“La Regione disse: coi dati tutto ok”

Ad accorgersi che i dati dei malati Covid della Lombardia erano sbagliati è stata una giovane sindaca con la passione per i numeri: Caterina Molinari, 37 anni, di professione ingegnere, impiego all’Eni momentaneamente sospeso per fare la prima cittadina di Peschiera Borromeo, alle porte di Milano. Ha subito segnalato alla Regione l’errore. Invano.

Come ha fatto ad accorgersene?

Io verifico ogni giorno i numeri dei contagiati Covid, per poter intervenire subito con azioni di sostegno per i cittadini del mio Comune, 24 mila abitanti, con tanti contagiati dal Covid-19. In questi mesi abbiamo fatto migliaia d’interventi, aiuti agli anziani, consegne di spesa a domicilio, sostegno informativo al telefono, pasti e medicinali portati a casa.

Dove li verificava, i numeri dei contagiati?

Nei primi mesi, nel sito dell’Ats, l’azienda territoriale sanitaria, che era l’unico canale disponibile. Dal 12 ottobre 2020 è diventato disponibile il “cruscotto” della Regione Lombardia.

E poi che cosa è successo?

La svolta è avvenuta il 13 gennaio. Il giorno prima, secondo il sito della Regione i contagiati di Peschiera Borromeo erano 400. Il 13 diventano di colpo 1.200. A me piacciono i numeri: non ho fatto fatica a capire che sul portale restavano tra i malati anche i positivi che erano guariti, ma non avevano fatto il tampone finale da cui risultare negativi; continuavano dunque a comparire tra i positivi.

Un pasticcio che gonfiava i numeri degli infetti.

Sì, nel portale della Regione erano via via sommati insieme tutti quelli che erano stati positivi, senza sottrarre i guariti. I positivi risultavano essere il triplo dei positivi reali.

Che cosa ha fatto?

Ho segnalato subito l’errore alla Regione, alla Ats e alla Prefettura. Nessuno mi ha risposto. Poi noi sindaci abbiamo segnalato il problema e allora hanno cominciato a scriverne i giornali. Ma la Regione ha risposto che non c’era problema, perché non c’era correlazione tra i dati che avevamo noi sindaci e i dati che la Regione comunicava al governo.

Quelli che hanno fatto finire la Lombardia in zona rossa.

Sì. Ma invece la correlazione c’era eccome. La Regione comunicava a Roma un numero di positivi che era il triplo dei malati effettivi. Se ne devono essere accorti il 22 gennaio: quel giorno i positivi a Peschiera Borromeo erano 395, il giorno dopo, ripulito il data base, sono scesi a 82.

Anche a Peschiera Borromeo si voterà il nuovo sindaco, a maggio-giugno prossimo…

Non mi riguarda più. Io non mi ricandido. Torno a fare l’ingegnere, il mio lavoro mi piace molto.

Trucco Trentino “Così spariscono metà dei positivi”

“Il sistema funziona così: 1) cerco i positivi con i tamponi rapidi antigenici; 2) li lascio aspettare più di una settimana prima di chiamarli a fare il molecolare; 3) se risultano negativi, spariscono dalle statistiche; 4) se positivi non li metto nel conto della settimana corrente perché come data di diagnosi considero quella del tampone rapido e li classifico come ’arretrati’”. È il trucco attribuito alla Provincia di Trento dal professor Davide Bassi, fisico ed ex rettore della locale università. I contagi “arretrati” non rientrano nel monitoraggio settimanale che assegna i colori. Così il Trentino è giallo anche con le terapie intensive intasate (51%, il dato più alto d’Italia). “Nella settimana conclusa il 10 gennaio, su 1.471 ‘nuovi’ contagi, solo 624 si riferivano alla settimana considerata e ben 847 erano arretrati”, spiega Bassi. Fino al 17 Trento ha comunicato 1.433 casi giorno per giorno ma poi solo 710 all’Istituto superiore di sanità. Per altre Regioni la differenza è minore. Il presidente leghista Maurizio Fugatti e il suo staff non rispondono. “Non mi hanno smentito”, dice Bassi. Al ministero dicono: “Fatta verifica: non è così chiaro”.

Fontana nega l’evidenza: “Non abbiamo sbagliato”

I conti li fanno Confcommercio e Confesercenti: “Per tutta la regione, anche in considerazione del periodo di saldi, stimiamo circa 600 milioni di volume d’affari perso dai negozi”, spiega Gianni Rebecchi di Confesercenti Lombardia. Solo a Milano città si parla di duecento milioni. “E adesso, dopo undici mesi di sacrifici, arriviamo a scoprire che ci sono stati errori di calcolo. È necessario chiarire di chi sia la responsabilità. Questo danno chi lo paga?”, si chiede Rebecchi. Gli avvocati Francesco Borasi e Angelo Leone preparano le class action, sono già pronte tre associazioni e una ventina di commercianti. Anche il sindaco Pd di Varese, Davide Galimberti, minaccia: “Una class action per tutelare e risarcire aziende, commercianti, famiglie e studenti che hanno subito ulteriori danni da questa confusione tra zona rossa che invece doveva essere arancione”, scrive Galimberti, che è anche docente di diritto.

