Il commissario Melis entra nei fatidici anni Novanta: a Milano si uccide ogni 3 giorni

La Milano da bere finalmente è rimasta a secco e la capitale morale del Paese si trova – a sua insaputa ancora – alla vigilia della stagione di Mani Pulite, salvifica e crudele allo stesso tempo. Il commissario Norberto Melis è ormai primo dirigente della questura e le fatidiche indagini sul campo è costretto a lasciarle ai suoi collaboratori. E così al commissario Michele Iurilli, tormentato dai problemi di testa della consorte, càpita un curioso omicidio: un anziano ritrovato morto per strada, ucciso da una sorta di veleno etilico. L’uomo ha precedenti per truffa e si è dato all’ippica, accanito studioso di scommesse. Poi a perire, una dopo l’altra, sono due vecchiette solinghe, tolte di mezzo con letali punture al collo. In casa, i poliziotti, trovano alcuni milioni di lire in barattoli vari. Gli omicidi sono collegati tra di loro?

Con Nella luce di un’alba più fredda, Hans Tuzzi, scrittore tra i prediletti di questa rubrica, fa raggiungere all’amato Melis – amato da lui e amato da noi – i fatidici anni Novanta, quelli che segneranno il congedo del commissario, come annunciato tempo fa dall’autore. Non a caso il romanzo è attraversato da una grave nostalgia, in cui finanche il proverbiale understatement, colto e affilato, di Tuzzi cede più alla rassegnazione che a un sano snobismo, vero distanziamento mentale dall’ottusità di massa. Ché Melis entra nei Novanta e intuisce, insieme con Fiorenza, la donna con cui vive, la deriva barbarica dell’Italia, quella che porterà Berlusconi & Bossi e il gestionismo andreottiano dei post-comunisti. Meglio allora ristabilire un equilibrio personale, comunque in bilico tra i ricordi e le trasformazioni degli anni, trovando i colpevoli di turno della normalità del male, con la minuscola. Del resto, a Milano, nel 1990 si uccide à gogo e gli omicidi sono più di cento. È un Melis crepuscolare, a dispetto del titolo, animato da una grazia dolente.

 

“Night Stalker”, quattro episodi per ricostruire la follia di Ramirez

Il prodotto più visto in America su Netflix è una miniserie in quattro episodi, dal titolo inequivocabile: Night Stalker: The Hunt for a Serial Killer. Il mostro che insanguinò Los Angeles nella torrida estate del 1985, all’anagrafe Richard Ramirez, un ruolino di 13 omicidi e undici violenze sessuali notevole anche per la città della Dalia Nera, della Famiglia Manson e degli Strangolatori di Hillside.

In realtà, più che sul carnefice e le vittime, la docuserie true crime diretta da Tiller Russell si concentra sui suoi eterogenei cacciatori, segnatamente il neofita ma determinato Gil Carrillo e il maturo e riverito Frank Salerno, già laureatosi sul caso dell’Hillside Strangler, cui tocca ridimensionare la figuraccia del LAPD. Insieme collegarono i puntini fino a desumerne un identikit – giubbotto nero con la scritta Members Only, cappellino degli AC/DC, denti marci e “puzzo di capra” – che non si sarebbe detto: come ascrivere a un soggetto univoco un modus operandi che più ondivago e promiscuo – bersagli dai sei agli ottantatré anni, maschi e femmine, bianchi, ispanici e asiatici, residenti in differenti zone, alcuni uccisi, altri risparmiati – non si potrebbe? C’era un metodo, dunque, una sola mano in questa mancanza di metodo? Carrillo e Salerno confidarono, e malgrado una lunga teoria di errori Ramirez venne infine assicurato alla giustizia: è morto di cancro, in prigione, nel 2013. Ma la sua ombra, almeno in Night Stalker, rimane: condensata nei verbatim in verde fluo che tagliano lo schermo, quali “Satana era la forza che stabilizzava la mia vita”; stampigliata sui bagliori post-olimpici della Città degli Angeli; imbrattata di sangue sui luoghi del delitto, restituiti senza filtro. Non è elegante – basti pensare al martello grondante plasma fatto rimbalzare sul pavimento – il lavoro di Russell, e di certo indulge al voyeurismo, ma era forse elegante il suo serial killer?

