“Fine vita mai”, la corte. È solo fredda e crudele

Dirò che la sentenza della Corte costituzionale che nega ai cittadini il diritto a un referendum per una legge sul fine vita quando la vita non è più sopportabile (legge che in Italia non esiste) mi è apparsa fredda e crudele. Infatti è freddo e crudele l’espediente di esaminare dettagli della forma espressiva del testo che chiede il referendum.

L’espediente è stato di spostare la riflessione dalla immensità del dolore a cui questa legge inesistente e questa proposta di legge popolare si riferiscono, a una questione di forma. Con questo espediente il presidente della Corte ha offerto una lezione su trabocchetti e pericoli della scrittura di un testo giuridico, e ha negato la legge.

In questo modo la Corte costituzionale del nostro Paese ha sfondato e mandato in frantumi la grande vetrata di un legame e di una fiducia che, nonostante tante scosse pericolose, fino ad ora ha consentito a tutti noi di credere all’immagine di un unico Stato, Paese, nazione, con sentimenti vicini o uguali almeno su alcuni punti essenziali, come vivere, morire e perché.

Sto dicendo che il danno della sentenza sulla impossibilità di morire, per quanto sia grande il grado e la durata della sofferenza, è molto più profondo della questione enorme a cui si dedica.

Una prima ragione è il voltare tranquillamente le spalle alla irrinunciabile richiesta di tregua dei protagonisti della sofferenza insopportabile. Questo gesto è tossico. Sparge veleno, lo sparge con l’autorità delle più credibili istituzioni. È il veleno di “affari loro”. Se stanno male è una bella disgrazia, ma io non ho tempo di assumermi responsabilità che non mi competono.

Si rafforza così una seconda ragione che conta molto in una vita sociale come quella italiana, molto familistica ma poco comunitaria. È in corso, lo sappiamo, un cambiamento profondo, annunciato dal volontariato e dallo schieramento (non grande ma tenace) di coloro che difendono i profughi in mare.

Certo, questa stessa Italia si è data delle leggi e ha avuto dei governi fermamente decisi a respingere i profughi, con l’aiuto della pirateria libica, omaggiata a Roma e risarcita sul posto purché tenesse viva ed estendesse la persuasione ormai radicata secondo cui è criminale chi fugge dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni.

Non sembri eccessivo dire che l’affondamento, con pretesti linguistici, della legge contro il dolore immenso di alcune persone colpisce un Paese appena sfiorato dalla solidarietà diffusa, allarga una attitudine ancora tipica alla indifferenza, che serve a non portare addosso il dolore degli altri, visto che ognuno ritiene di essere già abbastanza a rischio in un Paese che tende da tempo a rendere privato il sistema sanitario e le sue immense spese.

La terza ragione del danno umano e morale della decisione costituzionale è che si esprime bene con le parole dell’ergastolo ostativo (“fine pena mai”). Si rappresenta nel fatto che coloro che invocano il diritto di morire per troppo dolore sono circondati di medici e di preti che si astengono, per carriera o per fede, da ogni intervento, isolano i lungo-morenti e danno l’impressione che il soccorso ci sia sempre, anche se in modi diversi.

La cancellazione del referendum sul diritto di morire quando è impossibile vivere, rafforza il triste corteo dello “accompagnare chi muore” senza liberarlo dalla pena, mentre chi muore è costantemente stordito dalla sua condizione invivibile.

La Corte in fuga è un formidabile alibi per non aprire mai una riflessione teologica e non consentire mai l’idea di discussione fra esperti della salute.

Se questo è il Paese dove legioni di medici carrieristi si aggiungono ai medici credenti (fino alla quasi totalità di tutti i medici, in certi ospedali) per negare il diritto di aborto delle donne, è facile immaginare (anzi, purtroppo, sapere) che nessuno diventa primario se si occupa davvero di certe sofferenze e considera l’idea di circostanze in cui deve essere lecito porre fine alla vita.

Ecco in che modo una sentenza della Corte costituzionale, che sembra tecnica e rigorosamente contenuta nell’alveo giuridico, diventa un duro colpo di abbandono e solitudine a un Paese meno (molto meno) incline di altri a prendersi cura degli altri.

 

Quelle alterne fortune di Pippo, dal Lotto alle molestie sessuali

Dalle novelle apocrife di Ardengo Soffici. Tutto il paese di Polignano da qualche settimana girava come impazzito intorno al gobbo che dava i numeri al lotto. Non si parlava d’altro fino a Bari. Dopo il terno uscito la settimana addietro, Pippo Trentacoste non riusciva più a sbrigare la corrispondenza: migliaia di lettere, espressi, raccomandate e telegrammi con risposta pagata imploravano buoni numeri, raccomandandosi al suo buon cuore, e promettendo ricompense magnifiche, perché quando si tratta di avere una probabilità che può diventare certezza pure i più scettici si scuotono, e l’odore di una buona vincita fa ardimentosi, e anche seccanti.

