Fontana, nuova gaffe: manda dati sbagliati, ma poi incolpa Roma

Confinati in zona rossa per una settimana perché la Regione Lombardia ha comunicato all’Istituto Superiore di Sanità dati errati. Uno svarione emerso il 20 gennaio e diventato verità inoppugnabile ieri, durante l’incontro settimanale della Cabina di Regia. Che i dati comunicati (e usati per stabilire il coefficiente Rt e, quindi, il colore della Lombardia) fossero sbagliati, risulta dal documento interno nel quale l’Iss ricostruisce il cambiamento dello status della regione, “alla luce dei nuovi dati comunicati”.

Nel report si legge che il 20 gennaio, la Lombardia, nel consueto aggiornamento epidemiologico, oltre ai numeri della settimana trascorsa, ha inserito anche “una rettifica dei dati relativi anche alla settimana 4-10 gennaio 2020”, inviati il 13 gennaio. A cambiare è “il numero di casi in cui viene riportata una data inizio sintomi e, tra quelli con una data di inizio sintomi, quelli per cui viene data una indicazione di stato clinico laddove assente”. I primi diminuiscono da 419.362 a 414.487; i secondi passano da 185.292 a 167.638. Infine i casi “con una data inizio sintomi e in cui sia dichiarato uno stato asintomatico o vi sia notifica di guarigione/decesso senza indicazione di stato sintomatico precedente” crescono da 234.070 a 246.849. Cambiamenti che, dice l’Iss, “riducono in modo significativo il numero di casi che hanno i criteri per essere confermati come sintomatici e pertanto inclusi nel calcolo dell’Rt”. La Regione Lombardia, quindi, ha prima comunicato numeri e indici propri da zona rossa (con un Rt risultante a 1.38), poi avrebbe cercato di correre ai ripari. Regione Lombardia spiega la rettifica del 20 gennaio con un problema causato da un baco del sistema informatico che conteggia i contagi. Un malfunzionamento scoperto dai tecnici del ministero solo la settimana scorsa. Per ovviare all’inconveniente, il ministero avrebbe chiesto alla Regione di “forzare” l’inserimento dei dati (anche se erronei) e di procedere successivamente alla loro rettifica.

Giovedì era stata la Lombardia a dichiarare di aver inviato una serie di “dati aggiuntivi” per “ampliare i dati standard trasmessi nella settimana precedente”. Sosteneva inoltre che, in base all’ultimo monitoraggio, l’Rt medio fosse 0.82. Da zona arancione. E tutto ciò accadeva mentre Attilio Fontana faceva proprio del fattore Rt il fulcro del suo ricorso al Tar contro la zona rossa. Una guerra che lunedì vivrà il momento cruciale, quando il giudice confronterà i dati del secondo e terzo monitoraggio. Quando cioè gli errori risulteranno lampanti. È forse per evitare imbarazzi che due giorni fa il Pirellone ha inviato la mail con cui ammetteva le inesattezze. Una comunicazione alla quale il ministero ha risposto chiedendo un documento ufficiale. Il batti e ribatti – segretissimo – è continuato per tutta la giornata di ieri, fino a quando non è trapelato, scatenando le reazioni della politica.

Mentre Salvini pontificava su presunti rapimenti di massa (“Se 10 milioni di lombardi sono stati rinchiusi in casa per mesi in base a dati e valutazioni sbagliate del governo, saremmo di fronte a danni morali ed economici enormi, un vero e proprio sequestro di massa”), Fontana assicurava che “abbiamo sempre fornito informazioni corrette” e che “a Roma devono smetterla di calunniare la Lombardia per coprire le proprie mancanze”. Salvo poi, dalla D’Urso, spostare l’attenzione sul Tar. “Il ricorso ha avuto un suo effetto”, ha detto, “non parlo di responsabilità, ma di valutazione più complessiva che noi abbiamo voluto evidenziare, l’indice di incidenza”. Un capolavoro di acrobazia, anche perché oggi, concesso l’ arancione, il ricorso potrebbe essere ritirato.

Intanto le opposizioni affondavano il coltello nell’ennesima brutta figura della Lombardia. In Regione “non solo hanno dimostrato di non saper gestire l’emergenza, ma ora parrebbe che per un loro errore abbiamo pagato il prezzo, economico e psicologico, di una settimana in zona rossa. Ora paghino i danni”, ha attaccato il 5S, Massimo De Rosa. Anche il Pd ha chiesto a Fontana e all’assessore Letizia Moratti spiegazioni: “Se, dopo giorni di polemiche e di ricorsi, la responsabilità della serrata fosse della Regione, Fontana dovrebbe perlomeno chiedere scusa pubblicamente”, ha detto Samuele Astuti.

“Il sistema dei colori funziona”. L’Rt nazionale scende a 0.97

L’allarme resta alto, anche per la variante inglese comparsa in varie zone del Paese (ieri di nuovo in Piemonte) e quella brasiliana trovata in Germania. Però con il monitoraggio settimanale di ieri l’Italia respira: “Si osserva una diminuzione del rischio di una epidemia non controllata e non gestibile” scrivono ministero della Salute e Istituto superiore di sanità dopo sei settimane di “peggioramento generale”. Segno che, spiegano, “il vituperato sistema dei colori funziona”. L’indice di trasmissione Rt torna a scendere dopo cinque settimane di aumento: otto giorni fa era a 1.09, la media calcolata tra il 30 dicembre e il 12 gennaio è 0.97 (con valore massimo a 1.11).

