La spia che venne dal freddo: “Dr. B.”, amico di Benjamin

Da una cella della prigione di Kronobergshäktet, nella Stoccolma degli anni Quaranta, mentre le fiamme divampano nel cuore della notte in città, Immanuel Birnbaum – giornalista ebreo – trascorre il tempo a rimuginare sul suo arresto. Il romanzo Dr. B., da oggi in libreria per La nave di Teseo, è – sì – opera d’invenzione, come tiene a precisare l’autore, lo svedese Daniel Brinbaum, critico d’arte di fama mondiale; ma è anche – e soprattutto – ricostruzione storica.

La narrazione desta sin da subito una certa smania di voracità nel lettore. Dal canto suo il romanzo ha una trama di particolare rilievo: la Svezia, che ufficialmente rimase neutrale durante la Seconda guerra mondiale, è teatro di una storia che avrebbe mutato il corso degli eventi se solo un uomo non avesse confessato quel che sapeva. Quell’uomo è il protagonista di Dr. B., Immanuel, nonno dell’autore. Da una scatola, rinvenuta a distanza di ottant’anni, emergono documenti inediti. È l’autunno del 1939 quando il protagonista si rifugia in Svezia con sua moglie, Lucia, e i due figli adolescenti. I tedeschi di lì a poco avrebbero occupato la Polonia. “Era anche riuscito a evitare che ci timbrassero sopra la “J” – racconta il narratore –, grazie ai contatti coltivati presso l’ambasciata tedesca a Varsavia”. Eppure l’angoscia che scoprano le origine ebraiche non lo abbandona per un istante. Il viaggio per raggiungere Stoccolma richiede più soste: prima in Lettonia, poi a Helsinki e poi la tratta in treno fino a Turku. Sui documenti viene riportata la cosiddetta “raccomandazione di frontiera 825 valida per un unico ingresso e soggiorno in Svezia. Dodici mesi dalla data del timbro”.

Nella città scandinava la vita trascorre al riparo dalla guerra. Il conflitto è sulla bocca di tutti e in tanti qui trovano rifugio. Molti sono intellettuali. E molti altri sono agenti segreti. Nei caffè, mentre si sorseggia tè caldo al pomeriggio e il gioco degli scacchi tiene tutti occupati, si pianificano a tavolino azioni a favore e contro i nazisti. Immanuel ne è all’oscuro. Il suo unico legame con Berlino (oltre a quelli familiari) è tutto racchiuso in quella collaborazione con la casa editrice tedesca, gestita da Gottfried Bermann Fischer, rimasta celebre come Verlag. Di grandi autori a quel tempo ce n’erano tanti da editare: Joseph Roth, Stefan Zweig, Thomas Mann, Henrik Ibsen. Il romanzo è così denso di storie nelle storie, che da ciascun capitolo potrebbero aprirsene altri cento: è questo il mondo di Immanuel. Lo è già dai tempi della scuola, quando diventa amico di quello che sarebbe poi diventato uno dei più grandi filosofi del Novecento, Walter Benjamin. “L’amico di gioventù aveva una mente filosofica assai diversa dalla sua – si legge in Dr. B. –; la loro unica controversia verteva sul patriottismo di Immanuel, che l’amico riteneva sbagliato e praticamente incomprensibile per un ebreo. Ma era stato tanto tempo prima. Allora riguardava un’altra guerra e un’altra Germania”.

È sulla base di questo legame con Berlino così intenso e intimo che gli viene teso un inganno. Se per un verso da Stoccolma continua la sua collaborazione con lo pseudonimo di “Dr. B.” con il quotidiano svizzero Basler Nachrichten, che gli consente di intervistare figure di spicco come quella di Alexandra Kollontaï, il simbolo per eccellenza del femminismo nel panorama leninista; per l’altro, Immanuel non disdegna la possibilità di favorire la propaganda antinazista in Germania ed è per questo che, nonostante lo scetticismo, si offre per prestare aiuto a tal fine a un inglese. Ma d’improvviso il suo mondo si capovolge: un messaggio scritto con l’inchiostro invisibile, il ticchettio dei tasti, un attentato sventato con tempismo. L’arresto e la condanna per spionaggio e non a favore di quelli che credeva di aiutare, ma degli altri. Quelli da cui scappava. Quelli che lo avrebbero deportato e ucciso. Sarà forse per questo che, quand’era in vita – racconta l’autore – suo nonno non fece mai cenno a quel periodo, neanche nelle autobiografie.

A volte ritornano: i musei. dagli Uffizi a Pompei

Era probabilmente da Mark Rothko che il colore giallo non rivestiva, nell’arte, un’importanza così significativa. Nel nuovo semaforo della pandemia, se le Regioni classificate rosse o arancioni sono ancora in attesa di miglioramento, in quelle classificate gialle finalmente riaprono musei civici e parchi archeologici. Stiamo parlando di Basilicata, Campania, Molise, Sardegna, Toscana e Trentino. Resta, però, altissima l’attenzione: le visite sono possibili solo nei giorni feriali, come restano necessarie precauzioni quali prenotazione online, ingressi contingentati e visite a tempo, oltre ai dispositivi cui ormai siamo avvezzi (segnaletica a terra, misurazione temperatura, mascherina e distanziamento).