 

Beforeigners, i migranti arrivano dal passato

I migranti non arrivano sui barconi, ma emergono dal fondo del mare avvolti da un fascio di luce. Succede a Oslo e in altri luoghi sparsi in tutto il pianeta. Vengono battezzati beforeigners, letteralmente “stranieri del prima”. Sono migranti del tempo: uomini e donne provenienti dall’Età della pietra, dal Medioevo vichingo e dall’Ottocento. Non si sa come abbiano fatto a viaggiare nel presente, ma di certo non possono tornare indietro. Che fare con loro? A due decenni dai primi arrivi l’integrazione si è dimostrata una via percorribile solo con i beforeigners ottocenteschi, che sono riusciti a riciclarsi come giornalisti, impiegati o insegnanti. Gli uomini preistorici che non sono scappati nelle foreste, dove cacciano vestiti solo di pelli, sono diventati homeless, mentre i vichinghi hanno piantato le loro tende nel centro della Capitale.

Parte da qui Beforeigners, la prima serie tv norvegese targata Hbo Europe da qualche giorno disponibile anche in Italia su RaiPlay. Si tratta di un fanta-poliziesco. Il protagonista è Lars, detective sulla quarantina allo sbando, con una figlia adolescente, un matrimonio fallito alle spalle (la moglie l’ha lasciato per un poeta neo-vittoriano) e una dipendenza dal Temproxat, la droga somministrata ai migranti temporali per facilitare il loro inserimento nella società contemporanea. Lars si trova a indagare sul caso di una beforeigner trovata morta sulla spiaggia e viene accoppiato a Alfhildr, ex guerriera vichinga che nel presente è diventata la prima poliziotta con un background multi-temporale. Le indagini porteranno a galla un giro di sfruttamento della prostituzione che coinvolge migranti dal passato, norvegesi di oggi e membri della comunità trans-temporale; ma l’impressione è che questa sia solo la punta dell’iceberg.

Arrivati a questo punto qualcuno avrà già collocato Beforeigners nella categoria “boiata pazzesca”. Tutto il contrario! Pur nella sua originalità, la serie riesce a creare a un mondo credibile e sorprendentemente somigliante alla realtà che viviamo. I migranti temporali, che parlano un’altra lingua, hanno usi e costumi diversi, faticano a integrarsi in una società differente da quella di provenienza non sono poi tanto distanti dai migranti che popolano le nostre città. E ricevono lo stesso trattamento. Le discriminazioni tempiste (guai a chiamare i vichinghi con la V-word: la definizione politically correct è antichi norvegesi) hanno preso il posto di quelle razziste; mentre lo slogan “la Norvegia alle persone del presente” fa sorridere proprio perché scimmiotta le parole d’ordine dei sovranisti.

Chi ha letto Exit West, il romanzo di Mohsin Hamid in cui le persone viaggiano attraverso porte magiche che le catapultano dalla parte opposta del pianeta, sa che la fantascienza può diventare uno strumento utilissimo per raccontare la realtà. A patto di saperla dosare con equilibrio come fanno Anne Bjørnstad and Eilif Skodvin, già conosciuti al grande pubblico per la serie Lilyhammer. In Beforeigners il tema dell’immigrazione è centrale, ma trattato con ironia e mai troppo enfatizzato perché si tratta pur sempre di un poliziesco. Per far riflettere lo spettatore non servono troppe parole: bastano le immagini. E se un leggendario condottiero vichingo nel nostro mondo finisce per lavorare come rider, beh, qualche domanda tocca farsela.

Tra le fonti di ispirazione Bjørnstad ha citato i classici della fantascienza (Brave New World, 1984) insieme a film più recenti (District 9, True Love). “Ma per quanto riguarda la costruzione della storia il riferimento è stato The Leftovers” ha spiegato la co-creatrice di Beforeigners. Hbo ha già confermato che ai primi sei episodi, usciti in Norvegia nel 2019, farà seguito una seconda stagione. Considerata la forza dell’idea su cui è costruita la serie e la sua efficacia nel raccontare il mondo contemporaneo, non ci stupiremmo se a qualcuno venisse in mente di dar vita a un adattamento italiano: proprio com’è successo con Skam, un altro titolo norvegese che ha fatto il giro del mondo.