Non c’era Regione d’Italia che non fosse rappresentata, c’erano buste della Camera dei deputati. Né mancavano proposte di matrimonio. Il capo dell’ufficio postale non sapeva più dove mettere le mani, ma era allegrissimo: in due settimane aveva vinto 34.000 lire. La vincita maggiore era stata quella dell’avvocato Tittoni, 525.000 lire in due volte, la minore quella del calzolaio Basile, che quasi se ne vergognava: 6.000 lire. I cabalisti di Napoli avevano masticato amaro fino all’uscita del terno: si erano convertiti su tutta la linea. Le autorità locali, benché preoccupate (se quella settimana Pippo avesse indovinato di nuovo buoni numeri, sarebbe potuto succedere di tutto), giocavano anch’esse e vincevano allegramente. Erano attesi rinforzi di pubblica sicurezza, comunque, e a Bari furono prese misure per regolare l’afflusso dei giocatori ai botteghini nelle giornate di venerdì e sabato. Eccolo, Pippo: attraversa la piazza, scortato da due carabinieri; al saluto caloroso dei paesani, risponde misuratamente. Di statura molto sotto la media, stretto in un cappotto nero, porta il cappello un po’ sugli occhi, che mandano lampi. Il volto è cotto dal sole, la testa stretta, le labbra grosse e sporgenti, ombreggiate da baffetti neri alla Douglas Fairbanks. Ha 33 anni; la sesta elementare; è segretario della camera del Lavoro: afferma di lavorare per il popolo, e si dice che abbia minacciato il governo, se non si decide a proteggere con norme e sovvenzioni i carrubeti e gli uliveti monumentali, di sbancarlo a furia di terni e quaterne vinte dai polignanesi. Incominciò sei settimane fa col predire tre ambi serrati per tre sabati consecutivi, poi venne la settimana del terno che portò subito la sua fama oltre i confini del paese. I numeri li dà il giovedì, dal balcone del palazzo comunale, dopo aver fatto un gesto, alla folla che lo applaude, per determinare un religioso silenzio, ed è tanto sicuro del fatto suo che l’ultima volta ha concluso gridando: “Giocate 8-11 ruota di Napoli, e giocate forte”. La sera del sabato, quando tutto il popolo tumultua davanti all’ufficio postale in attesa della telefonata che comunica i numeri estratti, anche il gobbo si mischia alla folla. La volta che uscì il terno fu visto piangere. Ma oggi l’ambo non è uscito, e Pippo Trentacoste è precipitato dagli altari. Tutti l’hanno guardato in cagnesco come per dirgli: “Dove stavi con la testa?”. Molti avevano puntato le vincite precedenti. Soprattutto quelli che l’avevano descritto come una specie di santo, serio studioso generoso, dieci minuti dopo la disfatta già dicevano di averlo sempre considerato un mattoide ubriacone miscredente sovversivo adescatore di ragazzine, un presuntuoso. E il capoguardia dichiarò che il terno gliel’aveva dato lui. Qualche settimana dopo, Pippo Trentacoste compariva dinanzi la terza sezione del tribunale di Bari per rispondere di molestie a una quindicenne. Il tribunale lo condannò a sei mesi e 15 giorni di reclusione, e il pubblico numerosissimo ne ricavò l’ambo 6 e 15, giocandolo su tutte le ruote. Anche questo non uscì.

 

Certe “Frodi” interessano meno di Rdc e superbonus

Prima il reddito di cittadinanza e poi il Superbonus. L’allarme sui “furbetti” è ormai pratica costante della grande stampa che, quotidianamente, non si lascia sfuggire l’occasione di dare ampio spazio alle segnalazioni di frodi, mancati controlli o alle varie indagini delle Procure. Di spazio, sui giornali, in questi casi ce n’è sempre. Non si contano le paginate contro i sussidiati per stare sul divano o, più di recente, quelle per raccontare la truffa delle cessione dei crediti fiscali legati ai bonus dell’edilizia, che solo per il 3% riguardano il Superbonus: una praticaccia, questa, partita dicembre, quando il premier Draghi e il ministro Franco, pur di azzoppare il Superbonus, hanno iniziato a parlare di frodi senza chiarire bene su quali bonus avvenissero. Finora decisamente meno spazio, e con meno verve, i giornali hanno dedicato al raccontare di come nel giorno in cui il governo concede una paccata di miliardi all’industria dell’auto, la famiglia Agnelli/Elkann contro-annuncia un accordo col Fisco riconoscendo di aver evitato di pagare un miliardo di tasse (roba per cui servono milioni di furbetti del divano). Magari oggi, chissà, ci sorprenderanno.