L’errore sui positivi sintomatici che non erano più sintomatici, che ha fatto salire la stima di Rt a 1.4 nella settimana 4-10 gennaio quando doveva essere di 0,88, può costare caro. Il rischio era comunque “alto”, quindi la Regione doveva essere arancione e non rossa: da oggi infatti, come da ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza, saranno arancioni. Ma il presidente Attilio Fontana, non molla.

Affiancato dalla nuova vice Letizia Moratti, che ha sostituito quel che rimaneva dell’assessore Giulio Gallera dopo gli strafalcioni da Rt ai vaccini ritardati “per ferie”, ieri ha caricato a testa bassa: “Il ministro Speranza pretendeva che dicessimo che c’era stato un errore nostro, ma non potevamo accettarlo per la dignità della Regione, per le nostre famiglie e le imprese. Non ammetterò mai che ci sia stato un errore nella comunicazione dei dati”, ha detto ieri un po’ alterato nell’ennesima conferenza stampa. Continua a prendersela con l’Istituto superiore di sanità, dice che “è molto probabile che anche il calcolo dell’Rt delle altre Regioni sia sbagliato. Non so e non mi interessa”. L’Iss gli ha risposto subito: “L’algoritmo è corretto e funziona in modo uguale per tutte le Regioni”. Fontana non rinuncia al ricorso al Tar, che però probabilmente decade da sé. Anche Speranza replica: “La Regione Lombardia, avendo trasmesso dati errati, ha successivamente rettificato. Senza l’ammissione di questo errore non sarebbe stato possibile riportare la Regione in zona arancione. Questa è la semplice verità. Il resto sono polemiche senza senso che non fanno bene a nessuno. Soprattutto a chi le fa”.

I numeri sono quelli che sono, anche se la Regione è stata molto attenta a non usare termini come “rettifica” e parla di “rivalorizzazione”. “Il 20 gennaio 2021, la Regione Lombardia ha inviato come di consueto l’aggiornamento. In tale aggiornamento si constata anche una rettifica dei dati relativi alla settimana 4-10 gennaio 2021”, scrive l’Iss. I casi con data di inizio sintomi sono passati da 419.362 a 414.487, quelli ancora sintomatici sono diminuiti da 185.292 a 167. 638, quelli dichiarati asintomatici oppure guariti o deceduti sono aumentati da 234.070 a 246.849. Così Rt è stato ricalcolato. È successo, pare, perché non sempre veniva riempito lo spazio dedicato all’indicazione del venir meno della condizione di sintomatici, quindi Rt era molto più basso. Numerosi sindaci confermano che il “cruscotto” regionale non funzionava. Francesco Sartini, primo cittadino di Vimercate, dal 14 gennaio aveva avvisato il Pirellone perché si ritrovava 9con 00 infetti ma in realtà erano 200. Ma Cabina di regia e Iss lavorano sui dati regionali e poi sottopongono le conclusioni alla Regione, che non ha obiettato nulla salvo poi mandare nuovi dati la settimana seguente. Fontana non ci sta: “Impugneremo i verbali di Iss, Cabina di Regia, ministero”.

Anche la Sardegna non ha preso bene la classificazione di rischio “alto” che l’ha portata da oggi, per la prima volta, in zona arancione. Ha le terapie intensive appena sopra la soglia del 30%, al 31%, ma da Cagliari sostengono che la Cabina di regia non avrebbe tenuto conto di 30 nuovi posti letto già operativi, che li farebbero scendere sotto la soglia: già ieri erano al 30. La classificazione di rischio “alto” però dipende anche dai focolai nelle residenze per anziani e da un “forte ritardo di notifica dei casi”. Ma la Cabina di regia lo scrive anche per altre Regioni, tutte comunque già arancioni (Lazio, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Val d’Aosta). Il presidente Christian Solinas attacca: “Speriamo in una rettifica, altrimenti tuteleremo le ragioni della Sardegna in altre sedi”.

“La variante inglese non è così letale, BoJo nasconde errori suoi”

“Che la variante inglese sia più letale del 30% non è scritto su nessuno studio”. Il professor Giorgio Palù, virologo e da un mese presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, spiega: “Lo ha sostenuto solo il primo ministro Boris Johnson senza base scientifica”.

Johnson avrebbe mentito?

