La mappa dei prezzi dei vaccini: ecco perché Pfizer “molla” l’Ue

Il mercato libero del vaccino anti Covid-19 funziona esattamente come tutto il resto. Chi paga di più ha il servizio migliore. L’annuncio a sorpresa del colosso Usa Pfizer di dover ritardare le consegne di quasi un terzo delle dosi pattuite ha colpito praticamente solo l’Europa, con i risultati che si stanno vedendo in questi giorni in Italia, e il motivo sta nei prezzi a cui ogni governo sta pagando i vaccini alle compagnie farmaceutiche che li producono. L’Unione europea ha strappato un contratto molto vantaggioso per comprare il vaccino Pfizer-Biontech: paga circa 5 dollari in meno a dose degli Stati Uniti, quasi 15 in meno di Israele.

Quello che poche settimane fa sembrava un affare, ora si sta però rivelando una fregatura. Consegne in ritardo significa meno persone vaccinate, ma anche vaccini sprecati se non si riescono a fare i richiami come da programma. Per questo molti leader dell’Unione europea si sono infuriati con Pfizer, che ha sviluppato il vaccino insieme alla tedesca Biontech. Il governo italiano ha fatto sapere di voler valutare eventuali azioni legali contro la società. “La nostra campagna rallenta per mancanza della materia prima”, ha detto ieri il commissario straordinario Domenico Arcuri.

Pfizer, che ha promesso di recuperare il ritardo entro metà febbraio, ha motivato l’annuncio a sorpresa con l’enorme richiesta del mercato. L’azienda ha detto di essere stata costretta ad aumentare la produzione di colpo, da 1,3 miliardi a 2 miliardi di dosi. Questo è l’obiettivo per il 2021 e anche la causa del ritardo. Per aumentare la produzione in futuro, Pfizer ha deciso infatti che adesso bisogna fermare lo stabilimento di Puurs, in Belgio, così da ingrandirlo. È quello che produce le dosi di vaccino per tutti i Paesi europei. Ma perché Pfizer ha scelto di ritardare le consegne proprio in Europa e non negli Stati Uniti, dove pure produce il vaccino, oppure in altre nazioni?

Sapere quanto stanno spendendo i governi del mondo per comprare vaccini dalle varie società che si battono sul mercato sarebbe utile per capirlo, ma le cifre sono segrete, nessun governo le ha pubblicate, men che meno per ora le compagnie private. I numeri usciti finora sono frutto di dichiarazioni di politici, annunci di finanziamenti alla ricerca e articoli dei giornali. La società di ricerche londinese Airfinity li ha messi insieme in uno studio appena aggiornato: una mappa dei prezzi applicati ai vari Paesi del mondo per acquistare il vaccino contro il Covid-19, il business del momento (e forse del futuro). Lo studio mostra che i prezzi a cui vengono comprate le dosi sono molto diversi tra loro, e che chi ha speso di più sta avendo il trattamento migliore.

Pfizer-Biontech, i primi a vedersi autorizzare in Europa e Nord America, sono anche i più cari di tutti: 14,50 dollari a dose dall’Unione europea, 19,50 dollari dagli Stati Uniti, 28 dollari da Israele. La compagnia punta a produrre quest’anno 2 miliardi di dosi. A una media di 20 dollari a dose, fanno 40 miliardi di dollari tondi. Una benedizione per gli investitori finanziari che scommettono sul titolo Pfizer a Wall Street.

Ma l’affare del vaccino anti-Covid ha solo iniziato a gonfiarsi, e i giocatori in campo sono tanti. C’è una pattuglia di società che punta a spartirsi il mercato mondiale. In Italia oltre a Pfizer è arrivata Moderna, finanziata quasi interamente dal governo degli Usa. Fornirà 160 milioni di dosi. Il prezzo contrattato con l’Unione europea da Moderna è di 18 dollari a dose, più alto di quello degli Stati Uniti (15 dollari). La Cina ha sviluppato rapidamente il suo vaccino con Sinopharm e lo vende nel mondo, dall’Indonesia al Brasile agli Emirati Arabi Uniti. La Russia è coperta con il vaccino nazionale Sputnik che vende anche all’estero. In teoria i prezzi dovrebbero abbassarsi in futuro, ma molto dipende dal progetto sviluppato da Astrazeneca insieme all’Università di Oxford, il vaccino più finanziato in assoluto. Il prezzo negoziato con l’Ue è di 2,50 dollari a dose, simile per gli altri Paesi del mondo. Ora la società è in attesa del via libera dell’Ema.

Fondi, NgEu può invertire il saldo per l’Italia (-36 mld)

Quanto vale davvero il Recovery fund (o Next generetion Eu) per l’Italia? La domanda non è peregrina. Se l’entità dei fondi (tra sussidi a fondo perduto e prestiti) destinata al nostro Paese è nota, il discorso cambia se si considera la quota di risorse che andrà restituita. La preoccupazione principale è che il saldo netto resti negativo e alla fine l’Italia si trovi nella stessa situazione attuale, che la vede contributrice netta dei fondi europei visto che versa al bilancio comunitario (Qfp) ogni anno quasi 5 miliardi più di quelli che riceve. Il programma europeo dovrebbe invertire questa condizione, almeno per un po’.