Gli esperti avvertono però che “un nuovo rapido aumento nel numero di casi nelle prossime settimane è possibile, qualora non venissero mantenute rigorosamente misure di mitigazione sia a livello nazionale che regionale”, quindi i colori cambieranno il meno possibile. La Lombardia passa da rosso ad arancione, ma solo perché aveva mandato dati sbagliati, cioè un maggior numero di sintomatici, la settimana scorsa. La Sardegna passa da gialla ad arancione perché il rischio ora è considerato alto. Restano rosse la Sicilia e Bolzano. Resta arancione anche il Veneto, dove la situazione migliora: lo stesso presidente Luca Zaia ha concordato di mantenere le restrizioni con il ministro della Salute Roberto Speranza. Un’altra settimana nel regime intermedio per Val d’Aosta, Piemonte, Liguria, Friuli-Venezia-Giulia, Marche, Abruzzo, Lazio, Puglia e Calabria. Le Regioni ritenute a rischio alto sono quattro contro 11 una settimana fa: la Sicilia che ha Rt a 1.27, quasi il 30% di tamponi positivi e tracciamento in calo; la Provincia autonoma di Bolzano che ha l’incidenza più alta (368,75 ogni 100 mila abitanti in 7 giorni contro 145,2 nazionale), è al 39% di posti letto occupati nelle terapie intensive (la soglia è 30%) e Rt a 1.03; l’Umbria che ha il 38% delle rianimazioni e Rt a 1.05 e appunto la Sardegna, che ha Rt a 0.95 ma anche un forte ritardo nella comunicazione dei dati all’Istituto superiore. La Puglia, benché a rischio moderato, è l’unica con la Sicilia ad avere Rt sopra 1 anche nel valore più basso. A rischio moderato sono anche Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Piemonte e Veneto. E poi Lazio, Marche, Molise, Provincia autonoma di Trento e Val d’Aosta, ma per queste “con alto rischio di progressione a rischio alto”. Rischio basso per Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania e Toscana.

A livello nazionale torna a scendere l’incidenza (339,24 nuovi per 100.000 abitanti nei 14 giorni fino al 17 gennaio contro 368,75 al 10 gennaio: meno 8%). “Il fatto che sia in diminuzione anche tenendo conto dei casi diagnosticati con test rapido antigenico è un segno di miglioramento epidemiologico”, scrive la cabina di regia. Diminuiscono i posti letto occupati negli ospedali: da 2.636 (12 gennaio) a 2.487 (19 gennaio) nelle terapie intensive, dunque meno 5,7% (ma ieri erano già a 2.390); nei reparti ordinari si è passati da 23.712 ricoverati al 12 gennaio a 22.699 il 19, meno 4,3% (ieri erano scesi ancora a 21.691). Molte Regioni, tuttavia, rimangono sopra le soglie.

Il 12esimo report dell’Inail sui contagi sul lavoro registra al 31 dicembre scorso un incremento di 26.762 casi (+25,7%) rispetto al monitoraggio al 30 novembre, di cui 16.991 riferiti a dicembre, 7.901 a novembre e altri 1.599 a ottobre, complice la seconda ondata che ha avuto un impatto più intenso della prima: sono stati 131 mila nel 2020 (il 6% dei contagi totali), 423 i morti; nella sanità i più colpiti sono gli infermieri.

Sul versante vaccinazioni la brutta notizia è che dopo i ritardi di Pfizer ci saranno quelli di Astrazeneca, che potrebbe avere l’autorizzazione anche prima del 29 gennaio ma non ce la farà a consegnare nei tempi: è la fornitura più importante, i tempi si allungheranno. Quanto all’inchiesta di Bergamo sui piani pandemici, la Procura ha acquisito un nuovo rapporto del generale Pier Paolo Lunelli, esperto della materia, già consulente sui piani di diversi Paesi europei, che mette in fila le violazioni da parte italiana del Regolamento sanitario internazionale. Infine, il Tar del Lazio ha dato ragione al deputato Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia sull’accesso agli atti relativi ai piani pandemici: il ministero della Salute dovrà consegnarglieli entro 30 giorni.

Al vaglio il materiale sequestrato a Cesa

L’assessore calabrese al Bilancio, Francesco Talarico, finito agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Basso profilo”, ha “letteralmente svenduto il suo futuro incarico, mettendo in relazione faccendieri, soggetti di palese estrazione ’ndranghetista con un parlamentare europeo”.

La Dda di Catanzaro si riferisce al segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, che avrebbe dovuto, secondo gli inquirenti, “aprire canali importanti” in Albania all’imprenditore Antonio Gallo, considerato il riferimento operativo dei clan. È per questo motivo che il procuratore Nicola Gratteri e i suoi pm hanno deciso di perquisire l’abitazione di Cesa, indagato per associazione a delinquere finalizzata ad agevolare la ’ndrangheta.