 

Per Verdone un libro, una serie e un nuovo script

Carlo Verdone ha iniziato a sceneggiare con Giovanni Veronesi, Michele Plastino, Ciro Zecca e Luca Mastrogiovanni una nuova commedia per la Filmauro in attesa dell’uscita a metà febbraio del suo nuovo libro La carezza della memoria per Bompiani e delle riprese della serie autobiografica per Amazon Prime Vita da Carlo.

Alessandra Mastronardi ha recitato tra Dubrovnik e Budapest in The Unbearable Weight of Massive Talent, una commedia d’azione con Nicholas Cage che rifà il verso a se stesso mostrandosi in scena così bisognoso di lavoro da accettare un milione di dollari per apparire alla festa di compleanno di un suo fan miliardario che è anche un boss del crimine.

Michele Riondino e Hadas Yaron saranno i protagonisti de I nostri fantasmi, una storia d’amore con tinte horror di Alessandro Capitani con Alessandro Haber e Tommaso Ragno nel cast. Riondino intanto gira con Lucrezia Guidone tra Milano, Roma e Rimini Fedeltà, una serie di Andrea Molaioli e Stefano Cipani prodotta da Bibi Film per Netflix tratta dal romanzo omonimo di Marco Missiroli dove una giovane coppia è alle prese con le conseguenze deflagranti di un presunto tradimento.

Edoardo De Angelis ha sceneggiato con Sandro Veronesi Il comandante, il suo nuovo film prodotto da O’Groove, Indigo e Manny Films che racconterà la vera storia di Salvatore Todaro che durante la Seconda guerra mondiale mentre perlustra l’Atlantico in cerca del nemico alla guida del sommergibile Cappellini si imbatte in un mercantile armato belga che naviga a luci spente e trasporta aerei inglesi. Scoppierà una battaglia in cui Todaro perderà un uomo valoroso, affonderà il mercantile senza pietà e navigando in emersione salverà i 26 naufraghi.

Malcolm & Marie, “Guerra e pace” è dentro casa

Due cuori e una capanna, con la notte fuori e il tormento dentro. Di questo, in fondo, sopravvivono le coppie, ebbre di egotismo, mine vaganti caricate a nevrosi, sabotatrici tossiche della gioia altrui a colpi di parole che neppure comprendono.

Entrare nella villa di Malcolm & Marie fa questo effetto: la loro è una qualunque storia d’amore, ovvero una guerra e pace in miniatura, concentrata nella notte che segue il trionfo di lui, astro nascente della regia, osannato alla prémière del suo primo film.

A raccontarla è Sam Levinson, già figlio di Barry (premio Oscar per Rain Man) e celebrato autore della serie cult Euphoria, in un Kammerspiel formato melò dal 5 febbraio su Netflix.

Pesante di maestri che su questo genere hanno fatto la Storia del cinema, il chiaro modello è Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols, di cui Malcolm & Marie sembra un calco (od omaggio?) aggiornato, giustificato anche da radicali scelte formali: l’uso del 35mm e del bianco & nero. Ma se “bianchi” erano gli indimenticabili Liz Taylor & Richard Burton i cui litigi amorosi del 1966 confondevano realtà e finzione illuminati dal talento di Haskell Wexler, “neri” sono invece John David Washington & Zendaya, intensi quanto basta a proiettarci nel loro bestiario di ossessioni, così universali che (finalmente) sbeffeggiano la retorica della “questione razziale”, prendendo esplicite distanze dal politically correct.

Levinson ha scritto e diretto il film durante il lockdown per Covid-19, facendo della clausura forzata il naturale serbatoio metaforico del rimosso, un casalingo tour de force alle origini del vocabolario patemico. Ma chiaramente non si è accontentato: da cinéfile nato e cresciuto con Hollywood regolarmente ospite in famiglia, ha condito la litigiosa notte degli amanti di rimpalli ambivalenti, laddove la terminologia rimanda ai conflitti fondativi del fare e guardare il cinema: realtà vs rappresentazione, originalità vs derivazione, interpretazione vs imitazione, fino alla stessa parola proiezione, riempita del suo doppio senso.

E questo perché il film del personaggio Malcolm è ispirato all’esistenza di Marie, ex tossica che il di lui amore ha contribuito al presunto rehab. Peraltro Levinson ha affidato il ruolo di Marie alla “sua” Zendaya, la tormentata Rue di Euphoria di cui questo melò sembra un reboot in versione vintage. Dunque un dramma sulla dipendenza a più livelli, anche autobiografici, fatto di corsi e ricorsi estenuanti, denso di cliché volutamente “stravolti”, una meta-provocazione alla critica cinematografica “white” pronunciata da un regista black che però si esprime come un bianco, perché in fondo “nulla vende meglio del disprezzo”.