I numeri. NgEu consente alla Commissione Ue di finanziarsi sul mercato fino a 750 miliardi da erogare poi ai singoli Paesi (390 sotto forma di sovvenzioni e 360 di prestiti), che dovranno spenderli entro il 2026 e restituirli, in parte, dal 2028. Il cuore del programma è il “dispositivo per la Ripresa e la Resilienza” (Rff): 672 miliardi, di cui 360 di sovvenzioni. Il 70% di queste dovrebbe essere impegnato nel 2021-2022 sulla base di criteri specifici (popolazione, Pil pro capite, disoccupazione negli ultimi 5 anni etc.). Il restante 30% nel 2023 tenendo conto anche del calo del Pil nel 2020-2021. Per l’Italia si tratta di 208 miliardi: 125 miliardi di prestiti e 83 di sovvenzioni (69 del Rff, 13,5 da React Eu, il meccanismo ponte tra la politica di coesione e il bilancio 2021-2027, e 0,5 provenienti dal Fondo per la transizione ecologica).

Il saldo. Di queste cifre, l’Italia cosa deve restituire? Innanzitutto, prima del 2028, nulla. Solo da quel momento le risorse andranno rimborsate alla Commissione, in un arco temporale peraltro molto lungo (2048). A ogni modo, i prestiti andranno restituiti (l’Italia conta di impegnare tutti i 125 miliardi, ma solo una parte, circa 80, saranno “aggiuntivi”, cioè non andranno a sostituire stanziamenti già previsti senza aumentare il debito). Diverso il discorso per le sovvenzioni. Il meccanismo del Recovery è agganciato a quello del prossimo bilancio comunitario (2021-2027) e quindi dovrebbe seguire logiche simili. L’Ufficio parlamentare di bilancio, una specie di Authority dei conti pubblici, usando come metro di paragone la media delle contribuzioni dell’Italia nell’ultimo quinquennio, ha stimato che degli 80 miliardi di sovvenzioni dovremo restituirne circa la metà, e che quindi il saldo netto del Recovery fund sarà positivo per 40 miliardi.

Cosa cambia. Il punto di partenza dell’Italia, va ricordato, è fortemente negativo. Il nostro Paese è infatti storicamente un contributore netto del bilancio comunitario, il quarto per numeri assoluti dietro solo a Germania, Francia e Regno Unito. Stando ai dati della Corte dei conti, nel settennio 2013-2019, il saldo netto cumulato tra i trasferimenti a Bruxelles e i fondi strutturali tornati indietro è negativo per 36,38 miliardi. Insomma, l’Italia in media ogni anno ha versato 5,2 miliardi più di quanto ricevuto (5,6 nel 2019). Nel suo ultimo report, la magistratura contabile ritiene che il Recovery fund e il nuovo bilancio comunitario “invertiranno con ogni probabilità, anche sul piano finanziario, la tradizionale posizione di contributore netto dell’Italia”, anche perché il nuovo Qfp 2021-2027 dovrebbe essere più generoso per il nostro Paese, visto il brusco calo del Pil dovuto alla crisi Covid.

La sfida. Il vero nodo saranno le condizionalità. Diversamente dai fondi strutturali europei (già molto vincolati), quelli del Recovery verrano erogati solo se verranno centrati i risultati previsti e potranno essere sospesi o cancellati se l’Italia non rispetterà le regole fiscali Ue (al momento sospese per la pandemia). L’Italia non ha mai brillato per l’uso dei fondi Ue. Del vecchio Qfp 2014-2020, ad esempio, al 31 ottobre avevamo impegnato il 68% delle risorse (34 mld) e ricevuto il 38% dei pagamenti.

Il recovery degli altri: paesi, piani e progetti

Economia verde e transizione digitale: queste sono le due priorità di Bruxelles per il Recovery Fund. A esse si devono adeguare i piani nazionali, distribuendo il 37% dei fondi al green e il 20% al digitale. Ma bisogna tenere d’occhio anche la “Strategia di crescita sostenibile” e i progetti bandiera della Commissione, oltre alle raccomandazioni economiche del semestre europeo. Infatti, il Recovery, pur essendo una nuova creatura nella fauna giuridica comunitaria, è legato a doppio filo ai meccanismi istituzionali già in vigore. Più precisamente, si dovrebbe parlare di Recovery and Resilience Facility , una “struttura” di finanziamento per la ripresa. Gli Stati membri devono presentare entro fine aprile un pacchetto di riforme e progetti, da attuare entro il 2026. Il piano sarà poi valutato dalla Commissione e approvato dal Consiglio europeo. Prima di aprile gli Stati possono già inviare una bozza per un parere. Ma a che punto sono?

 

Germania Priorità ai “dati” ma pochi nuovi investimenti

Partiamo dalla Germania, che riceverà circa 23 miliardi a fondo perduto. Non accederà invece ai prestiti, dati i tassi di interesse bassissimi (addirittura negativi) sui titoli di Stato. È previsto un co-finanziamento da parte dei Länder e, se necessario, di altri fondi europei. Un pilastro del piano è la decarbonizzazione: un tema scottante, dato che il 23,8% dell’energia prodotta in Germania viene dal carbone (dati Clew 2020). Lo sforzo sostenibile del Paese (che impiegherà il 40% dei fondi) si dovrà concentrare sull’uso dell’idrogeno come fonte rinnovabile e su mobilità ed edilizia a basso impatto ambientale. Grande risalto è dato alla digitalizzazione, che assorbirà il 40% delle sovvenzioni, raddoppiando l’obiettivo della Commissione. L’approccio si basa su una visione interessante: i dati come “materie prime” del futuro. Ma anche la sanità e la PA riceveranno fondi sostanziosi. Il livello di dettaglio è poi elevato per ogni area. Nonostante il piano ricordi le raccomandazioni dell’Ue di aumentare gli investimenti, c’è il rischio che i fondi Ue vadano a sostituire quelli nazionali. Infatti, nel piano si legge che dal 2022 in poi il deficit pubblico sarà progressivamente ridotto, con l’obiettivo di assicurare la sostenibilità del debito. Già riemergono vecchie logiche.

