Marisa Rodano ha compiuto 100 anni. Mia nonna è nata lo stesso giorno del Partito comunista italiano, il 21 gennaio 1921. Non può essere un caso. Per me è impossibile trovare la giusta distanza, sciogliere la dimensione privata da quella pubblica. Famiglia e partito; le lunghe tavolate degli adulti in una nube di fumo, i bambini in ascolto come spugne, pranzi di Pasqua che sembrano comitati centrali. I baci, i soprannomi giocosi e i regali di Natale nelle buste da lettera del Senato. Marisa è una donna meravigliosa e austera, una montagna levigata. Ha il corpo minuto di una centenaria, ma una luce ancora formidabile negli occhi celesti. “Sono piena di acciacchi, tutta un dolore”, sorride, “però mi sa che non mi posso lamentare”.
Cento anni da comunista italiana.
Io sono convinta che il Pci sia stato un elemento decisivo per la partecipazione alla resistenza, alla lotta contro il fascismo e il nazismo. Quando Togliatti ha deciso, a Salerno, che ci si poteva iscrivere indipendentemente dalle convinzioni ideologiche – non era più necessaria l’adesione al marxismo – ha aperto la strada alla partecipazione di masse di persone differenti. Di fatto ha gettato le basi della ricostruzione della democrazia in Italia.
Nei tuoi racconti si avverte la sensazione che tu abbia abbracciato la Resistenza con lo spirito di una ragazza. Quasi per istinto. Come nel verso di De André: “Lottavano così come si gioca”.
Non c’è dubbio. La prima ribellione è stata nei confronti della famiglia, un fatto abbastanza normale per una diciassettenne. È venuta insieme all’idea di potersi impegnare in qualcosa di importante.
Sei nata in una famiglia borghese, tuo padre era fascista.
Era convintamente fascista, una sciarpa littoria, podestà di Civitavecchia. Ho avuto pochi rapporti con lui, molti di più con mia madre, la quale però non si occupava di politica. Le signore dell’epoca facevano vita mondana, giocavano a canasta. La mia scelta li mise in imbarazzo.
Quando hai conosciuto Franco Rodano, tuo marito?
Al liceo Visconti, a Roma. Frequentavamo tutti e due la congregazione “La Scaletta”. Ci siamo legati lì, nei dibattiti e nelle discussioni politiche. Provammo la stessa urgenza di fare qualcosa per combattere l’oppressione del fascismo ed evitare la guerra, che si sentiva imminente.
Cosa ricordi del regime?
Odiavo le forme d’autorità, l’inquadramento, il conformismo. Detestavo le sfilate a via dell’Impero, il dover mettere la divisa, le manifestazioni sportive allo stadio dei marmi. E ho impressa questa immagine che vidi a Monterado, nelle Marche: la fila delle persone disoccupate appoggiate alle spallette dei muri, lungo la strada. Povertà e impotenza. Mi colpì moltissimo.
Avete abbracciato la Resistenza, avete conosciuto il carcere, vi siete rifugiati nei conventi. C’è questa scena incredibile dei soldati tedeschi che vi cercano mentre siete nascosti in bagno.
Eravamo nascosti a Santa Maria in Cappella, a Trastevere. All’ultimo piano, nel magazzino dove tenevano i veli inamidati, Suor Caterina ci lasciava aperto lo sportello del passavivande per nasconderci. Ricordo Tonino Tatò che faceva fatica a passarci, era troppo in carne (sorride). Quella volta rimasi a lungo in un gabinetto puzzolentissimo, fuori c’era questo nazista che faceva avanti e indietro. E pensavo: “Se gli viene bisogno di andare in bagno…”.
Franco è morto nell’estate dell’83, non l’ho mai conosciuto. Me lo racconti?
Tuo nonno era un uomo intelligente, colto, molto curioso della realtà. La sua morte è stata il più grande dolore della mia vita. Per me è stato un sostegno fondamentale. Lavorava e contemporaneamente guardava i bambini quando andavo in giro a fare politica.
Eravate una famiglia moderna.
(sorride) Esatto, lui stava con i bimbi. Ma pure anomala, non era abituale quel tipo di vita. Forse non lo è ancora.
Sei stata la prima donna vicepresidente della Camera.
La prima cosa che ricordo è che non sapevo come vestirmi. La seconda che tutti i commenti erano su come fossi vestita.
Cosa ricordi invece delle prime elezioni a suffragio universale?
Le file lunghissime file davanti ai seggi. Con l’Udi (Unione donne italiane) avevamo fatto un grandissimo sforzo per spiegare come si votava. Ricordo queste lunghe file e tante donne arrivate al seggio che ancora non sapevano come fare.
Sei orgogliosa di essere stata un’avanguardia del femminismo in Italia?
Più che orgogliosa sono contenta. La condizione femminile è cambiata profondamente. Eravamo relegate al ruolo di moglie o di madre, siamo diventate cittadine di pieno diritto. Sono felice di aver combattuto per questo, la sento come una delle cose positive della mia vita.
In questo salotto si sono incontrati grandi uomini e donne. Chi ricordi con più affetto?
Molti. Sicuramente Berlinguer e Togliatti. Eravamo amici oltre che compagni. Avevamo un rapporto molto forte con Giancarlo Pajetta, Paolo Bufalini, Giorgio Amendola, Pietro Ingrao, Luciano Barca, Nilde Iotti. E poi vorrei ricordare Tonino Tatò e Giglia Tedesco, Filippo Sacconi e Vittorio Tranquilli, Ennio Parrelli. Tante, tantissime persone. Anche Don De Luca era molto legato a Franco, era un grande intellettuale. Fu importante il nostro rapporto con lui e Togliatti per l’Ostpolitik, il disgelo tra il Vaticano e il blocco sovietico.
Quest’anno è anche il trentennale dalla fine del Pci. Come hai vissuto la “svolta”?
Occhetto venne a casa nostra, era la fine dell’89, e ci fece capire che entro un paio di settimane avrebbe annunciato il cambio del nome. Ero d’accordo sul fatto che la sinistra dovesse voltare pagina. Qualcosa poi è andato storto (ride). Oggi non vedo molti politici che hanno una concezione diversa da quella del potere.
Cento anni, nonna. Buon compleanno. Come ti senti?
Vecchia (scoppia a ridere).
Penso che hai avuto una vita molto bella.
Una vita ricca.