Nel 2020 sono stati 131 mila i contagiati nei posti di lavoro

Il metro di quanto l’emergenza Covid abbia reso (ancora) meno sicuri i luoghi di lavoro è nel report Inail di fine 2020: da quando a febbraio la pandemia ha colpito il nostro Paese, 131 mila persone si sono infettate mentre erano in servizio e, di queste, 423 hanno perso la vita. Quasi un quarto degli “infortuni” in azienda è stato causato dal virus, che ha messo in pericolo soprattutto quelle categorie di addetti “essenziali”, impossibilitati a rifugiarsi nello smart working.

L’impatto della seconda ondata è stato più pesante della prima. Nell’ultimo trimestre, infatti, i contagi in azienda (o in corsia) sono stati quasi 75.500: il 57,6% del totale ha preso il Covid tra ottobre e dicembre, contro il 38,5% del periodo marzo-maggio. Questo perché le misure restrittive autunnali hanno mantenuto aperte buona parte delle attività produttive, a differenza del lockdown primaverile, e per il maggior numero di tamponi effettuati. Tuttavia, proprio perché si trattava di un ritorno del virus, la speranza era che i protocolli, l’organizzazione e i dispositivi di protezione tenessero più al sicuro i lavoratori.

Così non è stato. A novembre abbiamo avuto il maggior numero di denunce, quasi 36 mila (28 mila a marzo). Il personale della sanità – medici, infermieri e assistenti – rappresenta da solo il 68,8% dei contagiati al lavoro. A questi si aggiunge un 9,1% di amministrativi, anch’esso in buona parte nelle strutture sanitarie. Nella manifattura abbiamo il 3,1% delle infezioni, il 2,5% nei servizi turistici, l’1,8% nella logistica e nel commercio.

Le donne, che compongono la gran parte dell’organico negli ospedali, raggiungono il 69,6% della popolazione contagiata in servizio. Ma se ci limitiamo a guardare i soli casi con esito mortale, avviene un apparente paradosso: la percentuale è più che ribaltata (gli uomini sono l’83,2%). Il dato dei decessi scombussola parecchio anche la distribuzione per settori: la quota nella sanità scende al 25,2%, più il 10,7% degli amministrativi; l’industria è al 13,4%, la logistica al 10,7%, il commercio al 9,7%.

Varie le spiegazioni: è possibile che il personale sanitario sia più tracciato, quindi sia più facile individuare gli asintomatici. Nelle altre professioni, invece, in genere il tampone si fa a chi presenta quantomeno i sintomi o a chi ha avuto contatti con positivi. Non è detto, però, che questi dati siano definitivi: nuove denunce riferite al 2020 potrebbero ancora arrivare all’Inail. Inoltre, questi dati non considerano i non assicurati presso l’istituto come autonomi e forze armate. Sin dalla primavera, l’Inail ha equiparato i contagiati al lavoro agli infortuni. Il mondo delle imprese ha sempre avversato questa impostazione, perché rischia – anche se non è un automatismo – di far ricadere responsabilità penali sulle aziende.

Il 2020 sarà certamente l’anno nero delle morti sul lavoro. I numeri aumenteranno rispetto al 2019, ma a mutare sarà la “geografia” dei decessi: assai meno per sinistri stradali nel tragitto tra casa e azienda e meno incidenti “violenti”, ma più vite portate via dal Covid.

L’arte funziona? Buttiamola via

La perdurante chiusura dei musei alimenta il mito, duro a morire, secondo cui musei e monumenti dovrebbero reggersi economicamente da soli, con gli introiti di biglietteria.

Le limitazioni di movimento rese necessarie dalla pandemia sarebbero dunque, dicono alcuni, argomento sufficiente a giustificare la chiusura dei musei fino alla fine di ogni contagio: niente biglietti, niente musei. È vero il contrario, anzi è vero due volte. Prima di tutto perché l’arte può curare le pene dell’anima come la medicina mitiga le pene del corpo (e dunque i musei dovrebbero essere riaperti, pur con tutte le precauzioni del mondo, domani stesso; e gratis per tutti). Ma anche perché, a prescindere da ogni pandemia, musei e monumenti non basano mai la propria sopravvivenza sugli introiti, ma su forti finanziamenti pubblici o privati. In Francia e in Italia prevale di solito il finanziamento pubblico, negli Stati Uniti quello privato, ma con enormi contributi pubblici. Mai e poi mai il Metropolitan di New York o il Getty di Los Angeles hanno raggiunto il pareggio di bilancio con gli introiti di biglietteria (al Getty, anzi, si entra gratis). Le eccezioni si contano sulle dita di una mano: in Italia, forse solo il Colosseo e Pompei.