Tuttavia, superate le difficoltà strumentali, il pubblico dell’arte ha risposto presente. In Campania, al Parco Archeologico di Pompei, per esempio, sono stati complessivamente 175 i visitatori di lunedì, primo giorno di riapertura, di cui 93 soltanto al mattino. In più, dalla prossima settimana, rinascerà testé ristrutturato il museo Antiquarium che attraverso ori, dipinti, statue e arredi racconterà la storia della città dall’epoca sannitica alla distruzione del 79 d. C. Sempre in Campania, riaprono gli scavi di Ercolano e Paestum, ma anche i musei. Il Mann (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) e il Museo e Real Bosco di Capodimonte hanno registrato oltre 150 ingressi durante la prima giornata. Numeri ottimi per la Reggia di Caserta: “Sono stati 343 tra gli appartamenti e il parco i visitatori che lunedì hanno scelto di venire alla Reggia – racconta al Fatto la direttrice Tiziana Maffei –, devo dire che è un segnale molto positivo”. Anche nelle vicine Basilicata e Molise è tutto un riaprire cancelli: solo a Matera già da lunedì è stato possibile entrare al Museo di Arte Medievale e Moderna a Palazzo Lanfranchi e all’archeologico “Domenico Ridola” in cui i reperti più pregiati risalgono al VI millennio a.C. I molisani, invece, possono scegliere tra gli scavi della Cattedrale di San Pietro e il Museo Civico di Isernia, il Museo di Arte contemporanea di Termoli – la cui collezione permanente va da Schifano a Gastone Novelli, passando per Carla Accardi – e il Museo dei misteri di Campobasso.

Più circospetta, invece, la Toscana: spazi simbolo come la Torre di Pisa e il Duomo di Siena resteranno chiusi (almeno per il momento). Sarà forse l’occasione per riscoprire luoghi meno blasonati come il Museo di Casa Vasari ad Arezzo o l’Area Archeologica di Roselle a Grosseto. Da lunedì sono, invece, tornati attivi a Firenze Il museo del Bargello – dove, tra l’altro, è possibile ammirare Dama col mazzolino del Verrocchio, scelto da Stefano Boeri come simbolo di rinascita per la campagna vaccinale –, Palazzo Davanzati e le Cappelle Medicee. Dal giorno dopo il Giardino monumentale di Boboli, che ha accolto più di 70 desiderosi di passeggiare. Palazzo Pitti, riaperto mercoledì solo al mattino, ha staccato ben 90 biglietti; mentre gli Uffizi, ultima tappa, riaprono oggi i battenti e hanno ricevuto già 100 prenotazioni. Numeri bassi? Solo all’apparenza viste le condizioni. “È uno spiraglio di luce – ci spiega il direttore Eike Schmidt –. Dopo 77 giorni di chiusura dà un senso al museo come istituzione civica e ci porta un grande conforto”.

Continuiamo con la provincia autonoma di Trento (e non quella di Bolzano, che invece è rossa) in cui riaprono soprattutto il sontuoso Castello del Buonconsiglio del XIII secolo, il Museo delle scienze di Trento, e il Mart di Rovereto che in tre giorni ha accolto più di 320 avventori. E non dimentichiamoci della Sardegna. Il pubblico sardo è potuto tornare nei luoghi dell’arte: la Galleria Comunale, il Palazzo di Città e il Museo Stefano Cardu a Cagliari; il Museo del Costume, il Deleddiano e il Man a Nuoro; e da oggi il museo dedicato allo scrittore-aviatore Antoine De Saint-Exupéry ad Alghero. Tornare, sì. Perché con l’assenza di stranieri e gli spostamenti limitati tra Regioni, “i visitatori di questi giorni sono persone che tornano – spiega Maffei –, senza le folle del grande pubblico. Sono affezionati dell’arte e dei luoghi dell’arte perché in periodi come questo è fondamentale riappropriarci del nostro patrimonio”.

La condanna dei Ciontoli è un inferno quotidiano

Perché intervistare Antonio Ciontoli?

Questa è la domanda che continua a circolare da giorni, dopo l’annuncio della mia intervista all’ex sottufficiale della Marina che la notte del 17 maggio 2015 ha sparato a Marco Vannini, provocandone la morte.