 

Francia La “grandeur”: tanta industria e protezionismo

Il governo non ha ancora inviato alla Commissione il suo piano. I punti chiave, però, sono delineati in France Relance, un ambizioso programma per la ripresa, che include fonti di finanziamento nazionali (60 miliardi) ed europee (40 miliardi di sovvenzioni provenienti dal Recovery Fund). Probabilmente neanche i francesi useranno i prestiti della Commissione (non hanno neppure fatto uso del meccanismo Sure, i prestiti europei anti-disoccupazione). Il fil rouge di France Relance è il rafforzamento dell’indipendenza economica. Ancora non è possibile distinguere cosa sarà pagato dall’Europa e cosa dalle casse francesi, ma Macron dovrà aggiustare il tiro. Una prima criticità: sono pochi i soldi destinati alla digitalizzazione. Non vi è menzione alcuna di una riforma della PA. Inoltre, a Bruxelles potrebbe suscitare malumori il piano per la rilocalizzazione in patria della produzione industriale. Per non parlare dei 20 miliardi per tagliare le tasse alle imprese. Se non altro, grande risalto è dato alla transizione verde: l’adeguamento termico degli edifici, il trasporto su rotaia e l’“idrogeno” verde assorbono oltre 18 miliardi. Un’altra parola chiave è “industria”. 11 miliardi saranno investiti in tecnologie chiave e 3 per rafforzare il capitale delle Pmi. Macron e il ministro delle Finanze Le Maire hanno una visione chiara, ma è da vedere se la Commissione ne asseconderà la grandeur.

 

Spagna Niente prestiti, il 16% alle aree urbane

La Spagna dovrebbe ricevere circa 69,5 miliardi a fondo perduto dalla Recovery and Resilience Facility (qualcosa in più dell’Italia), oltre ad altri 12,4 miliardi di sovvenzioni da React-Eu (nell’ambito delle politiche di coesione). Di fronte a questi numeri, almeno fino al 2023, il governo non ricorrerà ai prestiti della Commissione. Coerentemente con gli obiettivi comunitari, il 37% dei fondi finanzierà l’economia verde, mentre il 30% sosterrà la digitalizzazione. Ma quello che distingue davvero il programma economico spagnolo è l’attenzione ai temi sociali. Infatti, gli altri due pilastri del piano sono l’uguaglianza di genere e la coesione territoriale. Anche se i fondi sono stati già suddivisi in dieci sottogruppi, c’è ancora poca chiarezza sui progetti specifici. Gioca un ruolo importante l’“Agenda rurale e urbana” (16% delle risorse), volta a migliorare la vita in città e a rafforzare il tessuto socio-economico delle campagne. Spiccano anche modernizzazione delle imprese (17%), scienza e sanità (16,5%) e formazione del capitale umano (17,6%). Seguono infrastrutture (12%) e transizione energetica (9%). Un altro punto di forza del programma è la riforma della PA, volta sia alla modernizzazione dei processi sia al rinnovamento delle norme. Il tutto per garantire un meccanismo di spesa e realizzazione più fluido. Nonostante si intraveda un buon abbozzo di politica industriale, solleva però qualche dubbio l’inclusione del turismo (crollato con il Covid) fra i “settori strategici”.

 

Portogallo Solo sussidi, poco verde e molto sociale

Il primo ministro António Costa ha dichiarato che il governo farà “pieno uso” dei sussidi (pari a circa 13 miliardi) e non userà i prestiti “fintanto che la situazione finanziaria del Paese lo permette”. Finché i tassi sono bassi, i portoghesi preferiscono finanziarsi direttamente sul mercato. Il piano è diviso in tre blocchi: resilienza (8,2 miliardi), transizione verde e digitalizzazione (entrambe circa 2,9 miliardi). Per ogni blocco sono individuate alcune aree rilevanti, suddivise a loro volta in componenti più piccole, per ognuna delle quali sono previsti progetti specifici, con livelli di finanziamento predefiniti. A prima vista sembrerebbe non essere rispettato il requisito del 37% dei fondi da destinare all’economia verde. In realtà, il piano stima per ogni area di investimento (ad esempio edilizia abitativa) la dimensione climatica, ambientale e digitale. In questo modo i conti tornano. È comunque il primo blocco (“resilienza”) a farla da padrone: 3,2 miliardi alle vulnerabilità sociali; 2,5 al potenziale produttivo; 1,5 alla competitività e alla coesione territoriale.

 

Grecia La logica resta quella dell’austerità

Il governo greco potrà usare circa 16 miliardi di sussidi a fondo perduto, ma accederà anche ai 12,6 miliardi di prestiti disponibili. L’obiettivo? Stimolare gli investimenti privati verso progetti co-finanziati da banche nazionali e istituzioni europee. In pratica, la Grecia userà i prestiti per fare leva finanziaria. Questa strategia può aiutare a non compromettere troppo le casse pubbliche. Un’altra giustificazione è che, secondo i dati contenuti nel piano, il gap di investimento del Paese è dovuto per due terzi a investimenti privati troppo bassi. Il governo però dimentica che sono bassi non solo a causa degli alti tassi di interesse, ma soprattutto perché il clima economico è depresso. Promuovere l’investimento pubblico sarebbe stata una decisione più coraggiosa (ma in antitesi alle raccomandazioni del semestre europeo e questa, purtroppo, non è una novità). I progetti sono raggruppati intorno a 4 pilastri, ma non c’è un alto livello di dettaglio su finanziamento e implementazione. Certo, il piano greco individua con chiarezza i problemi del Paese: insufficienti investimenti, scarsa produttività, bassa occupazione, fragile coesione sociale e disparità geografiche. Ma molte risposte sono inadeguate. È lodevole il progetto di promuovere l’interconnessione elettrica delle isole, ma il nervo scoperto è il mondo del lavoro. Per far fronte alla disoccupazione si prepara una nuova riforma, che va ancora una volta nella direzione di più flessibilità. In Grecia la politica economica soffre di una sorta di sindrome di Stoccolma.