Questo non vuol dire che la gestione imprenditoriale di parchi e musei debba restare nel regno del mito. Fermo restando che tutela, ricerca, fruizione sono il cuore della missione delle istituzioni museali, dev’essere pur possibile migliorarne i bilanci. Il miglior esempio di un tale esperimento in Italia è stata a lungo la “Parchi Val di Cornia S.p.A.”, un’impresa che ha unito per molti anni sei parchi archeologici e naturalistici di questa valle della Maremma livornese, raggiungendo nel 2007 una capacità di autofinanziamento del 99,68% (rapporto ricavi / costi di gestione). Questo esperimento, anzi, fu e resta unico in Italia anche perché congiunse ai parchi comunali o regionali anche un parco archeologico statale, quello di Populonia: non è dunque solo un sogno la sempre vagheggiata “leale collaborazione” fra Stato ed enti locali (nella fattispecie, i comuni di Piombino, Campiglia Marittima, Suvereto, San Vincenzo e Sassetta). E se quel risultato economico si poté raggiungere, in una fase di forte lancio e grande successo di quell’area, fu perché alla Parchi S.p.A. furono dati in gestione dalle amministrazioni di quei Comuni (allora tutti gestiti dalle sinistre) anche parcheggi ed altri servizi di quell’area. Esattamente quel che succede al Louvre, che pur coi suoi quasi 10 milioni di visitatori annui pre-pandemia non starebbe in piedi se non gestisse anche un gran numero di spazi, anche commerciali, dell’area in cui si trova.

La Parchi Val di Cornia fu dunque un esempio virtuoso, anche perché legato alla pianificazione territoriale coordinata, in una lunga fase di sintonia fra i Comuni interessati. La storia è stata ben raccontata in un libro pubblicato dal Sole 24 Ore e curato da Massimo Zucconi, già amministratore delegato, e da Alessandra Casini, un’archeologa che lavorava al Parco Archeominerario di San Silvestro, creato da Riccardo Francovich, compianto fondatore dell’archeologia medievale in Italia. È lo stesso orizzonte culturale, ma anche etico-politico, in cui fu allora possibile non solo tutelare 8.000 ettari di territorio, ma anche abbattere 2000 costruzioni di una lottizzazione abusiva (altro unicum in Italia), per fare di quell’area il parco pubblico naturale della Sterpaia.

Si dovrebbe pensare che un caso tanto virtuoso sia stato studiato da altri (a cominciare dal ministero dei Beni culturali), e imitato altrove. Nulla di tutto questo. Al contrario, gli stessi Comuni che avevano costruito e attuato l’esperimento lo stanno in questi ultimi anni smantellando senza pietà, con ritmo accelerato negli ultimi tempi su impulso dell’amministrazione di destra a Piombino, che anziché promuovere la collaborazione si comporta come un azionista di maggioranza. È stato tolto alla “Parchi” ogni introito riducendo al 40% circa la capacità di autofinanziamento, mortificando le competenze professionali in favore di nomine meramente politiche e riducendo drasticamente il patrimonio dato in gestione, portandolo da sei parchi a tre, e in due soli Comuni (Piombino e Campiglia). Del 2020 è l’ultimo scippo alla “Parchi”, il parco naturale di Rimigliano in Comune di San Vincenzo. Intanto, la gestione unitaria, che fu la ratio di fondo alla radice dell’esperimento e del suo successo, viene svilita spezzettandola in contratti bilaterali fra la “Parchi” e i vari Comuni. Per giunta il nuovo amministratore delegato Mauro Tognoli, che il comune di Piombino ha installato in Val di Cornia dopo qualche esperienza in amministrazioni di destra in Lombardia, ha dichiarato in questi giorni che, sebbene in Toscana (zona “gialla”) i musei possano ora riaprire, quelli della Val di Cornia resteranno chiusi, perché riaprirli “non conviene” dal punto di vista meramente economico. Ma chi traveste una tal decisione da asettica analisi del rapporto costi-benefici dimentica il più grande dei benefici che un parco o un museo può procurare agli umani: non costi o introiti di biglietteria, ma acquisto di conoscenza, sollievo dai timori e dalle pene di questo periodo per tutti difficile, alimento della creatività individuale e collettiva, senso civico. Sentimenti e pensieri che non sono merci, perché non hanno prezzo. Per un’impresa già gloriosa e ora sostanzialmente in liquidazione come la Parchi Val di Cornia, una decisione come questa rischia di essere il colpo di grazia.