La risposta non ha nulla a che fare col desiderio di riscrivere un processo. Credo che le numerose udienze abbiano raccontato a sufficienza i fatti e che Franca Leosini, un anno fa, abbia ripercorso, proprio assieme a Ciontoli, con asciutta lucidità, tutti i passaggi più complessi di quella notte. Ciò che ho voluto raccontare in questa intervista (che è la seconda, per Antonio Ciontoli, in sei anni) è l’osceno processo parallelo che si è svolto fuori dalle aule di tribunale, in quel mostruoso tritacarne mediatico in cui la verità diventa troppo banale per essere raccontata così com’è. Troppo noiosa per poter essere masticata in 100 puntate costruite su ipotesi e complotti immaginari, con testimoni capaci di dire qualunque cosa, perfino “una tizia sui 30 anni incontrata in treno per caso ci ha detto che Ciontoli quella sera non era in casa” (come accaduto in un programma tv). Dei Ciontoli, in tv e sui giornali, in questi anni si è detto di tutto. Che sono mostri, che devono “marcire in carcere”, che bisognerebbe ripristinare la pena capitale, con opinionisti che urlavano con la bava alla bocca, accusando a turno Antonio, Federico e Martina Ciontoli di aver sparato, cambiando tesi a seconda del testimone del giorno o delle fasi lunari. Chiunque in questi anni abbia provato a sollevare timidamente l’indice e dire: “Scusate, ma queste ricostruzioni fantascientifiche, che ignorano quello che è scritto negli atti e cavalcano suggestioni o menzogne, cosa c’entrano con la ricerca della verità?”, è stato seppellito da insulti. O, peggio, dall’atteggiamento passivo-aggressivo di giornalisti che hanno insinuato chissà quali connivenze o trattamenti di favore nei confronti della famiglia Ciontoli. Famiglia che pagherà la pena stabilita da un tribunale – qualunque essa sia –, ma che non dovrebbe essere costretta a sopportare ogni giorno, da 6 anni, la violenza di un populismo giudiziario che aizza spettatori e social, social su cui quotidianamente si leggono minacce di morte ai Ciontoli e inviti a risolvere la questione tramite giustizia privata. Antonio Ciontoli mi ha raccontato cosa significhi vedere i propri figli condannati alla morte sociale a 20 anni, vivere immersi nell’odio, senza più uscire di casa dal 2015, nel timore di essere inseguiti dai giornalisti. La sua richiesta era quella di poter incontrare in trasmissione Marina e Valerio e noi abbiamo girato la proposta ai genitori di Marco, che tramite il loro legale hanno ringraziato, ma comprensibilmente rifiutato. Abbiamo anche informato gli stessi che avrebbero potuto replicare. In una successiva email dell’avvocato ci è stata negata l’autorizzazione per l’utilizzo delle foto di Marina, Valerio e Marco Vannini, nonostante tali foto e video circolino da anni su tutti i media e non siano state diffuse dalla famiglia Ciontoli. E nella stessa missiva ci è stato precisato che “una situazione come quella prospettata dovrebbe essere gestita con imparzialità, atteggiamento che i coniugi Vannini non ritengono di dover riconoscere alla giornalista Selvaggia Lucarelli”. Ieri poi, in un comunicato inviato alla stampa, la signora Vannini ha aggiunto, a proposito di questa intervista, che molti le chiedono “perché questo signore continui a godere di ampie protezioni” e che le è stato da noi negato il diritto di replicare. Mi sembra evidente che le accuse di parzialità e le antipatiche insinuazioni su ipotetiche “ampie protezioni” di cui godrebbe Ciontoli siano argomenti inaccettabili, a cui non intendo comunque rispondere per il rispetto che si deve al dolore altrui. Rispondo però al giornalista Gianluigi Nuzzi, conduttore di un programma che ha dedicato al caso decine di puntate con ipotesi acrobatiche sempre nuove e opinionisti sbraitanti, chiedendo a “FARFALLINA23” sui social di dire la sua ipotesi sull’omicidio. Ipotesi che poi legge in diretta tv. Ieri, in un video inquietante di pochi secondi, con un ghigno feroce, mi ha chiamata “pubblicista-che-si-è-permessa-di-invitare-i-Vannini -in-un-confronto-con-l’ASSASSINO-del-figlio”. Ricordo al giornalista che questo è il mio unico appuntamento in tv con la triste vicenda. Lui e il suo ghigno non solo sono da anni in tv con la foto di Marco Vannini sullo sfondo, ma hanno invitato più volte Antonio Ciontoli – l‘ASSASSINO – nel suo programma. E visto che Nuzzi è di memoria corta, gli rammento anche che tramite una nota giornalista ha fatto arrivare il suo invito a cena a Ciontoli e al suo avvocato. Io e il mio ghigno, però, non ci indigniamo.

Il primo pranzo Renzi-Conte con la regia della Boschi

La prima impressione, il primo incontro, il primo pranzo, quello dove iniziò tutto. Per capire qualcosa del difficile rapporto tra Renzi e Conte si può provare a tornare in questo ristorante di lusso dove si mangia un ottimo pesce: IlSanlorenzo di via dei Chiavari in Roma.

“Buongiorno Matteo, ti presento il professor Giuseppe Conte”: quando Maria Elena Boschi porta a metà del 2013 il professor Conte dell’Università di Firenze al cospetto del sindaco di Firenze, Renzi non è ancora presidente del Consiglio, ma sta per candidarsi alle primarie del Pd per prendersi il partito e l’Italia con il benservito a Enrico Letta e il 40,8% alle Europee del 2014. Tutti volevano conoscere il “Royal Baby”, come lo chiamava Giuliano Ferrara. L’ubriacatura coinvolgeva politici, imprenditori e manager di grido. Tutti volevano conoscere Renzi.

Sono solo 7 anni fa, ma sembrano passati secoli. Non era Conte però il professore di Diritto interessato a Renzi. Era stato Guido Alpa, docente con mega-studio a due passi dal Sanlorenzo, in largo Cairoli, due piani sotto quello allora occupato dall’amico Conte, a chiedere di incontrare Renzi. Nella sua veste di presidente del Consiglio Forense e autorevole rappresentante dell’avvocatura, Guido Alpa aspirava a spiegare all’astro nascente del Pd le sue ricette per la giustizia.

