Carlos Tavares e la ricetta “Opel” per gli operai italiani di Fca

Con un tempismo degno di nota, subito dopo la nascita ufficiale di Stellantis, il neo amministratore delegato Carlos Tavares ha fatto visita ad alcuni stabilimenti italiani di Fca. Prima Mirafiori poi Melfi (insieme al presidente John Elkann), a dar peso e seguito con la sua presenza alle parole pronunciate dopo l’insediamento: nessuna chiusura e rilancio dei vari marchi del gruppo. Miele per le orecchie dei sindacalisti che l’hanno accolto, ma soprattutto una speranza per i 50 mila lavoratori italiani di Fca dopo le incertezze degli ultimi anni.

Gesto convinto o di pura rappresentanza? A lume di naso, più il primo. L’operatività immediata è nella natura dell’uomo e manager Tavares, così come il voler prendere contatto con la realtà produttiva. Lo fece anche con Opel, quando l’azienda tedesca di proprietà Gm fu rilevata da Psa nel 2017: visita a tutti gli stabilimenti, tedeschi e spagnoli, analisi dei punti di forza e delle criticità, azioni correttive. Risultato: l’azienda tedesca nel 2019 tornò all’utile dopo vent’anni di perdite.

Lo schema Opel verrà riproposto con ogni probabilità anche nel nostro Paese. Perché dando per veritieri i buoni intenti (“Stellantis è uno scudo per i lavoratori”), è anche vero che per ovviare alla sovracapacità produttiva degli impianti Fca bisognerà apporre dei correttivi: tagliare i rami secchi, ovvero le attività meno produttive, e soprattutto introdurre procedure industriali più razionali. Che sono quelle che hanno permesso a Opel di rinascere.

EQA, il suv “strategico” di Mercedes

Il nome è un po’ asettico, ma di questa macchina si sentirà parlare. Se il suv EQA avrà successo, infatti, vorrà dire che l’auto elettrica sta uscendo dalla nicchia. In caso contrario, esulteranno gli elettroscettici, che non sono mai stati pochi ma ora vanno in giro a petto in fuori, dopo i “missili” scagliati da Mister Toyoda, numero uno del colosso Toyota.

Se ogni 10 auto che vendi, 4 sono dei suv, come capita a Mercedes in Italia, è ovvio che il tuo primo sport utility totalmente elettrico dal prezzo, diciamo così, abbordabile, sia un bel giocatore da far scendere in campo.

EQA, acquistabile dal 4 febbraio, è la declinazione a zero emissioni della GLA “termica”, rispetto alla quale è più pesante – supera le 2 tonnellate – e più lunga di 5 cm. Con i suoi quasi 4,5 metri di lunghezza e le sue linee morbide, debutta con la versione 250 a trazione anteriore.

Per acchiappare l’eco-incentivo, i prezzi Iva esclusa stanno tutti sotto i 50 mila euro. La meno cara, la Sport, ne costa 41 mila abbondanti, cui aggiungere il 22% di Iva e togliere il bonus, di 6 mila o 10 mila euro con rottamazione.

È la seconda rappresentante della famiglia EQ (che ha esordito con il suv EQC), ormai vero e proprio brand elettrico della Stella, con 10 modelli almeno da lanciare entro il 2025 e oltre 20 entro il 2030.

Esteticamente, la EQA differisce dalla GLA per il pannello nero sul muso e i fasci orizzontali di luci che collegano i fari sia davanti che dietro.

Tocca i 160 orari di punta e ha oltre 400 km di autonomia. Sono previsti allestimenti più potenti e con maggiore autonomia, e pure la trazione integrale.

La svolta green di Stoccarda coincide con un’altra sterzata. La creazione del sistema operativo proprietario MB.OS, tutto realizzato all’interno del gruppo. “Apple e Google si fanno la macchina? Noi ci facciamo il software!”. Ci sta.

I margini nel settore informatico-automobilistico sono alti. E i soldi che non si spenderanno più, per esempio, per sviluppare nuovi diesel (secondo Mercedes sempre più puliti), possono essere convogliati sul software di casa e fare utili pure con quello.

Semplice, no?

