serve?”

 

Strano che nella filologia dei Costruttori, Responsabili, o Volenterosi che dir si voglia non sia stata rievocata, come merita, la luminosa figura di Franco Evangelisti. Poiché, se calato nella odierna temperie politica come talent scout di costruttori, responsabili, o volenterosi, il braccio destro di Giulio Andreotti (immortalato da Flavio Bucci nel “Divo” di Paolo Sorrentino con tanto di baffetti furbi) avrebbe surclassato, con rispetto parlando, qualsiasi Tabacci o Mastella. E anche perché, nella celebre intervista a Paolo Guzzanti nella quale ammetteva di avere ricevuto finanziamenti illeciti dall’imprenditore romano Gaetano Caltagirone, raccontò di come il facoltoso interlocutore, evidentemente ammaestrato dall’abitudine, lo salutasse in principio di ogni telefonata chiedendogli per l’appunto “A Fra’, che te serve?”.

Ora, ci rendiamo conto che l’accostamento tra l’appello a servire le istituzioni nella presente emergenza con il mercimonio all’ombra della Suburra possa risultare offensivo oltre che azzardato, però non fu proprio il Divo Giulio a dire che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca? A pensar male siamo stati tentati sovente in questi giorni di passione quando il percorso per rimpinguare la maggioranza resa macilenta dalla giravolta renziana è apparso più accidentato del previsto. Disseminato di esitazioni, ripensamenti, titubanze, tentennamenti, decisioni trascinate quasi fuori tempo massimo, come nel caso del tormentato Lillo Ciampolillo (sogno nel cassetto: un sottosegretariato all’Agricoltura). Vero è che per smuovere le coscienze il presidente del Consiglio ha fatto appello ai valori della più fulgida tradizione popolare, liberale e socialista oltre che ai comuni ideali europei. Nel gettare il cuore oltre l’ostacolo Giuseppe Conte non ha esitato a definire il senatore Riccardo Nencini “un fine intellettuale” (pur tralasciando un elogio del suo illustre antenato, il ciclista Gastone, trionfatore di un Giro e di un Tour). Così come ha dedicato parole cortesi al senatore (centrista?) Gaetano Quagliariello, prima del sofferto appello finale, quell’“aiutateci a ripartire e a rimarginare le ferite della crisi” rivolto a tutto il Parlamento.

Come sappiamo, il risultato non è stato travolgente e non prometteva niente di buono il viso lungo e mesto di Bruno Tabacci, colto venerdì sulla soglia di palazzo Chigi dopo l’ennesima infruttuosa “esplorazione”. Cosicché si è compreso che forse su questo scivoloso terreno il premier si muove con le migliori intenzioni ma non con il metodo più, diciamo così, redditizio. Infatti, l’opera di convincimento di costruttori, volonterosi eccetera comporta una grammatica sottostante che Clemente Mastella prova a illustrargli, vanamente. Quando, per esempio, in merito alla relazione sullo stato della Giustizia del ministro Bonafede, che mercoledì dovrà affrontare le forche caudine del Senato, ha riportato le perplessità (Responsabili, ci mancherebbe altro) della sua signora. A questo punto, però, onestamente ce lo vedete Conte che telefona alla senatrice Sandra Lonardo e le dice “a Sa’, che te serve?”.

La gaffe di Sala tra Anna, Greta e Boris

Sarebbe interessante sapere chi suggerisce le battute a Beppe Sala. Il sindaco di Milano è persona generalmente abbastanza sobria, ogni tanto però gli escono dichiarazioni davvero peculiari, che sembrano scritte dagli sceneggiatori di Boris. L’altro giorno Sala ha paragonato Greta Thunberg ad Anna Frank. Così, de botto, senza senso. Una giovanissima ambientalista, viva e vegeta, icona globale delle battaglie ecologiste e la ragazza olandese morta nel campo
di concentramento di Bergen-Belsen, simbolo storico delle atrocità dell’Olocausto. Chissà come gli è venuto,
di mettere nello stesso ragionamento i Fridays for future e la Shoah (per giunta durante proiezione pubblica di un documentario su Anna Frank).

Il sindaco di Milano ha argomentato così: “Si parlava del coraggio di giovani donne”. Non fa una piega. Infatti si sono incazzati tutti: a destra, a sinistra e soprattutto nella comunità ebraica. Il sindaco ha provato a riparare con una lettera al presidente della comunità di Milano, Milo Hasbani. Sperando non gliel’abbiano scritta, pure quella, gli sceneggiatori di Boris.

Calenda esperto di transfughi, ma dà i numeri sul Covid e il Pil

Carlo Calenda è sempre molto sicuro di sé. Il problema arriva quando qualcuno si prende la briga di sottoporre a fact checking quel che dice.