Conte conosceva Maria Elena Boschi che notoriamente conosceva bene Renzi. Il gioco era fatto. Conte quindi in quel giorno della metà del 2013 è solo l’intermediario e stava ad Alpa come Maria Elena Boschi stava a Renzi.

La conversazione al Sanlorenzo si fa subito parallela sui due binari. Quello principale: Alpa-Renzi. E quello secondario: Boschi-Conte. Tutti seduti a un tavolo da quattro al piano di sopra, non nella cantina chic con un solo tavolo da quattro nel sotterraneo. I due commensali ‘più importanti’ (allora) parlavano del processo telematico e della riforma della giustizia civile. Alpa con più passione di Renzi. Mentre Conte e Boschi dialogavano delle loro cose fiorentine.

“La Boschi – ha spiegato il premier a Marco Travaglio nella sua prima intervista del luglio 2018 – l’ho conosciuta alla scuola di specializzazione che prepara gli avvocati a Firenze. Ogni anno istituiamo una commissione e lei ha fatto domanda e ha vinto. Per due anni mi ha coadiuvato nella correzione dei compiti”. A maggio 2014 Alpa sarà nominato consigliere di Leonardo-Finmeccanica. Una scelta motivata da un curriculum lungo 8 pagine e non sponsorizzata dai partecipanti al pranzo. A settembre 2013, Giuseppe Conte viene votato dal Parlamento membro laico del Consiglio di Giustizia Amministrativa e inizia così la sua ascesa pubblica.

Conte e Renzi non si vedono più fino a quando l’avvocato amico di Maria Elena Boschi diventa il premier del governo gialloverde. Per Renzi non deve essere stato facile digerire il brusco ritorno nella sua vita di quell’oscuro professore che gli pagò il pranzo al Sanlorenzo. Ora è al suo posto a Palazzo Chigi.

Giuseppe Conte, inoltre, ha sempre avuto un effetto divisivo tra Matteo e Maria Elena. Dentro Italia Viva si racconta che Renzi avrebbe chiesto più volte alla sua ex ministra i messaggini scambiati con Conte quando era solo un professore di Diritto. Renzi sperava forse di trovare in quegli sms – oltre ai complimenti per la nomina a ministro delle Riforme – una traccia di sostegno per le riforme stesse o di solidarietà per le polemiche su Banca Etruria. L’uscita sui giornali di qualcosa di simile (ove esistesse) avrebbe potuto incrinare l’immagine di Conte agli occhi del M5S. Renzi – raccontano al Fatto fonti ben introdotte nel Giglio magico – tentò in tutti i modi di convincere Maria Elena Boschi a mollare il suo telefonino anche facendo leva sul comune amico Francesco Bonifazi. Nulla da fare. Chissà cosa c’è di vero. Di certo il sentimento di Renzi verso Conte non migliorò.

Più il profilo pubblico dell’avvocato pugliese si ingigantiva nei meeting con Angela Merkel e Macron, più Renzi lo trovava antipatico.

Nell’estate 2019, quando Matteo fa la mossa del cavallo e crea dal nulla il governo giallorosa, subito pone il veto al Conte-bis e mette in pista Raffaele Cantone (il pm che tuttora preferirebbe all’avvocato di Palazzo Chigi) e solo quando capisce che senza Conte rischia le elezioni con un Pd in mano a Zingaretti, Renzi capitola e rinvia la resa dei conti con Conte dopo la scissione del suo partito dal Pd.

Il piano salta per due ragioni: il Covid e i sondaggi. Italia Viva resta inchiodata al 2% ben sotto l’ipotetica Lista Conte con l’aggravante che l’avvocato del pranzo al Sanlorenzo ora pesca nel suo stesso mare: il centro. Renzi decide di mandarlo a fondo, complice l’incerta gestione del Recovery Plan, prima che il semestre bianco blocchi ogni manovra.

Così si arriva alla crisi senza pilota di questi giorni. Renzi prova a convincere i suoi a dare la spallata al Senato. Il gruppo però rischia di spaccarsi e allora, per non uccidere insieme al governo il suo partitino, Renzi risponde all’arrocco di Conte con uno stallo: astensione. Come finirà? Una risposta possibile la si può trovare a quel tavolo del Sanlorenzo. Maria Elena Boschi non ha mai interrotto il suo rapporto di stima cordiale con il professore. “Con Conte ci parla Maria Elena” è la frase che Matteo ha detto più volte in questi anni, sia quando è nato il governo giallorosa, sia quando si è parlato di farlo finire. In questa fase politica nulla è scontato. Il leader di Italia Viva ha una prospettiva individuale ben diversa da quella della sua capogruppo alla Camera. Renzi guadagna più di un milione all’anno facendo il conferenziere, mentre non c’è la fila di cinesi che vogliono ascoltare le riforme dell’ex ministra. Certo, i voti che contano sono al Senato mentre Boschi sta alla Camera però è l’unico esponente di Italia Viva con un profilo autonomo riconoscibile. Non subito magari, potrebbe giocarsi una partita sua dicendo il secondo no a Matteo, dopo quello degli sms.