Quorum chi? I quesiti son già mezzi morti

Doveva essere una marcia trionfale ma la corsa al referendum si sta rivelando per Matteo Salvini una mezza via crucis. Una boccata d’ossigeno gli è arrivata da Ettore Rosato di Italia Viva che, riferendosi ai quesiti sulla giustizia, ha invitato Carlo Calenda a stringersi a coorte: “Penso che faremo molte battaglie insieme”, ha detto intervenendo al congresso del leader di Azione. Per il resto quella del leader della Lega sembra diventare una fuga in solitaria o quasi.

Forza Italia è della partita su tutto il fronte, certo. Ma Giorgia Meloni no: sicuramente Fratelli d’Italia non appoggerà i due quesiti sulla abolizione della Severino e la custodia cautelare. Con Roberto Calderoli che temendo il peggio, cioè la diserzione degli italiani alle urne, già lancia un accorato appello ai patrioti di Fratelli d’Italia: “Se i loro sostenitori andranno a votare, concorreranno anche con il no alla determinazione del quorum e potranno votare quello che preferiscono”. Ma i meloniani non sembrano voler fare concessioni. Guido Crosetto la mette così: “Sui referendum ho sempre detto che ponessero quegli argomenti agli ordini del giorno di Camera e Senato. Ha ragione il presidente della Consulta Giuliano Amato: è troppo comodo per il Parlamento quando si deve prendere la responsabilità scaricarla sulla popolazione, sono le forze politiche che hanno il dovere di portare avanti quei temi, è legittimo”. Insomma la strada pare tutta in salita e pure la proposta dell’election day – il jolly dell’accorpamento alle amministrative per spianare la strada al raggiungimento del quorum – ha avuto un’accoglienza freddina. Le prime rilevazioni sulle intenzioni dei cittadini poi non promettono niente di buono: scarso interesse, informazione poco o niente, nel migliore dei casi l’impressione generale degli elettori è che anche se passassero i referendum non risolverebbero i problemi della giustizia.

Un primo campanello d’allarme è arrivato dal sondaggio del Corriere della Sera secondo cui tra gli italiani intervistati, solo il 28% ha seguito le vicende della riforma Cartabia. Mentre la maggioranza assoluta dichiara di non avere un’opinione o non avere intenzione di partecipare al referendum. Due elementi che inducono a pensare che sarà estremamente difficile raggiungere il quorum. Anche perché sia il Pd che il M5S cercheranno per quanto possibile il disimpegno. Giuseppe Conte ha già annunciato la contrarietà dei pentastellati a tutti i quesiti, giudicandoli in alcuni casi inutili, in altri dannosi: “Sono inidonei a migliorare e rendere più equo il servizio sulla giustizia. Siamo orientati a respingere i quesiti: comunque consulteremo gli iscritti”. Il Pd non ha ancora una posizione ufficiale: Enrico Letta ha già detto che per i temi della giustizia “la via privilegiata è e rimane il Parlamento”, anche se l’ala garantista ha iniziato a incalzarlo, scalpitando contro i suoi tentennamenti. “I quesiti sulla giustizia fanno parte della nostra cultura politica e giuridica, non possiamo farceli sottrarre da altri che sono cresciuti con l’esibizione dei cappi”, ha detto l’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci, molto vicino a Matteo Renzi. Già, Renzi. Lui i referendum li ha proprio firmati. E così c’è chi spera in un passo in più dell’ex Rottamatore: il suo ingresso nei comitati per il Sì lanciati da Salvini. Ma con Renzi vatti a fidare. E poi lui sui referendum non porta decisamente fortuna.

Open, la Cassazione annulla i sequestri all’amico di Renzi

Bisognerà attendere un mese per leggere le motivazioni, ma ieri la decisione della Cassazione è stata anticipata dagli avvocati di Marco Carrai. E secondo Matteo Renzi “ha vinto chi crede nella giustizia”. Si riferiscono al fatto che per la terza volta la Suprema Corte ha dato ragione a Carrai, indagato per finanziamento illecito nel caso Open, la cassaforte delle attività politiche dell’ex segretario del Pd, annullando le perquisizioni e i sequestri compiuti nel 2019 nei confronti dell’ex consigliere della Fondazione.

Ma ora il Palazzaccio ha messo la parola fine alla partita: l’annullamento è definitivo. Non c’è, come le prime due volte, rinvio al Riesame per una nuova valutazione.