2020, anno orribile (anche) per l’auto: l’Europa segna -24,3%

Una voragine di dimensioni enormi: è questo ciò che si vede nella fotografia del mercato europeo dell’auto, che ha archiviato il funesto 2020 con 11.961.182 immatricolazioni, che corrispondono a una perdita di circa 3.845.000 unità rispetto al 2019, con un calo su base annua del 24,3%. In Italia è andata ancora peggio rispetto alla media europea: nel nostro Paese la picchiata è stata del 28%.

“Nel nostro Paese le immatricolazioni sono tornate ai livelli degli anni 70”, sostiene il Centro Studi Promotor (CSP). E sarebbe andata anche peggio se, nel secondo semestre 2020, il Parlamento non avesse approvato gli ecoincentivi (rinnovati per il 2021). Il mercato, poi, ha avuto un andamento decisamente altalenante, con un brusco arresto in primavera, quando le serrate hanno azzerato le vendite, per poi risalire nel periodo estivo grazie agli ecoincentivi e calare nuovamente in autunno con la seconda ondata della pandemia.

A fare da fondamenta del mercato europeo sono, nell’ordine, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna. Proprio in Germania il calo delle immatricolazioni è stato del 19,1%, “grazie a un buon recupero nel secondo semestre dovuto anche alla riduzione temporanea dell’Iva nel secondo semestre, che ha dato una forte spinta alla domanda dei privati e in particolare in dicembre visto che il provvedimento scadeva a fine anno”, spiega CSP. Male la Francia che, nonostante i generosi ecoincentivi a sostegno della domanda, ha chiuso a -25.5%. Malissimo il Regno Unito, alle prese anche con gli strascichi della Brexit: in questo caso la picchiata è del 29,4%. Mentre è in caduta libera il mercato spagnolo, che ha chiuso con un -32,3%.

Passando poi all’elettrificazione, “L’Italia è in coda per la quota di auto ricaricabili nel totale annuo, con un 4,3% contro il 13,6% della Germania, l’11,2% della Francia e il 10,7% della Gran Bretagna”, commenta Andrea Cardinali, Direttore Generale dell’Unrae, l’Associazione delle Case automobilistiche estere in Italia, che rappresentano i tre quarti del mercato.

Questo gap è dovuto, secondo Unrae, all’analogo grave ritardo nello sviluppo delle infrastrutture di ricarica: un ritardo che, si spera, possa essere recuperato velocemente, tramite gli investimenti che il PNRR destinerà alla mobilità elettrica e più in generale alle alimentazioni alternative.

“Ma anche riguardo agli incentivi per i modelli a basse emissioni – aggiunge Cardinali – è fondamentale guadagnare un orizzonte molto più lungo di quello attuale, ed è ormai improcrastinabile che la fiscalità sulle auto aziendali venga allineata a quella di tutti i principali mercati europei”.

Ma che mu’ maestro – Montale, il suono delle parole

Ironico ma cortese, convinto che “se la musica c’è, è già nelle parole”, e con qualche rimpianto per non essere riuscito a essere un cantante d’opera e un pittore. C’è tutto Eugenio Montale (1896-1981) nelle due lettere inedite del 1977 che la rivista Autografo, fondata da Maria Corti e sotto la direzione scientifica dell’Università di Pavia, propone nel suo sessantaquattresimo numero (Interlinea Edizioni, pagg. 192, euro 20). Con le corrispondenze viene pubblicato inoltre un ritratto a china del poeta, altrettanto inedito, che fu eseguito nel 1924 dallo scultore Guido Galletti, autore, tra l’altro, della statua del Cristo degli Abissi di San Fruttuoso di Camogli.

Il disegno di Galletti, di cui, su Autografo, si occupa Giovanni Battista Boccardo, restituisce il volto di un Montale giovane, che nel 1925 avrebbe dato alle stampe Ossi di seppia per le edizioni di Piero Gobetti. Le corrispondenze appartengono a un uomo anziano, colmo di ricordi, che scrive: “Non sono pittore né disegnatore e il poco che ho fatto appartiene alla mia preistoria”. Furono inviate al germanista, musicologo e traduttore Gio Batta Bucciol già docente all’Università di Tubinga. Conservate presso l’archivio “Carte del Contemporaneo” al Centro interuniversitario di studi veneti di Venezia, le due lettere erano state redatte dal premio Nobel per la letteratura in risposta alla richiesta di Bucciol di acconsentire che una sua poesia, Cigola la carrucola del pozzo (da Ossi di seppia), fosse musicata.