Trump vuol creare il suo Patriot Party. E gli serve Bannon

Donald Trump strappa al carcere il suo ex guru, dove rischiava di finire, per tenerselo accanto, adesso che il magnate ex presidente sembra volere fondare un partito, nella sua nuova vita lontano dalla Casa Bianca da dove il popolo americano l’ha cacciato con il voto del 3 novembre. Steven Bannon, l’artefice della vittoria nel 2016, torna al suo fianco. I progetti di Trump per il futuro sono fumosi e subordinati all’esito del processo d’impeachment avviato dopo l’attacco al Congresso da lui innescato il 6 gennaio e che ha fatto cinque vittime: The Donald potrebbe ricandidarsi nel 2024, fondare un partito, il ‘Patriot Party’, sganciandosi dai Repubblicani.

Il magnate potrebbe volere ricomporre la squadra vincente di Usa 2016: ha graziato tutti i suoi consiglieri e collaboratori finiti sotto gli strali della giustizia, anche quelli non ancora condannati, come appunto Bannon. L’ultima raffica di grazie (73) e condoni (70) ha toccato 143 persone, che s’aggiungono alle decine già ‘perdonate’, fra cui – del team 2016 – il manager Paul Manafort, George Papadopoulos, l’amico Roger Stone, il generale Michael Flynn. Trump se n’è andato un po’ alla chetichella dalla Casa Bianca ieri, quand’era ancora presidente: ha così potuto utilizzare il Marine One, il suo elicottero, senza chiedere permessi, per raggiungere la Andrews Air Base, dove l’attendevano il tappeto rosso e 21 salve di cannone; e poi imbarcarsi, per l’ultima volta, sull’AirForceOne, destinazione Mar-a-lago, Florida, In un’atmosfera da comizio, Trump ha detto: “Sono stati quattro anni incredibili… Ritorneremo, in qualche modo”.

Prima di lasciare la Casa Bianca, senza avere mai incontrato il suo successore dopo l’Election Day e senza averne mai riconosciuto la vittoria, Trump ha tracciato, in un video-messaggio, un bilancio molto lusinghiero del suo operato: “Sono particolarmente orgoglioso di essere stato il primo presidente da molti decenni a non avere iniziato nuove guerre. L’Operazione ‘Warp speed’ per sviluppare e distribuire il vaccino è un miracolo medico”.

Tornando a Bannon, lo scorso agosto, era stato arrestato per frode dai magistrati di New York: l’inchiesta che lo coinvolge riguarda un’organizzazione chiamata ‘We Build the Wall’ (Costruiamo il muro) quello anti-migranti lungo il confine con il Messico, promesso da Trump ma realizzato solo in parte. Per portare avanti il progetto, che il Congresso non ha mai finanziato, la Casa Bianca ha dovuto ricorrere a scappatoie amministrative. L’organizzazione di Bannon e di tre suoi soci, pure sotto accusa, aveva raccolto online oltre 25 milioni di dollari, un milione dei quali sarebbe andato all’ideologo della destra sovranista, che ne avrebbe utilizzato una parte per sue spese personali.

Le strade di Trump e di Bannon si erano separate nell’agosto del 2017, quando i due ‘ruppero’, salvo poi restare in contatto. Giornalista, ideologo, cineasta, estro e polivalenza, Bannon, 68 anni, era subito tornato alla guida del sito di destra Breitbart da lui creato e di cui era stato responsabile prima di guidare la campagna di Trump.

Nei mesi trascorsi insieme alla Casa Bianca, Bannon, che era stato l’ispiratore del ‘muslim ban’, s’era già sfilato dal presidente, criticandolo da sinistra – lui, un suprematista – sul razzismo e contestandolo sulla Corea del Nord. Ma ora le strade del magnate e dell’ideologo del populismo potrebbero ricongiungersi.

Mr. Q A non idolo dei complottisti. Lui nega: “Intrappolato nella Rete”

Anche Ezra Cohen-Watnick ha lasciato la Casa Bianca assieme a The Donald. Ma se il tycoon in questi 4 anni di presidenza è diventato il beniamino dei seguaci della teoria cospirativa QAnon – nata nel 2015 prima della sua elezione – non si può dire esattamente lo stesso per Watnick. Per il 34enne esperto di intelligence, finora impiegato con ruoli diversi presso il Dipartimento della Difesa, prima di accettare un posto di alto livello nello staff del Consiglio di sicurezza nazionale di Trump, “le gocce” (così vengono definite le finte soffiate) lasciate cadere senza sosta nell’oceano dei social media dall’account QAnon sono diventate un incubo. Non lo stesso incubo però vissuto 5 anni fa dal proprietario di una pizzeria di Washington dove, secondo il cospirazionista Q, cioè colui che ha creato questa enorme fake news, si riuniva una setta di pedofili devota al satanismo cui furono ascritti Bill Gates, Hillary Clinton e il suo braccio destro Jonh Podesta. Mentre i nomi eccellenti diffamati non hanno dovuto fortunatamente affrontare strascichi e la pizzeria, teatro anche di un attacco da parte di un idraulico sostenitore di Qanon, è stata riaperta, il giovane consigliere Watnick ha finito per trovarsi sempre più intrappolato nel fango distribuito da QAnon (anon sta per anonymus). Con l’entrata in carica di Trump il presidente divenne l’uomo della Provvidenza incaricato di sgominare l’oscena banda di Washington, mentre per Watnick iniziò una fase kafkiana. È allora infatti che alcuni iniziarono ad additarlo come “Q”, la misteriosa figura dietro l’indirizzo internet diventato virale. Dopo l’attacco a Capitol Hill realizzato da molti seguaci di QAnon, l’ex consigliere ha rivelato che sta combattendo il movimento da anni senza aver trovato alcun appoggio da parte dei colleghi del governo né dagli amministratori delegati di Twitter e Facebook. Da quanto lo stesso Watnick ha reso pubblico, è dal 2018 che molti membri del gruppo sono convinti che il loro oscuro leader sia lo stesso ex consigliere. La conseguente notorietà di Watnick ha portato molti aderenti a QAnon a considerarlo come “Q”, che secondo la tradizione della teoria del complotto è un funzionario dell’Amministrazione Trump che lavora per smascherare la cabala dello stato profondo di pedofili e adoratori di Satana intenzionati a minare la carriera politica di Trump. Cohen ha spiegato di essere stato catturato in una sorta di tag team ideologico in cui i seguaci di QAnon di destra definivano lui come mister “Q” e di conseguenza la sinistra ha fatto di tutto per dimostrare che era proprio lui il profeta anonimo, allo scopo di evidenziare il fallimento morale di un alto funzionario legato a Trump.