Per l’avvocato Massimo Di Noia, uno dei difensori di Carrai, “la sentenza ha statuito che non sussiste neppure l’ipotesi astratta (il ‘fumus’ come dicono quelli che parlano bene), del delitto di illecito finanziamento di partito e che la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari”. Il legale va all’attacco del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo, dell’aggiunto Luca Turco e del pm Antonino Nastasi, i firmatari della richiesta di rinvio a giudizio di Renzi e company: “Resta francamente incomprensibile – sostiene l’avvocato – la scelta processuale della Procura di Firenze: soltanto dopo che era stata celebrata davanti alla Cassazione l’udienza di discussione e dopo che quest’ultima aveva rinviato al solo scopo di rendere nota la sua decisione, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio senza attendere di conoscere la deliberazione della Corte”.

Il Gup di Firenze Sara Farini ha fissato l’udienza preliminare al 4 aprile. “Adesso però tutti, sia la Procura sia il giudice dell’udienza preliminare, dovranno prendere atto del responso decisivo e definitivo della Suprema Corte e trarne le dovute conseguenze”, conclude Di Noia che punta al proscioglimento. Sottolineando che dall’udienza vengono sfilate le carte relative ai sequestri e alle perquisizioni di Carrai. Restano però valide, e su quelle i pm ritengono fondate le loro accuse, le migliaia e migliaia di altre pagine raccolte dalle attività investigative e dai sequestri compiuti contro gli altri indagati: 15 persone e 4 società. Con Carrai figurano imputati, tra gli altri, il senatore Matteo Renzi, ex premier e leader di Italia Viva, la deputata Maria Elena Boschi, capogruppo Iv alla Camera, il deputato del Pd Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi. Il Giglio magico al completo. Renzi è imputato per il reato di finanziamento illecito ai partiti assieme all’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente di Open, a Carrai, Boschi, Lotti.

Renzi però sorride, a leggere il suo post: “Oggi ha parlato la Cassazione. E per la quinta volta ha criticato l’azione della Procura di Firenze. È stato giudicato illegittimo il sequestro fatto al mio amico fraterno Marco Carrai. Chi ha subito le conseguenze di sequestri illegittimi – pubblicati in modo illegittimo – sa che niente potrà risarcire le lacrime e il dolore di questi mesi. Ma oggi c’è un messaggio di speranza per i più giovani: quando parla la giustizia, tace il giustizialismo. Oggi vincono le persone che credono nella giustizia”.

La Fondazione Open è stata attiva tra il 2012 e il 2018. Ha accompagnato l’ascesa del sindaco di Firenze verso la conquista del Nazareno e di Palazzo Chigi. Organizzando le convention della Leopolda. A Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, componenti del consiglio direttivo di Open, e a Renzi (che i pm qualificano come “direttore” della Fondazione) è contestato il reato di finanziamento illecito continuato “perché in concorso tra loro” avrebbero utilizzato la Fondazione come “articolazione politico-organizzativa del Pd (corrente renziana)”, ricevendo “in violazione della normativa” sul finanziamento pubblico ai partiti 3.567.562 euro provenienti da donazioni private negli anni dal 2014 al 2018.

Roma, da Buzzi a Guttadauro: nel Pd torna la “questione morale”

“Nel Pd a Roma ci sono associazioni a delinquere”. Quando il 13 giugno 2013 l’ex ministra e allora deputata Marianna Madia parlò così del suo partito, gli atti dell’inchiesta “Mondo di mezzo” erano ancora segretati nei cassetti dei magistrati della Procura di Roma. Prima di lei, il più esperto ex assessore Roberto Morassut era solito definire “ciarpame” il tessuto dem sul territorio. I fatti non tardarono a dar loro ragione. Il 2 dicembre 2014 la prima ondata di arresti azzoppò la maggioranza a sostegno dell’incolpevole ex sindaco Ignazio Marino. Dalle carte emerse il “mal costume” di una fetta del partito romano che in parte contribuì al “sistema” dell’ex re delle coop, Salvatore Buzzi, poi certificato dalle sentenze per corruzione. L’allora segretario romano Lionello Cosentino , pur non indagato, si dimise il giorno dopo, aprendo le porte al commissariamento, durato fino al 2017 e affidato a Matteo Orfini. A giugno 2015, l’ex ministro Fabrizio Barca stilò un rapporto che mise alla berlina metà degli 88 circoli esistenti sul territorio, promuovendone 37 (di cui solo 9 a pieni voti), rimandandone 25 e bocciandone ben 46, utilizzando tra l’altro definizioni come “potere per il potere” e “inerzia catturabile”. Erano valutazioni politiche, non giudiziarie, ma che spinsero Barca a scrivere che per alcune sezioni “non vi è mai stata ragione di vita e di esistenza diversa da quella dell’accrescere (…) una ‘ditta individuale’”. Quei circoli esistono ancora, anche se qualcuno è stato accorpato ed altri sono divenuti “virtuali”.