A difendere i risultati della “Parchi” e a sperare nel suo futuro par che sia rimasta solo Alberta Ticciati, sindaco (Pd) di Campiglia, che sta invece puntando sulla riattivazione di meccanismi virtuosi poi abbandonati. Ma decisivo potrebbe risultare, se lo vorranno, un intervento coordinato del ministero e della Regione Toscana. La Val di Cornia è un piccolo, prezioso angolo d’Italia: perché buttare alle ortiche l’orgoglioso esperimento che pochi decenni fa vi è stato condotto con passione civile e intelligenza operativa?

 

Stipendio? No, grazie

Il rito tribaledetto dibattito pubblico ha raggiunto un livello di astrazione tale per cui le cose non hanno più alcun rilievo: stabilito quale bandierina vuoi sventolare, ti viene fornito l’argomento o il fattoide corrispondente, spesso grazie al lavoro di una buona agenzia di marketing. È una settimana, per dire, che sui siti di primarie testate nazionali (Messaggero, Stampa, Corriere della Sera) compaiono notizie sulle vite felici di professionisti che fanno i rider guadagnando cifre assurde (tra due e quattromila euro al mese, 14 euro l’ora) invece di starsene con le mani in mano – o sul divano – come quelle sanguisughe che ricevono sussidi pubblici. Che poi, pure lo stipendio, ma a che serve? Rispondendo a una giovane lettrice che lamentava di non poter seguire le lezioni universitarie, un paio di settimane fa Aldo Cazzullo sul CorSera buttava lì una sua proposta: “Borse di studio, stage, esperienze nella P.A., nelle aziende pubbliche e private, nei cantieri (…) Anche senza stipendio; basta dare a questi ragazzi una prospettiva”. In attesa di “anche senza stipendio”, lo “stipendio da fame” è già la regola per milioni di lavoratori, anche pubblici. Quanto è successo ieri mattina al Tribunale di Palermo è come una piccola parabola di questa Italia che non si vuole vedere: Vincenza Gagliardotto, una giudice onoraria, s’è accasciata a terra durante un’udienza; è debole perché da 16 giorni, con una sua collega, fa lo sciopero della fame. Contro cosa protesta? La riforma del 2017 della magistratura onoraria – migliaia di persone che tengono in piedi il sistema giudiziario – prevede una retribuzione (73 euro lordi) solo per le attività delegate esplicitamente (tipo andare in udienza), ma non per un altro compito specifico, pure previsto da quella legge: predisporre “tutti gli atti preparatori utili” al lavoro del magistrato di ruolo. Lo Stato fa il caporale e, non senza involontaria ironia, lo fa dentro i tribunali in cui i cittadini vanno a reclamare diritti e lo fa a vantaggio di chi dovrebbe garantirli, quei diritti. Certo, in quel rito tribale detto dibattito pubblico – semmai questa notizia arrivasse sui media, cosa che escludiamo – qualcuno potrebbe dire che alle toghe onorarie basterebbe fare i rider per tirare su 4mila euro al mese.

Mail box

 

Un’iniziativa benefica dal “nostro” Dentello

Il 16 novembre scorso mia madre è morta per un tumore al seno all’età di 62 anni. Da allora mi sono domandato come potessi mitigare il dolore e allo stesso tempo onorare la memoria della vita che mi ha dato la vita. Mi sono risolto a convertire il mio lutto in un atto di generosità a beneficio di chi soffre, certo che lei avrebbe approvato con un sorriso di orgoglio. Vorrei raccogliere libri da donare ai malati di cancro. So bene che esistono già progetti simili, ma vorrei curarne uno mio, uno personalissimo che resti come testimonianza imperitura del mio amore di figlio scrittore per una madre che mi ha trasmesso l’amore per la lettura. L’idea è raccogliere romanzi, poesie e saggi invitando ciascun donatore a scrivere sul frontespizio di ciascun volume “Dono in memoria di Melina Vella (1958-2020)”, seguito dal proprio nome e città di residenza. Il prossimo 15 febbraio, che sarebbe stato il giorno del suo 63esimo compleanno, desidero festeggiarla distribuendo i volumi ricevuti nei reparti e negli ambulatori di alcune strutture ospedaliere di Milano, a cominciare dall’Istituto dei tumori. Chiunque voglia aderire a questa mia piccola iniziativa può recapitare il libro che preferisce al mio indirizzo: via Jan Sibelius, 28 – 20162 Milano.

