Da una liceale. “La pandemia ci ha tolto tanto, dagli amici alla scuola”

Mi hanno sempre detto che ci si accorge del valore di ciò che si ha solamente quando lo si perde. Io non credo sia così tanto vero: penso che questo succeda piuttosto nel momento in cui si ha l’occasione di sperimentare di nuovo ciò che non si è potuto vivere per tanto tempo.

Uscire e trascorrere un pomeriggio con gli amici è sempre stato ritenuto parte della routine e quindi niente di speciale, per lo meno fino a pochi mesi fa. Quando a noi giovani è venuta meno la possibilità di fare questo, le due cose si sono invertite e normale è diventato lo stare a casa, dalla mattina alla sera. Arriva anche a non cambiarti più di tanto, ti ci abitui e vivi passivamente.

Allora succede più o meno questo quando intravedi la luce alla fine del tunnel e, anche se non allo stesso modo di prima, sei libero di oltrepassare il confine in cui sei stato costretto a restare per determinato tempo: ti rendi conto che una semplice uscita il pomeriggio è capace di fornirti una sensazione di spensieratezza totalmente inaspettata.

Non ne avevi sentito la mancanza fino a quel momento; ma poi quando la sera ritorni a casa con la consapevolezza che ne passerà del tempo prima di aver la possibilità di rifarlo di nuovo, ti accorgi di come sia fondamentale per noi, a questa età, vivere con un certo diritto alla libertà. Non hai più certezze, non sai mai cosa potrà accadere domani e questo non è per niente confortante.

Tutto quello che è sempre stato scontato sembra dissolversi e mutare; allora credo che questa situazione, se mai sia riuscita a insegnarci qualcosa di positivo, sicuramente è riuscita ad aprirci gli occhi. Ci ha aiutati a capire che è importante godersi ogni minuto e che questa resti la nostra unica via d’uscita, perché noi tutti, un anno fa, non ce lo aspettavamo mica che potesse irrompere nelle nostre vite una pandemia globale e privarci persino della possibilità di alzarci la mattina e chiudere il portone di casa per frequentare le lezioni ai banchi della scuola.

Gaia Patrizietti, studentessa del V liceo Scientifico “G. Leopardi” di Recanati

La Milano ‘premium’ di Lady Moratti (e Giuseppe Sala)

Letizia Moratti è diventata un’eroina dei social. Con parrucche e crinoline da Maria Antonietta, sulle pagine Facebook e nelle stories Instagram dispensa vaccini ai poveri come fossero brioches, ma solo dopo aver controllato il Pil. O distribuisce tessere sanitarie ai cittadini, verdi per quelli normali, oro o platino per i clienti “premium”.

Dovremo abituarci. Perché chi ha avuto l’ideona di andarla a risvegliare per tentare di farci dimenticare le esilaranti & drammatiche gaffe di Giulio Gallera ha ottenuto qualcosa di più che un semplice cambio cosmetico al vertice di un assessorato, necessario per nascondere i fallimenti degli amministratori lombardi nella gestione della pandemia. Ha dato nelle mani di Letizia Maria Brichetto Arnaboldi vedova Moratti il futuro della sanità lombarda e (forse) della Regione. Perché sarà lei, ora, a varare la riforma del sistema sanitario regionale dopo il fallimento del modello Maroni. E sempre lei sarà, nel 2023, il candidato naturale del centrodestra per diventare presidente della Lombardia, sostituendo il non indimenticabile Attilio Fontana. La mossa di Matteo Salvini, che l’ha chiamata a sostituire Gallera, è stata, nello stesso tempo, un colpo di genio e una zappa sui piedi. Un colpo di genio perché gli ha permesso d’intestarsi il “rinnovamento”, il “ricambio”: la stessa squadra (a parte Gallera) responsabile della gestione dissennata della pandemia, dalle mancate zone rosse all’inutile ospedale in Fiera, dai camici del cognato ai ritardi nella somministrazione dei vaccini, ora si presenta come la compagine della riscossa. Una piccola purga, Gallera momentaneamente in Siberia a pagare gli errori di tutti, e avanti come prima. Ma Moratti è anche la zappa sui piedi di Salvini, che chiamandola a Palazzo Lombardia si è molto probabilmente precluso la possibilità di indicare nel 2023 un candidato leghista alla guida dell’area più ricca d’Europa: c’è già Letizia, subito nominata assessore alla Sanità e vicepresidente della Regione.