Il professore voleva inserire i versi del poeta ligure in una miscellanea dedicata al filologo romanzo Gerhard Rohlf, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno. Come spiega Elena Santagata in Due lettere di Eugenio Montale su musica e poesia, il saggio che introduce gli inediti, la raccolta doveva comprendere “un gran numero di testi poetici, antichi e moderni, di lingua romanza, musicati da musicisti contemporanei”. Il poeta non rifiutò il suo assenso, il testo fu musicato. Seppure l’incipit della prima lettera, del 21 novembre ’77, “farebbe presumere un educato rifiuto da parte di Montale alla proposta di Bucciol. Montale afferma, infatti, di non avere interesse per il genere liederistico”. E soprattutto perché, afferma, “per conto mio se la musica c’è, è già nelle parole: se non c’è, si possono cambiare le parole come si è fatto in tanti capolavori (operistici)”.

La proposta di musicare Cigola la carrucola del pozzo gli sembrò poco convincente anche perché era già stato coinvolto, in modo negativo, in un tentativo del genere. Nella lettera a Bucciol racconta che un “‘ottimo e sconosciuto’ compositore aveva già musicato la sua Casa dei doganieri e ‘il risultato fu disastroso’. Il compositore in questione è Mario Simonelli, medico e musicista per passione, che nel 1975 aveva pubblicato una partitura per canto e pianoforte della Casa dei doganieri”. Ma “può darsi”, osserva Montale, “che per cigola la carrucola tutto sia diverso. Ora però come faccio a legare il pozzo bretone coi due risorti che vennero dall’aldilà per ripagare quel tanto di ammirazione che io cantante fallito ebbi per loro? Veda Lei se in questa lettera c’è una sola riga che possa essere presentata agli studenti di Tubinga”.

Che cosa voleva dire con quei richiami al “pozzo bretone” e ai “due risorti”? Elena Santagata rammenta che “Bucciol aveva deciso di tradurre lui stesso un racconto della Farfalla di Dinard. Scelse In chiave di Fa, che Montale aveva dedicato al proprio maestro di musica, Ernesto Sivori, e a una sua allieva “molto dotata”, la signorina Poiret. Bucciol inoltre aveva chiesto a Montale se fosse stato disposto, eventualmente, ad ampliare i ricordi del suo apprendistato musicale, contenuti in In chiave di Fa. A suo parere, Montale aveva capito che gli si chiedesse di unire (…) la traduzione di In chiave di Fa a Cigola la carrucola…”. Da “questo fraintendimento dipenderebbe l’enigmaticità di quella domanda a sé stesso contenuta nella lettera”.

Forse il “pozzo bretone” non è quello di Cigola la carrucola, ma un “richiamo a La casa delle due palme, sempre nella Farfalla di Dinard. In questo racconto Montale adopera un’immagine metaforica già usata negli Ossi: la memoria è un ‘pozzo’ (…) nel quale sono seppelliti i ricordi”. Si potrebbe ipotizzare, allora, “che, alla richiesta di ricostruire il proprio passato di studi musicali, Montale rispondesse perifrasticamente dicendo di non poter ricollegare (‘legare’) la propria memoria (il ‘pozzo bretone’, bretone perché relativo a ricordi contenuti nella Farfalla di Dinard, la cui genesi e ambientazione sono, in parte, bretoni) a quel passato in cui i due risorti”, due cantanti lirici rievocati in In chiave di Fa, “erano ritornati dal mondo dei morti per ripagare la sua ammirazione nei loro confronti”.

Il mega-palazzo di Putin costruito da un italiano

Sarebbe stato Silvio Berlusconi e la sua Villa Certosa, in Sardegna, a ispirare l’amico Vladimir Putin per l’ideazione del palazzo sul Mar Nero oggetto della video-inchiesta di Aleksei Navalny che è stata vista in due giorni da più di 40 milioni di persone. Il sito di notizie indipendente russo Insider.ru, ricorda le somiglianze fra le due proprietà – “anche se la prima svanisce” di fronte a quella del presidente russo – e la visita di Putin a Villa Certosa nel 2003, due anni prima della posa della prima pietra sul Mar Nero.