Crocifisso Dentello

 

Il libro di Sami Modiano è una vera ispirazione

Quando ho visto la sigla “B7456” leggendo l’articolo di Marco Lillo su Sami Modiano, sono rimasto in silenzio per qualche secondo. Con il passare degli anni, ho raggiunto la convinzione che le coincidenze sono spesso meno fortuite di quanto non si possa pensare. Quei numeri sono la mia data di nascita (giorno, mese, anno) mentre la lettera è l’iniziale del mio cognome. Ho notato la cosa, perché, in un mondo informatizzato, quelle cifre e lettere le uso spesso, perché facili da ricordare. Per me una data, per Sami Modiano un “marchio” di una prigionia tanto ingiusta quanto atroce. Prenderò il suo libro nell’edizione PaperFirst, per arricchire la mia libreria con un’altra testimonianza sulla Shoah, nella speranza che molti giovani, soprattutto, facciano la stessa cosa.

Italo Borini

 

Il leader della Lega è inqualificabile

Nessuno ha ancora pensato a una definizione del compianto Salvini. Visto che non è mai andato al ministero dell’Interno ma ha preferito, per un anno, fare comizi nelle piazze dell’Italia profonda a base di specialità alimentari, lo definisco “ministro dell’Esterno”.

Andrea Pellizzari

 

Ho visto un magistrale Gomez a “Piazza Pulita”

Calenda sognerà Gomez anche stanotte; non gliene ha fatta passare una! Complimenti!

Orlando Murray

 

DIRITTO DI REPLICA

L’articolo titolato “Retromarcia Cisl: gli ‘shopper’ bocciano il contratto, il sindacato non può firmarlo” del 9 gennaio 2021 esige le seguenti precisazioni. La Fisascat si è confrontata con Assogrocery sul passaggio delle aziende sue aderenti al CCNL TDS Confcommercio, sull’armonizzazione delle condizioni dei dipendenti del settore, sulla disciplina del Lavoro Agile e sulla regolamentazione delle collaborazioni (lavoratori autonomi e parasubordinati). La Fisascat ha effettuato delle assemblee informative sia coi lavoratori dipendenti che coi collaboratori non subordinati prima, durante e dopo il confronto; i 4 “portavoce” degli shopper che ci hanno affiancato nella trattativa sono stati scelti dai loro colleghi proprio in una di queste assemblee. Non risponde al vero, quindi, che non siano state tenute assemblee. Falsa la notizia che il 30/12/2020 sia stato sottoscritto un accordo. Neanche corrisponde al vero che la Fisascat non abbia consultato i lavoratori; un’ultima assemblea per confrontarci sul negoziato l’abbiamo tenuta il 4/01/2021. Infondato l’addebito volto ad affermare che un’azienda abbia fatto attività di scouting di iscritti per noi presso gli shopper, in quanto “statutariamente” iscriviamo lavoratori dipendenti, non autonomi. Non abbiamo fatto “retromarcia”; il 29,80% degli shopper gravitanti nel settore, che ha condiviso l’esito del negoziato, per noi è insufficiente per considerare chiusa una trattativa; altri, con un terzo dei consensi, avrebbero brindato al successo.

Davide Guarini Segretario generale Cisl

 

Grazie per la replica, ma la realtà è un’altra. Gli articoli davano atto della presenza alle trattative di quattro rappresentanti indicati dagli shopper – basta rileggerli – ma la consultazione cruciale è avvenuta in modo inusuale: l’azienda Everli ha inviato una nota della Fisascat Cisl ai suoi lavoratori, con potenziale effetto di raccogliere iscrizioni e simpatie per il sindacato. Se questi addetti appartengono a un’altra categoria, poiché statutariamente accettate solo dipendenti, non si capisce che legittimazione avesse la Fisascat Cisl a contrattare per conto degli autonomi. Fisascat Cisl era d’accordo con quelle condizioni, quindi è corretto parlare di “retromarcia” dopo la consultazione. Vedo infine, e me ne compiaccio, che si sorvola sulla circostanza più grave riportata: il contratto Fisascat Cisl-Assogrocery avrebbe legittimato l’algoritmo reputazionale, meccanismo che – secondo il Tribunale di Bologna – è discriminatorio.

Rob. Rot.

Sanremo 2021. Sarà il Festival della normalità o del privilegio?