Ad esempio, di recente il leader di Azione si scalda molto per commentare i destini del governo Conte, spesso prendendosela con la “indecorosa pesca di responsabili”, in un contesto che rende “imbarazzante il pensiero che siano i responsabili a reggere un governo”. Giovi però ricordare che il partito di Calenda è costituito per intero da transfughi, essendo composto alla Camera da due ex 5 Stelle (Nunzio Angiola e Flora Frate) e da un ex berlusconiano (Enrico Costa), e al Senato dall’ex Pd Matteo Richetti.

Più tecnica la questione che riguarda l’ultima ospitata di Calenda a Piazzapulita, su La7. In un confronto col direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez, Calenda ha sentenziato: “Il tasso di mortalità italiano è al 3,5 per cento, quasi il doppio della Germania”. Come già ricordato in onda da Gomez, Calenda si riferisce al tasso di letalità, ovvero quello che calcola il numero di morti rispetto ai tamponi, non a quello di mortalità (morti per numero di abitanti). Ed è vero che l’Italia è tra i peggiori al mondo col 3,5, ma il dato lo ha interpretato più volte il professor Massimo Galli: “La nostra percentuale di morti rispetto ai casi diagnosticati dal 1° settembre ad oggi è identica a quella della Germania, cioè circa il 2 per cento”. Durante la prima ondata processavamo pochi tamponi e quasi solo riferiti ai sintomatici e ai loro contatti. Da quando il dato degli infetti è più affidabile, la percentuale si è uniformata. Di nuovo Calenda a Piazzapulita: “Il nostro Pil si attesterà al -9,9 per cento, contro il -7,1 della media europea”. In realtà gli ultimi dati Eurostat prevedono un -8,33, tanto che il Sole24Ore ha titolato: “Italia peggio della Germania ma meglio di Regno Unito e Spagna”. Che infatti perdono il 10 e l’11.

Inciucione per “fare il mazzo” a Conte: i due Matteo in love

Mercoledì 9 dicembre, Senato. Matteo Renzi ha appena finito di parlare durante la discussione sul Mes: ha attaccato il premier Giuseppe Conte minacciando per la prima volta la crisi di governo (“Le nostre poltrone sono a disposizione”) e riscuotendo gli applausi di tutto il centrodestra. Sembra un leader dell’opposizione. Il senatore di Scandicci si sente chiamare alle spalle. È il leader della Lega Matteo Salvini che si è alzato dal suo banco per andarsi a complimentare: “Matteo, bravo! Hai ragione su tutto”. La risposta di Renzi è tutto un programma: “Hai visto? Gli ho fatto il mazzo”. Segue iconico gesto. Da quel momento i due “Matteo” non si lasceranno più.

Si parlano – direttamente o tramite emissari (Giancarlo Giorgetti) – si scrivono sms goliardici, si sfottono sul calcio (uno tifa Milan, l’altro Fiorentina), si dicono di tutto in pubblico (“A Renzi non crede più nessuno”, “Salvini voleva i pieni poteri, io glieli ho tolti”) ma poi in privato tramano. Su due rette apparentemente parallele che, per un mix di vendetta personale e brama di potere, alla fine si incrociano in un punto: far fuori il presidente del Consiglio Conte.

E allora, dopo il durissimo discorso di Renzi in Senato, succede che Matteo Salvini l’11 dicembre non chieda il voto. Il leghista propone un “governo ponte” per “accompagnare il Paese alle elezioni con un governo serio”. Insomma, le larghe intese: il sogno di Renzi. Ma Giorgia Meloni lo stoppa: “Per noi c’è solo il voto”. Così Salvini si corregge: “Un governo di centrodestra con chi ci sta”. Ma la coalizione non avrebbe i numeri per un ribaltone, soprattutto alla Camera dove mancano una cinquantina di parlamentari: fondamentali diventano i 30 deputati di Italia Viva. Un’ipotesi ancora una volta stoppata da Meloni che ha capito la trappola (“Questo vuole andare con Renzi”): “Siamo indisponibili a governi con Pd, M5S e Renzi” ripete pubblicamente la leader di FdI. Nel frattempo il senatore di Iv continua il suo bombardamento quotidiano contro Conte. Lo attacca su tutto, ogni giorno aggiungendo una nuova fiche: il Recovery, i vaccini, il Mes, i servizi segreti. I penultimatum si moltiplicano ma il dado è tratto: Renzi a cavallo dell’anno nuovo ritirerà le ministre Bellanova e Bonetti.

