Economia verde e transizione digitale: queste sono le due priorità di Bruxelles per il Recovery Fund. A esse si devono adeguare i piani nazionali, distribuendo il 37% dei fondi al green e il 20% al digitale. Ma bisogna tenere d’occhio anche la “Strategia di crescita sostenibile” e i progetti bandiera della Commissione, oltre alle raccomandazioni economiche del semestre europeo. Infatti, il Recovery, pur essendo una nuova creatura nella fauna giuridica comunitaria, è legato a doppio filo ai meccanismi istituzionali già in vigore. Più precisamente, si dovrebbe parlare di Recovery and Resilience Facility , una “struttura” di finanziamento per la ripresa. Gli Stati membri devono presentare entro fine aprile un pacchetto di riforme e progetti, da attuare entro il 2026. Il piano sarà poi valutato dalla Commissione e approvato dal Consiglio europeo. Prima di aprile gli Stati possono già inviare una bozza per un parere. Ma a che punto sono?
Germania Priorità ai “dati” ma pochi nuovi investimenti
Partiamo dalla Germania, che riceverà circa 23 miliardi a fondo perduto. Non accederà invece ai prestiti, dati i tassi di interesse bassissimi (addirittura negativi) sui titoli di Stato. È previsto un co-finanziamento da parte dei Länder e, se necessario, di altri fondi europei. Un pilastro del piano è la decarbonizzazione: un tema scottante, dato che il 23,8% dell’energia prodotta in Germania viene dal carbone (dati Clew 2020). Lo sforzo sostenibile del Paese (che impiegherà il 40% dei fondi) si dovrà concentrare sull’uso dell’idrogeno come fonte rinnovabile e su mobilità ed edilizia a basso impatto ambientale. Grande risalto è dato alla digitalizzazione, che assorbirà il 40% delle sovvenzioni, raddoppiando l’obiettivo della Commissione. L’approccio si basa su una visione interessante: i dati come “materie prime” del futuro. Ma anche la sanità e la PA riceveranno fondi sostanziosi. Il livello di dettaglio è poi elevato per ogni area. Nonostante il piano ricordi le raccomandazioni dell’Ue di aumentare gli investimenti, c’è il rischio che i fondi Ue vadano a sostituire quelli nazionali. Infatti, nel piano si legge che dal 2022 in poi il deficit pubblico sarà progressivamente ridotto, con l’obiettivo di assicurare la sostenibilità del debito. Già riemergono vecchie logiche.
Francia La “grandeur”: tanta industria e protezionismo
Il governo non ha ancora inviato alla Commissione il suo piano. I punti chiave, però, sono delineati in France Relance, un ambizioso programma per la ripresa, che include fonti di finanziamento nazionali (60 miliardi) ed europee (40 miliardi di sovvenzioni provenienti dal Recovery Fund). Probabilmente neanche i francesi useranno i prestiti della Commissione (non hanno neppure fatto uso del meccanismo Sure, i prestiti europei anti-disoccupazione). Il fil rouge di France Relance è il rafforzamento dell’indipendenza economica. Ancora non è possibile distinguere cosa sarà pagato dall’Europa e cosa dalle casse francesi, ma Macron dovrà aggiustare il tiro. Una prima criticità: sono pochi i soldi destinati alla digitalizzazione. Non vi è menzione alcuna di una riforma della PA. Inoltre, a Bruxelles potrebbe suscitare malumori il piano per la rilocalizzazione in patria della produzione industriale. Per non parlare dei 20 miliardi per tagliare le tasse alle imprese. Se non altro, grande risalto è dato alla transizione verde: l’adeguamento termico degli edifici, il trasporto su rotaia e l’“idrogeno” verde assorbono oltre 18 miliardi. Un’altra parola chiave è “industria”. 11 miliardi saranno investiti in tecnologie chiave e 3 per rafforzare il capitale delle Pmi. Macron e il ministro delle Finanze Le Maire hanno una visione chiara, ma è da vedere se la Commissione ne asseconderà la grandeur.