Gentile redazione, per fare a tutti i costi il Festival di Sanremo 2021 la Rai le sta studiando tutte. Vorrebbero ingaggiare perfino delle navi da crociera, non ho capito bene per farci che cosa: chiuderci (assembrarci) dentro il pubblico? In Viale Mazzini sanno che è in corso una pandemia epocale con una media, in Italia, di 500/600 morti al giorno? Il dibattito poteva già essere aperto mesi fa con la trasmissione Ballando con le stelle. Il Dpcm aveva chiuso tutte le sale da ballo e discoteche italiane (sono serrate ancora adesso) e su Rai1, non si sa bene per quale logica e privilegio, i ballerini ballavano con i vip. Peraltro una edizione funestata da positivi al Covid-19… Non sarebbe meglio che Amadeus, Fiorello e i vertici Rai proponessero di aspettare tempi migliori? Magari un’edizione straordinaria questa estate?

Stefano Masino

 

Gentile Stefano, altri come lei hanno proposto un “Festivalbar di Sanremo”: la soluzione per la Rai non è praticabile perché la pubblicità a luglio vale molto meno (d’estate siamo meno propensi a stare in casa davanti alla tv). Sanremo è il più importante evento in palinsesto (il Natale della tv italiana) e gli ascolti delle ultime edizioni lo confermano. Dunque è comprensibile che la Rai stia cercando di mantenere il livello a cui i telespettatori sono stati abituati negli ultimi anni. Quando, in novembre, è stato deciso il rinvio alla prima settimana di marzo, ci si aspettava una situazione epidemiologica diversa da quella che stiamo vivendo. Ora però è con questi numeri che ci si deve misurare. Ci sono due scuole di pensiero: c’è chi pensa che un “Festival della normalità” possa essere un segnale di speranza; chi invece – e qui torna la parola che lei ha usato, privilegio – ritiene che un Paese con le scuole chiuse non possa fare un’eccezione per l’Ariston. Senza contare poi che i lavoratori dello spettacolo – messi in ginocchio dall’epidemia – hanno già cominciato a protestare. In queste ore si torna a parlare di un altro, possibile, slittamento, magari a un momento successivo alla scadenza dell’attuale Dpcm (5 marzo). Con molta probabilità il Festival si farà in quelle date, ma sarà una editio minor.

Silvia Truzzi

Vaccino anti-Covid e lotta alla droga: strategie parallele

“Il nazismo mi ha sterminato la famiglia e io per punizione salverò la vita ai bambini di tutto il mondo”

(Albert Bruce Sabin, inventore del vaccino anti-poliomelite)

Mentre si accende il dibattito sull’opportunità di imporre o meno l’obbligatorietà del vaccino anti-Covid, può essere utile riflettere sull’esito del “modello portoghese” nella lotta alla droga. Sono due questioni parallele, ma hanno diversi punti in comune. A vent’anni dall’introduzione della legge che ha depenalizzato in Portogallo il possesso e il consumo delle sostanze stupefacenti, ispirata al principio della riduzione del rischio, il successo di questa strategia dimostra che spesso l’informazione e la dissuasione possono ottenere risultati migliori della repressione.

Con tutte le differenze che riguardano la pandemia da Coronavirus, e la necessità di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge” attraverso la vaccinazione di massa, l’approccio portoghese alla lotta contro la droga offre un interessante esempio mediatico e terapeutico. In un contesto in cui l’uso delle droghe non viene automaticamente criminalizzato, i tossicodipendenti si sentono così meno isolati e sono più disposti a cercare di disintossicarsi, affidandosi ai programmi statali di supporto medico e sociale.

Le droghe, in Portogallo, rimangono illegali. Ma le autorità non arrestano più chi viene trovato in possesso di una dose pari al consumo medio individuale per un massimo di dieci giorni. Il cittadino che commette un reato connesso alle droghe riceve un mandato di comparizione e deve presentarsi a un “comitato di dissuasione”, composto da giuristi, psicologici e assistenti sociali. E nella maggior parte dei casi, il consumo viene sospeso. Altrimenti, dopo un certo numero di convocazioni, si possono prescrivere trattamenti obbligatori.

Alla fine degli anni Novanta, circa l’1% della popolazione portoghese – pari a 100mila persone – faceva uso di eroina. Negli ultimi 15 anni, il consumo di droga s’è ridotto sensibilmente e ora rientra nella media europea. E intanto i casi di Aids, legati all’uso di siringhe infette, sono diminuiti in modo drastico.

Depenalizzazione, deterrenza e terapia, dunque, sono i cardini dell’approccio adottato dal Portogallo nella lotta alla droga. Il discorso è evidentemente diverso per quanto riguarda i “No Vax” e tutti coloro che sono diffidenti o contrari al vaccino anti-Covid. Qui entra in gioco più direttamente la tutela della salute collettiva, sebbene anche la tossicodipendenza abbia un impatto sociale in termini di sicurezza e criminalità organizzata che ruota intorno al traffico clandestino. Ma, in ordine alla strategia di comunicazione, il problema è analogo: prima, è opportuno informare, dissuadere, convincere, come sta cercando di fare il governo italiano affidando al regista Giuseppe Tornatore una serie di spot che – a giudicare dal primo, intitolato La stanza degli abbracci – possono essere tanto suggestivi quanto educativi. E poi eventualmente obbligare, in funzione dell’interesse generale e in forza delle legge.