Gli inquirenti, adesso, stanno valutando il materiale sequestrato durante le perquisizioni – non solo a casa del segretario Udc – per ricostruire quello che nella richiesta di custodia cautelare è stato definito “un comitato d’affari”, una sorta di “connubio diabolico tra imprenditori e politici”.

Da una parte Antonio Gallo e dall’altra l’assessore calabrese al Bilancio, Francesco Talarico, accusato anche di scambio elettorale politico-mafioso. È lui che, il 7 maggio 2017, accompagna l’imprenditore amico delle cosche a Roma dove, al ristorante “Tullio”, incontra il deputato Cesa. In quell’occasione ci sono anche due consiglieri comunali calabresi, Tommaso e Saverio Brutto che, già allora, sono intercettati dalla Dia.

Se sia stato un semplice pranzo o qualcosa di più non è stato possibile appurarlo. Essendo Cesa all’epoca parlamentare, infatti, gli investigatori hanno dovuto staccare il trojan, inoculato nel cellulare di uno dei Brutto, senza poter ascoltare i discorsi tra il segretario dell’Udc e l’imprenditore Gallo. Dopo l’avviso di garanzia, Cesa ha rassegnato le dimissioni nelle mani del presidente dell’Udc, Antonio De Poli. A lui ha spiegato di essersi “sempre adoperato per garantire la massima trasparenza”.

L’indagine, intanto, va avanti e oggi inizieranno davanti al gip gli interrogatori di garanzia per i 48 arrestati, tra cui l’imprenditore Antonio Gallo e l’assessore regionale Franco Talarico. A loro, con ogni probabilità, i pm chiederanno dei loro rapporti con il coindagato Lorenzo Cesa.

“Basso profilo” non è la prima inchiesta antimafia che scuote il palazzo della Regione Calabria, ormai abituato agli scandali giudiziari. Con l’arresto dell’assessore al Bilancio Franco Talarico, infatti, sono tre i rappresentanti della maggioranza di centrodestra finiti ai domiciliari. Nel febbraio scorso, la Dda di Reggio ha arrestato il consigliere di Fratelli d’Italia, Domenico Creazzo, sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Il mese prima, secondo i pm, era stato eletto con i voti della cosca Alvaro a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale dove è stato nominato presidente Mimmo Tallini di Forza Italia. Anche lui, a novembre, è stato arrestato per i suoi rapporti con la cosca Grande Aracri. Il Riesame ha poi annullato l’arresto e Tallini, ancora indagato per mafia dalla Dda di Catanzaro, è tornato in aula. Tra gli applausi degli altri consiglieri.

Ue: piano ad aprile, riforme e task force per controllare

Dietro la “bufala” dei ritardi italiani sul Recovery fund si gioca una partita molto più seria e delicata che riguarda il tipo di “riforme” che l’Italia è chiamata a realizzare e le garanzie che l’Europa richiede per sborsare prestiti e sovvenzioni. Lo si legge chiaramente nelle nuove Linee guida (Guidance to member States Recovery and Resilience plans) che la Commissione europea ha licenziato ieri.

Ritardi immaginari Quanto ai ritardi, il testo non lascia spazio a equivoci: il termine per presentare i piani nazionali di Ripresa e resilienza è fissato al 30 aprile. Solo il prossimo 9 febbraio, poi, tra l’altro, è prevista l’approvazione definitiva da parte del Parlamento europeo del Regolamento sulla governance del Recovery e Resilience Facility, il cuore del Next Generation Eu. Il regolamento è stato approvato dalla commissione Bilancio del Parlamento europeo lo scorso 12 gennaio e ora si attende il voto finale dell’aula e la deliberazione del Consiglio.

Il problema dei ritardi, tra l’altro, sta da un’altra parte e non riguarda l’Italia. Essendo parte integrante del Bilancio europeo e ricorrendo allo strumento delle “risorse proprie”, perché la Commissione possa raccogliere i fondi necessari serve la ratifica dei 27 Paesi della Ue. Ma solo Croazia, Cipro e, guarda un po’, Italia, l’hanno realizzata. La Germania ce l’ha in calendario il 9 aprile, la Spagna ancora non ha fissato una data.

Riforme necessarie Le Linee guida diffuse ieri, invece, lasciano intendere che la Commissione ha a cuore soprattutto i piani di riforma. In tal modo si mantiene la presa sugli Stati nazionali che, in cambio delle cospicue risorse, devono garantire riforme come, ad esempio, “quella delle pensioni, del mercato del lavoro” e in generale quelle “essenziali per garantire l’attuazione efficiente ed efficace degli investimenti” e in grado di garantire un uso improprio dei finanziamenti. Quindi “strategie anti-corruzione, anti-frode e anti-riciclaggio, amministrazione pubblica efficace, efficacia dei sistemi giudiziari e Stato di diritto”. L’indicazione delle riforme è generalizzata, vale per tutti: rispetto alla precedente formulazione, infatti, dalle Linee guida è scomparsa la frase “in alcuni casi” ed è stato aggiunto un paragrafo che impone di segnalare le riforme nel Facility plan.