Il Palazzo di Gelendzhik, nella sua prima versione perlomeno, era stato progettato dall’architetto italiano Gianfranco Cirillo (come il professionista aveva confermato in una intervista del 2015). Grazie a questa consulenza nel 2014 aveva ricevuto la cittadinanza russa, con un decreto firmato dallo stesso Putin. E anche la possibilità di costruire una sua villa di ottocento metri quadrati affacciata sul mare, non lontano dal Palazzo.

Cirillo, 61 anni, originario di Brescia, diplomato a Ca’ Foscari, ha iniziato la sua carriera nei Paesi del Golfo. Il suo primo incarico in Russia arriva con un contratto del presidente della Lukoil, Vagit Alekperov. Vanta di aver avuto come clienti 43 miliardari russi.

Sulle richieste del suo committente Putin, Cirillo mantiene il più stretto riserbo. Che ha invece violato una delle imprese coinvolte nella realizzazione dell’opera, fornendo a Navalny il materiale su cui elaborare le sue ricostruzioni in 3D degli ambienti della proprietà. L’oppositore russo indica nella video-inchiesta anche due aziende italiane, Citterio Atena e Pozzoli, come fornitrici di mobili su misura per il Palazzo. Sin dall’inizio, l’idea sarebbe stata quella del “Palazzo italiano”, quindi del “Palazzo d’Inverno” di San Pietroburgo che fu disegnato da architetti italiani con impiego di materiali arrivati dall’Italia, aggiornata da suggestioni berlusconiane (tunnel, impianti sportivi, anfiteatro).

I “costruttori” di Biden fanno blocco con i Rep.

Passata la festa, dimenticati canzoni e discorsi dell’insediamento, scacciato (per ora) l’incubo di Donald Trump, ora per Joe Biden si tratta di produrre lavoro e risultati. Ma è anche il momento in cui si passa alla tattica parlamentare (che poi prefigura le strategie politiche). E tra Repubblicani e Democratici si potrebbe installare un gruppetto di “costruttori made in Usa” con l’obiettivo di collocare saldamente al centro l’agenda del neo-presidente.

Biden ha bisogno di produrre risultati immediati e come ricordano alcuni opinionisti, la gran parte del lavoro si dovrà fare nel primo anno. Subito dopo, infatti, si prepareranno le elezioni di Midterm, il sistema politico entrerà nella fibrillazione elettorale e le cose potranno cambiare.

Biden si trova inoltre nella vantaggiosa situazione di un “governo unitario” con il controllo sia dell’esecutivo che del legislativo. La parità di seggi al Senato, con 50 Repubblicani contrapposti ai 50 Democratici, dovrebbe poter essere spezzata dal voto risolutivo della vicepresidente Kamala Harris il cui ruolo politico, solo per questo motivo, è già cresciuto.

Ma è proprio al Senato che il presidente troverà un terreno scivoloso. Il regolamento attuale, ad esempio, prevede ancora che l’attività di ostruzionismo, il filibustering, sia consentita senza limiti. Qualunque senatore può allungare i tempi di approvazione di una legge sgradita fino a quando ha tempo ed energie per farlo a meno che una maggioranza qualificata di due terzi non ponga fine all’ostruzionismo (Cloture). Questa maggioranza è composta da 60 senatori e fu la sua presenza a bloccare gran parte delle riforme di Obama come l’ex presidente ha ricordato nelle sue memorie.

Se scatta l’ostruzionismo, quindi, non basta il voto di Harris per far avanzare i progetti, serve qualcosa in più.

Il neo-leader della maggioranza al Senato, il democratico Chuck Schumer, che prende il posto del repubblicano Mitch McConnell, vorrebbe modificare questa norma trovando delle resistenze non solo tra gli oppositori, ma anche nel suo partito. Dove sono iniziate le manovre per creare un gruppo di “costruttori di accordi” come li definisce il Financial Times, tra democratici come Joe Manchin, super-moderato del West Virginia, che ha già votato con Trump, Kyrsten Sinema dell’Arizona, che lavora a stretto contatto con i Rep. come Lisa Murkowsky (Alaska) e Susan Collins (Maine). L’obiettivo di questo proto-gruppo di anomali costruttori è, come minimo, quello di incentivare il compromesso tra i due schieramenti, forti anche della necessità di “riconciliazione” lanciata proprio da Biden.