Come politico vede l’opportunità di imputare all’evoluzione genetica del virus la causa della contingenza epidemica in Uk nascondendo eventuali responsabilità rispetto a scelte che non hanno funzionato; se la variante circola di più può contagiare un numero maggiore di persone e produrre un significativo incremento di patologie gravi, ma non significa che sia più virulenta o più letale di per sé.

Non la preoccupa?

Dagli studi a disposizione no. Un virus relativamente poco letale come SarsCov2 che diventa improvvisamente più virulento non si è mai visto, dovrebbe tendere a comportarsi come virus endogeno alla specie umana che è divenuta l’ospite naturale del virus. Due varianti rappresentano un’incognita, quella sudafricana e quella brasiliana: sembra che la capacità neutralizzante di alcuni sieri convalescenti nei confronti di queste varianti sia di circa dieci volte inferiore e che anche gli anticorpi di alcuni soggetti vaccinati diano una risposta minore: si teme, senza certezze, che possano sfuggire ai vaccini.

Serve una struttura più avanzata nello studio di sequenziamenti e varianti?

Sì, le mutazioni vanno studiate per monitorare l’evoluzione genetica del virus e la risposta immunitaria dei soggetti vaccinati e comprendere se le varianti insorte sfuggano o meno al controllo vaccinale. Dovremo presto attrezzarci anche in Italia, ci siamo accorti di quanto sia importante.

Quando finirà l’incubo?

Siamo alle prese con il primo coronavirus pandemico che per alcune caratteristiche biologiche non è ancora del tutto conosciuto, anche se nella storia tutte le pandemie di virus e batteri sono durate al massimo due anni. Oggi non c’è, però, luogo al mondo dove vivano popolazioni in isolamento e dove non possa arrivare un agente infettivo contagioso e questo cambia un po’ il quadro. Ma mai nella storia c’è stata una risposta della scienza tale: in soli dieci mesi è arrivata non a uno ma a diversi vaccini. In primavera comunque potremo fare una valutazione più precisa sul futuro.

I rallentamenti di Pfizer e Astrazeneca sono motivi di allarme?

Difficile arrivare all’obiettivo di 42 milioni di vaccinati entro l’autunno con i ritmi attuali, ma Pfizer ha sistemato due stabilimenti per ripartire con una produzione maggiore di quanto previsto sin dal 15 febbraio. Ritarda Astrazeneca ma l’Ema sta valutando già il russo Sputnik, poi sarà la volta di Sinovac dalla Cina. Seguiranno il tedesco CureVax e l’americano Johnson&Johnson.

L’idea di una sola dose?

Gli inglesi hanno fatto un ragionamento semplice: la protezione del 50% conferita da una sola dose di Pfeizer è stata valutata al decimo giorno postvaccinazione; la protezione valutata a maggior distanza di tempo dalla prima dose aumenta però a più del 70%. Non è il 95 ottenibile col richiamo ma è più del 60% dell’anti-influenzale. Non dico sia l’approccio da seguire, che è quello indicato dagli studi clinici approvativi e dagli enti regolatori, ma è un ragionamento da tenere in considerazione nel caso le dosi scarseggiassero ancora.

L’Italia a colori funziona?

Se ci guardiamo attorno in Europa mi pare stiano tutti peggio di noi, quindi la scelta delle zone sembra efficace. Un problema importante è quello del trasporto pubblico.

Una risposta al Covid-19 sono le cellule monoclonali. Anche su questo siamo in ritardo.

L’Aifa ha promosso un progetto di ricerca su monoclonali validati e disponibili. Sarà importante utilizzarli presto all’insorgere della malattia anche in combinazione tra loro in quanto offrono ottime prospettive di risposta clinica e virologica come conferma uno studio su Jama appena pubblicato. Il Covid è un’emergenza di sanità pubblica più che assistenziale. Si vince curando i malati il più possibile a casa, non passando dal pronto soccorso. Il ruolo dei medici di base deve essere potenziato sia dal punto di vista diagnostico che di linee guida di terapia continuamente aggiornate.

Bergamo, il Lodigiano e il boom di casi 2020. Isolate sette varianti

La variante inglese del Sars-Cov-2 fa paura, come paura fanno quelle spagnola, svizzera, croata, balcanica, sudafricana, brasiliana e statunitense. Non saranno le ultime (nel mondo, dall’inizio della pandemia, ne sono state individuate circa dodicimila) come non sono state le prime. In Italia, per esempio, abbiamo avuto la “lodigiana” e la “bergamasca”, se così ci è concesso chiamarle. Era ipotizzabile ma ora è ufficiale.