Due dossier cruciali, intanto, sono nelle mani di Maria Brichetto Arnaboldi vedova Moratti. Il primo è quello del contrasto al Covid-19, con la distribuzione di ristori, vaccini, brioches. Un giro di soldi milionario. Il secondo è la riforma del sistema sanitario regionale. Dopo il modello Formigoni, che ha aperto agli imprenditori privati, le cose sono state peggiorate dal modello Maroni, che ha decretato la preminenza dei grandi ospedali e l’indebolimento della sanità territoriale diffusa. Gli effetti di sono visti con l’arrivo del virus: l’eccellenza lombarda ha prodotto ospedali al collasso e pazienti abbandonati a casa. Come lo cambierà Moratti? Vedremo. Per ora – a parte le battute sui clienti “premium” e sulle tessere sanitarie platino – si può dire che la signora non è nota per l’attenzione alla sanità pubblica e ai pazienti poveri.

Il suo ritorno in scena ottiene un ulteriore effetto. Ricrea un asse dimenticato: quello con Giuseppe Sala, che in qualche modo è un suo figlio, una sua creatura. Fu Letizia Moratti, allora sindaco di Milano per il centrodestra, a chiamare nel 2009 uno sconosciuto manager uscito dalla Pirelli, Sala appunto, come direttore generale del Comune di Milano, cioè come capo della grande macchina amministrativa ambrosiana. Poi Sala andò a realizzare il grande sogno di Letizia Moratti, l’Expo 2015 che era riuscita a conquistare mettendoci, si dice, anche soldi di tasca propria (o meglio, del marito). Fu Sala che salvò Expo dalle sabbie mobili dei ritardi e dei litigi, anche a costo di forzature e falsi in atti pubblici come quello per cui è stato salvato dalla prescrizione.

Se Sala sarà riconfermato a Palazzo Marino e Moratti eletta a Palazzo Lombardia, si ricreerà nei prossimi anni la fantastica coppia della Milano “premium”.

 

Salvini, Borghi, Ciampolillo & C: bestiario della crisi di governo

La crisi più idiota del mondo ha dato, tra lunedi e martedì, il peggio di sé. Ecco chi si è distinto particolarmente nel prestigioso “Gran Premio della Mestizia”.

Salvini Matteo. Attacca i senatori a vita, straparla di mercimonio, difende chi parla di defecazione. È terrorizzato all’idea di perdere anche questo treno e, per questo, sta puntando tutto sul suo gemello (non) diverso Renzi. Sempre peggio.

Ciampolillo Lello. Ex M5S. Free-vax, animalista, vegano, negazionista (no, non sul Covid: sul batterio della Xylella). Passerà alla storia come l’uomo che costrinse la Casellati Mazzanti Vien dal Mare a usare il Var per autorizzarne l’agognato (?) “sì”. Oltre ogni comica.

Nencini Riccardo. Arriva pure lui in ritardo e alla fine vota “sì”, forse conquistato da Giuseppe Conte che lo aveva appena definito (non senza generosità) “fine intellettuale”. Ondivago come quasi tutti i socialisti nostrani, meriterebbe però una statua equestre qualora costringesse Renzi a evaporare nel gruppo Misto. Daje Ricca’!

Cunial Sara. Basaglia ha fallito.

Martelli Carlo. Il simpaticissimo “Nosferatu in ciabatte” era irricevibile quando stava dentro i 5Stelle e lo è ancor di più adesso. Folgorato sulla via di Diego Fusaro, che è come dire innamorato di una mietibatti morta, ha forse un glorioso futuro politico come Scilipoti glabro.

Paragone Gianluigi. È stato un buon giornalista, è un pessimo politico. Gli siano lievi i complottisti a caso.

Giarrusso Mario Michele. Vi voglio troppo bene per farvi perdere tempo con uno così, dai.

Drago Tiziana. Ex M5S pure lei (bella selezione della classe dirigente, vero?), sorta di Binetti post-grillina, ha un’idea di famiglia al cui confronto Adinolfi è Andy Warhol. Nel centrodestra starebbe da Dio.