La manovra, blindando al centro l’agenda, emarginerebbe anche l’influenza della sinistra Dem a cominciare dal ruolo di Bernie Sanders. Ma si scontra con il dato di fatto dell’impeachment che il Senato dovrà discutere su iniziativa della Camera dei rappresentanti guidata da Nancy Pelosi, che ancora ieri cercava di negare la contraddizione tra il processo di messa in stato di accusa di Donald Trump e la necessità di un dialogo con i Repubblicani.

I leader di maggioranza e minoranza al Senato hanno iniziato le trattative per discutere del regolamento che potrebbe incidere molto su questi scenari. La palla, però, è comunque saldamente nelle mani di Biden che in particolare controlla leve del budget sul quale può costruire le relazioni con il Congresso più utili alla sua strategia. Per il momento, come dimostra anche l’arredamento dello Studio Ovale, il neo inquilino della Casa Bianca sta cercando un profilo “liberal” avendo come riferimento Franklin D. Roosevelt: la ricostruzione dopo la pandemia come la ricostruzione resasi necessaria dopo il crac del ’29. Sta in questo spazio tra costruttori di accordi moderati e una opzione di “sinistra” liberal il campo di manovra della nuova presidenza statunitense.

Fatah e Hamas, sul voto pesa la diffidenza reciproca

Dopo aver sopportato annose lotte politiche intestine, i palestinesi sono scettici sull’utilità e la trasparenza delle elezioni parlamentari e presidenziali che dovrebbero tenersi nei Territori Palestinesi Occupati (Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est) rispettivamente il 22 maggio e il 31 luglio. Il condizionale è d’obbligo visto che ai palestinesi è stato di fatto impedito di votare da ben 15 anni. Ovvero dalle elezioni del 2006 quando nella Striscia di Gaza vinse per la prima volta il movimento islamista Hamas (bollato di terrorismo dalla maggior parte delle nazioni) e il partito Fatah, al potere da decenni in tutti i distretti dei Territori, non accettò il risultato. L’anno successivo Fatah tentò una guerra lampo per riprendersi la Striscia, ma non ci riuscì consegnandola definitivamente agli oscurantisti di Allah. Da allora, nonostante alcuni tentativi mediati soprattutto dall’Egitto e dalla Turchia, la frattura tra Fatah e Hamas non si è più ricomposta. L’anziano e malato presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mah- moud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, venerdi scorso ha affermato che “le consultazioni si terranno durante l’anno” nel tentativo di sanare le divisioni di vecchia data con Hamas che ha accolto favorevolmente la decisione. In realtà l’annuncio del ritorno alle urne è letto dagli analisti come un gesto di Fatah e dell’Olp teso a compiacere il presidente degli Stati Uniti Joe Biden con il quale i palestinesi vogliono ripristinare i rapporti dopo quello, inesistente a tutti gli effetti, con Donald Trump. Ma un sondaggio di dicembre del Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che il 52% dei palestinesi pensa che le elezioni tenute nelle condizioni attuali non sarebbero eque e libere. Il 76% dei palestinesi intervistati inoltre pensa che se vincerà Hamas, Fatah non accetterà il responso delle urne mentre il 58% è convinto che non lo farà Hamas qualora vincesse Fatah.

“Abbiamo fatto un passo importante, ma abbiamo ancora molta strada da fare”, ha detto il politologo Hani al-Masri, da Ramallah. “Restano grandi ostacoli e se non vengono superati questi, l’intera operazione è destinata a fallire”. Non è ancora chiaro quale procedura verrà messa in atto per garantire elezioni libere, se parteciperanno osservatori internazionali e se Abbas, a 85 anni, si ricandiderà.

La Palestina non vola più. Aerei vecchi e troppi costi

L’ultimo segnale dello sgretolamento del sogno di un possibile futuro Stato della Palestina è la fine delle operazioni della Palestinian Airlines e la decisione di vendere gli ultimi aerei rimasti, due vecchi Fokker 50 donati 30 anni fa dall’Olanda alla nascita dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Una scelta che ha suscitato clamore tra i palestinesi che considerano la chiusura una rinuncia a un simbolo della sovranità dello Stato di Palestina. Le casse dell’Anp sono in bancarotta e la decisione del ministero dei Trasporti di Ramallah si è basata sugli alti costi di manutenzione dei due aerei. Uno è fermo ad Amman e l’altro al Cairo, poiché diversamente da come avveniva in passato nessuna compagnia aerea li sta noleggiando a causa della pandemia di coronavirus.