Controlli specifici Le Linee guida sanciscono ancora che ogni Paese deve individuare degli specific actors, dei soggetti specifici responsabili di controlli “sufficientemente robusti per proteggere gli interessi dell’Unione” ed evitare “frodi, corruzione e conflitti di interessi”. I dispositivi di controllo saranno valutati e se considerati “insufficienti” bloccheranno l’erogazione dei fondi. I “soggetti specifici”, devono avere “capacità amministrative” e “poteri legali”. La preoccupazione del governo di definire una struttura ad hoc non era quindi un vezzo autoritario del premier Giuseppe Conte, ma rispondeva a una precisa richiesta dell’Ue. Così come la centralità che nella prima bozza, pesantemente attaccata da Matteo Renzi, aveva il capitolo Giustizia, rispondeva a una chiara priorità.

Ritardi effettivi In realtà il ritardo è stato provocato proprio da Renzi, che dal 7 dicembre ha messo in mora ogni progresso. Ieri il presidente del Consiglio ha dato seguito a quanto annunciato in Parlamento convocando i sindacati per discutere della bozza e poi anche le associazioni degli agricoltori. Un primo giro di tavolo in cui ogni associazione mette l’accento sulle proprie priorità. Oltre ai confronti sociali, però, l’attenzione è rivolta al Parlamento. Le audizioni potrebbero iniziare venerdì prossimo, 29 gennaio, e concludersi all’inizio della prima settimana di febbraio per poi passare alle relazioni da approvare in aula intorno a metà febbraio e forse anche più in là. A quel punto il Piano sarà inviato alla Commissione. Crisi di governo permettendo.

Renziani a reti unificate: a dicembre Iv domina nei tg di Rai e di Mediaset

Il dominio dei renziani in tv adesso è certificato pure dall’Agcom, l’Agenzia garante per le telecomunicazioni. La crisi di governo ha infatti consentito agli esponenti di Italia Viva di riconquistare la centralità perduta in politica quanto nei media. E così a dicembre Matteo Renzi e i suoi hanno dominato i tg Rai e Mediaset, ben figurando – almeno nei numeri – pure nei talk show.

I partiti nei tg. Il report mensile dell’Agcom parla chiaro. Sommando i dati dei telegiornali delle tre reti Rai e considerando tutte le edizioni, a dicembre Italia Viva raccoglie 4 ore e 30 minuti di “tempo di notizia”, ovvero i minuti dedicati “all’illustrazione di un argomento/evento in relazione a un soggetto”. Si tratta del 20,5 per cento dello spazio mediatico, più di ogni altro partito: il M5S si ferma al 18 per cento, Lega e Pd al 17, Forza Italia e FdI al 10. La presenza dei renziani cala – si fa per dire – solo se si somma al tempo di notizia il “tempo di parola”, quello in cui va in onda direttamente un politico. In quel caso le percentuali sono più uniformi, per quanto Iv resti sovraesposta rispetto al suo peso: nei tg Rai prevale la Lega (19 per cento), poi il Pd (17) e di nuovo Italia Viva (16).

Sui telegiornali Mediaset è invece un trionfo: per tempo di notizia i renziani occupano il 26 per cento dello spazio, staccando di nove punti FI, seconda. Anche sul Biscione le differenze si assottigliano un po’ se si considera il tempo di parola, ma Iv è ancora davanti a tutti (22 per cento), seguita dal Pd (18), da Forza Italia (16) e dal M5S (15).

I politici nei tg.Detto dei partiti, Agcom riporta anche quali sono “i soggetti politici e istituzionali che parlano di più”. Al primo posto un po’ ovunque c’è Giuseppe Conte, se non altro per l’ovvia ragione che a dicembre il presidente del Consiglio ha dovuto presentare i decreti relativi alle festività natalizie. Qui però, oltre ai renziani, si conferma Matteo Salvini, da sempre cannibale dell’etere. Al Tg1 e al Tg3, subito dopo il premier c’è il leader leghista, che addirittura riesce a scavalcare Conte al Tg2 (10 minuti e 54 contro 9 e 28). Su Mediaset è l’altro Matteo a prender il posto di Salvini, tanto che Renzi segue Conte in tutti e tre i tg per “tempo di parola”.

I talk show. La tendenza non cambia nei dati dei talk show. Su Rai 1 il politico più presente (si intende anche la messa in onda di una clip, non per forza in diretta) è Conte, che mette insieme 2 ore 17 minuti; seguito da Salvini con 56 minuti. Dietro di loro, Pierpaolo Sileri con 36 minuti.

Podio inedito nei talk di Rai 2, con Roberto Speranza (28 minuti), Mariastella Gelmini (24) e Luca Pastorino di Leu (21) che ribaltano le consuete gerarchie. Su Rai 3 ecco invece Salvini davanti a tutti per distacco (53 minuti) davanti a Speranza (39) e Sandra Zampa (36). Su Mediaset gran parte dell’approfondimento è su Rete 4, dove Conte parla per 1 ora e mezza, tallonato da Vittorio Sgarbi (1 ora e 24) e con Renzi e Salvini in buona forma (54 minuti al primo, 52 al secondo). Ben più ridotti i minutaggi su Canale 5 (su Italia 1 sono addirittura nulli): Luigi Di Maio è il più presente con 19 minuti, seguito da Sergio Mattarella con 13 e da Attilio Fontana (11). Niente che scuota il dato generale del mese: il grande ritorno dei renziani per raccontare in tv la crisi di governo.