Bellanova Teresa. Il suo discorso al Senato è stato un parossismo cacofonico di astio livido, imbarazzo grammaticale, politica inacidita e sinistra vilipesa. Ha un passato nobile, dal quale però non ha imparato nulla. Anzi meno.

Meloni Giorgia. Sempre più urlatrice, in un video si è detta orgogliosa di essere ritenuta “pesciarola” da sinistra e 5Stelle. Pure lei assai incarognita coi senatori a vita, dovrebbe accettare il fatto che a destra gli unici intellettuali in vita sono Veneziani e Martufello. Ha ormai raggiunto un livello politico definitivamente salviniano. Cioè bassissimo. Brava Giorgia!

Tortora Gaia. Su Twitter, e già mette malinconia che ancora qualcuno usi quel social più decrepito del renzismo, ha cinguettato innamorata ieri sera: “Comunque la si pensi @matteorenzi l’ha giocata bene fin qui”. Pensa se Renzi se la fosse pure giocata male!

Borghi Claudio. Ha parlato di defecazioni, ma non l’ha fatto mica per maleducazione. No: è che conosce bene l’argomento.

Sgarbi Vittorio. Ricordiamolo da vivo.

De Angelis Alessandro. Con quel suo bel capino vagamente implume, gioca la parte che più ama: quella del finto neutrale che, tra le mutande, nasconde la bambolina voodoo di Conte martoriata da spilloni aguzzi. Gufa come neanche Bonolis col Milan, ma ovviamente perde anche questa battaglia. Lui è così: sbaglia sempre. E non impara mai.

Bechis Franco. Un Sallusti che non ce l’ha fatta.

Marcucci Andrea. Se ancora Conte non ha praticamente trovato mezzo “responsabile” tra Italia Viva, è verosimilmente colpa anche sua. Che non merita di riabbracciare Renzi.

Quagliariello Gaetano. La lunga citazione che gli ha dedicato Conte al Senato fa capire che il nostro futuro dipenderà da uno come Quagliariello. Auguri.

Renzi Matteo. Caricaturale, inascoltabile. Colpevole e fuori controllo, nonché responsabile primo di uno dei punti più bassi della storia della Repubblica. La politica al suo peggio. Ora e per sempre imperdonabile.

 

Il “boyscout di Rignano” ci fa rivalutare persino B.

Temo che il boyscout di Rignano riuscirà a farci rivalutare anche Silvio Berlusconi, a cui peraltro, col suo comportamento irresponsabile, ha già fornito un bell’assist, visto che Forza Italia nei sondaggi è data adesso al 10,6%, cioè in doppia cifra, livello cui era lontana da anni. Il boyscout, poiché è nato a Firenze, crede di essere una specie di erede di Machiavelli, ma per astuzia è un nano nei confronti del milanese Berlusconi. L’ex Cavaliere, che negli ultimi decenni è stato l’uomo più divisivo d’Italia, ha capito benissimo che in epoca di pandemia è bene assumere un atteggiamento conciliante, da “padre della patria”, non per il bene del “mio Paese”, come soleva dire un tempo, come se fosse solo il suo, ma per il proprio tornaconto personale e per poter coltivare con l’aiuto di Matteo Salvini e Giorgia Meloni il suo sogno di diventare presidente della Repubblica.