Cosa è cambiato da allora? Una bomba giudiziaria come “Mondo di mezzo” non c’è mai più stata. Ma la “questione etica” nel Pd romano è di nuovo un tema. La sveglia è suonata il 25 marzo 2021, quando un’inchiesta del Fatto rivelò come con un concorso pubblico in un paesino vicino Roma, militanti e portaborse dem furono assunti a tempo indeterminato in Regione Lazio, compreso l’ex capo della commissione Trasparenza capitolina, Marco Palumbo. “Concorsopoli” spinse alle dimissioni del presidente del Consiglio regionale Mauro Buschini, fedelissimo del vicepresidente e possibile candidato governatore Daniele Leodori. La Procura di Civitavecchia ha chiesto il processo per rivelazione di segreto per Antonio Pasquini, sindaco di Allumiere ed ex capo segreteria di Leodori. L’attuale vice governatore è stato indagato per abuso d’ufficio e subito archiviato dalla Procura di Roma sulle 48 presunte “false presenze” di Nicola Zingaretti in Consiglio regionale nel 2019, quando la sua maggioranza rischiava in ogni seduta di “andare sotto”: l’unico indagato, per ora, è il vice capo di gabinetto, Andrea Cocco, che per i pm avrebbe avallato le “giustifiche” per rendere Zingaretti “presente” in Aula mentre era in giro per l’Italia o in tv da segretario nazionale dem. C’è poi l’inchiesta per peculato e riciclaggio nel Cep, un consorzio di comuni dei Castelli Romani, al cui vertice c’erano persone politicamente vicine a Leodori e al segretario del Pd Lazio, Bruno Astorre. Sempre in zona Regione, l’ex capo di gabinetto di Zingaretti, Albino Ruberti, il 1 maggio 2020, in pieno lockdown, partecipò a un pranzo “clandestino” al Pigneto insieme alla consigliera dem, Sara Battisti: i due aggredirono verbalmente i poliziotti intervenuti per multarli, al grido di “lei non sa chi sono io”. Ruberti chiese scusa e pretese lo stesso dai figli qualche mese dopo, quando i due ragazzi di 17 e 19 anni commisero lo stesso errore nei confronti di due carabinieri ai Parioli.

Ruberti oggi è capo di gabinetto del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, che ha scelto in macrostruttura 7 dirigenti indagati. Fra questi, Pasquale Peluso e Patrizia Del Vecchio, coinvolti nell’inchiesta contabile e penale (reati di truffa e falso) su “Multopoli”, la presunta cancellazione di multe stradali con un danno erariale calcolato in 17 milioni di euro. Ancora indagato, per abuso d’ufficio, il city manager del Campidoglio, Paolo Aielli, per un appalto autorizzato quando era capo della Zecca di Stato. Gualtieri ha poi deciso di affidare la commissione sul Pnrr a Giovanni Caudo, ex assessore con Marino ma che rischia il rinvio a giudizio per traffico d’influenze illecite nella vicenda (risalente al 2015) delle autorizzazioni alle Torri dell’Eur.

In giunta con Gualtieri, ai Trasporti, c’è Eugenio Patané. L’attuale assessore ha spesso criticato i pm titolari dell’inchiesta sul Mondo di mezzo: “Mi aspetto che un pm sappia cos’è un debito fuori bilancio, perché se non lo sa sta compiendo un disastro sulla vita di una persona”, disse a un convegno del partito Radicale nel marzo 2019. La “questione etica” a Roma parte dai territori. Servì la ferrea opposizione della minoranza dem per non ricandidare Antonio Pietrosanti al Municipio 5 Prenestino. Mai indagato, l’ex consigliere municipale viene citato nelle carte di un’inchiesta della Procura di Trento, dal quale emerge che avrebbe presentato a Leodori alcuni imprenditori che i pm trentini ipotizzano fossero parte di una “locale” della ‘ndrangheta a Roma. Ancora indagati Alfredo e Antonio Fabbroni, ex esponenti dem del Prenestino, che per i pm di Roma avrebbero agevolato l’ampliamento dei locali di una Rsa. A fare il giro d’Italia, il caso scoperto dal Fatto dell’ormai ex capogruppo del Municipio 9 Eur, Adriano Burgio, non indagato ma dichiaratamente “amico” e, secondo i pm di Roma, “a disposizione” di Giuseppe Guttadauro, il presunto boss imparentato con Matteo Messina Denaro arrestato nei giorni scorsi nella Capitale: è dovuto intervenire, dopo tre giorni, il segretario cittadino Andrea Casu per “cancellare” Burgio dalle liste dem.

La battaglia correntizia a Roma sta già logorando Gualtieri. Ieri e oggi il sindaco ha chiamato giunta, maggioranza e presidenti di municipio in ritiro per un team building dove “ritrovare compattezza”. Sul tavolo anche la “questione etica”: a Casale Sant’Anastasia era stato invitato anche l’ex procuratore di Milano, Francesco Greco, neo consulente di Gualtieri per la legalità.