Alla vigilia di Natale i due “Matteo” vanno a trovare l’amico comune Denis Verdini a Rebibbia, dove sta scontando la condanna a 6 anni e mezzo per il crac del Credito cooperativo fiorentino. D’altronde era stato proprio il suocero del leader leghista nel novembre 2019 ad ospitarli entrambi nella sua casa a Pian de’ Giullari (Firenze) per sigillare il “Patto del Chianti”: Renzi avrebbe fatto cadere Conte e in cambio Salvini avrebbe candidato una figura “debole” in Toscana. Non è andata così, o forse sì. Renzi e Salvini a Rebibbia non vanno insieme: il 23 dicembre il primo, il 24 il leghista. Si informano sulla salute di Denis ma parlano anche di politica. E il consiglio che l’ex sherpa di B. dà a entrambi è questo: “Ci vuole un governo di unità nazionale”.

I due “Matteo” si tornano a parlare a inizio anno, quando Renzi sta per lasciare il governo. Entrambi vogliono le larghe intese: il sogno del leader di Iv è quello di coinvolgere Salvini per istituzionalizzare la “svolta moderata” della Lega teorizzata da Giorgetti, mentre il segretario del Carroccio gli chiede di “andare fino in fondo”, avviando consultazioni nella Lega per i possibili premier e ministri. I nomi che escono piacciono molto a Renzi: Marta Cartabia, Giulio Sapelli e il solito Mario Draghi. Fantapolitica, a cui i due “Matteo” però credono davvero. Poi i fatti di Capitol Hill – da cui Salvini prende timidamente le distanze – bloccano tutto.

Si arriva a martedì sera. Il teatro è ancora il Senato, ma nel frattempo Renzi ha lasciato il governo e si sta votando la fiducia. Alle otto di sera, prima della “chiama”, il leader di Iv prova il blitz. Salvini gli telefona: “Matteo, se i tuoi votano no, Conte va a casa”. Renzi ci pensa, è combattuto. Ma ha un problema: alcuni dei suoi lo seguono, una decina di senatori no. Se il capo desse l’ordine, questi lo mollerebbero all’istante. Renzi lo sa e, nonostante le pressioni di Salvini, rinuncia: astensione. Ma i due mercoledì mattina si sentono per telefono e siglano un patto: “La maggioranza non ha più i numeri nelle commissioni – dice Renzi – d’ora in poi votiamo insieme e blocchiamo ogni provvedimento. Conte dovrà lasciare”. Salvini concorda. L’opposizione dei due “Matteo”.

B. si converte al voto: Salvini gli dà 40 seggi

Finora, in questa pazza crisi di governo, il voto anticipato è stato utilizzato più come spauracchio che altro. Un modo per terrorizzare le truppe, mettere pressione e tentare di riannodare i fili di una maggioranza che non c’è più. Del resto la forza politica che ha meno interesse ad andare alle urne è proprio quella che ha provocato la crisi, Italia Viva, che verrebbe spazzata via. Ora, però, che la crisi si è attorcigliata sempre più, con il governo ancora lontano da numeri certi in Senato, ecco che le urne tornano a fare capolino come una reale possibilità. Ieri l’hanno ribadito sia Silvio Berlusconi, spegnendo definitivamente le sirene di una maggioranza “Ursula” che arrivano da Palazzo Chigi, sia Goffredo Bettini. “Le elezioni possono essere considerate una sciagura, ma non un colpo di Stato”, ha sottolineato quest’ultimo, ovvero colui che si sta dando più da fare per evitarle. Musica per le orecchie di Nicola Zingaretti, che da settimane ai suoi confida di non essere disposto “ad arrampicarsi sugli specchi”.

Il Pd, sul tema, è diviso, con il segretario e l’area “partitica” più pronti all’ipotesi voto, mentre l’area parlamentare, a cominciare dai capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, disposta a tentare il tutto per tutto per scongiurarlo. Un po’ la stessa linea dei 5 Stelle. “Dobbiamo fare di tutto per aiutare Conte ad andare avanti. Altrimenti c’è il voto”, ha ribadito ancora Luigi Di Maio. In maggioranza poi c’è Leu: erano i più contrari al voto, ma ora non lo escludono. “Per noi le urne sono una sciagura perché rischiamo di consegnare il Paese alle destre, ma non si può ingoiare tutto e fare pastrocchi. Quando le crisi si avvitano, si sta su un piano inclinato e alle urne ci si arriva per inerzia”, osserva Loredana De Petris.