Servizi, la carta Benassi per “convincere” tutti

È tra gli uomini oggi più vicini a Giuseppe Conte, ma non lo conosceva prima di assumere il ruolo di consigliere diplomatico a Palazzo Chigi, Piero Benassi, che giovedì sera è stato nominato Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti. Il premier aveva annunciato che avrebbe ceduto la delega a una persona di fiducia. Benassi, 62 anni, romano, indubbiamente lo è: fino a ieri è stato suo Consigliere diplomatico e anche sherpa del G20 per il nostro Paese, nell’anno della presidenza italiana. Indefessamente al suo fianco in ogni incontro internazionale. E dai partiti non si è alzata alcuna voce critica: ambasciatore a Tunisi (2009-2013) e a Berlino (2014-2018), capo di gabinetto di Emma Bonino alla Farnesina, durante il governo Letta, con incarichi in diplomazia a Cuba, Varsavia, Bruxelles e Washington, Benassi ha un’autorevolezza e un prestigio suoi personali. Senza contare che ha intrattenuto rapporti professionali con molti ministri del governo Conte: da Enzo Amendola (Affari europei) a Lorenzo Guerini (Difesa), da Luciana Lamorgese (Interni) a Luigi Di Maio (Esteri).

La sua nomina sembra anche un modo per Conte per blindare l’esecutivo, per fermare le ipotesi di rimpasti troppo ampi. Si tratta del primo diplomatico di carriera a ricoprire questa carica: interessante nel rapporto in movimento tra politica e burocrazie, ma anche tra feluche e intelligence.

Il primo a complimentarsi è stato Gennaro Migliore (Iv): la nomina di Benassi non è una mano tesa a Renzi, visto che il premier a riprenderlo nella maggioranza non ci pensa proprio, ma i renziani non hanno avuto da eccepire. Si era parlato per quel posto di Lamorgese: ma lasciarla dov’è consente a Conte di non liberare il Viminale e di evitare conseguenze potenzialmente complesse. E poi, Benassi gode della fiducia di Sergio Mattarella: fu lui a indicarlo al premier come Consigliere diplomatico.

Durante il governo gialloverde non era facile ancorare l’Italia all’Europa. Benassi, però, è uno con le idee chiare: e si era dato l’obiettivo di dividere la figura di Conte, punto di equilibrio, da quella della sua coalizione, agli occhi dell’Europa, forte dei suoi rapporti in primis con Angela Merkel. Durante il governo giallorosso questo percorso è stato più facile. Il neo Sottosegretario è anche quello che ha messo su la rete diplomatica della Lettera dei 9 nello scorso marzo, primo passo verso il Recovery fund. Ed è stato uno dei negoziatori delle notti di luglio a Bruxelles: sempre pronto alla battuta e alla “lezione” nel merito come metodi persuasivi, ma anche alla precisazione ruvida e diretta, ha trattato fino all’ultima virgola con gli staff di von der Leyen, di Macron, di Rutte.

Per smorzare la tensione, girava l’immagine del “cucchiaio” di Conte a Rutte sul modello di quello di Totti all’Olanda negli Europei del 2000, nella delegazione italiana in quelle ore: chissà se c’era lo zampino dell’allora Consigliere diplomatico, romanista senza se e senza ma. La scelta di Conte oggi è anche un modo per rassicurare l’Europa in generale e la Germania in particolare, che guardano con raccapriccio la crisi politica nostrana.

Benassi ha seguito in prima persona i dossier più sensibili dal punto di vista della sicurezza, dalla Libia in giù. Per gestire le pressioni e i timori degli States sul 5G, ha avuto rapporti costanti con l’ormai ex ambasciatore a Roma, Eisenberg e con il Consigliere per la sicurezza di Trump, Robert O’Brien. Detto per inciso, come ogni diplomatico che si rispetti, ha ben presente che l’Italia deve mantenere rapporti prioritari con l’Amministrazione Usa, sia presidente Trump o Biden.

La sua nomina ha sbloccato quelle dei vertici dell’Intelligence: ieri sono stati nominati i vice dell’Aise (il consigliere militare del premier, Carlo Massagli, e il generale della Guardia di Finanza, Luigi Della Volpe) e dell’Aise (il generale dei carabinieri Carlo De Donno).

Resta da capire se quello di Benassi sarà per Conte il tassello di un’operazione vincente che porta il governo a rilanciarsi o se si rivelerà un tentativo.

Il vecchio B. in campo per fermare i fuggitivi

“Va bene, passatemi l’agenda, ci penso io… Pronto, come sta senatore? È un po’ di tempo che non ci sentiamo…”. È dovuto intervenire Silvio Berlusconi dalla Francia per bloccare le possibili uscite da Forza Italia verso la maggioranza di governo. Dopo le fughe di Renata Polverini, Andrea Causin e Mariarosaria Rossi (quest’ultima molto sofferta dall’ex premier che ancora non se ne capacita), nel partito è scoppiato il finimondo, col terrore che una falla potesse diventare valanga.