Spagna Niente prestiti, il 16% alle aree urbane
La Spagna dovrebbe ricevere circa 69,5 miliardi a fondo perduto dalla Recovery and Resilience Facility (qualcosa in più dell’Italia), oltre ad altri 12,4 miliardi di sovvenzioni da React-Eu (nell’ambito delle politiche di coesione). Di fronte a questi numeri, almeno fino al 2023, il governo non ricorrerà ai prestiti della Commissione. Coerentemente con gli obiettivi comunitari, il 37% dei fondi finanzierà l’economia verde, mentre il 30% sosterrà la digitalizzazione. Ma quello che distingue davvero il programma economico spagnolo è l’attenzione ai temi sociali. Infatti, gli altri due pilastri del piano sono l’uguaglianza di genere e la coesione territoriale. Anche se i fondi sono stati già suddivisi in dieci sottogruppi, c’è ancora poca chiarezza sui progetti specifici. Gioca un ruolo importante l’“Agenda rurale e urbana” (16% delle risorse), volta a migliorare la vita in città e a rafforzare il tessuto socio-economico delle campagne. Spiccano anche modernizzazione delle imprese (17%), scienza e sanità (16,5%) e formazione del capitale umano (17,6%). Seguono infrastrutture (12%) e transizione energetica (9%). Un altro punto di forza del programma è la riforma della PA, volta sia alla modernizzazione dei processi sia al rinnovamento delle norme. Il tutto per garantire un meccanismo di spesa e realizzazione più fluido. Nonostante si intraveda un buon abbozzo di politica industriale, solleva però qualche dubbio l’inclusione del turismo (crollato con il Covid) fra i “settori strategici”.
Portogallo Solo sussidi, poco verde e molto sociale
Il primo ministro António Costa ha dichiarato che il governo farà “pieno uso” dei sussidi (pari a circa 13 miliardi) e non userà i prestiti “fintanto che la situazione finanziaria del Paese lo permette”. Finché i tassi sono bassi, i portoghesi preferiscono finanziarsi direttamente sul mercato. Il piano è diviso in tre blocchi: resilienza (8,2 miliardi), transizione verde e digitalizzazione (entrambe circa 2,9 miliardi). Per ogni blocco sono individuate alcune aree rilevanti, suddivise a loro volta in componenti più piccole, per ognuna delle quali sono previsti progetti specifici, con livelli di finanziamento predefiniti. A prima vista sembrerebbe non essere rispettato il requisito del 37% dei fondi da destinare all’economia verde. In realtà, il piano stima per ogni area di investimento (ad esempio edilizia abitativa) la dimensione climatica, ambientale e digitale. In questo modo i conti tornano. È comunque il primo blocco (“resilienza”) a farla da padrone: 3,2 miliardi alle vulnerabilità sociali; 2,5 al potenziale produttivo; 1,5 alla competitività e alla coesione territoriale.
Grecia La logica resta quella dell’austerità
Il governo greco potrà usare circa 16 miliardi di sussidi a fondo perduto, ma accederà anche ai 12,6 miliardi di prestiti disponibili. L’obiettivo? Stimolare gli investimenti privati verso progetti co-finanziati da banche nazionali e istituzioni europee. In pratica, la Grecia userà i prestiti per fare leva finanziaria. Questa strategia può aiutare a non compromettere troppo le casse pubbliche. Un’altra giustificazione è che, secondo i dati contenuti nel piano, il gap di investimento del Paese è dovuto per due terzi a investimenti privati troppo bassi. Il governo però dimentica che sono bassi non solo a causa degli alti tassi di interesse, ma soprattutto perché il clima economico è depresso. Promuovere l’investimento pubblico sarebbe stata una decisione più coraggiosa (ma in antitesi alle raccomandazioni del semestre europeo e questa, purtroppo, non è una novità). I progetti sono raggruppati intorno a 4 pilastri, ma non c’è un alto livello di dettaglio su finanziamento e implementazione. Certo, il piano greco individua con chiarezza i problemi del Paese: insufficienti investimenti, scarsa produttività, bassa occupazione, fragile coesione sociale e disparità geografiche. Ma molte risposte sono inadeguate. È lodevole il progetto di promuovere l’interconnessione elettrica delle isole, ma il nervo scoperto è il mondo del lavoro. Per far fronte alla disoccupazione si prepara una nuova riforma, che va ancora una volta nella direzione di più flessibilità. In Grecia la politica economica soffre di una sorta di sindrome di Stoccolma.
Dopo lo choc asimmetrico del Covid, il Recovery cerca di rimettere gli Stati in condizioni di parità, ma emergono comunque varie criticità. C’è chi coltiva ambizioni di potenza industriale (Francia), chi dà priorità al tessuto sociale e ai più deboli (Spagna, Portogallo), chi si barcamena fra strettoie economiche e politiche (Grecia) e chi iconsolida la sua posizione di forza (Germania). Servirebbe un approccio a 360 gradi. Ma per quello i soldi non sono sufficienti.