Poi c’è il centrodestra. Che questa settimana è salito al Quirinale per chiedere le elezioni al presidente Mattarella. Del resto, se si andasse al voto, lo si farebbe con l’attuale legge elettorale, il Rosatellum, con cui, secondo le proiezioni basate sui sondaggi, la coalizione avrebbe una solida maggioranza nei due rami del Parlamento. Tra i tre, Giorgia Meloni è sempre stata la più ferma sulle elezioni, con Lega e Forza Italia assai ambigue e frastagliate (Giorgetti e Carfagna in primis). Ieri però è tornato a parlarne Silvio Berlusconi. “Avevamo proposto un governo di unità nazionale, idea esclusa da Pd e M5S. È chiaro che questo rifiuto avvicina il ricorso alle elezioni”, ha detto l’ex Cav. Aggiungendo che “una paralisi di due mesi farebbe meno danni di una paralisi di due anni di non governo”. Qualcuno spiega la svolta pro urne dell’anziano leader con l’accordo che sarebbe stato raggiunto con Salvini per 30 collegi blindati alla Camera e 10 al Senato per FI. Poco rispetto ai 145 attuali, ma “accettabili” nel nuovo Parlamento decurtato. “Governo con dentro tutti o voto”, dice quindi Berlusconi. Per lui quasi una soluzione win-win.

Prescrizione e Bonafede: Renzi ci prova, ma rischia la scissione

Il calendario, per il governo, non è stato fortunato. Non bastavano le dimissioni delle ministre di Italia Viva, la fiducia traballante al Senato (156 voti) e i “costruttori” che latitano. Il primo ostacolo del governo Conte senza i renziani è proprio sul tema che scatena da sempre gli appetiti delle opposizioni e di Matteo Renzi: la giustizia. E l’uno-due dei prossimi dieci giorni rischia di mettere ko il governo, tant’è che non si esclude l’ipotesi di un Conte ter prima di mercoledì. Quel giorno alla Camera e probabilmente giovedì al Senato si voterà sulla relazione del ministro Alfonso Bonafede sullo stato della Giustizia italiana e il 28 in commissione Affari Costituzionali a Montecitorio scade il termine per presentare emendamenti al dl Milleproroghe: qui il deputato di Azione Enrico Costa ripresenterà il “lodo Annibali” per fermare la norma sulla prescrizione introdotta con la legge Spazzacorrotti. I renziani non potranno non votarlo.

La relazione sullo stato della Giustizia di solito è una formalità: il Parlamento vota su risoluzioni a maggioranza semplice che vengono sempre approvate. Peccato che stavolta proprio contro Bonafede – tanto bistrattato da Renzi che avrebbe voluto sfiduciarlo già a maggio – potrebbe consumarsi la vendetta di Iv. Il ministro parlerà soprattutto di come spendere i 2,3 miliardi del Recovery Plan

per assumere personale e snellire i processi, ma Luciano Nobili e il capogruppo al Senato Davide Faraone hanno già annunciato che il partito renziano voterà contro, insieme alla destra. Un voto tutto politico.

E, visto che anche i nuovi “responsabili” Riccardo Nencini, Sandra Lonardo (e forse l’ex berlusconiana Mariarosaria Rossi) in nome del “garantismo” potrebbero già disertare, il rischio che il governo vada sotto è concreto. Sfiduciare politicamente il ministro della Giustizia e capodelegazione del M5S avrebbe un effetto immediato: Conte salirebbe al Colle per dimettersi. Così è scattata la corsa contro il tempo per trovare “costruttori” che neutralizzino i renziani, ma non è detto che i giallorosa ci riescano. Rinviare la relazione non è possibile e anche l’idea di “rimettersi all’aula” (il governo non dà un parere per tenersi fuori dalla contesa) non sembra fattibile: il dato politico resterebbe. Intanto il voto al Senato potrebbe slittare a giovedì mattina: mercoledì alle 16 il ministro sarà alla Camera mentre il voto a Palazzo Madama dovrebbe tenersi qualche ora più tardi. La decisione spetterà alla conferenza dei capigruppo di martedì, dove Iv e la destra hanno la maggioranza.

Se alla Camera i numeri non sono un problema, al Senato sì: il governo si salverebbe solo nel caso in cui si materializzasse un cospicuo numero di responsabili o se i renziani decidessero di astenersi. In questo modo Renzi continuerebbe a trattare con il governo ma è un’ipotesi improbabile. Dal Pd sperano che appena il leader di Iv comunicherà il suo “no” a Bonafede, un gruppo di renziani potrebbe mollarlo: “Qualcosa da qui a mercoledì si muoverà” dice un pontiere dem.