Quando gli aerei erano operativi, volavano dall’aeroporto internazionale di el-Arish nel Sinai egiziano per gli Emirati Arabi Uniti e la Giordania. In media, venivano effettuati 100 voli all’anno e la maggior parte trasportava pellegrini diretti per l’hajj – il pellegrinaggio alla Mecca – in Arabia Saudita. I palestinesi sono stati costretti a viaggiare attraverso l’Egitto e la Giordania dopo che Israele distrusse il loro unico aeroporto – nel sud della Striscia di Gaza, dove c’era una pista di volo dai tempi del Mandato britannico in Palestina – durante l’intifada Al-Aqsa nel 2000 e la base operativa della compagnia venne spostata in Egitto. Allora i dipendenti erano circa mille fra piloti, ingegneri, tecnici e personale amministrativo. Il numero poi è diminuito gradualmente, molti licenziati negli anni per la crisi finanziaria che affligge l’Anp. Le speranze della stagione in cui fu fondata la Palestinian Airlines nel 1995 appaiono ormai lontane, opache e sbiadite, come le personalità che l’animarono: Yitzhak Rabin, Shimon Peres, re Hussein di Giordania, Yasser Arafat, Hosni Mubarak. Uomini che se confrontati agli attuali sulla scena mediorientale appaiono giganti e invece erano, forse, soltanto sognatori. Da una parte e dall’altra degli schieramenti non appaiono all’orizzonte leader dello stesso calibro. Quel futuro immaginato a Oslo quasi 30 anni fa è rimasto a metà strada, nell’ultimo quinquennio anzi hanno iniziato a essere cancellate le tracce di quegli impegni di pace. I quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca hanno significato per i palestinesi tagli in aiuti per quasi un miliardo di dollari dagli Usa, così come i mancati finanziamenti all’Unrwa (l’agenzia Onu che si occupa dei profughi) ha portato a tagli nell’occupazione e nei servizi. La pandemia ha dato poi quasi il colpo di grazia, la disoccupazione è schizzata al 40% e le casse di Ramallah sono disperatamente vuote; i 180 mila dipendenti pubblici dell’Anp ricevono da quattro mesi soltanto il 30% del salario.

In questo quadro ogni dollaro risparmiato è fondamentale, con buona grazia dei sogni della compagnia di bandiera. “Il Niger è stato l’ultimo Paese ad aver preso in noleggio uno dei due aerei per sei anni a 96.000 dollari al mese e questo contribuiva alle spese di manutenzione che si aggirano sui 250 mila dollari l’anno a cui si devono poi sommare
i premi assicurativi per 236.000 dollari – spiega Moussa al-Rahal, portavoce del ministero dei Trasporti palestinese – questo fino a giugno, quando a causa del Covid ha chiuso il contratto”. La decisione di chiudere la Palestinian Airlines significa anche rinunciare alla certificazione al volo e all’appartenenza alla International Air Transport Association (IATA), senza la quale le compagnie non possono volare. Istituti internazionali per appartenere ai quali l’Anp si è battuta diplomaticamente su ogni tavolo per farsi accettare come ”Stato della Palestina”. Cancellare tutto questo equivale per molti a una sorta di tradimento, certamente nemmeno l’ultimo, di quelle promesse firmate sul prato delle rose alla Casa Bianca nel 1994.

“Questa decisione equivale alla rinuncia a un simbolo della sovranità palestinese – sostiene Samir Abu Mdallala, preside della facoltà di Economia all’Università Al-Azhar di Gaza –, i debiti esterni e interni dell’Anp ammontano a 4,5 miliardi di dollari, la chiusura della compagnia non aiuterà a mitigare la sua crisi finanziaria e i suoi oneri”. Fahdi Abd, un ingegnere della Palestinian Airlines, non ha dubbi: “È una decisione affrettata che ignora gli sforzi e i sacrifici dei costruttori del sogno palestinese. Ci opporremo a questa autodistruzione con ogni mezzo, anche ricorrendo alla magistratura”.