Biden giura senza incidenti: “È la fine della guerra incivile”

“Ecco, è lui, è lui!. Una ragazza indica l’elicottero che vola nel cielo sopra il Congresso. “Se ne va! Finalmente se ne va!”, dice un’altra. Non sono ancora le otto del mattino quando Donald Trump e Melania lasciano, per sempre, la Casa Bianca. Volano alla Joint Andrew Base, nel Maryland, dove Trump terrà il discorso d’addio. La piccola folla che staziona nel tratto di Massachusetts Avenue segue le evoluzioni dell’elicottero. Poi, lentamente, comincia a ritmare una sola parola: “Via!Via! Via!”.

È un giorno soprattutto di vuoti, questo 20 gennaio a Washington. Sono vuote le strade, disseminate di filo spinato, di barricate, di jersey, dove l’unica presenza è quella massiccia di soldati e polizia. È vuoto il National Mall, che a ogni inaugurazione trabocca di persone arrivate da tutta America, e che oggi è invece occupato da centinaia di bandiere a stelle e strisce, che sventolano nel vento ghiacciato e che accrescono la sensazione di stranezza e solitudine.

Covid e minaccia delle milizie armate hanno reso l’Inaugurazione di Joe Biden indimenticabile, ma in modo appunto singolare. “Sono arrivata dalla Virginia, non mi sarei mai persa questa giornata”, racconta Lara Cowley. Ha 21 anni, indossa la maglietta blu con la scritta Biden/Harris e dice che per lei “oggi inizia una nuova era”. Non le interessa che Trump abbia preso 74 milioni di voti. “Mi basta che non ci sia più, che sia uscito dalla mia vita”. Scoraggiati dai continui appelli a restare a casa, pochissimi militanti democratici sono arrivati a Washington nel giorno del giuramento del loro presidente. Hanno vagato, per gran parte della giornata, insieme a qualche sparuto gruppo di militanti di Black Lives Matter, di attivisti anti-aborto, di sostenitori della causa anti-nucleare, che hanno usato il giorno dell’Inaugurazione per srotolare le loro bandiere. Vagare non è comunque la parola più giusta. Gran parte delle strade della città sono rimaste chiuse, inaccessibili. Il Congresso, e il discorso del presidente, sono apparsi lontani e i pochi presenti si sono raccolti a gruppetti, ad ascoltare le notizie dai cellulari, a commentare, a battere i piedi per il freddo.

“Sono qui in segno di protesta”, dice Martin, che si rifiuta di dare il suo cognome. È giovanissimo, biondo ed esile. Ha tra le mani un enorme amplificatore che dovrebbe servirgli per contestare lockdown e militarizzazione della Capitale. “In America non siamo più liberi – spiega –. A me non interessa di Donald Trump, anzi, mi fa abbastanza orrore. Ma la gente teme per le proprie libertà ed è per questo che Trump è così popolare”. Prima di sistemarsi a un angolo di strada, e cominciare una lunghissima tirata che nessuno ascolta, Martin spiega che con i Democratici alla Casa Bianca e al Congresso andrà molto peggio. “Ci chiuderanno in casa per il Covid, ci obbligheranno a indossare la mascherina, ci priveranno della libertà di parlare in nome del politicamente corretto”.

Quando Biden, poco prima di mezzogiorno, prende la parola davanti a uno sparuto, anche lì, gruppo di invitati, i pochi presenti per le strade di Washington si collegano con i loro cellulari. Il nuovo presidente parla di unità da restaurare, di “anima dell’America da ritrovare”. Qualche bandiera sventola, alcuni tentano pochi passi di danza. Prima avevano cantato Lady Gaga e JLo. “L’unità è una cosa meravigliosa, ma in America oggi l’unità non esiste”, dice Suzanne Forley. È un’impiegata del governo, democratica incallita, sostenitrice da subito di Joe Biden. “Siamo stati noi, afroamericani, la spina dorsale della sua vittoria”, spiega. Ma Suzanne non trova ragioni per esultare, oggi. Quando sente, dal cellulare con cui ascolta il discorso di Biden, il riferimento ai suprematisti bianchi, sorride e scuote la testa: “Ma ti sembra? Ti sembra che il presidente degli Stati Uniti, nel suo discorso, debba mettere in guardia contro i fascisti?”.