Sam Levinson non taglia le parti noiose della vita dal cinema come Hitchcock voleva, ma anzi ne fa la droga del suo racconto, trattenendo con sostanza registica questa coppia di vampiri narcisi e masochisti a cui basta un “grazie” perché la notte diventi buona.

Non c’è più commedia. Sorridere non è conveniente

“Io non vorrei mai passare il resto della mia vita a Casablanca, sposata a uno che gestisce un bar. Ti sembrerò una snob ma è così”. La battuta, ricorderete, la dice Meg Ryan a Billy Crystal: loro hanno appena visto il classico con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, noi stiamo vedendo Harry, ti presento Sally…

Quando uscì, il 21 luglio 1989 negli States, il critico di Rolling Stone Peter Travers scrisse che “lascia sulla tua faccia un sorriso che dura fino a quando arrivi a casa”. Oggi quel sorriso di moto a luogo non c’è più, ché i film li vediamo a casa, e di film come Harry ti presento Sally non se ne fanno più: la commedia l’è morta. Ridotta a materiale, homevideo o piattaforma poco importa, d’archivio; espunta, o quasi, dalla corrente serialità; sospinta nel dimenticatoio o, i casi meritevoli, relegata a bel ricordo: perché?

Gli apocalittici tagliano corto, “non sappiamo più scriverle, dirigerle e interpretarle”, i moderati pensano lo stesso ma non lo dicono, il sospetto è del John Hurt di The Elephant Man: “La gente ha paura di quel che non riesce a capire”. O seguire: che il binge watching e i suoi derivati non abbiano elevato l’alfabetizzazione audiovisiva è evidente, che SanPa, per citare un successo mediatico, o La regina degli scacchi, per citare un successo, non siano commedie altrettanto. Lo è forse Bridgerton, di cui è stata appena annunciata la seconda stagione?

Al netto delle licenze storiche, e della non estraneità al genere della produttrice Shonda Rhimes, period drama si attaglia meglio. È dunque una carenza dell’offerta correlata all’inappetenza della domanda? Strano, non si richiederebbe al cinema e i suoi fratelli di restituire il sorriso spento dalla pandemia, e chi meglio della commedia? Invece no, il fattuale, dalle docuserie ai drammi (fanta)storici impera, e tutto il resto è crime, con una sovrapposizione a vocazione maggioritaria: il true crime. Sangue in guisa di sorrisi, nomi e cognomi al posto di invenzione: dalle vittime dei serial killer ai cari estinti della Storia, par di capire, i trapassati offrono maggior consolazione di un romance vivo e vegeto, Crimini e misfatti – per citare un campione caduto in disgrazia: il penultimo Un giorno di pioggia a New York funestato dal #MeToo, l’ultimo Rifkin’s Festival giubilato dal Covid – non sono più titolo (1989 anche questo), ma contenuto.

Povero Woody Allen, e poveri noi: da quanto non vedete, pensateci, una commedia, per tacere di una bella commedia o – chiediamo la luna – una bella commedia italiana? Invero, noi abbiamo un’aggravante, perché da Trieste in giù la ribattezzammo all’italiana con soddisfazione planetaria. Con cinque mostri, sacri, davanti alla macchina da presa, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi, Nino Manfredi e, anche, Marcello Mastroianni, e un tot di geni dietro, da Monicelli a Germi, da Risi a Sonego, ci concedemmo una seduta di analisi collettiva: vizi privati e pubbliche turpitudini, si diceva il peccato a patto di ridere con, o del, peccatore. Parlare oggi di commedia all’italiana è appannaggio di promozione stampa, regressione critica o mitomania autoriale, eppure, proprio lì, nell’ancoraggio sociale a voltaggio satirico, sta la ragione della sua estinzione – conclamata dalle recenti deludenti prove dei residui epigoni, da Paolo Virzì e Francesca Archibugi a Gabriele Salvatores. Ci perdonino Harry e Sally, dunque, se ci facciamo gli affari nostri, cambiando la nazionalità degli addendi i conti potrebbero ugualmente tornare. Non è che la commedia all’italiana non si fa più perché in un consesso senza ascensore e nemmeno tapis roulant sociale latita un necessario ingrediente, ossia l’integrazione dell’eroe – o la sua speculare esclusione – prescritta già da Plauto? Non è che la commedia tout court non si fa più perché in una società che ha bandito l’attrazione degli opposti e la sintesi dei contrari il fondativo boy meets girl, per tacere del gioco dei sessi, lungi dall’essere romantico è impraticabile, se non sanzionabile?

