Da una cella della prigione di Kronobergshäktet, nella Stoccolma degli anni Quaranta, mentre le fiamme divampano nel cuore della notte in città, Immanuel Birnbaum – giornalista ebreo – trascorre il tempo a rimuginare sul suo arresto. Il romanzo Dr. B., da oggi in libreria per La nave di Teseo, è – sì – opera d’invenzione, come tiene a precisare l’autore, lo svedese Daniel Brinbaum, critico d’arte di fama mondiale; ma è anche – e soprattutto – ricostruzione storica.
La narrazione desta sin da subito una certa smania di voracità nel lettore. Dal canto suo il romanzo ha una trama di particolare rilievo: la Svezia, che ufficialmente rimase neutrale durante la Seconda guerra mondiale, è teatro di una storia che avrebbe mutato il corso degli eventi se solo un uomo non avesse confessato quel che sapeva. Quell’uomo è il protagonista di Dr. B., Immanuel, nonno dell’autore. Da una scatola, rinvenuta a distanza di ottant’anni, emergono documenti inediti. È l’autunno del 1939 quando il protagonista si rifugia in Svezia con sua moglie, Lucia, e i due figli adolescenti. I tedeschi di lì a poco avrebbero occupato la Polonia. “Era anche riuscito a evitare che ci timbrassero sopra la “J” – racconta il narratore –, grazie ai contatti coltivati presso l’ambasciata tedesca a Varsavia”. Eppure l’angoscia che scoprano le origine ebraiche non lo abbandona per un istante. Il viaggio per raggiungere Stoccolma richiede più soste: prima in Lettonia, poi a Helsinki e poi la tratta in treno fino a Turku. Sui documenti viene riportata la cosiddetta “raccomandazione di frontiera 825 valida per un unico ingresso e soggiorno in Svezia. Dodici mesi dalla data del timbro”.
Nella città scandinava la vita trascorre al riparo dalla guerra. Il conflitto è sulla bocca di tutti e in tanti qui trovano rifugio. Molti sono intellettuali. E molti altri sono agenti segreti. Nei caffè, mentre si sorseggia tè caldo al pomeriggio e il gioco degli scacchi tiene tutti occupati, si pianificano a tavolino azioni a favore e contro i nazisti. Immanuel ne è all’oscuro. Il suo unico legame con Berlino (oltre a quelli familiari) è tutto racchiuso in quella collaborazione con la casa editrice tedesca, gestita da Gottfried Bermann Fischer, rimasta celebre come Verlag. Di grandi autori a quel tempo ce n’erano tanti da editare: Joseph Roth, Stefan Zweig, Thomas Mann, Henrik Ibsen. Il romanzo è così denso di storie nelle storie, che da ciascun capitolo potrebbero aprirsene altri cento: è questo il mondo di Immanuel. Lo è già dai tempi della scuola, quando diventa amico di quello che sarebbe poi diventato uno dei più grandi filosofi del Novecento, Walter Benjamin. “L’amico di gioventù aveva una mente filosofica assai diversa dalla sua – si legge in Dr. B. –; la loro unica controversia verteva sul patriottismo di Immanuel, che l’amico riteneva sbagliato e praticamente incomprensibile per un ebreo. Ma era stato tanto tempo prima. Allora riguardava un’altra guerra e un’altra Germania”.
È sulla base di questo legame con Berlino così intenso e intimo che gli viene teso un inganno. Se per un verso da Stoccolma continua la sua collaborazione con lo pseudonimo di “Dr. B.” con il quotidiano svizzero Basler Nachrichten, che gli consente di intervistare figure di spicco come quella di Alexandra Kollontaï, il simbolo per eccellenza del femminismo nel panorama leninista; per l’altro, Immanuel non disdegna la possibilità di favorire la propaganda antinazista in Germania ed è per questo che, nonostante lo scetticismo, si offre per prestare aiuto a tal fine a un inglese. Ma d’improvviso il suo mondo si capovolge: un messaggio scritto con l’inchiostro invisibile, il ticchettio dei tasti, un attentato sventato con tempismo. L’arresto e la condanna per spionaggio e non a favore di quelli che credeva di aiutare, ma degli altri. Quelli da cui scappava. Quelli che lo avrebbero deportato e ucciso. Sarà forse per questo che, quand’era in vita – racconta l’autore – suo nonno non fece mai cenno a quel periodo, neanche nelle autobiografie.