Uno studio dell’Università Statale di Milano, del Policlinico San Matteo di Pavia e dell’Ospedale Niguarda di Milano, pubblicato sulla rivista Nature Communication, ha identificato, sequenziando 346 genomi su tutto il territorio lombardo, ben 7 varianti del virus Sars-Cov-2 circolate in Lombardia tra febbraio e aprile 2020. Tre varianti su sette (alcune delle quali sviluppatesi esclusivamente sul territorio, altre importate dall’esterno e che nulla hanno a che vedere con le più recenti di cui in questi giorni si parla) hanno subito una amplificazione tale da consentire la presenza di importanti focolai locali di trasmissione, la cui origine risalirebbe ai primi giorni di febbraio.

Ciò indica quindi come il virus SarsCoV2 circolasse in modo silente in Lombardia già un mese prima del caso diagnosticato in provincia di Lodi. Queste tre varianti hanno poi subito un’amplificazione tale da determinare la nascita di grandi focolai, nello specifico uno preponderante nel sud della Lombardia nelle province di Lodi e Cremona, e uno nel nord della Regione, prevalentemente nella Bergamasca tra il capoluogo e i comuni di Alzano Lombardo e Nembro.

Un prezioso contributo scientifico che conferma – se ancora ce ne fosse bisogno – una cosa chiara da tempo anche per chi scienziato non è. Il Covid-19 si sta rivelando così difficile da debellare anche per questa sua tendenza a mutare, tipica dei virus a Rna e non a Dna (come l’herpes e o il morbillo). Provando a renderlo comprensibile, significa che il fenotipo della malattia, ogni volta che si replica, deve riprodurre una sola catena genetica, invece che due (come nel caso del Dna). Questo espone il meccanismo a una percentuale di errori molto più alta. Ecco perché esistono le varianti.

Significa che la malattia cambia? Per il momento non è ancora accaduto, né risulta che alcuna delle varianti finora individuate abbia modificato a fondo il virus. Esistono però degli anelli della catena che potremmo chiamare ininfluenti, altri che – invece – modificano il carattere del virus, per esempio rendendolo più contagioso. È il caso della variante inglese e – verosimilmente – di quelle lombarde individuate dallo studio in oggetto che hanno finito per prevalere sulle altre varianti.

Ecco perché – come sottolineano i ricercatori del San Matteo, della Statale e del Niguarda – è di fondamentale importanza attivare una sorveglianza epidemiologica continua dei genomi circolanti del territorio per individuare nell’immediato nuove mutazioni, frenandone la diffusione. In una parola, se viene trovata una variante più aggressiva, è necessario cercarla dappertutto. E dove la si trova (sempre in parole povere), precauzioni doppie.

E lo stesso discorso, ovviamente, vale per la vaccinazione. se il virus muta significativamente, è bene saperlo in fretta prima di trovarsi di fronte a un antidoto meno efficace.

Astrazeneca gela l’Italia: 4,6 mln di dosi in meno Conte: “Contratti violati”

I vertici di AstraZeneca, la big pharma inglese sulla quale Italia e Europa hanno puntato per le vaccinazioni, con 300 milioni di dosi e una opzione per ulteriori 100, ha confermato al ministro della Salute Roberto Speranza e al commissario all’emergenza Domenico Arcuri, il drastico ridimensionamento della capacità produttiva. Il che significa, per l’Italia, da 8 a 3,4 milioni di dosi: 4,6 in meno. Inaccettabile, per il premier Giuseppe Conte: “Ricorreremo a tutti gli strumenti e a tutte le iniziative legali, come già stiamo facendo con Pfizer-Biontech, per rivendicare il rispetto degli impegni contrattuali e per proteggere in ogni forma la nostra comunità nazionale”, ha scritto Conte su Facebook.

Il premier ha ricordato che il piano vaccinale è stato elaborato sulla base di impegni contrattuali sottoscritti dalle case farmaceutiche con la Commissione europea. “I rallentamenti costituiscono gravi violazioni contrattuali, che producono danni enormi all’Italia e agli altri Paesi europei, con ricadute dirette sulla vita e la salute dei cittadini e sul nostro tessuto economico-sociale, già fortemente provato da un anno di pandemia”. A molti non è però sfuggito che dietro la retromarcia di AstraZeneca più che problemi produttivi possano esserci interessi economici.

Pochi giorni prima di annunciare il ridimensionamento delle forniture, AstraZeneca ha infatti siglato un accordo con il Brasile per 5 euro a dose, più del doppio di quanto pattuito con la Commissione.