Nel caso in cui il governo uscisse indenne dal voto di mercoledì, già giovedì si ripresenterebbe un altro ostacolo: alla Camera saranno presentati gli emendamenti del decreto Milleproroghe da convertire in legge entro l’1 marzo. E i renziani torneranno all’attacco sulla prescrizione: l’ex FI e passato con Calenda, Enrico Costa, ripresenterà il cosiddetto “lodo Annibali” (come la responsabile Giustizia di Iv Lucia Annibali) per spazzare via la riforma Bonafede entrata in vigore il 1° gennaio 2020 e rinviarla di un anno. I deputati renziani lo voteranno. L’emendamento era già stato presentato un anno fa nel Milleproroghe ma era stato bocciato: adesso, con l’uscita dal governo di Iv, in commissione Affari Costituzionali i giallorosa non hanno più la maggioranza.

“L’Udc voterà contro il ministro”

I loro nomi sono tra i più citati in questi giorni. Con Conte, contro Conte, chissà. Per il momento Antonio Saccone, uno dei tre senatori dell’Udc, assicura che non c’è aria di svolta: “Restiamo all’opposizione, lo abbiamo detto tante volte”. Eppure gli spiragli non mancano, se non altro perché sono continui i riferimenti “a una crisi che non andava aperta adesso”.

Senatore Saccone, è vero che è tra i più ricercati di Palazzo Madama?

Ma no, dopo il voto di fiducia il mio telefono si è tranquillizzato. Certo, qualcuno chiama ancora, ma non da Palazzo Chigi, magari qualche collega che vuol chiedermi se ho cambiato idea. Ma ho votato contro il governo e la mia posizione non è cambiata.

Dobbiamo smettere di citarla tra i responsabili?

Le dico solo che un giorno su un quotidiano ho trovato due articoli che parlavano di me: in uno venivo indicato tra i responsabili, nell’altro tra quelli che non si sarebbero mossi. Ormai non ci faccio caso.

La settimana prossima si vota la relazione del ministro della Giustizia Bonafede.

Voteremo certamente contro. Abbiamo grande rispetto per il ministro, ma non credo cambierà opinione e indirizzo, legittimamente manterrà la sua linea che da parte nostra non è condivisibile.

A proposito di giustizia, siete finiti nei guai con l’indagine sul segretario Lorenzo Cesa.

Mi è dispiaciuto leggere dell’Udc come “Unione dei carcerati”. Abbiamo avuto qualche problema con la giustizia, ma d’altra parte mi si dica quale altro partito non l’abbia avuto. E Cesa si è dimesso immediatamente, pur trattandosi solo di un avviso di garanzia.

Paola Binetti, sua collega dell’Udc, si dice pronta a tutto per salvare la legislatura. Anche lei vuole evitare le urne?

L’Udc non ha mai paura del voto. Nel 2008 lo abbiamo affrontato da soli, un piccolo partito senza mezzi e senza soldi. Dunque non temo il voto per noi, ma per il Paese, perché temo si finisca in una palude. Non sarebbe certo la soluzione migliore in questo momento.

Da qui la sua critica a Renzi?

Abbiamo una guerra in corso, non ho capito il senso di una crisi al buio. In altro momento sarebbe legittima e tollerabile, adesso no.

Quindi? Come se ne esce?

In questo momento mi pare che si sia ancora in una fase tattica. Vedremo tra un paio di giorni se qualcosa si chiarirà.

Lei però non sosterrà Conte.

Non si muoverà nulla.

E se si facesse un governo senza Conte?

Non spetta a noi deciderlo. Quando e se il presidente della Repubblica farà valutazioni del genere, vedremo.

Pressing dem sul premier. Ma Conte non vuol cedere

Giuseppe Conte telefona, ascolta, riflette e soprattutto aspetta, che altri parlamentari passino con lui. Ancora incerto se bere l’amaro calice del Conte ter, che porterebbe a un largo rimpasto e che comporterebbe le sue preventive dimissioni. A cui comunque si rassegnerebbe solo dopo aver costituito i nuovi gruppi nelle Camere. “Ma per ora le dimissioni non sono sul tavolo, e il presidente potrebbe anche andare fino in fondo” dicono ambienti vicini al premier. Cioè giocarsela ancora, rischiando grosso, mercoledì prossimo nella votazione sulla relazione del guardasigilli Alfonso Bonafede: attesa per mercoledì mattina in Senato e già fissata nel pomeriggio alla Camera. Ma a palazzo Madama si potrebbe anche slittare a giovedì mattina, visto che ad oggi il governo non ha i numeri per reggere in Aula, con Matteo Renzi che è già pronto a ferirlo con il no di Iv. I conti ancora non tornano, e di tempo ne è rimasto poco. Ma il Pd non vuole più attendere, anche perché i tanti (ufficialmente) ex renziani alzano la voce, chiedono di tornare a trattare con il fu rottamatore che li mise in lista, e dicono che Conte non può essere un totem inamovibile (la già ministra Marianna Madia). Così ecco che il vicesegretario Andrea Orlando prova a smuovere l’avvocato, ricordando che sulla giustizia il governo può affondare, “perché su quel terreno è difficile allargare la maggioranza, ma è complicato anche tenere insieme la maggioranza acquisita”.