Quando scende sul terreno politico bevendo, a suo dire, “l’amaro calice”, che in realtà si rivelerà amarissimo per gli italiani, Berlusconi ha 58 anni. Qualcosa nella sua vita ha combinato. Ha fondato l’Edilnord e costruito Milano Due. Mi diceva Marcello Di Tondo, mio ex collega alla Pirelli, che è stato il suo braccio destro nella prima fase dell’ascesa imprenditoriale dell’allora Cavaliere: “C’era sempre qualcosa di visionario, di inverosimile, in quel che diceva Berlusconi. Ma poi io mi affacciavo alla finestra, vedevo tutti quei palazzi e mi dicevo ‘però tutto questo l’ha fatto lui’”. A Milano Due c’era una piccola emittente privata, controllata dalla Rizzoli, che trasmetteva solo per i condòmini. Berlusconi la comprò, la chiamò Telemilano e nel giro di pochissimi anni divenne la Fininvest, il più grande gruppo televisivo privato italiano. Che questo monopolio della Fininvest per dodici anni fosse del tutto illegittimo è fuori di discussione. Ma la responsabilità non è di Berlusconi, ma di chi lo ha lasciato fare, cioè del santissimo Bettino Craxi che, in cambio di 21 miliardi, gli fece una legge ad hoc. Quindi si può dire tutto il peggio possibile di Berlusconi – come noi, insieme ad altri, abbiamo fatto tante volte – ma nessuno può negare che nei suoi primi 58 anni di vita abbia lavorato sodo, sia pur con metodi discutibili e a volte criminosi, dando lavoro a migliaia di persone. E tutto ciò partendo dal nulla perché, a differenza di Matteo Renzi che è figlio di suo padre, non aveva un genitore importante. Renzi appunto. Fino a 24 anni, quando entra stabilmente in politica, aveva fatto poco o nulla, scribacchiando per qualche giornale cattolico e curando per l’azienda di famiglia la gestione degli strilloni per La Nazione.

Ma anche altri protagonisti della vita politica di oggi hanno un curriculum professionale un pochino più consistente: Giuseppe Conte e Virginia Raggi, gli “incapaci” e “incompetenti” per definizione, hanno esercitato per parecchi anni come avvocati. Mentre il boyscout di Rignano è il classico “professionista della politica”, cioè uno che, secondo la classica e spietata definizione di Max Weber, “tende a fare della politica una duratura forma di guadagno”. Ovviamente questa situazione non riguarda solo Renzi, ma nella maggioranza dei casi è la condizione della classe politica in democrazia. La classe politica democratica è formata da persone che hanno come elemento di distinzione unicamente, e tautologicamente, quello di fare politica. Poiché non è necessaria alcuna qualità prepolitica, la sola qualità del “professionista” è di non averne alcuna, il che gli consente una straordinaria adattabilità e duttilità. Da qui il fenomeno del trasformismo che percorre tutta la storia dell’Italia unita, ma che oggi è particolarmente all’ordine del giorno con il premier Conte che pur di formare un governo è costretto ad aggirarsi con una rete acchiappafarfalle, come ha denunciato Giorgia Meloni nel suo discorso di lunedì alla Camera.

Io ho stima di Giorgia Meloni perché la sento animata da un’autentica passione, ma mi corre l’obbligo di ricordarle che uno dei suoi principali sodali, Silvio Berlusconi, non si limitava a fare ammiccamenti ai parlamentari, più semplicemente li comprava come fece con De Gregorio, pagato 3 milioni di euro perché passasse dall’Idv di Antonio Di Pietro al Popolo della Libertà, e che un altro suo sodale, Renato Brunetta, in un’intervista rilasciata dopo le elezioni politiche del marzo 2018, si diceva sicuro che la destra sarebbe andata al governo e al conduttore che gli faceva osservare che gli mancavano una sessantina di parlamentari, rispondeva ridacchiando “eheh, ci sono i ‘responsabili’”, cioè l’equivalente di quelli che oggi vengono chiamati “i costruttori”. Quindi Giorgia Meloni, che, sia pur appassionata, è a sua volta una professionista della politica, non può fare l’“anima bella” solo quando ad accalappiare parlamentari col retino da farfalle sono i suoi avversari e starsene muta, sorda e cieca, come la scimmietta del proverbio giapponese, quando a far lo stesso sono i suoi amici.

 

Il piccione viaggiatore, I capelli pilotati di Trump e la potenza della Cina

 

Dopo sette anni di negoziati, oggi Ue e Cina dovrebbero chiudere l’accordo globale sugli investimenti

(N. Borzi, “Fq”, 30.12.2020)

 