Con Matteo Salvini che getta benzina sul fuoco. “Inutile fare tutti questi vertici se poi non tenete i gruppi”, ha ripetuto il leader leghista. E così è dovuto tornare in azione l’anziano leader, reduce da un ricovero a Montecarlo per una crisi cardiaca e ancora non in perfetta forma, chiamando tutti i possibili sospetti, uno per uno. I due pugliesi, Luigi Vitali e Carmela Minuto, il primo in rotta di collisione con Tajani e la seconda che potrebbe perdere il seggio per il ricorso presentato da Michele Boccardi. Poi la toscana Barbara Masina, che da tempo dà segni d’insofferenza, e Claudio Fazzone di Latina, il più propenso a restare. Ma oggetto delle sue telefonate sono stati anche un altro paio di senatori e 4 o 5 deputati. Perché le sirene governative sono molto forti e diversi potrebbero farsi ancora tentare. Nulla si può escludere. Ieri, per esempio, un amo l’ha lanciato di nuovo Bruno Tabacci (arrivato a 13 deputati) che, dopo un incontro con Luigi Di Maio, ha spiegato che “la possibilità di rafforzare la maggioranza passa solo da un nuovo governo, un Conte-ter”. Insomma, più posti ci sono da offrire – tra ministeri, spacchettamenti e sottogoverno – più si diventa attrattivi.

Il problema, per Tabacci, è che Conte tale ipotesi la considera un’extrema ratio e le dimissioni vorrebbe evitarle come la peste. “Non abbiamo ascoltato le sirene di Conte, figuriamoci se ascoltiamo quelle di Tabacci…”, sostiene Mariastella Gelmini, che esclude altre uscite dai Fi e anzi rimarca come a Montecitorio sia arrivata l’ex 5 Stelle, Veronica Giannone.

Il gioco berlusconiano, però, è doppio. Perché se da una parte si lavora per fermare possibili transfughi, dall’altra si mandano messaggi in bottiglia a Palazzo Chigi per rassicurare sul fatto che l’opposizione azzurra sarà comunque “responsabile”, perché non si vuole “mettere a rischio il Paese”, evitando che l’Italia “faccia figuracce” con l’Europa. Insomma, se il governo riuscirà a scavallare il voto sullo stato della giustizia, qualche aiuto, tra assenze e malattie, per abbassare la soglia in Senato, arriverà.

Il problema, però, è proprio mercoledì. Perché su Bonafede Forza Italia non farà sconti. “Voteremo no”, afferma Gelmini. “Per liberali e garantisti non è tattica politica ma un dovere morale”, dice pure Mara Carfagna, che nelle ultime ore, insieme a Giovanni Toti, ha rilanciato la proposta di un governo istituzionale. Dal gruppo azzurro in Senato arrivano voci secondo cui “se si rende conto di non avere i numeri, il governo potrebbe pensare a un rinvio, visto che Bonafede verrà calendarizzato solo con la capigruppo di martedì”. Oppure, dicono i forzisti, si andrà alla conta. E allora lì Conte rischia davvero. “Reggono solo se riescono a recuperare qualche renziano o a convincere l’ex sindaco di Firenze a un’altra astensione”, dicono i senatori forzisti. Sempre che qualcuno di loro non regali altre sorprese.

Giustizia, gli occhi puntati dell’Europa. Ecco la “relazione”

La relazione di Alfonso Bonafede in Parlamento sarà la prima risposta istituzionale dell’Italia all’Europa che, ora più che mai, ci punta i riflettori in faccia per sapere cosa vogliamo fare per la Giustizia in modo da farla funzionare. Mercoledì prossimo, il ministro parlerà quasi esclusivamente su come pensa di spendere i 2 miliardi e 750 milioni che verranno dal Recovery Plan per affrontare l’atavica lentezza dei processi: maggiore informatizzazione, e finalmente, un reale corso di aggiornamento per il personale amministrativo, ma soprattutto nuove assunzioni, 16 mila, sia pure a tempo determinato, con l’obiettivo di sollevare i magistrati dagli arretrati e farli concentrare su indagini, processi e sentenze attuali. Quindi, possono tranquillizzarsi Matteo Renzi, o Sandra Lonardo, attanagliata dai dubbi se votare una relazione del ministro “giustizialista”. E chissà se quei dubbi, a Lonardo, le siano venuti per il riemergere di brutti ricordi: il suo arresto avvenuto nel gennaio 2008 proprio nel giorno della relazione del ministro della Giustizia, suo marito Clemente Mastella, che si dimise e fece cadere il governo Prodi.