Il trattamento iconoclasta recentemente invocato nel Regno Unito per Grease è una prova a favore, di certo più di altri generi la commedia misura la temperatura alla democrazia. Siamo stati travolti, però non da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto, ché Lina Wertmüller oggi probabilmente non lavorerebbe, mentre nel 1974 apostrofava Mariangela Melato, via Giancarlo Giannini, “brutta bottana industriale socialdemocratica!”, e tre anni più tardi, con Pasqualino Settebellezze, diventava la prima donna candidata all’Oscar per la regia.

Altri tempi, altre libertà: non si uccidono così anche le commedie? L’ultimo a essersi cimentato con qualche merito, il Pietro Castellitto de I predatori, ci ha consegnato una deflagrante verità: “Io ho la profonda necessità di una bomba…”. Dategli torto.

 

Estradizione, su Puigdemont. Bruxelles non cede a Madrid

Il Parlamento europeo ha votato la relazione per la modifica del mandato d’arresto europeo. Tra i reati che prevedono la consegna immediata viene inserito quello contro l’integrità della Costituzione, come voleva Madrid, ma solo se commesso con l’uso della violenza.

Non dovranno essere consegnati automaticamente all’eventuale emissione del mandato d’arresto europeo da parte della Spagna i leader indipendentisti catalani in esilio accusati di sedizione per il referendum indipendentista del 1° ottobre 2017. A meno di un mese dalle elezioni regionali del 14 febbraio, dapprima rimandate per la pandemia e poi riconfermate dal tribunale costituzionale, Charles Puigdemont, tra l’altro candidato per Junts Per Catalunya, Toni Comín y Clara Ponsatí possono stare tranquilli. Il Parlamento europeo, infatti, non ha accettato di inserire nella relazione di modifica del mandato d’arresto europeo del 2004, tra i reati per cui vale la consegna immediata anche quello contro l’integrità costituzionale se non in presenza di atti violenti. “Abbiamo italianizzato il testo – spiega da Bruxelles il relatore, l’europarlamentare Franco Roberti –. Il motivo è che il reato di sedizione, valido in Spagna, non esiste quasi in nessun Paese europeo, quindi era necessario omologare i reati. Così ho proposto di inserire la dicitura del nostro codice penale che punisce reati commessi contro l’integrità della Costituzione, ma solo attraverso l’uso della violenza”. A spingere per l’introduzione della sedizione era stato l’eurodeputato spagnolo del Partito Popolare, Javier Zarzalejos, intestatario del dossier che se l’era accaparrato proprio in vista della possibile estradizione dei catalani. “È stata una trattativa costruttiva”, racconta Roberti, che spiega come “la relazione che verrà consegnata alla Commissione come suggerimento di modifica del Mae”, abbia ampliato la lista dei 32 reati per l’arresto europeo tra cui ora “compaiono anche il furto d’identità, reati fiscali e la violenza di genere, ad esempio. Inoltre – continua Roberti – si è specificato che l’arresto può essere negato se il Paese richiedente non garantisce il rispetto dei diritti fondamentali in carcere né quelli procedurali per indagati e imputati”.

Impeachment, fuoco incrociato contro Trump

Arriveranno lunedì in Senato e non a metà febbraio come auspicato dall’ex capogruppo repubblicano, McConnell, gli articoli di impeachment contro l’ex presidente Donald Trump, già approvati dalla Camera di Nancy Pelosi. A niente dunque è servito lo sforzo dei Repubblicani fedeli per dare più tempo al tycoon di preparare le memorie difensive. A remare contro, stando alle fonti sentite dalla Cnn, sarebbero state dozzine di influenti Repubblicani, inclusi ex alti funzionari dell’Amministrazione Trump, che avrebbero fatto pressioni silenziose sui colleghi in aula. Non si tratterebbe di uno sforzo coordinato, ma rifletterebbe una battaglia più ampia all’interno del Gop tra coloro che sono fedeli a Trump e coloro che vogliono recidere i legami con lui e assicurarsi che non possa più candidarsi alla presidenza. “Il processo nell’aula del Senato sarà regolare ed equo”, dice il leader della maggioranza democratica, Chuck Schumer.