A maggior ragione, questo deve valere per i dipendenti pubblici, i medici, gli operatori sanitari e tutti coloro che assistono gli anziani o le persone più fragili. Magari stabilendo che il certificato di vaccinazione diventi un requisito per partecipare ai concorsi, ottenere un posto di lavoro o non rischiare di perderlo, com’è accaduto in Germania a sette infermiere licenziate perché rifiutavano la somministrazione. L’obiettivo fondamentale resta quello di ridurre il rischio, e di conseguenza il danno, a tutela del singolo individuo e dell’intera società.

 

Così il Csmviene bacchettato (pure) dal Consiglio di Stato

Con una sentenza, il Consiglio di Stato ha, per l’ennesima volta, duramente censurato il Csm per “l’arbitrio di nomine fiduciarie e non meritocratiche”. A finire nel mirino del giudice amministrativo sono le nomine dei sei componenti del direttivo della Scuola superiore della magistratura adottate dal Csm con delibera del 4.12.2019 annullata, prima dal Tar, e poi dal Consiglio di Stato sul ricorso di un magistrato che lamentava una plateale, falsa rappresentazione al ribasso dei propri titoli. Eppure sul “diario di Area” (corrente dell’Anm, comprensiva di M.D. e “Movimenti”) del 6.12.2019 poteva leggersi: “Nel dibattito in plenum Giuseppe (capogruppo di Area al Csm, Giuseppe Cascini, già ex segretario generale della Anm, ndr), ha ricordato il percorso attraverso il quale la commissione (la VI, di cui il predetto era Presidente, ndr) è pervenuto alla proposta richiamando l’importanza e il valore di una scelta che ha trovato il consenso di tutti”. Di altro tenore sono le affermazioni del Tar Lazio che, nella sentenza di annullamento del 10 agosto 2020, ha stabilito che “come ogni altra procedura selettiva, anche la scelta dei magistrati da destinare alla formazione presso la Scuola Superiore della Magistratura deve rispettare i comuni canoni di trasparenza e par condicio, dando conto sia dell’alta e specifica competenza professionale nonché delle specifiche esperienze di formazione e organizzative dei magistrati prescelti, sia delle ragioni della mancata scelta dei soggetti pretermessi, portando in comparazione i requisiti singoli e d’insieme di tutti gli aspiranti”. E sempre di ben diverso tenore sono le affermazioni del Consiglio di Stato che richiama il Csm a “una scelta motivata e leggibile e non già, per così dire, ‘politica’ o partitamente ‘fiduciaria’”. La valutazione delle nomine deve essere “strettamente legata al ‘principio meritocratico’, esprimersi, cioè, lungo il giusto crinale di una discrezionalità tecnica che – obbligando alla coerenza e imponendo adeguata e congrua motivazione – esclude sia nomine arbitrarie (in quanto affidate a logiche non verificabili), sia designazioni meritamente fiduciarie che prescindono da profili meritocratici e sono incardinate, invece, su criteri estranei alla funzione propria del governo autonomo della magistratura costituzionalmente configurato”. Parole durissime del giudice amministrativo che ammonisce il Csm ricordandogli “che non è organo politico, ma organo di alta amministrazione di rilievo costituzionale e che, dunque, deve orientare la selezione secondo canoni di trasparenza, verificabilità, idoneità e razionalità”. Dopo tale dura lezione di correttezza e dopo questa ennesima dimostrazione di assoluta mancanza di trasparenza da parte di un organo, già travolto e delegittimato dallo scandalo del “mercato delle nomine”, si impone una domanda: cosa aspetta il ministro di Giustizia a promuovere una normativa: a) che sottragga al Csm la competenza a nominare i componenti del direttivo della Scuola, (7 su 12), diventata, peraltro, un vero e proprio centro di potere ove, attraverso nomine di docenti e relatori (di magistrati e professori universitari) si conferisce il prestigioso incarico di formare e aggiornare migliaia di magistrati e si tessono importanti relazioni con il mondo accademico; b) che sottragga al Csm le nomine dei componenti le commissioni esaminatrici del concorso in magistratura; c) che abroghi l’immunità riconosciuta dalla legge ai membri del Csm che, prevista a garanzia dell’indipendenza dell’organo e dei suoi componenti, rappresenta oggi lo scudo protettivo per gli “arbitri” insiti nelle “nomine fiduciarie e non meritocratiche”, e da tempo perduranti come dimostrano le innumerevoli sentenze dei giudici amministrativi che hanno annullato un numero rilevantissimo di nomine.