Dopo lo choc asimmetrico del Covid, il Recovery cerca di rimettere gli Stati in condizioni di parità, ma emergono comunque varie criticità. C’è chi coltiva ambizioni di potenza industriale (Francia), chi dà priorità al tessuto sociale e ai più deboli (Spagna, Portogallo), chi si barcamena fra strettoie economiche e politiche (Grecia) e chi iconsolida la sua posizione di forza (Germania). Servirebbe un approccio a 360 gradi. Ma per quello i soldi non sono sufficienti.

I dieci senatori più “richiesti” per salvare le commissioni

Donatella Conzatti, senatrice trentina con un passato da berlusconiana doc e oggi renziana, si aggira per il Senato lamentandosi con colleghi e giornalisti: “Solo oggi mi hanno cercata in tre” allarga le braccia riferendosi agli emissari di Pd e M5S che stanno provando a convincerla per passare nella maggioranza. Stesso turbamento di Eugenio Comincini, astro nascente della politica milanese ed ex sindaco dem di Cernusco sul Naviglio, che martedì sera, a fiducia calda, ha deciso di scrivere un post su Facebook per dire che no, se “Italia Viva non ricuce con il governo”, lui non andrà all’opposizione. Ergo: tornerà nel Pd. E mercoledì pomeriggio, nel Salone Garibaldi di Palazzo Madama, si sorprendeva di cotanta attenzione mediatica: “Mi hanno cercato radio, tv, tutti i giornali. Ma cosa avrò mai detto?”. Sono loro due i senatori più ambiti dai giallorosa. Motivo? Da loro dipendono i lavori della commissione Bilancio del Senato dove entro fine mese arriverà il Recovery Plan.

D’altronde Matteo Renzi ha già annunciato il “Vietnam” nelle dieci commissioni del Senato dove Pd e M5S non sono autosufficienti. E proprio nella Bilancio, senza i renziani, la situazione è di perfetta parità: 13 voti per la maggioranza e 13 per l’opposizione. Ma in caso di pareggio, secondo il regolamento di Palazzo Madama, ogni proposta di legge verrebbe respinta. Così il ritorno a casa di Conzatti e Comincini tra i dem potrebbe diventare un colpaccio per sbloccare i lavori della commissione che nelle prossime settimane si dovrà occupare del piano da 209 miliardi Ue. Qui potrebbe tornare utile anche il voto di Antonio Saccone, senatore dell’Udc, che porterebbe in dote il simbolo del “popolarismo europeo” a cui fa spesso riferimento il premier Giuseppe Conte.

Un altro ago della bilancia in commissione è l’ex Ds Leonardo Grimani da cui dipendono le sorti della Affari costituzionali, dove presto arriverà la legge elettorale proporzionale e le riforme istituzionali. Anche qui, nel parlamentino presieduto dal dem Dario Parrini, regna il perfetto equilibrio: 12 a 12. Ma in caso di ritorno del “ribelle” Grimani nel Pd, la maggioranza tornerebbe a respirare con 13 voti favorevoli a 11 contrari. In Affari costituzionali, un altro voto utile a Pd e M5S sarebbe quello di Luigi Vitali, forzista deluso contattato dagli sherpa del premier. Ma per ora non si dice interessato: “Non vedo margini per un gruppo pro Conte” ha detto ieri. Un altro senatore su cui il M5S sta lavorando molto dopo il “no” alla fiducia di martedì è quel Mario Giarrusso, espulso ad aprile per le mancate restituzioni: il suo è un voto decisivo in Commissione Giustizia dove al momento la situazione è di 12 a 13 per l’opposizione. Martedì il senatore siciliano è stato indeciso tutto il giorno e ha chiesto al ministro Federico D’Incà un impegno maggiore del governo sulla lotta alla mafia, tant’è che nelle sue repliche il premier Conte ha fatto direttamente riferimento a quel tema con l’omaggio a Paolo Borsellino. Ma non è bastato: “Il mio no però potrebbe diventare sì” va dicendo Giarrusso, anche se ieri ha ribadito che mercoledì prossimo voterà convintamente contro alla relazione sulla giustizia del ministro Alfonso Bonafede che arriverà in aula mercoledì prossimo. Senza il suo voto, in commissione Giustizia si rischia un asse Lega-FdI-FI-Iv con il pasdaran iper-garantista Giuseppe Cucca (Italia Viva) che già pregusta l’occasione: “Ci sarà da divertirsi”. Gli altri senatori fondamentali per la maggioranza sono le due renziane della commissione Lavori pubblici Gelsomina Vono e Valeria Sudano (al momento qui il bilancio è di 12 a 11 per l’opposizione), ma anche Annamaria Parente (Iv) e Paola Binetti (Udc) in Commissione Sanità: anche qui i giallorosa sono sotto 12 a 11.