Alla fine, nella giornata di Washington, non ci sono stati i disordini così temuti. Un presidente se ne è andato. L’altro ha giurato. Il sistema, più o meno, ha funzionato. Dopo quattro anni di tumulti, di violenze verbali, di sommovimenti istituzionali, di richiami alla rivolta, il giorno dell’Inaugurazione è scivolato via in modo relativamente tranquillo. Senza entusiasmi, ma senza eccessive inquietudini. Forse è il preludio di un futuro meno burrascoso, “la fine della guerra incivile d’America”, come ha detto Biden. Forse è solo una parentesi, prima di nuove devastanti fratture. “Ma va bene così”, dice una signora bionda, che balla sulle note di I will survive che arrivano da un’auto parcheggiata di fronte alla stazione. Sta per tornare a New York, da dove è arrivata questa mattina. “L’America – spiega – è una malata grave. Comincia a riprendersi, ma deve fare un passo alla volta. Lentamente”.

Il messaggio di Jennifer è più forte di quello di Joe

Il giuramento di Joe Biden sarà ricordato più per le parole conclusive, in spagnolo, di Jennifer Lopez – “Justicia para todos” – o per Lady Gaga, che per il messaggio del neo presidente. Il cui registro è stato chiaro: riunire l’America, essere per davvero Stati “uniti”, obiettivo a cui, citando Lincoln, ha detto di voler “consegnare” tutta la sua anima. Scelta voluta per incunearsi nel mondo repubblicano e dividerlo dall’estremismo e dalle “fakes” di Trump. Eppure un po’ troppo retorico e astratto, poco attento alla vita quotidiana.

La giornata di ieri ha certamente dimostrato che Trump non è riuscito a destrutturare la democrazia Usa che, con il suo sistema di checks and balances, le sue Corti federali, il suo elettorato in grado di sfidare un sistema anti-democratico, si conferma ancora funzionante.

Trump ha sfregiato quelli che Tocqueville definiva i “costumi e gli usi” della democrazia americana, le sue consuetudini, ma non ne ha minato la sostanza. L’assalto a Capitol Hill e la minaccia di fondare un partito estremista e nazionalista, però, potrebbe segnare in profondità i prossimi quattro anni. Proprio per questo l’unità bideniana rischia di essere astrattamente istituzionale e scivolare quindi sopra la rabbia di quel mondo in ebollizione – non certamente il suprematismo bianco o le frange più estreme – che si riconosce nel messaggio identitario di Trump.

La firma dei decreti per abolire le norme anti-immigrazione o il rientro nell’Accordo di Parigi sono segnali importanti, soprattutto culturali e internazionali. Ma la ricostruzione interna passerà dai temi sociali, ieri messi da parte. Dimenticare Trump non sarà facile, ma se per farlo i Dem punteranno al “come eravamo”, Donald tornerà a essere un incubo.

Fondata sull’equivoco

L’Italia è una Repubblica fondata sull’equivoco. No, non parliamo di quello per cui si vorrebbe fondare un polo liberale, europeista e comm’il faut con Mariarosaria Rossi, Sandra Lonardo, Jimmy il fenomeno e non si sa chi altro. È un grosso equivoco, per carità, ma nato per gemmazione da quello principale, da cui qui si ipotizza discendano tutti gli altri. Per spiegarlo partiremo da una nota canzone di Pier Luigi Bersani che fa all’ingrosso così: “In Italia manca una destra liberale”, tipo la Cdu tedesca di Angela Merkel. Un refrain che è nella testa della maggior parte dell’opinione pubblica progressista, almeno di quella parte che sa che la Merkel è di destra (non è una battuta, nda). Come detto, questo è l’equivoco principale e proveremo a illustrarlo usando il numero di ieri di Repubblica, il giornale che si volle guida antropologica prima che ideologica della sinistra post-Pci: nella sezione “Cultura” troviamo “Addio Macaluso, comunista per sempre”, “Il Pci è sempre stato riformista” (intervista a D’Alema), “La vera eredità è quella socialista” (intervista a Martelli), “La sinistra vista da vicino”. Quattro pagine dedicate al mondo del fu Pci, alla cui fondazione – in occasione del centenario – ha peraltro dedicato un libro l’ex direttore Ezio Mauro. Qual era invece il primo commento ieri? “Il tratto di penna liberale”, nel quale l’avvocato Alessandro De Nicola – se non un luminare, parafrasando Heine, almeno un candeliere del libero mercato – dettava con tono marziale tre condizioni imprescindibili per la ripresa: stop al protezionismo, stop allo Stato imprenditore, più concorrenza. Rispettabili posizioni un tempo appannaggio del Pli di Malagodi e oggi ammannite al pubblico democratico – insieme alla storia del Pci rivista e corretta – senza più neanche specchietti per le allodole tipo Il liberismo è di sinistra (Alesina e Giavazzi, 2007) o il loden (Monti, 2011). E qui veniamo all’equivoco principale. Al contrario di quel che pensa Bersani in Italia la destra liberale c’è e gode di ottima salute: è l’area del cosiddetto “centrosinistra”, Pd in testa; quel che manca è invece un partito capace di portare in questo millennio il grande fiume del socialismo otto-novecentesco. Quel giaguaro l’hanno smacchiato fin troppo…