Di fronte alla situazione di stallo ieri sera i governatori, nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni, hanno chiesto ad Arcuri di mettere a punto prima possibile un cronoprogramma delle dosi che arriveranno nei prossimi giorni, confermando che per ora si proseguirà con i richiami. L’incontro ha riservato anche un aspro diverbio tra lo stesso Arcuri e il presidente della Campania Vincenzo De Luca, che ha protestato per la sperequazione nel piano di distribuzione: nei giorni scorsi De Luca aveva parlato di “mercato nero dei vaccini”, minacciando anche l’invalidazione del piano di distribuzione. Fino ad ora il totale delle persone vaccinate, che hanno cioè ricevuto la prima e la seconda dose, sono 61.882, per un totale di oltre 1,3 milioni di somministrazioni. Di queste, più di 863 mila hanno riguardato operatori sanitari e sociosanitari e 133.736 ospiti delle case di riposo. I richiami dovrebbero comunque essere garantiti, come ha precisato il presidente del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli, secondo il quale alla fine del mese “l’Italia dovrebbe avere a disposizione intorno a 2,5 milioni di dosi”, che servono a garantire sia le prime somministrazioni sia le seconde dosi.

Ma ieri si è aperto un altro fronte, riguarda le siringhe di precisione che servono per l’estrazione del vaccino. Questo dopo che in vari punti vaccinali, in alcune regioni (dalla Lombardia all’Emilia-Romagna) gli operatori hanno detto di non aver ricevuto forniture di siringhe in numero sufficiente. Accusa falsa, la replica di Arcuri: “In questa settimana si è provveduto a distribuire un numero inferiore di siringhe per la banale ragione che Pfizer ci ha inviato meno fiale di siero. Quando riprenderà la regolare distribuzione di vaccini non saranno certo le siringhe a mancare”. Come già noto il taglio alle forniture Pfizer proseguirà anche la prossima settimana, come annunciato dalla stessa casa farmaceutica Usa: in Italia arriverà il 20% per cento in meno di fiale.

Un problema sembra essere costituito dal fatto che, inizialmente, Pfizer considerava cinque dosi per ogni fiala. Ma prima l’Ema, l’agenzia del farmaco europea, poi l’Aifa (l’omologa italiana) e il ministero della Salute hanno invece dato il via libera, alla fine dello scorso dicembre, all’estrazione di sei dosi. Pfizer consegna vassoi con 195 fiali che, secondo i calcoli iniziali, dovevano contenere 975 dosi. Oggi invece di dosi, visto che se ne estraggono sei, ne calcola 1.170. Fatto che, se gli accordi con la Commissione europea si basano, appunto, sulle dosi e non sulle fiale, potrebbe rendere più difficile un’azione legale per inadempienze. E il problema potrebbe ripresentarsi con il secondo vaccino Usa, quello messo a punto da Moderna. “Ogni flaconcino con 6,3 ml di sostanza attiva – spiega Gabriele Gallone, medico e segretario organizzativo del sindacato Anaao-Assomed – contiene dieci dosi ma se ne possono estrare undici. E se un medico è bravo anche dodici”.

Vomito, ergo sum

A chi non si capacita che questo centrodestra, con tutto quel che ha fatto e ha detto, sia in cima a tutti i sondaggi, segnaliamo gli ultimi capolavori della cosiddetta informazione. La giunta Fontana&Moratti invia all’Iss dati sballati sui contagi in Lombardia, che finisce in zona rossa per una settimana, con danni stimati in 600milioni per le attività produttive. Roba da chiedere i danni e i ristori non al suo governo, ma agli incapaci del famoso “modello lombardo” targato Lega-FI-FdI. Titoli sui giornali di destra contro Fontana&Moratti? Zero. Repubblica parla affettuosamente di “pasticcio”, poi intervista la Moratti per un’intera pagina piena di balle. Titolo del Corriere: “La Lombardia torna arancione. Dati errati” (da chi?), “tensione esecutivo-Regione” (chi ha sbagliato? Boh). La Stampa è ancor più gentile: “Scontro fra Palazzo Chigi e Fontana”, “Fra Roma e Milano la guerra dei numeri” (giusti quelli di Roma, sbagliati quelli di Milano, ma fa niente). Insomma, pari e patta. Immaginate se l’errore l’avesse commesso la Raggi: edizioni straordinarie in formato 60 per 30. Come quando la Raggi fu indagata per abuso e falso: decine di prime pagine e titoloni cubitali. Ora il Fatto scopre che per abuso e falso è indagato Zingaretti. Ma non si deve sapere. Corriere: 7 righe a pag. 10. Repubblica: 9 righe a pag. 3. Messaggero: due colonnini in cronaca locale a pag. 40. Stampa: zero tituli. Del resto mica è un grillino.