Il ‘no’ a McConnell rischia, però, di compromettere il clima di collaborazione creatosi in Senato nelle prime battute della nuova legislatura: già confermata la nomina, a rischio, del Segretario alla Difesa, il generale Lloyd Austin, e ben avviate quelle del Segretario di Stato Anthony Blinken e del Segretario al Tesoro Janet Yellen. La speaker della Camera, Nancy Pelosi, non si sbilancia sui tempi del processo a Trump, ma assicura che si farà “presto”. Resta per il momento defilato Biden, che ha un buon rapporto con McConnell e che preferirebbe che l’impeachment non facesse velo alle sue priorità, la lotta alla pandemia, il rilancio dell’economia e la ‘riunificazione’ degli americani. Intanto, in Florida, Trump, molto discreto ai suoi esordi da presidente pensionato, pensa a farsi ben difendere nel processo d’impeachment: la prima scelta è Butch Bowers, un avvocato repubblicano della South Carolina, con esperienza in leggi elettorali, che ha servito sotto il presidente George W. Bush e lavorato come consigliere in Florida per John McCain alle Presidenziali del 2008. La scelta di Bowers arriva dopo che Trump ha deciso, scrive Politico, di non creare una war room legale e mediatica. Pare che il magnate fatichi a trovare chi lo difenda dopo che gli avvocati dell’impeachment di un anno fa si sono defilati. Rudy Giuliani, che è stato l’avvocato di Trump in tutte le cause – tutte perse – sui brogli elettorali, sarà testimone. E Alan Dershowitz, una delle star del foro negli Usa, avrebbe detto di “non vedere un ruolo come avvocato” nel processo. È anche vero che l’immagine di Dershowitz è uscita offuscata dai suoi legami con il finanziere pedofilo Jeffrey Epstein, morto suicida in carcere. Al Congresso, però, c’è chi è pronto a contrattaccare, nel nome di Trump. La deputata democratica della Georgia, Marjorie Taylor Greene, negazionista e seguace di QAnon, ha depositato i capi d’imputazione per mettere sotto impeachment Biden, accusato di abuso di potere quando era il vice di Barack Obama, per consentire al figlio Hunter d’avere un posto ben retribuito nel cda di una società energetica ucraina, la Burisma: storia già sviscerata in campagna elettorale. La Taylor Greene sostiene che Biden non può fare il presidente perché pronto a tutto pur di favorire il figlio. Ma è per Trump che il processo è cruciale, non solo per la ricandidatura, ma per l’effetto boomerang sul suo impero finanziario.

Algeria, niente scuse dai francesi

Lo storico francese Benjamin Stora ha consegnato a Emmanuel Macron il suo rapporto per una “riconciliazione” tra Parigi e Algeri sulla Guerra d’Algeria. Un volume denso di 150 pagine (che sarà pubblicato sotto forma di saggio dall’editore Albin Michel) in cui il noto specialista del Colonialismo, nato a Costantina, in Algeria, analizza il conflitto che oppose l’esercito francese e il Fronte di liberazione algerino tra il 1954 e il 1962, ma anche i sessant’anni di dibattiti e divisioni che ne sono seguiti. Un tema che a distanza di tanto tempo resta ancora scottante.

Il rapporto era stato commissionato l’estate scorsa dallo stesso Macron, nato anni dopo la Dichiarazione d’indipendenza dell’Algeria del ’62, proprio per “guardare la storia in faccia” e mettere fine a una dinamica di “diniego e non detto” che va avanti da 60 anni. Dinamica che se continua a creare attriti con l’Algeria, crea anche profonde divisioni interne, in un Paese che non riesce a risolvere i suoi problemi di identità e di integrazione e dove, secondo Stora, la “memoria dell’Algeria riguarda sette milioni di persone”. Lo storico avanza una trentina di proposte, alcune delle quali toccano dossier molto delicati, su cui non sarà facile trovare il consenso. In primo luogo quello degli archivi dell’Algeria francese. Il direttore degli Archivi algerini, Abdelmadjid Chikhi, in una recente intervista a Le Monde, aveva ripetuto una delle richieste ricorrenti dell’Algeria, cioè la restituzione “integrale” degli originali degli archivi francesi del periodo coloniale, dal 1830 al 1962. Finora Parigi ha restituito solo una parte di questi documenti, rifiutando di cederne altri che sono classificati “segreto di Stato”. Ora la questione degli archivi è messa sul tavolo.