Per questo l’ex ministro della Giustizia Orlando invoca “una iniziativa politica del governo e del ministro Bonafede per dare il segnale di un fatto nuovo, senza il quale si rischia di andare a sbattere”. Cioè “un’apertura ai contributi dell’Aula”, dirà poi. Ma anche sillabe per rimettere in discussione totem come la riforma della prescrizione. Parole pesanti, con plurimi significati e obiettivi. Il primo, assicurano fonti dem, è “allargare”, ossia racimolare qualche altro voto da destra, innanzitutto da Forza Italia.

Ma di fatto Orlando mette anche fretta al premier, per spingerlo a varare quel Conte ter che gli chiedono a gran voce il Pd e tutti gli aspiranti Responsabili, ma ormai anche larga parte del M5S. “Voglio garanzie” ha ripetuto in varie riunioni Bruno Tabacci, che deve costruire un gruppo centrista alla Camera. E assicurazioni sul Conte ter, cioè sul rimpasto, le pretendono anche dall’Udc con cui si tratta, ancora. E d’altronde ruoli di governo hanno chiesto ancora più direttamente alcuni ex 5Stelle, incontrati anche a Palazzo Chigi dal primo sherpa di Conte, il capo di gabinetto Alessandro Goracci. E la logica è inversa a quella di Conte: prima i posti, poi i nuovi gruppi per sostituire Italia Viva. Ma le lancette corrono e le richieste sono tantissime. Per questo Orlando scuote l’albero. Premettendo che con Renzi non si potrà mai tornare, certo, e che Conte resta intoccabile. Senza di lui c’è solo il voto, ripete. “Le elezioni sono una sciagura, ma il rischio delle urne è cresciuto” scandisce, come ennesimo segnale a renziani e forzisti ancora timidi. Però in mezzo al fuoco finisce ancora il capodelegazione dei 5Stelle, Bonafede. Nelle scorse ore dal Pd gli avevano già chiesto questi non meglio precisati “segnali” sulla giustizia. E il riferimento è innanzitutto alla riforma sulla prescrizione, che di certo non piace ai dem, e figurarsi a Orlando, che infatti rilancia sull’Huffington Post: “Sul tema si deve vedere una disponibilità e un’apertura, tenendo conto delle opinioni che si sono manifestate nella maggioranza e anche in parte dell’opposizione”. Ma Bonafede non può certo immolarsi abiurando a una sua storica battaglia. Il guardasigilli sente e vede da tempo molti nemici alla porta, qualcuno anche interno. Ma non ha mai chiesto di rinviare la relazione a giovedì, assicurano. Su questo casomai deciderà la capigruppo di Palazzo Madama, martedì. Ma chissà come ci si arriverà. Perché il Pd è comunque lacerato.

Le dichiarazioni di vari eletti per una riconciliazione con Renzi hanno fatto infuriare Nicola Zingaretti. E in serata fonti parlamentari vicine al segretario ringhiano: “Il problema è molto più complicato di certe facilonerie, alzi la mano chi ha il coraggio di dire che Renzi garantisce credibilità e stabilità a un governo”. Poi ci sarebbero sempre i Cinque Stelle, che dopo settimane di stallo sono tornati a lavorare alla nuova segreteria anche per prepararsi al voto. “Se Conte ter deve essere, serve un accordo blindato” soffiano dai vertici, come a dire che non si può rimettere tutto in discussione. Nell’attesa, dal M5S fanno sapere che alla comunicazione sarebbe stata data la direttiva di “risvegliare” la rete sparsa in tutta Italia, “per farsi trovare preparati in caso di campagna elettorale”. È la contro-guerriglia, di un sabato difficile.

San Germano Vercellese, il buio oltre la risaia

“San Germano Vercellese non merita questa gogna. Troppa acrimonia, una comunità lacerata, insieme dobbiamo vincere l’odio e recuperare lo spirito del Vangelo”. Così ha predicato il parroco, don Stefano Bedello alla messa di domenica 17 gennaio, due giorni dopo che sono finiti agli arresti domiciliari la sindaca leghista Michela Rosetta e l’ex assessore Giorgio Carrando. Intercettati mentre si compiacevano di fare “figli e figliastri”, distribuendo pacchi alimentari “da sfigati”, testuale, alle famiglie bisognose ritenute immeritevoli; e altri, più sostanziosi, a famiglie amiche tutt’altro che indigenti, compreso un nucleo che percepisce più di 7mila euro di reddito mensile. Obbligo di firma anche per l’ex vicesindaco Maurizio Bosco e altre due persone denunciate.