Alla fine del 2019 nasce Italia Viva, fondata dallo Scilipoti di Rignano sull’Arno, che la riempie di 48 Razzi: tutti eletti nel Pd, nel M5S,in FI,nell’Udc. Trasformismo? No, si chiama riformismo. Ora che qualcuno è tentato di tornare nel Pd per rispetto a chi l’ha votato, è un voltagabbana (la camerata Polverini era riformista quando l’Innominabile la voleva in Iv: ora che vota il governo è di nuovo fascista e naturalmente trasformista). Stesso scippo, ma in miniatura, da Calenda: iscritto al Pd dopo Confindustria, Montezemolo e Monti, si fa eleggere eurodeputato a 16-19 mila euro al mese, poi esce per fondare Azione con un deputato e un senatore, entrambi voltagabbana: l’ex FI Costa e l’ex Pd Richetti. Ma neppure questo è trasformismo: è riformismo. In questi tre anni di legislatura il M5S ha perso 16 senatori e 47 deputati, fra espulsi per regole violate e fuoriusciti per dissensi vari: tutti avevano sottoscritto l’impegno a non cambiare mai gruppo e, nel caso, a versare una multa di 100 mila euro e a dimettersi da parlamentari, ma nessuno l’ha fatto; alcuni si sono fermati nel Misto, altri han traslocato in Lega, FdI, Pd, Iv, persino FI; e ovviamente si tengono tutti lo stipendio pieno, senza più obblighi di “restituzioni”.

Nessuno di loro viene bollato come voltagabbana, anzi il titolo fisso dei giornaloni è contro chi resta (“i 5Stelle perdono i pezzi”, “esodo biblico”, “fuga di massa”, “finiti”, “morti”): ora i trasformisti sono i Ciampolillo che votano con chi li ha portati in Parlamento. Da quando esistono i 5Stelle, i giornaloni ripetono che, per rimediare alle loro vittorie elettorali, il Pd deve allearsi con FI, cioè con B. Che, da pregiudicato pluriprescritto plurindagato plurimputato in conflitto d’interessi, diventa moderato, liberale, europeista, antipopulista e riformista (massì, abbondiamo). Infatti il Pd si allea con lui nei governi Monti e Letta e con pezzi di FI (tra i peggiori: Alfano e Verdini) nei governi R. e Gentiloni. Trasformismo? Macché, riformismo. Intanto una condanna prescritta in Cassazione dichiara B. corruttore di senatori: 10-20 righe, non di più, su tutti i giornali. Ora da FI si staccano la Polverini e l’ex badante Mariarosaria Rossi per votare la fiducia al governo, senza un euro in cambio. Apriti cielo: titoloni scandalizzati su tutti i media.
In tre anni di legislatura, 136 parlamentari hanno cambiato casacca per un totale di 150 casi (alcuni hanno voltato più gabbane), trovando ospitalità in tutti i partiti tranne i 5Stelle (che rifiutano l’adesione agli ex di altri partiti): avete mai letto qualche articolo indignato contro i partiti (tutti tranne uno) che premiano i trasformisti, anziché sbarrare loro le porte? Il trasformismo è un’ottima accusa da lanciare selettivamente contro il nemico di turno: cioè contro Conte, che difende il governo in piena pandemia dallo scilipotismo renziano appellandosi (per ora invano) ai 100 ex 5Stelle ed ex Pd perché rispettino la volontà dei loro elettori. Se anche in dieci ricordassero chi e perché li ha mandati al Senato, non sarebbero trasformisti, farebbero un raro atto di coerenza. E non servirebbe neppure un voltagabbana ex FI o ex Udc. Mercoledì Alfonso Bonafede, uno dei migliori ministri della Giustizia mai visti, spiegherà perché ha chiesto e ottenuto 2,75 miliardi anzichè gli iniziali 750 milioni di Recovery Plan per la giustizia: 16mila nuove assunzioni, processi più rapidi, digitalizzazione degli uffici, nuove carceri, ampliamento e ammodernamento di quelle esistenti in perfetta linea con le richieste dell’Ue. Dovrebbero votare tutti a favore, maggioranza e opposizione. Invece tutto il centrodestra, incluse Iv e Azione, voteranno contro per fargli pagare il blocco della prescrizione, peraltro promesso a suo tempo anche dal Pd e dall’Innominabile. Chi è stato eletto nel Pd sa benissimo che i suoi elettori voterebbero sì. Ma se qualcuno di Iv si azzarderà a essere coerente, passerà per voltagabbana. Vomitate, gente, vomitate.