“Matteo, così passiamo dalla Bellanova a Salvini”

Quando hanno visto il capo parlottare al telefono con l’altro “Matteo” per tentare il blitz in aula e buttare giù Giuseppe Conte – così, senza pudore, come due amici di lunga data che si mettono d’accordo per fare una burla al terzo – uno dei senatori renziani è sbottato: “Attacchiamo Conte per essere passato da Bellanova a Mastella, ma così passiamo da Bellanova a Salvini”. Martedì sera, intorno all’ora di cena, erano in diversi a volersi ribellare alla linea di Renzi tentato dal colpaccio: prima voleva far mancare il numero legale in aula (“Sai che figura di m…a gli facciamo fare”) e poi addirittura votare con le opposizioni per rendere vano il recultamento dei responsabili e mandare al Colle il premier per rassegnare le dimissioni.

Ma i numeri erano incerti: certo, c’era quella decina di turborenziani – da Ernesto Magorno a Daniela Sbrollini fino a Laura Garavini, per non parlare di Davide Faraone, Teresa Bellanova e Francesco Bonifazi – che avrebbero seguito volentieri il leader, ma ce n’erano anche altri 6-7 che lo avrebbero mollato all’istante, salvando il governo. Così, alla fine, Renzi è venuto a più miti consigli: astensione. Ma in queste ore, quell’episodio torna e ritorna nelle chat dei senatori renziani, soprattutto quelli delusi che hanno già un piede fuori da Italia Viva per tornare nel Pd. Fino a ieri comunicavano solo sulla chat ufficiale o si appartavano tra i corridoi di Palazzo Madama, ma ora hanno aperto anche una chat sotterranea. Si scambiano impressioni, previsioni su “cosa farà Conte” e soprattutto su cosa faranno loro. Al momento stanno coperti, pubblicamente usano tutti la stessa formula: “Non lascio Italia Viva”. Ma poi, nelle segrete stanze virtuali di WhatsApp criticano Renzi (“Ci ha tenuti all’oscuro di tutto fino all’ultimo momento”), raccontano da chi sono stati avvicinati e si informano sulle mosse altrui: “Tu che hai intenzione di fare?”, “Lasci?”.

Poi ci sono i capannelli, i caffè alla buvette. Molto attiva è Base Riformista, la corrente di Luca Lotti e Lorenzo Guerini che sta provando a riportare a casa i senatori di Iv. Gli ambasciatori del ministro della Difesa sono molti a Palazzo Madama, dal capogruppo Andrea Marcucci fino al suo braccio destro Alessandro Alfieri. E ovviamente la regìa è anche di Dario Franceschini che, tramite i suoi emissari, parla con tutti. Sono loro a raccogliere gli sfoghi dei renziani in crisi. Uno di questi è Leonardo Grimani, vecchia scuola Ds e con alle spalle undici anni di sindaco di San Gemini, nella rossa provincia di Terni. “Come faccio, con la mia storia, a fare opposizione al centrosinistra? E per giunta affiancandoci a Salvini e Meloni: siamo pazzi?” si è sfogato con un dem. Lui sarebbe uno dei senatori che Renzi già considera persi insieme a Eugenio Comincini che, da sindaco di Cernusco Sul Naviglio (Milano), sa cosa vuol dire combattere i leghisti in Padania. “Spero in una ricucitura – va dicendo – ma non posso fare opposizione al Pd”.

Loro due sono anche quelli che hanno provato a convincere il capo a non votare contro il decreto Ristori 5 che arriverà in aula la prossima settimana: “Passeremo come quelli che non vogliono aiutare i cittadini e gli elettori ce la faranno pagare” gli hanno detto. Tra gli incerti c’è anche quel Mauro Maria Marino che martedì era assente per Covid,, ma è critico alla linea dura e pura del capo. Poi c’è Annamaria Parente che a mollare la presidenza della commissione Sanità non ci pensa nemmeno, gli ex FI Vincenzo Carbone e Donatella Conzatti e l’ex M5S Gelsomina Vono. E Renzi lo sa che sotto la cenere del voto di martedì, il fuoco arde ancora. Così ieri ha provato l’ultima mossa: “Siamo pronti al confronto con Conte”. Più che per ricucire, un modo per evitare la grande fuga. Ma potrebbe essere troppo tardi.

I centristi “frastornati” pensano all’astensione

L’indagine su Lorenzo Cesa piomba come un macigno sulle trattative che Giuseppe Conte stava tenendo coi centristi dell’Udc. Paola Binetti, Antonio Saccone e Antonio De Poli, che martedì hanno votato contro il governo, ieri si sono detti assai “scossi”, quasi “frastornati” da quello che è successo. “Esprimiamo piena solidarietà al nostro (ex) segretario, siamo certi che potrà dimostrare la sua totale estraneità”, dicono insieme. “È una notizia che mi lascia attonita. Sono certa che Cesa ne uscirà a testa alta”, ha aggiunto la Binetti. Ma ora i tre che faranno? “Oggi non è il giorno delle trattative, sarebbe una cosa di cattivo gusto. Dobbiamo convocare il consiglio nazionale per eleggere un nuovo segretario. Poi si vedrà – fa sapere Binetti a diversi interlocutori – Mi auguro che il dialogo che era iniziato prosegua”. Ma questa vicenda, aggiunge, “non cambia le cose che ognuno di noi ha detto in questi giorni nei confronti del governo”. I tre più Cesa, però, finora si sono mostrati come un universo assai frastagliato. Paola Binetti, per esempio, sembrava già con un piede nella maggioranza (“Oggi voto no, poi inizia un’altra storia…”, ha detto prima della fiducia). Alcuni dicono che le sia stato offerto il ministero della Famiglia e lei abbia rifiutato. Trattativista veniva considerato pure Antonio Saccone, che nel 2006 è stato pure consigliere comunale a Roma con Walter Veltroni. Per lui sarebbe quasi un ritorno a casa. Discorso diverso, invece, per il veneto De Poli, il più restìo a lasciare il centrodestra, da settimane è marcato a vista da Niccolò Ghedini, ma pure da Matteo Salvini. Il quale si dice che gli abbia già promesso un collegio blindato. “Restiamo fedeli al centrodestra. E comunque non decideremo nulla prima della nomina del nuovo segretario…”, fa sapere De Poli. Cesa, invece, che ormai non è più della partita, sembrava giocare su tutti i tavoli. In ballo, ricordiamo, c’è pure il simbolo, lo scudocrociato, per l’eventuale presentazione di un gruppo contiano al Senato.

