Famiglia politica livorno, divisione a sinistra

Questo testo inedito che pubblichiamo nel giorno del centesimo anniversario della scissione di Livorno – laddove dal congresso del Psi nacque il Partito comunista d’Italia, poi Pci – è scritto da una figura leggendaria del movimento operaio italiano: Camilla Ravera (1888-1989), protagonista di quell’evento e figura di primo piano del Pci per decenni. Il documento proviene dal Fondo Barca acquisito dalla Fondazione Feltrinelli e che lo ha messo a disposizione per la pubblicazione. Per la Fondazione Feltrinelli la data del 21 gennaio 1921 fa parte di un progetto di calendario civile. E si ripercorrono le strade della scissione di Livorno perché il tema ora come allora non è avere un partito politico perfetto, ma un progetto.

Quella che si divide a Livorno cento anni fa è una famiglia politica che si interroga sul progetto – o ancora meglio – su un partito-progetto capace di dare forma al futuro. Una famiglia politica che di fronte alle sfide indotte dal dopoguerra ha il problema di avere una proposta, partendo dalla reale conoscenza degli umori di una parte di popolo. In quel frangente la sinistra non ce la farà come è noto, vincerà l’altra parte. È quella domanda a rimanere sul tavolo, ancora oggi.

Quella domanda, Camilla Ravera, nel 1971 a cinquanta anni dalla scena che si consuma a Livorno al Teatro Goldoni, torna a ripetere in un seminario che il Pci organizza per riflettere sulla scena del 1921. Allora Ravera, che fu tra i protagonisti di quella scissione, non rivendica la giustezza di quella scelta, ma si chiede semplicemente: rispondevamo o no a una domanda di futuro? Eravamo in grado di dare risposte, di ascoltare, di trovare e proporre soluzioni? E la risposta di scindersi era la risposta corretta o prima ancora che a cercare la purezza dovevamo pensare ai contenuti di un programma politico?

L’illusione di Gramsci, i consigli di Lenin

Per prima cosa, vorrei ricordare in quale situazione si sono trovati l’Ordine Nuovo e Gramsci a Livorno, e dopo Livorno. Bisogna risalire un po’ più lontano, al momento in cui la rivista dell’Ordine Nuovo nasce. Se si leggono, per esempio, con un po’ di attenzione i primi numeri della rivista si trova un articolo di Gramsci – che fu allora oggetto di lunghe discussioni – in cui Gramsci fa un quadro del Partito Socialista Italiano con piena fiducia; illumina il valore storico di questo partito, l’opera compiuta dai socialisti nella formazione delle leghe di braccianti, dei sindacati operai, delle cooperative, delle migliaia di sezioni socialiste, di circoli operai; (…). E Gramsci conclude: “Questo Partito ha dietro di sé delle forze immense, ha conquistato attorno ad alcune delle sue personalità la fiducia di masse intere di popolazioni”.

Un partito al 30%

(…). Tutto questo vi dico perché vorrei che aveste un quadro un più esatto di quella situazione. Un Partito che aveva tutte quelle forze, che otteneva più del 30% dei voti alle elezioni, che aveva anche nelle campagne, soprattutto dell’Emilia (…) delle forze notevoli e un fiorire di istituzioni proletarie, un Partito così non era facile pensarlo spaccato, diviso, abbandonato come una cosa senza valore. Difatti, a conclusione di quell’articolo – a cui io accennavo – Gramsci dice: “Rompere l’unità di un simile Partito sarebbe un delitto, sarebbe un danno per la classe operaia e per tutta la popolazione lavoratrice italiana”. Questo il concetto da cui Gramsci parte, nel ’19, il 1° maggio 1919, quando crea l’Ordine Nuovo: il Partito Socialista è il Partito dei lavoratori italiani; non il vero partito della classe operaia inteso in senso marxista: chiaro, preciso, colto e ben indirizzato, ma rappresenta i lavoratori italiani. Si tratta, diceva Gramsci, di rinnovarlo. Rinnovarlo in relazione alla situazione nuova che la stessa guerra ha creato, che ha dato slancio a tutta la produzione industriale, a tutta la parte operativa, laboriosa della nazione; che ha portato una coscienza nuova nella classe operaia, costruita nelle nuove fabbriche con la nuova organizzazione, col nuovo modo di lavoro, all’interno stesso delle fabbriche. Bisogna rinnovare il Partito riportando nel Partito il marxismo, la nostra dottrina; e dando al Partito una meta ben chiara, che sia il Socialismo.