Ci vorrebbe la penna di Harper Lee per raccontare il buio oltre la siepe, o meglio oltre le risaie di San Germano, comune della bassa vercellese di 1.700 anime dove quella sindaca, salviniana fervente, alle ultime elezioni aveva raccolto l’89,6% dei votanti (quasi la metà, però, gli astenuti). Un paese spaccato in due.

Arrivando in una giornata di pioggia in queste terre d’acqua, tra i campi irrigati dal Canale Cavour e il volteggiare dei cormorani, trovo San Germano immerso in un lockdown di vergogna. Difficile parlare di quel che è accaduto perché la grettezza, la micragnosità delle malversazioni venute alla luce, promosse a virtù dalla mentalità leghista, qui precipitano fin nel ridicolo.

Mazzancolle & capesante: 9mila euro di fondi Covid

Una studentessa universitaria italo-marocchina di 24 anni, Ghizlan Ould Ghzala, mi mostra due tabulati. In cima si legge: “Raccolta firme delle persone che non hanno ricevuto mazzancolle e capesante”. Sottoscritto da vari Rashid, Ahmed, Laila, Mouna per un totale di 28 famiglie. Per giustificare l’acquisto di mazzancolle e capesante con gli oltre 9mila euro destinati al Comune dalla Protezione civile per l’emergenza Covid, la sindaca si era inventata la scusa che servissero per il rispetto delle norme religiose islamiche. “Neanche una scatoletta di tonno abbiamo ricevuto”. In compenso Halima Zitouni, madre divorziata di due figlie che versa in povertà assoluta – l’unica marocchina cui sia giunto un pacco – si è vista recapitare della carne di maiale, notoriamente proibita. Un impiegato comunale ha testimoniato che l’hanno fatto apposta. Halima mi racconta di aver regalato quella carne a un vicino di casa prima di tornare in Municipio a protestare: “Perché altri hanno avuto olio, farina, detersivo, zucchero, maionese, shampoo, e a me solo grissini, biscotti, fagioli e una conserva di pomodoro?”. Non l’avesse mai fatto: la sindaca Rosetta s’è infuriata e ha disposto che non ricevesse più alcun aiuto.

Succedeva a maggio. Poi a settembre venne fuori la storia delle mazzancolle e delle capesante. Chiedo a Ghizlan che esito abbia avuto la sua raccolta di firme: “Non se n’è fatto nulla. Per paura di subire ritorsioni le famiglie mi hanno chiesto di non consegnarle”.

Ben presto ho capito il perché. All’ingresso del Municipio, posto di fianco a piazza Oriana Fallaci, solo da poco hanno tolto una grande scritta: “Prima gli italiani”.

“Che senso aveva mettere a terra la propria dignità, sapendo che andavi incontro a certi sguardi, battute sul velo, per poi ottenere solo dei no? In molti hanno rinunciato a fare domanda. Del resto se in strada, per educazione, salutavi la sindaca, lei voltava la testa dall’altra parte”, spiega Ghizlan.

I gesti ostili e i certificati di residenza negati

Mi elencano una sequela quotidiana di gesti ostili, a cominciare dai certificati di residenza negati. Una marocchina sposata con un italiano aveva chiesto aiuto a Giuseppe Fodero della Cgil di Vercelli, di carnagione scura perché sua madre è eritrea. Niente da fare: “Torna pure dal tuo negro che tanto io la residenza non te la do”, si è sentita rispondere dalla Rosetta. Quando a San Germano fu trovato il corpo senza vita di Ifeanyi Amaefula, un nigeriano lanciatosi dal treno perché privo di biglietto, lei rifiutò di seppellirlo a spese del Comune (dopo tre mesi, la salma trovò infine accoglienza a Bergamo). Dulcis in fundo: durante l’inverno 2019 il Comune fece il bel gesto di donare a chi ne aveva bisogno 600 quintali di legna da ardere; ma col requisito indispensabile di risultare cittadino italiano da minimo dieci anni e residente da cinque.

Nella vecchia canonica, insieme a don Stefano Bedello incontro la maestra in pensione Vilma Gallo, responsabile della Caritas parrocchiale: “Spiace dirlo, ma per non subire rimostranze abbiamo proseguito di nascosto la consegna degli aiuti, naturalmente senza badare a nazionalità o religione perché la carità cristiana non fa distinzioni. Ma abbiamo dovuto sospendere le vendite pubbliche di beneficenza, di torte o indumenti”.