Il problema, però, è che l’esecutivo ha fretta, perché mercoledì si voterà la relazione del ministro Bonafede sulla giustizia su cui Italia Viva ha già annunciato il dissenso. “In attesa di decidere da che parte stare, su quello potremo astenerci…”, fanno sapere i centristi.

Secondo una fonte che conosce bene l’ex partito di Marco Follini, l’uscita di scena di Cesa potrebbe addirittura “facilitare” la trattativa coi tre senatori, che ora si sentiranno “più liberi” di muoversi, senza il segretario che stava loro “col fiato sul collo”. Dopo un periodo di gran freddo, Cesa ultimamente si era riavvicinato al centrodestra, partecipando ai vertici con Salvini, Meloni e Tajani che, dopo anni di dimenticanze, avevano ripreso a coinvolgerlo. Ma se sarà una diaspora, bisognerà poi da capire che faranno i venti consiglieri regionali e i 1700 consiglieri comunali sparsi sul territorio. “Siamo più culi che poltrone…”, amava dire Cesa ai nuovi arrivati nel partito, per non illuderli. Ma se la poltrona è di governo…

Indagato l’udc Cesa: “Connubio diabolico politici-imprenditori”

L’incontro che inguaia Lorenzo Cesa, l’ormai ex segretario dell’Udc, ha data e luogo precisi: 7 luglio 2017, a Roma, al ristorante “Tullio”, in pieno centro storico. C’erano i consiglieri comunali Tommaso e Saverio Brutto, l’assessore calabrese al Bilancio della Regione Calabria Francesco Talarico e l’imprenditore Antonio Gallo. Tutti (tranne Cesa) arrestati ieri dalla Procura di Catanzaro nell’inchiesta “Profilo basso”, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri e dai sostituti Paolo Sirleo e Veronica Calcagno. Il leader dell’Unione di Centro è invece indagato e la sua abitazione è stata perquisita dagli agenti della Dia. È accusato di associazione a delinquere finalizzata ad agevolare la ’ndrangheta. Cesa, che ieri si è dimesso dalla segreteria del partito, avrebbe fatto parte, secondo le accuse, di “un comitato d’affari” che i magistrati hanno definito un “connubio diabolico tra imprenditori e politici”. Sono 48, in totale, le misure cautelari firmate dal gip: mafiosi, politici, notai, imprenditori, commercialisti e pure un maresciallo della Guardia di finanza. Il segretario calabrese dell’Udc Franco Talarico è accusato di scambio elettorale politico-mafioso ed è finito ai domiciliari.

Grazie al consulente di Invitalia, Natale Errigo, alle Politiche del 2018 Talarico avrebbe preso i voti della cosca De Stefano a Reggio Calabria. Il tramite erano gli imprenditori Antonio Gallo e Antonino Pirrello che, a loro volta, avrebbero potuto godere – secondo i pm – delle entrature dei politici regionali e nazionali come Franco Talarico e Lorenzo Cesa.

“Addirittura – scrivono i pm nella richiesta di misura cautelare –, ma questo non è stato riscontrato, Brutto Saverio e Talarico Francesco intendevano remunerare Lorenzo Cesa con una percentuale del 5% sugli affari che grazie ai suoi uffici sarebbero stati agevolati”.

Sempre a Talarico si rivolge l’indagato Tommaso Brutto, finito ai domiciliari. Lo istruisce su come sfruttare l’ex europarlamentare Cesa sia in chiave elezioni sia per interessi personali: “Frà (Talarico, ndr)… noi ora dobbiamo parlare con Cesa… Io mi devo risolvere il problema di mio figlio e gliela dobbiamo mettere anche sul piano, Frà, che noi qui dobbiamo tenere un partito, dobbiamo tenere una segreteria… mio figlio è disoccupato”.

L’obiettivo, secondo la Procura, era poi anche quello di far sbarcare gli amici imprenditori in Albania, Stato – scrivono i magistrati – “dove, grazie all’ausilio del maresciallo D’Alessandro Ercole, sarebbero stati introdotti nei gangli della Pubblica amministrazione”.

Cesa viene citato più volte nelle conversazioni di alcuni degli indagati. In un’occasione Talarico “riferiva… che Cesa avrebbe presentato un amico consulente di vari enti (Enac, Eni, Telecom e Anas) all’imprenditore Gallo”. In un’altra era invece Tommaso Brutto a sottolineare l’importanza del rapporto con il segretario nazionale dell’Udc: “Una cosa è che ti crea un contatto Cesa in Albania… che là non è come qua, un ministro in Albania gli molli”. Talarico comprende al volo (“Corruzione totale, mercato libero”) e Brutto conferma: “Là il governo ti dice tu devi pagare 1000 lek diciamo all’anno di tasse, paghi quelle tasse e poi fai quello che cazzo vuoi… se potessimo entrare con gli ospedali… perché noi forniamo anche tute, guanti e maschere, tutto quello che concerne l’ospedaliero”.