Notizie dal futuro. La Cina entrerà nella Nato? L’Assemblea parlamentare del Patto Atlantico, l’alleanza militare fra Stati Uniti e Paesi occidentali, ha approvato a larga maggioranza una mozione che cita l’ingresso della Cina nell’alleanza. Il tema riemerge ciclicamente da qualche anno, cioè da quando, accordo dopo accordo, la Cina ha rafforzato la sua presenza economica e politica in Africa e in Europa, approfittando di contingenze quali il disimpegno Usa, l’assenza di una politica estera europea e il rallentamento dell’economia tedesca causato dal perdurare della pandemia. Il modus operandi cinese è dei meno conflittuali: selezionare élite continentali e coinvolgerle nella propria politica di commercio e investimenti. La strategia funziona: nel 1992, l’anno successivo alla caduta del Muro di Berlino, il Pil cinese era il 7% di quello statunitense, mentre oggi ne è il 65%. La Cina coopera con 11 Stati membri dell’Ue e 5 Paesi balcanici: Albania, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia. Inoltre, grazie a Trump, che fece uscire gli Usa dagli accordi del Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), la Cina ha mantenuto l’egemonia degli scambi commerciali anche con le nazioni del Sud-est asiatico. Insomma, ha il vento in poppa, e la sua pressione espansiva sta diventando sempre più intensa a causa del risveglio russo. Dal punto di vista militare, la Repubblica Popolare (una dittatura comunista) mantiene una politica di apparente neutralità nei confronti dell’Occidente, limitandosi alle schermaglie locali contro Vietnam e Filippine, protettorati Usa; ma un suo ingresso nella Nato le permetterebbe di monitorare sia le esercitazioni navali congiunte degli Usa e dei suoi principali alleati (Giappone, Australia e Regno Unito) nel Mar Cinese Meridionale, sia le manovre russe nel Mar Baltico. Queste considerazioni invitano alla prudenza, ma non hanno convinto l’Assemblea parlamentare della Nato a cambiare idea sull’ingresso della Cina nell’Alleanza Atlantica. Secondo il New York Times, una mossa del genere contribuirebbe a destabilizzare ulteriormente l’Europa, e a rendere ancora più tesi i rapporti con la Russia. Tanto più che la Nato non è più solida come qualche anno fa, a causa della Turchia, che ha mire espansionistiche tutte sue, e degli Stati europei che ambiscono a un’autonomia – non solo commerciale – dagli Stati Uniti. Il presidente francese Legrand, non a caso, si è dichiarato favorevole all’ingresso della Cina nella Nato, poiché “l’Alleanza sarebbe decisamente più sicura se la Cina ne facesse parte a pieno titolo”.

Persa da un piccione viaggiatore nel 1910, una piccola capsula di alluminio con un messaggio militare tedesco è stata ritrovata per caso in un campo di Ingersheim da una coppia che stava facendo una passeggiata, e che ha consegnato la capsula e il suo contenuto al Memoriale di Linge d’Orbey, un museo dedicato alla battaglia che francesi e tedeschi combatterono nel 1915 sul versante alsaziano dei Vosgi. Il messaggio manoscritto, inviato da un ufficiale di un reggimento di fanteria prussiano a un superiore dello stesso reggimento, è molto ben conservato. Il testo è la ricetta del piccione alla cacciatora.Forse non tutti sanno che… I capelli di Trump sono piccole antenne pilotate una per una da un segnale radio (transponder) che li pettina con precisione impeccabile.

 

Siamo sicuri che il virus sia solo respiratorio?

Nell’emisfero sud che come ogni anno ci precede con l’epidemia stagionale, si segnala una quasi totale assenza di casi di influenza. Il periodo in quell’area inizia ad aprile per concludersi in settembre. I numeri, come commenta anche l’Oms, sono “incredibili”. In Australia nell’agosto del 2019 erano stati registrati 61 mila casi. Nello stesso periodo del 2020 sono stati appena 107. Risultati analoghi sono stati osservati in Sud Africa, Argentina, Cile e Nuova Zelanda. Da noi l’influenza stagionale solitamente, raggiunge la massima incidenza tra novembre e gennaio. L’aggiornamento dell’Istituto Superiore di Sanità riporta che in Italia, nella 53ª settimana del 2020, l’incidenza si è mantenuta stabilmente sotto la soglia basale con un valore pari a 1,4 casi per mille. Nella scorsa stagione in questa stessa settimana era stato pari a 4,9 casi per mille. Le misure di contenimento per prevenire Covid-19 potrebbero aver funzionato anche per l’influenza. Ma nell’emisfero Sud sono state somministrate ben due milioni di dosi di vaccino antinfluenzale in più. In Italia, invece, la copertura vaccinale della stagione 2019/2020 è pressoché identica a quella dell’anno scorso (16,8% contro 15,8%) e quella 2020/2021 non si discosta. Dunque tutto è dovuto alle misure di contenimento? In parte sì, ma i Paesi che non hanno adottato strette misure di contenimento non raggiungono una differenza significativa. Perché tali misure sembrano non essere sostanzialmente risolutive? Perché abbiamo avuto una drastica diminuzione dell’infezione influenzale e non di quella da SarsCov2?