 

Contro lo strappo di Iv ha vinto il parlamento

Coloro che in politica adottano i principi e i comportamenti liberali non possono che essere soddisfatti delle procedure seguite per rispondere al tentativo di crisi extraparlamentare fatto dal senatore Matteo Renzi con il fermo appoggio di tutti i più importanti mezzi di comunicazione. Tali procedure hanno senza dubbio confermato la centralità del Parlamento nello scegliere, usando l’autonomia dei suoi membri.

Contrariamente a quanto scrivono quelle testate, i governi non vengono decisi dagli ambienti bene della finanza, della burocrazia istituzionale e dell’editoria. Vengono decisi dal voto dei cittadini che genera il Parlamento e che giudica i lavori nelle sue aule.

Contrariamente a quanto scrivono quelle testate, le difficoltà nel convivere, rese più incombenti dalla pandemia, non si affrontano meglio con un governo forte, bensì con un Parlamento che decida di sostenere le prescrizioni del governo, emesse, intanto, in base agli indirizzi della scienza sanitaria e, in prospettiva, in base al rilanciare con l’aiuto dell’Unione europea le condizioni per strutture produttive attivate dai cittadini in risposta alle esigenze civili.

Contrariamente a quanto scrivono quelle testate, nella Costituzione non esiste il concetto di maggioranza assoluta per fare un governo (la mitica sceneggiata durata settimane sul raggiungere al Senato 161 voti). Non a caso, perché un simile concetto stravolgerebbe la logica parlamentare, che è necessariamente duttile, non bloccata, in modo da far davvero esprimere in Parlamento i singoli rappresentanti dei diversi cittadini (il che non è mai uno sconfortante mercato delle vacche).

Contrariamente a quanto scrivono quelle testate, un governo efficace e all’altezza non è quello che dispone di larghi numeri nel consenso in aula, ma quello che si misura sui problemi concreti del convivere e si confronta con i parlamentari tenendo conto dei cittadini, senza voler mai indottrinare né i primi né i secondi.

Dunque non sono perdenti né il Paese (che conserva un indirizzo politico realistico) né il presidente del Consiglio (che ha indicato la strada parlamentare fin dalla conferenza stampa del 30 dicembre). Sono oggi perdenti quelli che hanno puntato freneticamente alla crisi extraparlamentare e a fare del Parlamento un puro passacarte; il tutto in una concezione della politica ridotta a uno scontro di potere nella logica della partita a poker ubicata nei salotti buoni. Sono perdenti quelli che sono stati obbligati dalle loro stesse fughe in avanti ricattatorie, a non poter esprimersi coerentemente come opposizione (ruolo conseguente alle parole virulente in Senato), ma a doversi astenere per non spaccare Italia Viva (il che avrebbe dato una diversa maggioranza a Conte) e poter sostenere l’altro patetico bluff che Italia Viva sarebbe indispensabile per la maggioranza del governo.

È la vittoria del parlamentarismo attraverso cui si rappresentano i bisogni e gli interessi dei cittadini. Chi sceglie altre vie per perseguire unicamente il potere e accondiscendere gli interessi di gruppi ristretti non fa altro che alimentare la rabbia dei cittadini, e quindi il populismo o il radicalismo.

* Presidente Liberali italiani e professore alla Temple University di Philadelphia

 

Pupo e il Grande Fratello, il doc sulla sinistra e la relazione di Carla

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 3, 11.00: Elisir, con Michele Mirabella. I temi di questa settimana sono l’ipertrofia prostatica, l’artrosi dell’anca, l’affanno, l’ipoacusia e la cattiva digestione. Niente diabete, perché Mirabella non ne soffre.

Discovery +, streaming: Ti spedisco a casa, reality. Cinque giovani suore di clausura vengono costrette a lasciare il convento e tornare a casa, dove saranno alle prese con cellulari e social network, e invece della Madre Superiora dovranno seguire i consigli di Costantino della Gherardesca. Potranno tornare in convento solo se riusciranno a raggiungere un milione di follower su Instagram.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, varietà, in diretta dalla Basilica Vaticana, con commento di Amadeus. Dal novembre scorso la messa è cambiata. Per esempio, nei riti d’introduzione il sacerdote non dice più “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi”, ma “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”. Rispetto alla messa precedente, un deciso passo avanti. E, dopo il Santo, invece di “santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito” l’officiante dice, come proposto da Cristiano Malgioglio, “santifica questi doni con la rugiada del tuo Spirito”. E perché non “con la pioggia dorata del tuo Spirito”, già che c’eravate? Avete fatto 30, fate 31.