A proposito di entrature, il maresciallo D’Alessandro ha raccontato, intercettato il 9 luglio 2017, di essersi incontrato a Roma con Pier Ferdinando Casini, estraneo all’inchiesta: “Mi ha detto… qualsiasi cosa avete bisogno, in Albania io… capito?”. Contattate dal Fatto, fonti vicine a Casini spiegano che l’ex presidente della Camera non ha mai conosciuto né sentito nominare D’Alessandro. E aggiungono anche che “il 7 luglio era appena atterrato in Cina”.

L’ex segretario Cesa, invece, in una nota si dice certo di poter chiarire la propria posizione. “Da una prima lettura sommaria degli atti – spiega – prendo atto del mio coinvolgimento in una limitata vicenda cristallizzata a una partecipazione a un pranzo di lavoro organizzato a Roma da Talarico, nel 2017, unitamente ai suoi commensali di cui non ricordo neanche il nome”.

“È dura”: al governo serve FI per evitare l’agguato di Renzi

Adesso si fa dura. Lo pensano e lo dicono più o meno tutti tra i giallorosa, quando in mattinata leggono del segretario dell’Udc Lorenzo Cesa indagato per associazione a delinquere con aggravante mafiosa, e delle sue immediate dimissioni. Una tegola che può complicare la difficile strada verso i tre voti degli ex Dc in Senato.

Mentre non si registrano gli esodi sperati da Italia Viva, il tempo corre, precipita verso il mercoledì della possibile vendetta di Matteo Renzi, quando in Senato si voterà sulla relazione della Giustizia del Guardasigilli, il 5Stelle Alfonso Bonafede, e la linea di Iv è votare no per mandare sotto il governo, nonostante Renzi ieri su La7 abbia ricordato che l’astensione dell’altro giorno in Senato era una “mano tesa al compromesso”.

Giuseppe Conte ai tanti parlamentari che incontra a Palazzo Chigi o che sente via telefono dice: “Io sono ottimista”. Però vuole tempi stretti. Una settimana o giù di lì, per costruire due nuovi gruppi centristi di sostegno alla maggioranza, a Montecitorio e in Senato, “l’unica via per attirare altri eletti ed evitare guai nelle commissioni, perché è lì che Renzi può davvero intrappolarci” riflette un grillino di rango. Ma bisogna correre, anche perché il Quirinale è inquieto. Dalla maggioranza raccontano che Sergio Mattarella mercoledì abbia manifestato a Conte grande preoccupazione per i rischi di un voto anticipato. La certezza è che il premier lo ha detto a diversi interlocutori: “La gente non vuole le elezioni e dobbiamo fare di tutto per evitarle”. Ma è proprio al voto che si finirà se non si trova in fretta una nuova maggioranza, dicono dal Pd e ammettono con terrore dal M5S. Un incubo che l’indagine su Cesa rende più concreto. È finito in una maxi inchiesta sulla ’ndrangheta, l’ormai ex segretario dell’Udc. Impossibile da reggere per il Movimento, come dice all’AdnKronos Alessandro Di Battista: “Con chi è sotto indagine per associazione a delinquere nell’ambito di un’inchiesta di ’ndrangheta non si parla, punto”. Un intervento fatto dopo aver consultato Palazzo Chigi e Luigi Di Maio, che infatti conferma: “Mai dialogo con chi è indagato per reati gravi”. Certo, qualcuno spera ancora di recuperare almeno il voto di Paola Binetti, ma la strada è assai stretta. E allora come si fa? “Il Pd deve assolutamente recuperare gente da Iv” ripetono dal M5S, dove è ancora forte il sospetto che i dem non stiano facendo abbastanza. Ma dal Pd replicano che l’impegno è massimo e che Dario Franceschini ormai non si occupi d’altro che dell’allargamento della maggioranza. Come Goffredo Bettini, in costante contatto con Gianni Letta. Perché l’altro forno essenziale è quello con Forza Italia. “Molti forzisti si sono mangiati le mani dopo aver letto del sì di Renata Polverini” assicura Bruno Tabacci in un vertice di maggioranza. E di certo è a FI che i giallorosa si aggrappano in vista del voto di mercoledì su Bonafede, chiedendo che un po’ di forzisti restino a casa. Sarà un’altra votazione senza l’obbligo dei 161 voti, cioè della maggioranza assoluta, ma si rischia, tanto. “Vedremo se davvero alcuni di Iv non vogliono finire all’opposizione” dicono dal governo. Ergo, si spera anche nell’astensione di qualche renziano. Non a caso, si vedono entrare a Chigi anche alcuni ex M5S.

Da recuperare come si è fatto con il senatore Ciampolillo, a cui qualche giorno fa aveva telefonato anche Beppe Grillo. Conte invece si fa dare informazioni sullo stato dei numeri in Senato. “Ma il presidente non sta chiamando nessuno” assicurano. Ieri ha ripetuto che bisogna chiudere i tavoli di programma. Vuole dare l’immagine di un governo che lavora a pieno regime. Anche per questo ha convocato un Consiglio dei ministri per assegnare la delega ai Servizi segreti, pare a Piero Benassi, suo consigliere diplomatico.

Balle vaganti

La crisi di governo, sventata o rinviata, ha lasciato nell’aria uno sciame di balle volanti che rimbalzano nei talk e sui giornali come verità di fede. Due, fra le tante.