“Noi nascosti in bagno per i nazisti. Togliatti e la Iotti qui in salotto”

Marisa Rodano ha compiuto 100 anni. Mia nonna è nata lo stesso giorno del Partito comunista italiano, il 21 gennaio 1921. Non può essere un caso. Per me è impossibile trovare la giusta distanza, sciogliere la dimensione privata da quella pubblica. Famiglia e partito; le lunghe tavolate degli adulti in una nube di fumo, i bambini in ascolto come spugne, pranzi di Pasqua che sembrano comitati centrali. I baci, i soprannomi giocosi e i regali di Natale nelle buste da lettera del Senato. Marisa è una donna meravigliosa e austera, una montagna levigata. Ha il corpo minuto di una centenaria, ma una luce ancora formidabile negli occhi celesti. “Sono piena di acciacchi, tutta un dolore”, sorride, “però mi sa che non mi posso lamentare”.

Cento anni da comunista italiana.

Io sono convinta che il Pci sia stato un elemento decisivo per la partecipazione alla resistenza, alla lotta contro il fascismo e il nazismo. Quando Togliatti ha deciso, a Salerno, che ci si poteva iscrivere indipendentemente dalle convinzioni ideologiche – non era più necessaria l’adesione al marxismo – ha aperto la strada alla partecipazione di masse di persone differenti. Di fatto ha gettato le basi della ricostruzione della democrazia in Italia.

Nei tuoi racconti si avverte la sensazione che tu abbia abbracciato la Resistenza con lo spirito di una ragazza. Quasi per istinto. Come nel verso di De André: “Lottavano così come si gioca”.

Non c’è dubbio. La prima ribellione è stata nei confronti della famiglia, un fatto abbastanza normale per una diciassettenne. È venuta insieme all’idea di potersi impegnare in qualcosa di importante.

Sei nata in una famiglia borghese, tuo padre era fascista.

Era convintamente fascista, una sciarpa littoria, podestà di Civitavecchia. Ho avuto pochi rapporti con lui, molti di più con mia madre, la quale però non si occupava di politica. Le signore dell’epoca facevano vita mondana, giocavano a canasta. La mia scelta li mise in imbarazzo.

Quando hai conosciuto Franco Rodano, tuo marito?

Al liceo Visconti, a Roma. Frequentavamo tutti e due la congregazione “La Scaletta”. Ci siamo legati lì, nei dibattiti e nelle discussioni politiche. Provammo la stessa urgenza di fare qualcosa per combattere l’oppressione del fascismo ed evitare la guerra, che si sentiva imminente.

Cosa ricordi del regime?

Odiavo le forme d’autorità, l’inquadramento, il conformismo. Detestavo le sfilate a via dell’Impero, il dover mettere la divisa, le manifestazioni sportive allo stadio dei marmi. E ho impressa questa immagine che vidi a Monterado, nelle Marche: la fila delle persone disoccupate appoggiate alle spallette dei muri, lungo la strada. Povertà e impotenza. Mi colpì moltissimo.

Avete abbracciato la Resistenza, avete conosciuto il carcere, vi siete rifugiati nei conventi. C’è questa scena incredibile dei soldati tedeschi che vi cercano mentre siete nascosti in bagno.

Eravamo nascosti a Santa Maria in Cappella, a Trastevere. All’ultimo piano, nel magazzino dove tenevano i veli inamidati, Suor Caterina ci lasciava aperto lo sportello del passavivande per nasconderci. Ricordo Tonino Tatò che faceva fatica a passarci, era troppo in carne (sorride). Quella volta rimasi a lungo in un gabinetto puzzolentissimo, fuori c’era questo nazista che faceva avanti e indietro. E pensavo: “Se gli viene bisogno di andare in bagno…”.

Franco è morto nell’estate dell’83, non l’ho mai conosciuto. Me lo racconti?

Tuo nonno era un uomo intelligente, colto, molto curioso della realtà. La sua morte è stata il più grande dolore della mia vita. Per me è stato un sostegno fondamentale. Lavorava e contemporaneamente guardava i bambini quando andavo in giro a fare politica.

Eravate una famiglia moderna.

(sorride) Esatto, lui stava con i bimbi. Ma pure anomala, non era abituale quel tipo di vita. Forse non lo è ancora.

Sei stata la prima donna vicepresidente della Camera.

La prima cosa che ricordo è che non sapevo come vestirmi. La seconda che tutti i commenti erano su come fossi vestita.

Cosa ricordi invece delle prime elezioni a suffragio universale?

Le file lunghissime file davanti ai seggi. Con l’Udi (Unione donne italiane) avevamo fatto un grandissimo sforzo per spiegare come si votava. Ricordo queste lunghe file e tante donne arrivate al seggio che ancora non sapevano come fare.