Il Paese che Donald Trump ha appena lasciato alla voglia pacificatrice di Biden

Ora che i clamori si sono un po’ placati, la voglia di riunificazione e di pacificazione abita alla Casa Bianca, ora che i Democratici si sono presi sulle spalle il compito di guidare gli Stati Uniti, attraversare il Paese diviso che ha scelto Donald Trump e che lo ha amato, e presumibilmente lo ama ancora, ha il suo fascino. Il libro di Giovanna Pancheri, che ha vissuto dal 2016 negli Usa, corrispondente di Tg Sky24, è privo di un retroterra ideologico e si propone di accompagnare il lettore in un viaggio nell’America per come è davvero. Con l’incertezza dell’approssimazione, ovviamente, dovuta alla scelta degli interlocutori. Ma l’autrice sceglie di non dimenticare che quando Trump è stato eletto, un popolo, essenzialmente di maschi, bianchi e osannanti, ha rappresentato uno spaccato di gente delusa, esasperata dalla crisi del 2009, angosciata dalla disoccupazione e da un futuro totalmente diverso da come un americano medio avrebbe mai potuto immaginare. Come Maggie, contabile dell’Ohio, arrivata a Washington per ascoltare il discorso di insediamento: “Lo adoro, parla come noi, non ha bisogno dei soldi delle lobby perché ne ha già di suoi…” (già sentito in Italia). Oppure come Mike e Bob, di Beatyville, la “città bianca più povera d’America” dove Trump nel 2016 ha ottenuto l’80% dei voti: “Siamo minatori, ma qui il carbone non c’è più, abbiamo l’Obamacare altrimenti le cure non ce le saremmo potute permettere”. Ma Trump vuole cancellarlo: “Sì, sì, ma sono promesse da campagna elettorale (…) lui tiene a noi, non è un politico”. Imperdibile l’intervista al pastore Robb, capo del Ku Klux Klan, sostenitore dell’ex presidente o i racconti dalla frontiera con il Messico. Un viaggio fatto all’insegna del “fattore C”, il Coronavirus, che ha influito, forse in modo determinante, sulla parte finale di una storia che, anche a leggere queste pagine, non è ancora finita.

 

Lucho, “il ribelle” che leggeva romanzi d’amore

La biografia di Luis Sepúlveda sembra uno dei romanzi scritti da lui medesimo. A scorrere i suoi 70 anni di vita – cominciata a Ovalle in Cile nel 1949 e spezzata dal Covid nella primavera dello scorso anno – si rintracciano personaggi singolari e eventi rocamboleschi. Bruno Arpaia, nel suo commosso omaggio Luis Sepúlveda. Il ribelle, il sognatore, in libreria per Guanda da giovedì, scrive: “Riusciva a comprimere con efficacia in poche pagine interi universi, storie di personaggi perseguitati dai loro stessi fantasmi e ai quali il destino o il caso impedivano di raggiungere ciò che desideravano, procedendo di sconfitta in sconfitta fino alla vittoria finale”.

Vale anche per la parabola dello stesso scrittore sudamericano. Formatosi grazie ai nonni su Salgari, Verne e Cervantes, traduce la sua precocissima coscienza civile diventando a 15 anni segretario della sezione Gramsci della Gioventù comunista. Si ritrova più adulto, dopo un’espulsione da Mosca e un’esperienza di miliziano in Bolivia, nella guardia personale di Salvador Allende. Dopo il golpe di Pinochet nel 1973 patisce un calvario di persecuzioni: “Chi come noi ha sofferto una dittatura, ha perdute persone care e compagni, è rimasto senza Paese, ha conosciuto le carceri e le torture ed è sopravvissuto, in virtù della sua etica e morale, ha presto dimenticato la vendetta, sostituita con un ardente desiderio di giustizia”.

Una volta lontano dalla patria, eccolo partecipare a una spedizione nella selva amazzonica e vivere alcuni mesi con gli indios shuar, improvvisarsi corrispondente di Der Spiegel in Africa, abbracciare la causa di Greenpeace ostacolando le baleniere nei mari tra la Patagonia e la Terra del Fuoco (immancabile tra i libri di viaggio il suo Patagonia Express, che si apre con un incontro con Bruce Chatwin). Tante formidabili passioni sublimate nella scrittura, certamente la sua avventura più esaltante. “La poesia era il fiume sotterraneo che alimentava tutta la sua narrativa” spiega Arpaia, “che ne dettava il ritmo e lo guidava nella parsimoniosa scelta delle parole. Solo un uomo imbevuto di poesia fino al midollo avrebbe potuto dire a Mario Delgado Aparain, come accadde una sera: ‘Domani ci alziamo presto e andiamo a passeggiare per Madrid ad ascoltare il canto dei semafori’”. Dall’esordio Il vecchio che leggeva romanzi d’amore (romanzo dal sapore hemingwayano con la caccia nella foresta pluviale del vecchio Bolivar a una tigre) al successo da un milione di copie di Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (generazioni di bambini sono cresciuti imparando che “vola solo chi osa farlo”), passando per i noir Un nome da torero (nella Berlino post Guerra fredda) e Diario di un killer sentimentale, Sepúlveda ha creduto strenuamente nel suo mantra: “La letteratura è importante perché fa esistere la realtà. La letteratura è un tentativo di comprensione”. Del resto, come svela ancora Arpaia: “Scriveva a mano sulle sue Moleskine, poi passava il tutto al computer, stampava, riscriveva e ristampava e poi leggeva ad alta voce e registrava ciò che aveva scritto. L’ultima revisione la faceva riascoltando il testo”.