“Coi dem si dialoga, ma il centrosinistra con tutti dentro a noi non interessa”

Riccardo Ricciardi, uno dei cinque vicepresidenti del M5S, sostiene che parlare di campo più o meno largo non sia una grande idea: “Alla gente interessa altro, come sapere chi gli garantirà un salario decente o di risparmiare sulle bollette, o quando verranno recuperati i tantissimi interventi chirurgici rinviati per il Covid”.

Alla convention di Azione Enrico Letta ha detto: “Assieme vinceremo le Politiche”. E Carlo Calenda ha ripetuto: “Mai con il M5S”. Che ne dice?

Abbiamo già visto che un partitino, guidato da un uomo con un ego smisurato, ha fatto cadere un governo in piena pandemia. Non vedo come costruire un progetto serio con chi, come il capo di Azione, vuole un minestrone per poi riproporre Mario Draghi anche dopo il 2023. Anche se non penso che il premier si presterà.

Perché il Pd rincorre Calenda?

Con i dem abbiamo un dialogo costante. Ma questo va chiesto a Letta.

Pd e Iv stanno chiudendo molti accordi nelle città senza il M5S.

Dipende dai territori. A Napoli il progetto di Manfredi con molte liste ha funzionato, altrove un modello simile non è stato possibile. I cartelli elettorali magari vincono le elezioni ma poi non riescono a governare. Un centrosinistra vecchio stile, come quello che andava da Bertinotti a Mastella, non ci interessa.

Qualche dem, come Goffredo Bettini, ha aperto alla Lega.

Con il Carroccio abbiamo già dato.

Alle Provinciali di Napoli il M5S correrà con un nuovo simbolo. Fate le prove per un nuovo progetto?

Ma no, essendoci stata l’ordinanza del tribunale civile di Napoli (quella che ha congelato lo Statuto, ndr) abbiamo preferito evitare ogni rischio.

Se il 1° marzo il vostro ricorso venisse respinto, per Conte sarebbe il disastro.

Non c’è persona nel M5S che non riconosca la leadership di Conte. Per il ricorso siamo ottimisti, ma il dato politico è incontrovertibile.

Anche Luigi Di Maio riconosce Conte come leader?

Sì.

Molti dimaiani pensano che l’ex premier punti al voto anticipato.

Se l’avesse voluto avrebbe lavorato per mandare Draghi al Colle, invece ha garantito la stabilità di governo. Non credo che abbia cambiato idea.

La maggioranza balla.

Noi rivendichiamo quanto fatto. Se non fossimo entrati in questo governo avremmo lasciato la golden share alla Lega, che faceva la lotta contro le mascherine. E poi noi portiamo avanti istanze come più fondi per la sanità e il salario minimo.

I dem sono gelidi sul salario…

Loro sanno chi sul ddl Zan ha collaborato, e chi invece ha affossato il testo. E sanno anche che il M5S ha fatto da traino sul ddl suicidio assistito. Ma un partito deve decidere cosa dire ai propri elettori.

Alessandro Di Battista è una voce ostile da ignorare o una risorsa?

Penso che sia una risorsa perché parla di politica, quella vera, anche se certe cose non le condivido. Sul governo Draghi gli vorrei ricordare che la Lega un anno fa voleva togliere lo stato di emergenza. Ma Alessandro non si esprime certo per convenienza.

Letta, Calenda e Giorgetti officiano il “Draghi forever”

È il caso di unire i puntini. Giovedì, dopo i molteplici incidenti parlamentari, Mario Draghi s’infuria con i partiti: o fate come dico io, oppure “così non si va avanti”. Venerdì il Partito democratico si premura di confermare di essere dalla parte del premier, senza se e senza ma. Il ministro Andrea Orlando se la prende con i partiti più irrequieti della maggioranza. Non li cita, si riferisce a Lega e Cinque Stelle, ma in fondo pure Forza Italia, quelli che “creano instabilità ponendo ogni volta dei distinguo”. Sabato, infine, Enrico Letta partecipa al congresso romano di Azione, il partito di Carlo Calenda, e spalanca le porte del centrosinistra al più draghista dei leader moderati: “Faremo grandi cose, vinceremo insieme le elezioni del 2023”.

Tre indizi fanno una prova. In un momento di turbolenze per la maggioranza di governo, il Pd rimane saldamente a sostegno del premier, immobile e affidabilissimo. I dem si sono intestati il ruolo di partito di Draghi. Per il presente e per il futuro. D’altra parte l’intervento del segretario Letta al battesimo romano del partito di Calenda è difficile da fraintendere.