Sei orgogliosa di essere stata un’avanguardia del femminismo in Italia?

Più che orgogliosa sono contenta. La condizione femminile è cambiata profondamente. Eravamo relegate al ruolo di moglie o di madre, siamo diventate cittadine di pieno diritto. Sono felice di aver combattuto per questo, la sento come una delle cose positive della mia vita.

In questo salotto si sono incontrati grandi uomini e donne. Chi ricordi con più affetto?

Molti. Sicuramente Berlinguer e Togliatti. Eravamo amici oltre che compagni. Avevamo un rapporto molto forte con Giancarlo Pajetta, Paolo Bufalini, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao, Luciano Barca, Nilde Iotti. E poi vorrei ricordare Tonino Tatò e Giglia Tedesco, Filippo Sacconi e Vittorio Tranquilli, Ennio Parrelli. Tante, tantissime persone. Anche Don De Luca era molto legato a Franco, era un grande intellettuale. Fu importante il nostro rapporto con lui e Togliatti per l’Ostpolitik, il disgelo tra il Vaticano e il blocco sovietico.

Quest’anno è anche il trentennale dalla fine del Pci. Come hai vissuto la “svolta”?

Occhetto venne a casa nostra, era la fine dell’89, e ci fece capire che entro un paio di settimane avrebbe annunciato il cambio del nome. Ero d’accordo sul fatto che la sinistra dovesse voltare pagina. Qualcosa poi è andato storto (ride). Oggi non vedo molti politici che hanno una concezione diversa da quella del potere.

Cento anni, nonna. Buon compleanno. Come ti senti?

Vecchia (scoppia a ridere).

Penso che hai avuto una vita molto bella.

Una vita ricca.

La storia del bambino di Rodi che si rituffa nel mare della vita

Quella di Sami Modiano è la storia di un sopravvissuto alla Shoah che a 90 anni entra in tutte le scuole per raccontare quel che ha visto a Birkenau. Ma è anche la storia di un ragazzino di 8 anni espulso dalla sua scuola italiana di Rodi perché ebreo in terza elementare. La storia di un 14enne tornato nella sua isola trovandola vuota, senza le voci e i volti della sua comunità. Un ragazzo che allora aveva l’età di quelli che oggi lo ascoltano in silenzio mentre descrive con le lacrime agli occhi come ha visto spegnersi piano piano il padre e la sorella.

Walter Veltroni nel 2018 ha realizzato il documentario Tutto davanti a questi occhi intervistando Sami Modiano su tutto quello che, con i suoi occhi appunto, aveva visto nel suo viaggio da Rodi ad Auschwitz e ritorno. Come un completamento di quel lavoro, ora Veltroni pubblica un libro che racconta quella stessa storia in prima persona con un linguaggio e una prospettiva diversi. “Mi chiamo Samuel, ma tutti mi chiamano Sami. Quindi mi chiamo Sami. Ho compiuto da qualche giorno quattordici anni e sto per tuffarmi in mare. Nel mare più bello che abbia mai visto. È azzurro, trasparente, sembra mi aspetti. Sono in piedi sulla spalletta della barca e sto per volare giù, nell’acqua fresca e limpida. Dovrei essere il ragazzo più felice del mondo. Dovrei sorridere. Invece piango. Ora vi racconto perché”. Inizia così Tana libera tutti. Sami Modiano, il bambino che tornò da Auschwitz (160 pagine, 13 euro) scritto in prima persona. L’io narrante è quel ragazzino di 14 anni ritratto nella bella copertina mentre decide di rituffarsi nel mare e nella vita. Il linguaggio è semplice e accattivante come deve essere per passare ai ragazzi il testimone della memoria. Il volume è arricchito dalle foto della vita di Sami Modiano, dalle note storiche che aiutano i più piccoli a orientarsi e dalle illustrazioni di Giovanni Scarduelli. “Sami Modiano – scrive Veltroni nei ringraziamenti– è una delle persone più belle che la vita mi abbia concesso di incontrare. Avrebbe tutti i motivi di odiare il mondo, di coltivare rancori, rabbie, sentimenti di rivalsa. Invece è una persona dolce, inclusiva, intensa. Aperta agli altri, generosa e, con me, affettuosa in un modo che non potrò mai dimenticare”.