Lucho, così chiamato dagli amici, è diventato in Italia a tal punto popolare da guadagnarsi l’amicizia di Vittorio Gassman che incontrava a Roma davanti a un caffè da Rosati e di Tonino Guerra con il quale scrisse Terra del Fuoco, film del 1999. Teo Teocoli lo volle come attore, nei panni di un barbone, nel suo Bibo per sempre del 2000. Con la sua “immagine umbratile che non sembrava quadrare con quella degli espansivi e chiassosi scrittori latinoamericani”, Sepúlveda incise persino un pezzo rap con i Modena City Ramblers. Uno scrittore popolare capace di parlare a lettori di tutte le età perché ancorato a una dimensione valoriale, persuaso com’era che “la letteratura propone una bugia innocente per rispondere alla grande truffa dell’interpretazione della verità che ci offre il potere. La letteratura si basa sulla finzione, sulla menzogna: è un mondo che non esiste, fatto di personaggi inventati perfino quando si riferiscono a persone reali. Eppure è una menzogna che arricchisce, che apre grandi varchi di verità”.

Matti da legare, proprio come noi

“Riunire frammenti spezzati tra loro, mettere insieme mente e corpo, riunificare la persona, come un gesso rinsalda le ossa”. Contenere fisicamente non per privare della libertà ma perché non farlo potrebbe significare lasciare in frantumi chi ha urgenza di essere ricondotto alla percezione di sé. Quando quel qualcuno è un paziente psichiatrico acuto contenere aiuta a tornare unità. Puntare sulla gentilezza o sul convincimento infinito a parole, può rivelarsi, paradossalmente, errore.

L’arte di legare le persone – folgorante esordio dello psichiatra 66enne Paolo Milone, dall’88 al 2016 impegnato in un reparto di psichiatria d’urgenza genovese e prima in un centro di Salute mentale – è “inconoscibile” ma è stata, per lui, passaggio sovente obbligato per rendere poi possibile l’empatia terapeutica dell’ascolto. Con una scrittura che ha il passo della poesia, la stoffa del coraggio e l’intensità del mettersi a nudo, Milone ci porta per mano nel suo reparto, tra urla perforanti e silenzi assordanti, scalpiccii notturni, sedie spostate, la macchinetta del caffè che gorgoglia nella stanza infermieri, fruscio di lenzuola. “Io sono una specie di pompiere”, così si descrive al figlio di un amico, “comincio a lavorare quando qualcuno sta tanto male che non ricorda come si chiama… Questa gente perduta, come in un incendio o in alto mare, io la vado a prendere”.

Pagina dopo pagina apre porte e finestre sulle vite di pazienti, colleghi e conoscenti e anche sulla sua intimità e la consapevolezza di quanto sia sottile la linea invisibile che separa i sani dai malati, a ben vedere solo “un tiro di dadi riuscito bene”, si fa presto strada. Si corre poi nel cuore di una Genova perturbante, tutta scorciatoie, carruggi, edifici stretti e alti, faccia a faccia coi delicati interventi di Tso e si rincasa nella stanza del glicine, affacciata su un ampio cortile, tana in cui i tormenti di infiniti pazienti si fanno verbo e si (con)fondono coi suoi. È lì che la parola ricava il suo spazio e diventa cura, se il terreno è fertile. “Conserva la parola per quando la terra è umida, la stagione propizia e i corvi lontani” consiglia a una psicologa tirocinante.

Questa è un’opera intrisa di follia e la follia spaventa. Eppure è ovunque, anche se si nasconde bene e pure se tendiamo a credere non sia mai dove noi siamo. La follia, diceva Basaglia, non è esperienza radicalmente estranea alla condizione umana, ma ne fa parte e una società civile dovrebbe essere capace di accettare ambedue. Per fare buona psichiatra conta non abbandonare il paziente, accettarlo come persona, oltre la malattia che lo abita. Milone non ne ha abbandonato nessuno, mai. Ne ha contenuti molti, sì, solo quando cuore e ragione non sarebbero bastati per riunire i frammenti. Senza mai smettere di dubitare, anche di se stesso, conscio della propria fallibilità, Milone riesce in qualcosa di ormai raro: meravigliare. La descrizione che intesse dell’“abisso che ha visto con gli occhi degli altri” suscita stupore, dolore, empatia e strappa anche qualche sorriso dolceamaro. Se ne esce col cuore felicemente crepato perché ogni istantanea è struggente umanità e salvifica lucidità, pugno e carezza, ferita e sutura, vita e morte insieme.