Dirò che la sentenza della Corte costituzionale che nega ai cittadini il diritto a un referendum per una legge sul fine vita quando la vita non è più sopportabile (legge che in Italia non esiste) mi è apparsa fredda e crudele. Infatti è freddo e crudele l’espediente di esaminare dettagli della forma espressiva del testo che chiede il referendum.
L’espediente è stato di spostare la riflessione dalla immensità del dolore a cui questa legge inesistente e questa proposta di legge popolare si riferiscono, a una questione di forma. Con questo espediente il presidente della Corte ha offerto una lezione su trabocchetti e pericoli della scrittura di un testo giuridico, e ha negato la legge.
In questo modo la Corte costituzionale del nostro Paese ha sfondato e mandato in frantumi la grande vetrata di un legame e di una fiducia che, nonostante tante scosse pericolose, fino ad ora ha consentito a tutti noi di credere all’immagine di un unico Stato, Paese, nazione, con sentimenti vicini o uguali almeno su alcuni punti essenziali, come vivere, morire e perché.
Sto dicendo che il danno della sentenza sulla impossibilità di morire, per quanto sia grande il grado e la durata della sofferenza, è molto più profondo della questione enorme a cui si dedica.
Una prima ragione è il voltare tranquillamente le spalle alla irrinunciabile richiesta di tregua dei protagonisti della sofferenza insopportabile. Questo gesto è tossico. Sparge veleno, lo sparge con l’autorità delle più credibili istituzioni. È il veleno di “affari loro”. Se stanno male è una bella disgrazia, ma io non ho tempo di assumermi responsabilità che non mi competono.
Si rafforza così una seconda ragione che conta molto in una vita sociale come quella italiana, molto familistica ma poco comunitaria. È in corso, lo sappiamo, un cambiamento profondo, annunciato dal volontariato e dallo schieramento (non grande ma tenace) di coloro che difendono i profughi in mare.
Certo, questa stessa Italia si è data delle leggi e ha avuto dei governi fermamente decisi a respingere i profughi, con l’aiuto della pirateria libica, omaggiata a Roma e risarcita sul posto purché tenesse viva ed estendesse la persuasione ormai radicata secondo cui è criminale chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni.
Non sembri eccessivo dire che l’affondamento, con pretesti linguistici, della legge contro il dolore immenso di alcune persone colpisce un Paese appena sfiorato dalla solidarietà diffusa, allarga una attitudine ancora tipica alla indifferenza, che serve a non portare addosso il dolore degli altri, visto che ognuno ritiene di essere già abbastanza a rischio in un Paese che tende da tempo a rendere privato il sistema sanitario e le sue immense spese.
La terza ragione del danno umano e morale della decisione costituzionale è che si esprime bene con le parole dell’ergastolo ostativo (“fine pena mai”). Si rappresenta nel fatto che coloro che invocano il diritto di morire per troppo dolore sono circondati di medici e di preti che si astengono, per carriera o per fede, da ogni intervento, isolano i lungo-morenti e danno l’impressione che il soccorso ci sia sempre, anche se in modi diversi.
La cancellazione del referendum sul diritto di morire quando è impossibile vivere, rafforza il triste corteo dello “accompagnare chi muore” senza liberarlo dalla pena, mentre chi muore è costantemente stordito dalla sua condizione invivibile.
La Corte in fuga è un formidabile alibi per non aprire mai una riflessione teologica e non consentire mai l’idea di discussione fra esperti della salute.
Se questo è il Paese dove legioni di medici carrieristi si aggiungono ai medici credenti (fino alla quasi totalità di tutti i medici, in certi ospedali) per negare il diritto di aborto delle donne, è facile immaginare (anzi, purtroppo, sapere) che nessuno diventa primario se si occupa davvero di certe sofferenze e considera l’idea di circostanze in cui deve essere lecito porre fine alla vita.
Ecco in che modo una sentenza della Corte costituzionale, che sembra tecnica e rigorosamente contenuta nell’alveo giuridico, diventa un duro colpo di abbandono e solitudine a un Paese meno (molto meno) incline di altri a prendersi cura degli altri.