Nel suo testo, Stora raccomanda maggiore “trasparenza” sul “passato” proponendo di creare “il primo fondo di archivi comune ai due Paesi ad accesso libero” per i ricercatori francesi e algerini. Lo stesso Chikhi consegnerà nei prossimi giorni il suo rapporto complementare sul periodo coloniale, nell’attesa che il presidente algerino Tebboune, operato al piede per complicazioni da Covid in Germania, rientri ad Algeri. Un altro dossier delicato riguarda gli “harkis”, gli ausiliari algerini che si unirono all’esercito francese durante la guerra. Alla fine del conflitto, circa 60 mila harkis raggiunsero la Francia. Altrettanti restarono in Algeria e i più furono massacrati come “traditori”. Una “vergogna” che pesa ancora oggi sui discendenti degli harkis che vivono in Francia e che spesso evitano di andare in Algeria. Nel 2018, Macron aveva stanziato un fondo di 40 milioni per riparazioni e consegnato a 20 ex combattenti la Legione d’onore. Oggi il rapporto Stora raccomanda di “facilitare” gli spostamenti degli harkis e dei loro discendenti tra Francia e Algeria. Una proposta che rischia di essere seccamente bocciata da Algeri. Il quotidiano Libération ricorda che lo stesso Chikhi in passato ha chiuso le porte agli harkis: “La loro partenza per la Francia è stata una libera scelta”, aveva detto. “Sarà molto difficile aspettarsi un gesto da parte nostra sugli harkis”, ha confermato un alto funzionario algerino a Le Figaro. Nel 2017, Macron, allora candidato all’Eliseo, aveva definito la colonizzazione francese un “crimine contro l’umanità”, parole forti che sollevarono polemiche. Nel 2018, aveva poi riconosciuto la responsabilità dell’esercito francese nella morte di Maurice Audin, giovane matematico e militante indipendentista torturato e ucciso nel 1957. Nel luglio 2020 Algeri ha ottenuto da Parigi la restituzione dei teschi di 24 resistenti decapitati nel 1849 dai soldati francesi e fino a quel momento conservati al Musée de l’Homme di Parigi. In quell’occasione il presidente Tebboune a France 24 aveva detto: “Abbiamo già avuto mezze scuse da Parigi. Aspettiamo il prossimo passo”.

Ma tre giorni fa, mentre Stora consegnava il suo rapporto, l’Eliseo ha fatto sapere che non ci saranno scuse ufficiali da parte di Parigi né pentimenti.

“La riconciliazione delle memorie, voluta dall’Eliseo, non è per domani”, commentava Le Quotidien d’Oran. Macron propone gesti simbolici. Prima della fine del suo mandato, presiederà tre giornate commemorative, tra cui il 19 marzo 2022, il 60° anniversario degli accordi di Evian, che proclamando la fine della guerra aprirono all’autodeterminazione dell’Algeria. Entreranno nel Panthéon le spoglie di Gisèle Halimi, avvocato femminista e militante anti colonialista morta nel 2020. Stora propone anche di creare una commissione “Memorie e verità” che riunisca diverse personalità per “dare impulso a iniziative comuni tra Francia e Algeria sulle questioni della memoria”. E d’ora in poi, i libri di storia daranno maggiore spazio alla Guerra d’Algeria. Ma Algeri si aspetta da Parigi anche un passo sul riconoscimento del massacro dell’8 maggio 1945, quando le forze coloniali repressero nel sangue delle manifestazioni indipendentiste a Sétif e Guelma. Sui fatti e sul numero di vittime Parigi e Algeri non sono mai state d’accordo. A luglio il presidente Tebboune ha proclamato l’8 maggio festa nazionale.