Al congresso di Azione ci sono leader di partito di ogni schieramento, da destra a sinistra: Antonio Tajani (FI), Giovanni Toti (Cambiamo), Ettore Rosato (Iv), Roberto Speranza (Articolo Uno). L’apertura è affidata al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. Il senso politico lo dà il padrone di casa, Calenda, che stabilisce in modo netto il perimetro politico: tutti tranne Conte e Meloni. Compresa la parte della Lega fedele a Giancarlo Giorgetti, non a caso – pure lui – tra gli ospiti del congresso di Azione. “Siamo per il dialogo – ha detto Calenda – ma questo non vuol dire accettare qualunque controparte. Noi non dialoghiamo e non accettiamo il confronto con il Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia. È una scelta netta e definita perché il dialogo si fa a partire dai valori comuni”.

A prescindere dai veti calendiani, Letta aveva a sua volta annunciato i suoi saldi propositi di alleanza. Con un’apertura mai così netta ai moderati di Azione: “Ci troveremo insieme, accanto, alle prossime elezioni – ha garantito il segretario del Pd –. Avremo uno sguardo comune sul futuro, a partire dall’Europa. E sono sicuro che faremo grandi cose. Insieme vinceremo le elezioni del 2023. E dopo, insieme, daremo un governo riformista, democratico ed europeista al nostro paese. Sono qui per confermare questa voglia di fare strada insieme per il bene dell’Italia”. Di più, non si poteva dire.

Ora, resta difficile capire quale sia il vero punto di equilibrio di Letta, che fino a prova contraria rimane il sostenitore di una larghissima alleanza liberale che va da Calenda fino ai Cinque Stelle di Conte. Ma che sbatte sui veti reciproci, fieramente esibiti dai presunti alleati. Conte – che sarebbe, sempre fino a prova contraria, il primo alleato del Pd – di Calenda non ne vuole sapere. Calenda – che era arrivato a minacciare la sua candidatura alle suppletive della Camera solo per ostacolare quella eventuale di Conte – almeno ha stabilito un perimetro molto chiaro: per lui “tutto è possibile, a condizione che non ci siano i 5Stelle”.

In serata il leader dei Cinque Stelle commenta così, con i suoi collaboratori: “Prendiamo atto dell’arroganza e dei veti, ma li lasciamo ad altri. I protagonismi dilatano l’ego e fanno apparire indispensabili. Noi non abbiamo paura del confronto, ma c’è una differenza sostanziale fra campo largo e campo di battaglia: creare accozzaglie per puntare solo alla gestione del potere non ci interessa”.

Conte e Calenda sono alternativi: dei due, l’uno. Per capire cosa passi per la testa del segretario del Pd, può aiutare questa parola d’ordine, tremendamente bizantina: “Continuità dinamica”. La spiega Stefano Ceccanti, deputato dem di consolidate convinzioni draghiane: “Letta – dice – è sempre stato coerente nel perseguire una continuità dinamica con Draghi, non con la medesima coalizione da unità nazionale, ma con una futura maggioranza progressista”. Letta è per un Draghi post-elezioni, insomma: scommette sulla conferma dell’attuale premier come unico scenario delle urne. Un dato che finirebbero per accettare sia i 5Stelle che Calenda. Invece l’irascibile fondatore di Azione è per un draghismo “statico”. Per Calenda da una parte ci sono “i buoni” europeisti che continueranno a sostenere Draghi: i partitini di centro, il Pd, Forza Italia, la Lega depurata dal salvinismo. Dall’altra “i cattivi” populisti: la Lega fedele a Salvini, Fratelli d’Italia e il M5S. L’unica sfumatura tra Letta e Calenda è proprio il rapporto con Conte.

La sorpresa, che anticipa la giornata in cui il segretario del Pd vira definitivamente al centro, è l’intervista di Goffredo Bettini al Foglio. Proprio colui che aveva ispirato la strategia giallorosa di Nicola Zingaretti, in teoria il più vicino a Conte, disegna il manifesto più draghista di tutti: “Oggi dobbiamo essere il partito della stabilità”, dice Bettini. Il Pd “è il partito più forte” dopo la (ri)elezione di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, “è l’architrave del sistema democratico”. E il suo dovere è quello di “aiutare Draghi nella navigazione”.

Sembra Calenda, invece è Bettini. Il larghissimo campo del centro, con un’impercettibile spolverata di sinistra, è praticamente servito.

Economia, Torino vince e “boicotterà” Trento

Stesso argomento stesse date, due città diverse. Gli operatori interessati ai festival dell’economia di Torino e Trento dovranno farsi in due. Oppure pianificare un tour de force, visto che le due città distano 360 km. Le due kermesse, quest’anno, si terranno nelle stesse date. La conferma anticipata l’ha data ieri con un tweet il giornalista Paolo Madron. Il festival di Trento infatti si svolgerà dal 2 al 5 giugno 2022, con un calendario ormai già definito. Gli organizzatori di Torino, la Editori Laterza, che da quest’anno hanno ceduto Trento al Sole 24 Ore, vincono dunque il braccio di ferro con gli sponsor, decidendo di andare alla “conta” e sfidare i rivali nella stessa settimana.