Come si spiega questo clima di intimidazione? Michela Rosetta aveva la denuncia facile. Dal 2013, cioè da quando è sindaca, il Comune ha già speso 70mila euro in controversie legali. Come la volta che vietò l’accesso al parco giochi ai bambini di famiglie inadempienti nel pagamento della mensa scolastica (17 euro a settimana). O quando il Tar le bocciò la delibera intitolata “Tutela del territorio sangermanese dall’invasione/immigrazione delle popolazioni africane e non solo”, che prevedeva fino a 5 mila euro di multa per chi affittasse case agli stranieri. In replica al ricorso vittorioso dell’avvocato Marco Faccioli e di un’associazione radicale, queste furono le parole scritte dalla sindaca: “Dopo il colpo di stato imposto dall’Ue certe cornacchie riprendono a gracchiare il loro odio nei confronti del popolo italiano. Auspicano, certamente per loro interessi (vedi cooperative) e politici, l’invasione di una massa sciocca che verrà a macchiare il nostro territorio con ruberie, delitti e parassitismo”. Così il razzismo leghista è stato proclamato a voce alta da una sindaca devota a Salvini e protetta dal capogruppo alla Camera, l’alessandrino Riccardo Molinari, che l’ha pure candidata alla Regione.

Da ex feudo “rosso” a terra di odio razziale

Ho provato a chiedere al procuratore capo di Vercelli, Pier Luigi Pianta, se tanta ostilità tragga origine da una criminalità straniera radicata in paese, o da qualche episodio di cronaca nera: “Nulla di tutto questo, San Germano è un posto tranquillo. Le indagini rivelano comportamenti discriminatori caratterizzati da odio razziale che risultano peraltro immotivati”.

L’unica ferita incancellabile che resta nella memoria dei paesani è lo scoppio di una bombola gpl che provocò cinque morti durante la “Sagra del pesce e del cinghiale” della Pro Loco, il 26 giugno 2010. All’epoca c’era un sindaco di centrosinistra, l’insegnante Orazio Paggi. Quella disgrazia lacerò gli animi in un inutile rimpallo di responsabilità. E lo stesso Paggi continua a essere oggetto di frequenti attacchi verbali della nuova sindaca che lo accusa di aver facilitato l’arrivo in paese degli immigrati. L’invasione, come dice lei. In effetti i vicini cantieri dell’Alta Velocità e dell’autostrada hanno attratto nelle case svuotate dal calo demografico i dipendenti delle ditte che ci lavoravano, fino a 300 residenti stranieri. È il flusso che ha provocato una vera e propria intossicazione delle coscienze.

“Questa era una zona rossa, Pci e Psi raggiungevano il 70% dei voti grazie agli operai pendolari e alle mondine”, ricorda il sangermanese Gianni Merigazzi, presidente del Museo Leone di Vercelli, “ma la sinistra è colpevole di aver trascurato un’opera educativa fra la sua gente”.

E la Chiesa? Come si riesce a praticare la missione evangelica senza isolarsi dai fedeli orientati in senso opposto? A don Stefano Bedello, appena guarito dal Covid, non manca la pazienza: “Purtroppo abbiamo dovuto agire un po’ sottotraccia, camminiamo sulle uova. Ha suscitato critiche perfino l’introduzione nel rosario, voluta da papa Francesco, del ‘conforto per i migranti’. La consuetudine contadina dell’immagazzinare in vista dei tempi grami può trasformarsi in culto di Mammona, l’ossessione che altri ricevano e tu no. Ma ora che anche gli italiani vengono a bussare alla Caritas, cosa dovremmo dirgli? Prima non eravate d’accordo, ora chiedete?”.

In effetti alla ventina di famiglie assistite finora dalla Caritas se ne stanno aggiungendo altre. Solo alcune hanno beneficiato dei pacchi “da sfigati” confezionati nel magazzino del Comune dalla sindaca e dai suoi complici, ignari delle microspie dei carabinieri. Michela Rosetta, la protagonista di questa storia di razzismo quotidiano, ha rassegnato le dimissioni. Sconta la custodia cautelare in una cascina a pochi passi dalla chiesa e dall’Osteria del Viandante (strano che non le abbia fatto cambiare nome). Nel primo interrogatorio, di fronte al sostituto Davide Pretti, si è avvalsa della facoltà di non rispondere.

A tutt’oggi la Lega non ha ancora provveduto a sospenderla, e in fondo possiamo capirli… Non ha fatto che applicare la linea e mantenere le promesse: da 300 che erano, gli immigrati a San Germano si son ridotti di quasi la metà. Se possono, scappano.