L’impiego agile ha salvato salari e posti. “Più dubbi sulla produttività nella Pa”

Lo smart working imposto dalla pandemia ha avuto effetti positivi, dal preservare i livelli salariali alla salvaguardia dell’occupazione: a raccontarlo è un paper redatto dai ricercatori della Banca d’Italia. La ricerca si addentra in tre ambiti: i lavoratori del privato, le imprese e la Pubblica amministrazione.

Il primo è forse il più importante, anche per la difficoltà nel misurare il fenomeno. Secondo l’elaborazione di Bankitalia, nel privato si è passati dall’1,5% dei dipendenti in smart working nel 2019 al 14% del 2020. L’incremento ha interessato soprattutto le donne (4,1 punti percentuali in più degli uomini) e i lavoratori delle imprese più grandi, “in particolare dell’informazione e comunicazione e delle attività finanziarie e assicurative”. Ovviamente, il ricorso al lavoro in remoto è stato maggiore per le figure manageriali e impiegatizie rispetto agli operai. Inoltre, è stato più elevato per i diplomati e i laureati rispetto a chi è in possesso del titolo di licenza media o inferiore.

Da un punto di vista salariale, a parità di condizioni, in media i dipendenti che hanno usufruito del lavoro agile risultano aver lavorato più ore e avere quindi goduto di una retribuzione mensile del 6% più elevata, facendo poi meno ricorso alla cassa integrazione. “Anche la probabilità di cercare un nuovo impiego o quella, percepita, di poter perdere quello attuale entro i 6 mesi successivi sono state significativamente inferiori”, si legge nello studio.

Dal lato delle aziende coinvolte, si è passati dal 28,7% del 2019 all’82,3% del 2020. A parità di settore, area geografica e classe dimensionale, è aumentato soprattutto “tra le imprese più dinamiche e innovative con retribuzioni medie più alte, manager giovani e più orientati a pratiche strutturate di monitoraggio e incentivo della performance, appartenenti a gruppi esteri, che investono in tecnologie avanzate”. Le imprese che dichiarano di aver usato lo strumento per più del 50% della forza lavoro è passata dall’1,9 al 13,1% del totale. Più di tre quarti delle imprese che dichiaravano di non aver fatto lavorare i propri addetti da remoto nel 2019 lo ha fatto nel 2020.

Infine, la Pubblica Amministrazione: la percentuale di lavoratori agili almeno una volta alla settimana è passata del 2,4 al 33%, soprattutto donne e lavoratori più istruiti. La quota è stata simile nei servizi sociali non residenziali (ad esempio, gli asili nido e l’assistenza diurna ai disabili) e pari a circa il doppio nell’istruzione (59%). Eppure, “nella PA in senso stretto avrebbe potuto essere più pervasivo con un tasso potenziale pari al 53 %”.

Nel dettaglio degli enti locali, circa il 95 per cento dichiara di aver fatto ricorso allo smart working. Il grado di utilizzo è stato massimo nelle Regioni e minimo, ancora ovviamente, nelle Aziende sanitarie. “Tra i Comuni si riscontra invece una forte eterogeneità, con una concentrazione più elevata nella fascia 50-75%”. La differenza è legata al maggior grado di fornitura di servizi al pubblico svolta dai Comuni. “Offrire tali servizi in modalità di lavoro da remoto richiede non solo la disponibilità di infrastrutture digitali adatte, ma anche la capacità da parte dei cittadini di usare tali piattaforme”. Secondo i dati della Commissione europea, l’Italia soffre di un ritardo particolarmente significativo al livello di interazione online tra le Amministrazioni pubbliche e l’utenza, sia per la bassa percentuale di cittadini e imprese che si rivolgono agli uffici attraverso i canali telematici, sia per la ridotta disponibilità di moduli precompilati.

E la produttivita? “In oltre il 50% dei casi, a usufruirne è stata più della metà dei dipendenti – si legge nel paper –. Tuttavia in alcuni casi vi è una discrepanza tra la quota di personale che ha lavorato da casa e quella delle attività che sono state svolte. Ad esempio, gli enti che hanno affermato di aver esteso lo smart working a più del 75% del personale hanno dichiarato tassi di delocalizzazione delle attività inferiori a tale soglia in quasi il 40% dei casi. Ciò sembra suggerire, nuovamente, che l’uso dello smart working nella Pa possa essere andato al di là dell’effettiva telelavorabilità delle mansioni, con conseguenze sulla produttività incerte”.