Recovery. “Bisogna ringraziare Renzi per aver migliorato il Recovery Plan, che nella prima bozza scritta di nascosto da Conte era una ciofeca”. La prima bozza erano le linee guida sui capitoli di spesa, scritte non da Conte di nascosto ma da Gualtieri e Amendola in 19 riunioni con i rappresentanti di tutti i ministri, inclusi quelli di Iv. Che avrebbero potuto migliorarla prima, se la ritenevano una ciofeca. Invece la approvarono tutti, Iv inclusa, il 15 ottobre in Parlamento. Ma era solo una bozza da sottoporre ai partiti di maggioranza per riempirla di contenuti e stenderne una seconda più dettagliata, anch’essa da votare in Parlamento e da discutere poi con le parti sociali nella versione definitiva, da approvare alle Camere e poi consegnare all’Ue a marzo-aprile. Il premier a dicembre ha convocato un vertice alla bisogna, che però è slittato di un mese per i bombardamenti renziani alla “cabina di regia”. Che non era il parto della fantasia malata e autoritaria di Conte, ma una richiesta Ue per monitorare i bandi e poi i cantieri evitando sprechi, ritardi e ruberie. Quando finalmente i giallorosa hanno potuto riparlarne, ogni partito ha proposto modifiche. In gran parte migliorative, tranne quelle di Iv, perlopiù peggiorative: meno soldi a “Rivoluzione verde e transizione ecologica” (da 74,3 a 66,59 miliardi, con tagli all’efficientamento energetico degli edifici), più soldi all’alta velocità (+5 miliardi) e alle imprese (+3 miliardi ai soliti noti). Nulla di cui ringraziare.

Covid. “L’Italia non è un modello, anzi è il Paese peggiore: vedi il record di morti, il doppio della Germania”. I morti, come spiegano Galli e tutti gli esperti, non c’entrano nulla con i governi: dipendono dal periodo più lungo di pandemia (11 mesi in Italia, 6-7 mesi in Germania: oggi il nostro tasso di letalità è identico a quello tedesco), dal diverso calcolo delle vittime con e per Covid, dalla medicina territoriale e dalle terapie intensive nella prima ondata, dal numero di anziani (l’Italia ha la popolazione più vecchia del mondo dopo il Giappone) e dall’organizzazione sociale che favorisce i contagi in famiglia (in Italia il 20% degli over 65 vivono coi figli, altrettanti nella stessa città o nello stesso stabile, il 50% in comuni limitrofi). Dal governo (e dalle Regioni) dipendono il contenimento della pandemia e la campagna vaccinale. E lì, con le tanto contestate Regioni a colori, i nostri contagi e ricoveri sono in calo, mentre esplodono nel resto d’Europa; e siamo primi per vaccini fatti. Non va tutto bene, ma neppure tutto male.

“Il mio secondo disco da solista, tra elettronica e De André. E quest’estate riparto in tour sul caicco”

“Conservo ancora il diario, con gli errori sul testo corretti da mia madre”, sorride Samuel. “Avevo sei anni, la canzone si intitolava Fantasia. La prima scritta nella mia vita. Mamma diceva: prendi esempio da Sanremo, quelle sono fatte bene”. Qualche migliaio di brani dopo (“ce li ho tutti nell’hard disk”), il frontman dei Subsonica ha fatto pace con l’imprinting festivaliero.

“Nel 2017 sono andato come solista all’Ariston: sentivo una pressione insostenibile. Nel backstage si muove una folla di tecnici, addetti ai lavori, dirigenti Rai. In attesa del mio turno, mi mimetizzavo nelle ultime file in platea. Osservando gli altri cantanti capivo quali gesti sarebbe stato sensato fare in scena. E mi passava l’ansia”. Quest’anno tiferà per Willie Peyote, Colapesce, Fulminacci. Tre degli ospiti duettanti che troviamo anche nel nuovo album di Samuel, Brigatabianca. Gli altri sono Ensi e il rapper palermitano Johnny Marsiglia. “Musica da assembramento, come sempre per me. Dopo la sospensione forzata del tour con i Subsonica, mi ero ritrovato da solo nel mio studio Golfo Mistico qui a Torino, all’ombra della Mole. Così ho mobilitato gli amici per farmi dare una mano in queste canzoni: accanto alla mia radice elettronica vi ho rivendicato la vocazione cantautorale che da bambino mi aveva fatto innamorare di De André, Conte e De Gregori”. Non vive la pandemia con angoscia, giura, “ma cogliendo le chance che questo tempo ci suggerisce. L’arte e la cultura non esprimevano tensione verso il futuro già prima della tirannia del virus. Ora siamo costretti davvero a ridisegnare il mondo lontani dall’ossessione per l’effimero. E ripensando la fruizione della musica: qualche mio collega minaccia di smettere, se non potrà tornare ai live canonici. Ma forse è solo una richiesta di attenzione: bisogna sperimentare altri percorsi”.

L’estate 2020 l’ha vissuta inventandosi concerti nei cortili e soprattutto in barca, su una goletta attorno alle Eolie, “tra profumo di capperi e il rombo del vulcano, alla riscoperta del mio Dna. Quest’anno si replicherà, con un caicco di 40 metri e la benedizione della Regione Sicilia: sarà un festival navigante. Io timonerò”. Tra i brani di Brigatabianca, Cocoricò permette a Samuel di evocare un aneddoto gustoso: “Una sera a Rimini, dopo un set al Velvet condiviso tra Subsonica e Bluvertigo. Scappammo verso il Cocoricò, le due band stipate nel nostro pulmino, per andare a far nightclubbing con i dj. All’alba tornammo in albergo. Sentii picchiare alla finestra: era Morgan, che saltava tra i balconi. Non accettava che quella notte inebriante fosse finita”.