Peraltro sappiamo che il virus influenzale, grazie a un tempo di incubazione breve, “corre” velocemente nella popolazione. Eppure siamo riusciti a bloccarlo, ma non siamo riusciti a bloccare SarsCov2. Ritorna il dubbio avanzato tempo fa: siamo sicuri che SarsCov2 si trasmetta solo (prevalentemente) attraverso la via respiratoria? Siamo sicuri che le misure adottate siano totalmente idonee e sufficienti?

 

La fusione è ottima, garantisce Stampubblica

Nessun rischio, è la scelta migliore. S’intende la fusione Fca-Peugeot che dovrebbe far dispiegare le magnifiche sorti e progressive dei due gruppi e anche degli stabilimenti italiani. La rassicurazione è arrivata ieri direttamente dai giornali della famiglia Agnelli, Repubblica e Stampa, con paginate di intervista fotocopia al nuovo Ad, Carlos Tavares, proveniente dai francesi. Un uomo che, va detto, si “presenta rassicurante, abito grigio, cravatta, camicia bianca aperta sul collo”. E certo, anche se “ci sarà tempo per le decisioni dolorose e per l’uso del bisturi a sanare le cose che non vanno come dovrebbero” ora “l’imperativo è conoscersi sempre meglio”. Gli operai stiano sereni. I marchi italiani, per dire, chiuderanno? Risposta: “Sono innamorato di tutti i marchi” ma “dovranno dimostrare di costruire il loro futuro”. E se non succede? Ah, saperlo. Dove avrà il quartier generale Stellantis? “Chi va a farsi vaccinare si chiede forse dove sta il quartier generale della società che produce fiale?” (quindi Oltralpe). Sono i francesi ad aver conquistato Fca? “Non ho passaporto francese, né italiano…”. E così via discorrendo. Insomma, è tutto a posto. Ma, se così non sarà, siamo sicuri che Stampubblica ne darà conto senz’altro.

La terza legge della stupidità e il Rignanese

A proposito di mascalzonate politiche, non è giusto paragonare Donald Trump, che ha tenuto in ostaggio Capitolo Hill, con Matteo Renzi che ha tenuto in ostaggio il governo in piena pandemia. Prima di tutto (come notato sul Fatto da Spinoza.it) rispetto ai 74 milioni di voti di Trump, risulta che l’altro ne abbia un pelino di meno. Ma poi tutto si potrà dire dell’ex inquilino della Casa Bianca tranne che sia uno stupido. Mentre il nostro compatriota, che all’origine sembrava tutt’altro che stupido, alla stupidità politica sta versando un generoso tributo. Secondo la “Terza legge fondamentale della stupidità” – elaborata da Carlo M. Cipolla, massimo studioso della materia –, “una persona stupida causa un danno a un’altra persona senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita”. Infatti, dopo il voto in Parlamento fomentato dal genio fiorentino ci ritroviamo con una maggioranza amputata, un governo indebolito e un premier assediato. Perfino l’opposizione, investita dal fallout renziano appare sgarrupata e perde pezzi. Ma, soprattutto, dicono i sondaggi che la stragrande maggioranza degli italiani considera la crisi assurda e incomprensibile.