Inps: in 3 anni il reddito di cittadinanza ha aiutato in tutto 4,6 milioni di italiani

Poco meno di tre anni dal suo arrivo e il Reddito di cittadinanza ha già aiutato oltre 4,6 milioni di persone, con un’impennata di richieste nella fase più dura della pandemia. È probabile che i critici si soffermeranno sui 20 miliardi già spesi, gridando allo spreco, ma i numeri dicono soprattutto che – nonostante l’investimento – lo strumento fa in realtà grande fatica a raggiungere tutti i poveri assoluti che abbiamo in Italia, quindi resta persino insufficiente.

Nel 2020, infatti, l’Istat ha contato 5,7 milioni di indigenti, ma il Reddito è andato solo a 3,7 milioni di persone, peraltro continuando a essere sproporzionato a favore dei single e a penalizzare le famiglie più numerose, solitamente le più fragili. Un problema che però non viene considerato nel dibattito politico, solitamente concentrato più sulla colpevolizzazione dei beneficiari, culminata nelle misure punitive contenute nella legge di Bilancio.

L’Inps ha appena pubblicato un’analisi sul periodo che va dalla primavera 2019, quando sono state distribuite le prime carte acquisti, a tutto il 2021. Nell’anno appena passato abbiamo raggiunto il record delle persone coinvolte (oltre 3,9 milioni) e di conseguenza della spesa (8,8 miliardi). Il motivo è che il 2021 porta con sé la coda del picco di nuove richieste arrivate con il Covid e la crisi economica che ne è derivata. È soprattutto nell’emergenza sanitaria che la presenza del Reddito, già in vigore e operativo, si è rivelata fondamentale. Nell’ultimo semestre, invece, la leggera ripresa ha ridotto la quantità di richiedenti.

Riassumendo: oltre due milioni di nuclei familiari hanno ottenuto almeno una mensilità nel corso di questi quasi tre anni. Nei primi tre mesi, tra aprile e giugno 2019, il Reddito è andato a circa 860 mila nuclei: il 70% di questi risulta ancora beneficiario a novembre 2021. Questo alto “tasso di permanenza” mostra quanto sia difficile far uscire dalla condizione di povertà queste famiglie e anche qui non può certo essere sottovalutato il ruolo della pandemia.

A dicembre 2021 l’assegno è stato erogato a oltre 1,3 milioni di famiglie: quelle con un solo componente sono ben il 44,7%. A queste persone è andato un importo medio di 446 euro. Il 14,5% è invece formato da due adulti senza minori (536 euro l’importo medio totale). La cifra più “alta” è andata alle famiglie con almeno tre adulti e due minori: queste hanno preso in media 734 euro con i quali hanno dovuto mantenere cinque o più persone. Un aiuto debole per le famiglie numerose, quindi, ma il governo non sembra orientato a potenziarlo, anche perché in maggioranza prevalgono partiti che, piuttosto che aumentare la dote, abolirebbero del tutto il Reddito.

È interessante notare che quando i nuclei sono composti da un solo adulto con uno o più minori, quell’adulto è quasi sempre di sesso femminile. Si tratta, evidentemente, di ragazze madri, donne separate o vedove con figli a carico. Il 17% dei nuclei, poi, ha almeno un componente disabile.

Su tre milioni di beneficiari totali a dicembre, una persona su quattro è minorenne, i due terzi vivono nelle Regioni del Sud, il 12,6% sono extra-comunitari. Il report dell’Inps non dice quanti percettori hanno trovato lavoro in questi tre anni o erano già occupati nel momento in cui lo hanno richiesto (lo ha invece comunicato l’Anpal a dicembre e sono 725mila, buona percentuale se si tolgono minori e non impiegabili).

L’istituto di previdenza si è però soffermato sulla composizione dei beneficiari nel primo trimestre, da aprile a giugno 2019: il 60% risultava teoricamente occupabile, ma il 25% non aveva mai lavorato, il 15% lo aveva fatto in passato e solo un 20% scarso aveva esperienze più recenti. “L’evidenza – si legge – è di un debole attaccamento al mercato del lavoro da parte dei percettori di Reddito di cittadinanza, mostrando come la misura riguardi effettivamente chi è a rischio di esclusione sociale”. Una circostanza che, da destra e non solo, viene costantemente ignorata: la difficoltà di collocare questi utenti deriva dalle loro scarse competenze ed esperienze, non dal cosiddetto “effetto divano” scatenato dai sussidi né dalla presunta incompetenza dei navigator.