Il ministro Bonafede non ha ancora completato la relazione, ma da quanto ci risulta, non parlerà di questioni rognosissime più che mai, data la crisi politica, come la prescrizione, un esempio non a caso. Le relazioni, d’altronde, si occupano dell’anno appena passato e del corrente. Quel che è certo è che Bonafede vuole dettagliare quanto ha in testa per accorciare i tempi infiniti della Giustizia, che hanno sempre pesato su mancati investimenti stranieri in Italia. La maggior parte dei soldi, 2 miliardi e 300 milioni, serviranno per costituire “l’ufficio del processo” che, nelle intenzioni del ministro, deve servire per accelerare e snellire i processi. In che modo? Ci saranno, a partire dalla seconda metà del 2021, 16 mila assunzioni complessive, 8 mila per volta, a tempo determinato (in alcuni casi per un massimo di 3 anni, rinnovabile solo una volta) come addetti all’ufficio per il processo. I magistrati onorari “aggregati” saranno 2 mila: mille per due anni e poi altri mille per altri due anni, che avranno il compito di redigere le sentenze dei tribunali civili. Inoltre, sono previsti 100 magistrati onorari ausiliari alla sezione tributaria della Cassazione, 50 per ciascun ciclo previsto, per smaltire l’arretrato della sezione in sofferenza: c’è una pendenza, secondo l’ultimo dato del 2019 di 52.540 procedimenti.

Con che criteri verranno distribuiti questi “rinforzi”? Ci sarà un decreto del ministro della Giustizia che individuerà le esigenze di tribunali e Corti d’appello sulla base della mole di arretrato e di conseguenza verranno stabiliti, per ciascun ufficio del processo, quanti addetti dovrà avere.

E passiamo al personale tecnico-informatico, ma anche a ingegneri, architetti o esperti in organizzazione che, secondo il ministro, devono entrare nei palazzi di giustizia per collaborare con i magistrati ai vertici degli uffici giudiziari, che così possono concentrarsi principalmente sull’attività giurisdizionale. Previste in questo campo 4.200 assunzioni con un contratto a ciclo unico, cioè non rinnovabile. Fin qui, le linee generali. Venendo a qualche dettaglio ulteriore: chi farà parte dell’ufficio del processo deve predisporre, per esempio, bozze dei provvedimenti e per quanto riguarda il processo civile collabora alla raccolta della prova dichiarativa. Guardando a esperienze anglosassoni, si è stimato che queste figure potrebbero incidere fino al 20% sull’accelerazione dei tempi dei processi, perché sgravano molto il lavoro dei magistrati sommersi da fascicoli. Prevista una selezione “celere”, principalmente tra giovani laureati che collaboreranno con i magistrati. Per quanto riguarda i magistrati onorari aggregati all’ufficio del processo, i mille assunti per 3 anni, prorogabili solo una volta, andranno nei tribunali civili con più arretrato. Dovranno avere già ampia esperienza alle spalle perché dovranno essere in grado di collaborare con i magistrati sia nella decisione sia nella redazione delle sentenze. E così si investiranno, secondo le previsioni, 2 miliardi e 300 milioni. E i restanti 450 milioni del Recovery Plan? Saranno destinati all’edilizia giudiziaria

La crisi va chiusa entro il weekend. Se nasce il Centro, c’è il Conte-ter

La malaparata è ormai chiara a tutti. E Giuseppe Conte, adesso, è disposto a tutto. Anche a rassegnare quelle dimissioni che finora ha sempre voluto evitare. Se la strada per andare avanti è il Conte-ter, Conte-ter sia. Ma solo, è questa la condizione imprescindibile per Palazzo Chigi, se prima nascerà un gruppo strutturato di “volenterosi” al Senato disposto a sostenerlo.

La conta, va detto, è ancora ferma al giorno della fiducia: nessuna aggiunta a quei 156 che hanno detto sì a Palazzo Madama martedì. “Non ci sono stati passi in avanti, ma nemmeno passi indietro – riassumeva ieri una fonte di governo – però, certo, abbiamo un altro giorno in meno”. Perché la cura va trovata in fretta, possibilmente nel weekend, di sicuro prima di mercoledì, quando la maggioranza dà per scontato che – se nulla cambia – finirà sotto sulla “relazione Giustizia” firmata dal ministro Bonafede, a cui perfino la volenterosissima Sandra Lonardo non dirà sì. E dopo – insistono – ci sono solo le urne anticipate.

Gli incontri proseguono (ieri la forzista Mariarosaria Rossi è stata a Palazzo Chigi), le telefonate non si fermano, tutti – nel Pd e nei 5 Stelle – sono impegnati solo a recuperare senatori. Ma i centristi, quelli di Forza Italia e pure i pochi renziani in bilico “alzano il tiro”. E ormai la consapevolezza diffusa è che non saranno certo un ministero dell’Agricoltura, un sottosegretario agli Esteri e una delega (senza portafoglio) alla Famiglia a sfamare gli appetiti di parlamentari che ragionano ognun per sé. “Per questo serve il Conte ter”, ammettono anche tra i ministri, dove si inizia perfino a respirare la rassegnazione di dover essere sacrificati. Lo spiega bene Bruno Tabacci, “capo” dei Responsabili alla Camera (“Magari ce ne fosse uno anche al Senato”, dicono a Palazzo Chigi) che ieri ha incontrato il ministro Luigi Di Maio: “La possibilità di rafforzare la maggioranza c’è, ma passa attraverso un governo nuovo, non credo basti un piccolo rimpasto”.