La stampa internazionale si chiede se l’Italia sia impazzita. In sintonia con la Commissione di Bruxelles che s’interroga sulla credibilità del nostro Paese, prima che gli vengano versati i famosi 209 miliardi. Insomma, una catastrofe, uno tsunami, una Chernobyl istituzionale a opera di un leader esagitato che in cambio cosa ha ottenuto? Premier, governo e maggioranza sono malgrado tutto rimasti in piedi. Italia Viva da lui sospinta in quella terra di nessuno che è l’astensione, non conta più una mazza. Non solo, perché c’è un’ala dissenziente del partitino che mediterebbe il ritorno nella maggioranza. Senza contare che, privo di un piano B fattibile, e totalmente isolato, il casinista di Rignano dovrà trovarsi altri passatempi. Un saldo così disastroso non lo si vedeva dai tempi della ritirata di Russia. Per tornare al paragone con Trump, va ricordato che la legge di Cipolla prevede un paio di corollari. Che, a differenza dello stupido, il bandito trae vantaggio dall’aver danneggiato gli altri. Che la stupidità riposa raramente e sovente dispiega i suoi effetti ad ampio raggio e senza confine alcuno (il che mi fa temere che anche nei recenti rovesci della AS Roma possa esserci lo zampino di Renzi).

“Scoprì legami tra Cosa Nostra e Stato. Per questo fu ucciso l’agente Agostino”

Andava in cerca di latitanti, era diventato una fonte segreta di Giovanni Falcone nel periodo delle indagini su Gladio e il delitto Mattarella e con Cosa Nostra faceva il “doppio gioco”: a volere morto Nino Agostino, ufficialmente solo un piantone del commissariato San Lorenzo, in realtà un agente “dalla parte dello Stato”, furono insieme Cosa Nostra e pezzi di servizi deviati, per tappare la bocca a un poliziotto che dava la caccia a Totò Riina ed era venuto a conoscenza di “inconfessabili e segreti legami tra mafia, polizia, servizi, coinvolgendo anche soggetti appartenenti alle alte sfere”.

Dopo 31 anni di silenzi, depistaggi e omertà istituzionali, i pg di Palermo, Nico Gozzo e Umberto De Giglio, chiedono l’ergastolo per il boss Nino Madonia, esponente di una famiglia mafiosa con radici solide nelle collusioni con l’intelligence deviata e allo stesso tempo esecutore e mandante di un duplice delitto (con Agostino, il 5 agosto 1989 venne uccisa anche la moglie, Ida Castelluccio). Quello stesso Madonia “delegato da Riina a mantenere i contatti con i Servizi segreti”, come ha detto l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile della famiglia Agostino, secondo cui Nino Madonia, che però per questo omicidio non è mai stato inquisito, è anche il killer del presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella. La ricostruzione probatoria compiuta dai pm traccia le ultime settimane di vita di un agente al centro di una rete fittissima di rapporti sottotraccia (con Falcone, Contrada, con ambienti imprecisati che lo spedivano in missioni camuffate da una valigetta 24 ore a Trapani), al lavoro dentro gli uffici di un commissariato “diventato una succursale dei servizi”, e braccato dagli 007 e da Cosa Nostra, che negli ultimi giorni di vita viveva in continuo stato di allerta con la pistola sul comodino. Una ricostruzione, questa, assolutamente consequenziale, dicono i pm, “con la frattura che subito dopo l’omicidio si registra nella polizia”: mentre Arnaldo La Barbera, l’agente Rutilius, e il suo collaboratore, Guido Paolilli, iniziano le manovre depistatorie, il questore dell’epoca, Fernando Masone (che diventerà capo della Polizia) dichiara a Repubblica: “Questo sembra avere tutti i connotati di un delitto preventivo di alta mafia”. “Da una parte il Questore che avalla alla stampa con la sua autorevolezza la versione – rispondente al vero – che quello di Agostino è un omicidio di alta mafia – chiosano i pm –; dall’altra La Barbera e Paolilli depistano le indagini sulla inconsistente pista dell’omicidio per una questione di donne”. Un depistaggio proseguito l’anno dopo da La Barbera, che tenta di scaricare la responsabilità su Vincenzo Scarantino, suggerendogli di “accollarsi il duplice omicidio” (vicenda per la quale La Barbera non è mai stato inquisito). Agostino nel 1989 tentò il colpo grosso contro i corleonesi sotto attacco dal “golpe” interno tentato da Vincenzo Puccio, che serrano le file barricandosi in una mini commissione permanente a vicolo Pipitone, regno dei Galatolo: e lì va a curiosare Nino Agostino che scopre uomini dello Stato a fianco dei boss. “Quanto alla tipologia di segreti che Agostino ebbe modo di conoscere – ha aggiunto il pm durante la requisitoria – si consideri (…) che egli vide Bruno Contrada e Giovanni Aiello (il famigerato ‘faccia di mostro’, ndr) incontrarsi con i Madonia e i Galatolo”. E fu Agostino, secondo la pentita Giovanna Galatolo, a fornire ai mafiosi un orario errato sulle abitudini di Falcone nella sua villa dell’Addaura, consentendogli di sfuggire all’attentato: “(..). Lo disse mia zia Concetta. Seppi sempre dalla stessa fonte che per questo motivo doveva morire. E dopo la sua morte (…) mi convinsi, parlandone sempre con mia zia Concetta e mia madre, che Agostino aveva fatto il ‘doppio gioco’ per sapere di più dalla mafia’’.