Rai 3, 21.45: La dannazione della Sinistra, film documentario. La sinistra storica ha sempre operato per cambiare il modello di sviluppo, e Lidia Menapace indicò le contraddizioni su cui dovrebbe impegnarsi ogni iniziativa politica di sinistra: uomo/donna, pace/guerra, capitale/lavoro, produzione/ambiente. Purtroppo, oggi che i risultati catastrofici del modello capitalistico sono evidenti a tutti, non c’è in Italia alcuna forza politica consistente che porti avanti quell’agenda, diventata improrogabile. Significa che né il Pd, né tantomeno Renzi, sono di sinistra, nonostante i giornaloni continuino a designarli come tali, facendo un’ammuina che non aiuta il Paese a uscire dall’impasse politica in cui versa da anni. In questo documentario, Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica, racconta la recente trasformazione di Repubblica in un giornale di destra; tesse un elogio di Pigi Battista; e chiede ad Achille Occhetto: “Ti hanno mai detto che hai gli stessi occhi di Faletti?”.

Rai 1, 11.20. Passaggio a Nord Ovest, documentario. Alberto Angela ci conduce in provincia di Savona, dove esiste una consolidata tradizione della lavorazione del vetro, risalente addirittura a un mese fa.

Discovery +, streaming: Brain Attraction Italia, reality. Condotto da Piergiorgio Odifreddi, il programma ha per protagonisti sei pretendenti, laureati alla Normale di Pisa, disposti a mostrare le proprie capacità intellettive a una studentessa della Normale di Pisa che dovrà scegliere il migliore fra loro, per mettere al mondo i primi esemplari di una razza superiore, destinata al dominio del mondo.

Canale 5, 21.20: Grande Fratello Vip, reality. Pupo è preoccupato per l’inquietante comportamento di Antonella Elia. Temendo che qualcosa di soprannaturale si sia impossessato della ragazza, decide di sottoporla a un esorcismo.

Nove, 21.15: Tutte contro lui, film commedia. Carla scopre che l’uomo con cui ha una relazione è già sposato con lei.

 

Non perdiamo tempo pensiamo già al futuro

L’impatto della pandemia sul quotidiano è così forte che difficilmente ci resta spazio per pensare al futuro. Troppa contingenza e poca programmazione. Covid è una pandemia che a noi che la viviamo sembra la peggiore mai esistita, ma non è così. È un’inevitabile fase che gli abitanti della Terra sono chiamati ad affrontare periodicamente. Se buttiamo lo sguardo storico oltre la nostra data di nascita, troviamo molti di questi episodi che, nel passato, erano spesso frammisti a episodi bellici mondiali di altrettanta enorme portata. Per fortuna, la vita va e andrà avanti, anche se mai dopo una pandemia o dopo una guerra, la vita sarà uguale a prima.

Come vivremo dopo la pandemia? Come saranno gestite le inevitabili conseguenze dopo questo lungo drammatico periodo in cui la nostra vita è stata sospesa? Continuiamo a ripetere che nulla sarà uguale a prima, ma non riusciamo a immaginare come. È necessario pensarci, la fase acuta della pandemia finirà. Sono possibili due scenari: o il virus sarà totalmente debellato e verrà archiviato negli annali della storia della Medicina oppure, come credo sia più probabile, resterà fra di noi in una convivenza meno aggressiva.

Potrebbe accadere (accadrà!) fra un anno o due. Un tempo infinito, se si pensa alla nostra stanchezza, un nulla per reinventare la nostra vita. Mi chiedo se “qualcuno” ci stia pensando. Bisogna costituire un tavolo tecnico vero, a respiro internazionale, con la rappresentanza di diverse discipline (i Premi Nobel?) e bisogna affrontare come rinascere dalle macerie. Fino a oggi si è parlato solo di finanziamenti, utili ma non esaustivi. Abbiamo bisogno di menti, di persone libere da conflitti d’interessi che costruiscano il puzzle del nostro possibile futuro. Dovranno partire dalle disuguaglianze, dalla salute ignorata, dalla globalizzazione e tutto questo alla luce di un’altra ben più grave sfida del cambiamento climatico. Speriamo che “qualcuno” accolga quest’invito.