Così Giuseppe Conte si è convinto a percorrere anche la via meno indolore. Già si ragiona di caselle e il succo è che nessuno dei partiti è disposto a uscire ridimensionato dal nuovo assetto di governo: “Va a finire che per prendere 10 voti ne perdi 50”, avvertono i maggiorenti giallorosa. L’escamotage potrebbe essere quello di procedere per decreto all’aumento dei posti dell’esecutivo (il limite consentito dall’attuale legge è già stato raggiunto), pur sapendo di consegnare all’opposizione un argomento di propaganda piuttosto convincente. L’alternativa è sostituire, rimescolare, magari con un occhio di riguardo, ragiona qualcuno, a quei ruoli di governo e sottogoverno attualmente occupati da persone non elette né alla Camera né al Senato. Ce ne sono diverse, va detto. Solo per citarne alcuni: Cancelleri, Costa, Todde, Pisano e Agea nei 5 Stelle; Provenzano, Manfredi, Bonaccorsi, Puglisi e Manzella nel Pd. Se li fai fuori, da loro non puoi aspettarti ritorsioni: ma certo né i grillini né i dem né Leu sembrano al momento intenzionati a ridiscutere il saldo delle posizioni attualmente occupate.

Su tutti, però, pende la clava del voto. Un rischio – avvertivano ieri fonti di governo – “sempre più concreto e reale”. Vogliono che il messaggio arrivi ai parlamentari di Italia Viva: non ascoltino le sirene del loro leader che li invita ad aspettare, “noi con Renzi non torneremo”. Primo, insistono, perché né il Pd né i Cinque Stelle (né Conte) hanno intenzione di condannarsi ai ricatti “di un partitino del 2 per cento”. Secondo perché, se anche il Pd dovesse turarsi il naso, il ritorno di Renzi spaccherebbe senza dubbio il Movimento (si veda Alessandro Di Battista, che ieri ha sostenuto sia “un dovere morale” chiudere con il renzismo). Quella pagina non si riapre, è il mantra del governo. Che spera così di convincere chi sta dialogando a “passare ai fatti”. Il tempo è scaduto.

Cesa una volta

Deliziosa, come sempre, la lettura dei giornali dominati da uno sconfinato stupore perché un giglio di campo come Lorenzo Cesa è finito indagato. Chi l’avrebbe mai detto che l’ex portamazzette di Prandini (per gli amici Prendini), arrestato nel ’93 dopo breve latitanza, reo confesso in un verbale che si apriva con un “Ho deciso di svuotare il sacco” degno di Pietro Gambadilegno, finisse nei guai giudiziari? Oltre al comprensibile sbigottimento, la libera stampa distilla le più varie interpretazioni politiche del blitz “a orologeria” di Gratteri nel pieno della caccia ai voltagabbana responsabili o costruttori. Il Cesa infatti era fino all’altroieri il segretario dell’Udc, già Unione dei carcerati, in cui non si sa come si sono ultimamente infiltrati alcuni incensurati, tipo la senatrice Binetti, interessati a sostenere il governo. Cesa non era della partita: sia perché non è più parlamentare, sia perché è fedelissimo del centrodestra e allergico a Conte e ai 5Stelle (non rubano). Poche ore prima della visita dei carabinieri, confidava a Minzolingua: “Non capiscono che noi non ci muoviamo. Io ho bloccato pure WhatsApp”. Ora sappiamo il perché.

L’idea che 58 arresti, più decine di avvisi di garanzia, sequestri e perquisizioni in tutta Italia si improvvisino last minute per interferire nella crisi di governo può venire solo a un malato di mente: infatti occhieggia su tutti i giornali. Le richieste di Gratteri (5.200 pagine) sono del 29 aprile e l’ordinanza del gip (422 pagine) è del 13 gennaio. Ma il Riformatorio non ha dubbi: “Cesa non ha votato per Conte? A lui ci pensa Gratteri” (Cesa non poteva votare una mazza, non essendo parlamentare, ma fa niente). Quindi Gratteri dà un aiutino a Conte. Anzi no, per Domani gli fa un dispetto: “Per i pm il ‘responsabile’ Cesa aiutava anche gli amici dei clan”. Da notare quell’“anche” (aiutava Conte e pure i clan, infatti è così “responsabile” che a destra era e a destra è rimasto). Sempre per l’angolo del buonumore, ecco il Giornale: “In campo anche le toghe” (ma non si precisa in quale campo). E La Verità: “Ciclone ’ndrangheta su Conte e Arcuri” (mai citati nelle 5.200 e 422 pagine, ma tutto fa brodo), “L’indagine sulle cosche spiazza Giuseppi”. Anche per il Corriere è “Un colpo alla trattativa per allargare l’alleanza”. E per Rep: “Addio Udc, si complica l’operazione Responsabili”. E per il Foglio: “Bomba Cesa sul governo: i centristi dicono bye bye. L’inchiesta rompe le trattative”. E per Libero: “I giudici indagano Cesa e mettono nei guai Conte” (non la destra, di cui Cesa fa parte: Conte). Quindi è ufficiale: anche l’inchiesta Cesa è giustizia a orologeria. Anzi, a orologerie: diversamente dai Soliti Ignoti, la banda del buco s’è scordata di sincronizzare gli orologi.