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Un contributo su Navalnydel professor Calzini

Nel valutare la figura di Alexei Navalny, che ha fatto della lotta alla corruzione imperante in Russia il tema centrale della sua opposizione al regime, è stato trascurato un aspetto significativo della sua posizione apertamente critica, per quanto riguarda l’atteggiamento, nel merito della questione, tenuto dall’Europa. Quell’Europa, alla quale nel suo intervento al Parlamento europeo dello scorso dicembre ha chiesto solidarietà e sostegno nella lotta per l’emancipazione politica e civile del paese, ma che nello stesso tempo considera corresponsabile della diffusione della corruzione in patria, grazie alla posizione di favore di cui godono in diversi stati occidentali nei confronti delle operazioni illegali portate avanti in campo finanziario igli oligarchi russi. Molti dei quali – esemplare il caso citato dei plurimiliardari Abramovich e Usmanov residenti in Gran Bretagna – beneficiano della accoglienza compiacente garantitagli dalle autorità, tramite un sistema funzionale al trasferimento di ingenti somme di denaro acquisito illegalmente o in fuga dal fisco nel paese d’origine. Navalny, che si autodefinisce un attivista “nazionalista democratico” fedele ai valori del patriottismo russo, in opposizione al regime di Putin, chiede di colpire gli interessi specifici del gruppo di oligarchi offshore, considerati i pilastri delle finanze del Cremlino. Una scelta, sostiene, che a differenza di una politica di sanzione generica inciderebbe concretamente sull’atteggiamento del regime, mettendo fine alla connivenza per fini di lucro fra alcuni ambienti corrotti occidentali e quelli del potere russo.

Paolo Calzini

 

Per Molinari, Italia Vivaavrebbe vinto qualcosa

Molinari che “intervista” Renzi a Tg2 Post elencandogli le vittorie ottenute in questi giorni (quali?) e gli chiede se non si ritiene un vincente di questa battaglia non si può vedere!

Orlando Murray

 

Onorevole Meloni, forse ha la memoria corta…

Riguardo all’intervento dell’onorevole Meloni, mi permetto di ricordarle che è diventata ministro della Gioventù nel secondo governo Berlusconi, nato dopo che l’ex Cavaliere aveva comprato Di Gregorio, Razzi e Scilipoti, e che votò Ruby quale nipote di Mubarak.

Fabio Girau

 

Per anni ho votato politici discutibili

Sono un ex elettore del Pd. Vi voglio confessare la vergogna che provo quando penso che per anni ho votato per un partito in cui militavano personaggi come Marcucci, Orfini, Rosato, l’Innominabile, Guerini, Boschi e la lista potrebbe continuare.

L. Carmignani

 

Il discorso del leghista: rivoltante e irrispettoso

Ho sentito il discorso di Salvini. Un solo commento: rivoltante. Rivoltante dalla prima parola all’ultima. Provo una grande pena per gli italiani, ma in fondo ci meriteremo certi figuri al governo.

Giovanni Frulloni

 

Renzi sembra l’erede di Forza Italia e Dc

E se invece quella di Renzi fosse una manovra per diventare l’erede di B.? Tajani non piace tanto, anche se ha recuperato un punto percentuale. Una nuova balena bianca.

Poletti e Pareschi

Cari amici, la Balena Bianca e B. avevano mille difetti, ma anche milioni di voti. L’Innominabile ha i difetti, ma gli mancano i voti.

M. Trav.

 

Al Pirellone manca l’ironia lombarda

Il Fatto sicuramente mi donerà 4 pagine di commenti sulle dichiarazioni della Moratti. Dove sei Gallera, ti amo (si fa per dire). Però la Lucarelli aveva ragione: chi ci fa ridere adesso? La Moratti è stata sempre lugubre.

S. Di Giuseppe

Caro Di Giuseppe, nella produzione di comici la Lombardia è sempre stata all’avanguardia.

M. Trav.

 

In tv straparlano di Matteo e soci

Sentendo i vari commenti delle varie trasmissioni tv, in pratica tutte aperte in diretta sulla crisi, è un divenire di “eppure Renzi ha detto delle cose giuste”, “come si fa a dare torto a Renzi” e così via. Come se fosse importante cosa si dice invece di cosa si fa.

Mario Placidi

Caro Mario, è vero. Ma il guaio è che le presunte “cose giuste” sono tutte balle.

M. Trav.

 

Caro direttore, la destra la teme molto

Caro Travaglio, vivissime congratulazioni! Lei è stato l’unico direttore di un giornale nominato da due esponenti di partito alla Camera e al Senato. La destra la teme!

Alessandro Sparvoli

Grazie, caro Alessandro. Prima la statista Gelmini e poi lo statista Romeo: sono soddisfazioni.

M. Trav.

 

Conte è lucido, ma il Pd dev’essere più convinto

Ho visto Agorà: Padellaro era “un gigante” nella sua semplicità. Come ho scritto più volte, se Zingaretti e tutto il Pd fossero stati più determinati, non ci saremmo trovati in questa situazione. Grazie alla lucidità di Conte e con un Pd convinto delle conclusioni di Conte, avremo giorni meno assurdi.

Giuseppe Trippanera