Tra gli atti citati dai pm a sostegno dell’accusa, infine, anche le prove della collusione con la mafia di Bruno Contrada, la cui condanna definitiva è stata ritenuta dalla Corte europea “improduttiva di effetti penali”: per i pm il verdetto non ha “inciso sulla veridicità e valenza probatoria dei fatti storici accertati posti a fondamento della condanna”.

Indagato per mafia a Roma, in Russia è il “boss della pizza”

A Roma è ancora indagato per mafia, a otto anni da una maxi-operazione della Squadra mobile cui è riuscito a sfuggire grazie al suo precedente trasferimento in Russia. Nel frattempo è diventato famoso come pizzaiolo a San Pietroburgo, dove il suo nome è stato associato a una catena di ristoranti e a una linea di pizze surgelate che richiamano i gangster del passato o del cinema. Nicola Di Mauro, 39 anni, oggi vive a Yerevan, in Armenia, e ha preso la cittadinanza locale, rinunciando definitivamente a quella italiana. Gli inquirenti capitolini lo considerano “l’ultimo dei Fasciani”, il clan mafioso di Ostia, sul litorale romano. Che si tratti di un gruppo mafioso lo ha stabilito una sentenza della Corte di Cassazione del 29 novembre 2019, ultimo atto del processo ai vertici criminali che ha portato a pene complessive per 160 anni di carcere.

La posizione del cuoco è stata stralciata nel 2014 dalla Dda di Roma. Nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, i magistrati romani contestano a Di Mauro – difeso dall’avvocato Daniele Francesco Lelli – la “gestione operativa”, fra il 2007 e il 2012, di decine di attività commerciali avviate da Fasciani sul litorale romano, “in concorso” con il boss Carmine Fasciani, con la moglie Silvia Franca Bartoli e con le figlie Sabrina e Azzurra Fasciani. Fra queste gli stabilimenti balneari Malibù Beach, Faber Village e Rapa Nui, molto noti nella Capitale, tutte società assegnate formalmente, secondo le accuse, a soci fittizi. Il reato contestato a Di Mauro è il trasferimento fraudolento e possesso ingiustificato di valori, con l’aggravante mafiosa. Di Mauro era stato arrestato il 28 maggio 2015 quando era a San Pietroburgo, ma le autorità russe non hanno mai concesso l’estradizione. L’uomo è tornato libero un anno dopo, il 24 giugno 2016. Nelle motivazioni della scarcerazione, si legge che “il difensore ha depositato documentazione medica comprovante patologie gravissime”, talmente “invasive e pericolose da far ritenere cessate le esigenze cautelari”.

Nel frattempo, Di Mauro si è costruito una seconda vita in giro fra le repubbliche ex sovietiche. Si fa chiamare “Chef Nico”, di qui il brand “Pizza Don Nico”. Sul suo profilo Instagram ci sono le foto dei ristoranti a San Pietroburgo, a Mosca e a Odessa (Ucraina) e le immagini della linea di pizze surgelate chiamate, a seconda del condimento, “Pizza Soprano”, “Pizza Corleone”, “Pizza John Gotti” o “Pizza Gambino”, con tanto di bollino certificato dalle autorità armene.

C’è anche un canale Youtube a suo nome, dove Di Mauro, in russo perfetto, descrive la procedura con cui realizza l’impasto. Prima del suo arresto, nel 2015, l’uomo aveva anche partecipato ad alcune trasmissioni televisive russe, raggiungendo una certa popolarità: in seguito alla carcerazione, una parte dell’opinione pubblica russa aveva anche solidarizzato con lui, contestando la misura cautelare.