Il sol dell’Avvenire

(…) Ora, diceva Gramsci, questo non è un Partito: è una disgregazione (…). La destra tendeva a inserirsi nel governo per attuarvi qualche riforma senza modificare il sistema; parlava chiaro in tal senso (…). Il centro massimalista proclamava sempre la rivoluzione in modo rumoroso, in modo molto estremista rispetto a noi ordinovisti e rispetto anche allo stesso Bordiga; era estremista nelle formulazioni; ma concepiva la rivoluzione come “il sol dell’avvenire”, molto lontana e molto indefinita. E c’era la sinistra; la quale non era unita, perché formata da elementi eterogenei, intorno a Bordiga. Anche Bordiga, bisogna inquadrarlo nel suo tempo e nella sua situazione; viveva a Napoli, il socialismo a Napoli era molto diverso dal socialismo di Torino (…). Un contatto con la classe operaia, diretto, Bordiga non l’aveva mai avuto, né conosciuto; era entrato nel Partito partendo dalla conoscenza teorica del marxismo, innamorato del marxismo; delle sue formule matematicamente ordinate nella sua mente (…). Secondo lui la rivoluzione maturava negli eventi, nello sviluppo della situazione. Ciò che occorreva – pensava – era l’esistenza di un Partito non maggioritario, ma un partito di quadri, centralizzato, basato su una disciplina ferrea, con un’organizzazione di tipo militare; preparato spiritualmente e materialmente al momento della lotta violenta per la conquista del potere. Questa era la definizione che Bordiga dava del Partito. Egli non vedeva nella rivoluzione un processo che si compie – come diceva Gramsci – quotidianamente, in modo continuo, attraverso la lotta di ogni giorno, in ogni situazione, e che ha alla sua testa la classe operaia con la sua avanguardia, ma al suo seguito l’insieme della popolazione che lavora nelle città e nelle campagne.

Diverso era il concetto di Partito per Gramsci: il Partito Socialista è il partito della classe operaia; un Partito – diceva Gramsci – che ha autorità non perché ha una gerarchia stabilita, ma perché ogni operaio, nel momento in cui sostiene una lotta, sa che quella lotta avviene in quanto risponde al pensiero che è il pensiero del suo Partito. Cioè il partito diventava – per Gramsci – la sintesi di tutte le aspirazioni della classe operaia. (…).

La frazione comunista

Dopo la guerra avvengono movimenti non da poco (…). Tutti i moti a cui ho accennato erano ormai caduti nel vuoto: il movimento dei contadini era finito. Lenin diceva: Se almeno il Partito Socialista fosse riuscito a indicare qualche meta intermedia; liquidare nel Mezzogiorno il latifondo, sarebbe già stato un passo avanti. Il Partito Socialista aveva lasciato cadere nel vuoto tanto il movimento dei contadini come i grandi moti popolari contro il carovita, contro i pescicani, i profittatori della guerra, per la confisca dei profitti esagerati che i produttori per la guerra avevano accumulato. (…). Gramsci giudicò chiuso il momento di possibile sviluppo rivoluzionario; l’ondata – diceva – è crollata; la fiducia degli operai è spezzata. (…).

Gramsci pensò alla costituzione della frazione comunista che, di fatto, si costituì prima ancora che a Imola, nella riunione di Milano in cui si incontrarono Bordiga, Gramsci, Graziadei, alcuni elementi della sinistra massimalista; e avvenne una discussione generale e programmatica. (…).

Ma, a Milano, Gramsci comprese – come ebbe poi a raccontarmi – in quale situazione veniva a trovarsi l’Ordine Nuovo. (…).

A Milano egli capì che l’Ordine Nuovo nella frazione comunista sarebbe stato un gruppo ristretto rispetto alla forza che era già un partito nel partito: la frazione di Bordiga. Gramsci non ruppe con Bordiga, né si oppose al programma proposto da Bordiga – che sarà il programma della frazione –; e dove del pensiero di Gramsci non c’è quasi niente. (…) Correggere in senso gramsciano quel Programma non era possibile. Si trattava di un’impostazione fondamentalmente diversa. (…) Per Bordiga esisteva soltanto la lotta violenta per la conquista del potere nel momento in cui la società capitalistica è arrivata al suo crollo, alla catastrofe; allora l’avanguardia – se così, nel suo senso, può chiamarsi – il partito armato e preparato, conquista il potere e instaura il Socialismo. Ora con due impostazioni così opposte, con Gramsci che si proponeva di partire dalla fabbrica per creare i primi germi della sovranità del lavoro, e Bordiga che aveva quell’altra visione era difficile concordare un programma; o correggerlo. Bisognava o accettare di lavorare con Bordiga o rinunciare a formare il nuovo partito.

Era un programma di grande responsabilità in quel momento; e Gramsci lo risolvette decidendo che bisognava fare il partito, fare il partito con Bordiga. Bordiga aveva già l’impianto del partito nelle mani; era un impianto che aveva una sua impronta, rivoluzionaria, di questo non c’era dubbio. (…) Quale era l’illusione di Gramsci? Che nel lavoro comune, nell’azione politica concreta, Bordiga sarebbe uscito dal suo astratto e chiuso schema politico e sarebbe stata possibile con lui una collaborazione. (…). Purtroppo non fu così. (…). Soprattutto il dissenso diventa decisivo e porterà alla rottura, quando in Italia si instaura il fascismo. Il fascismo si instaura in Italia mentre Gramsci è a Mosca, da alcuni mesi a rappresentare il Partito nel Comitato esecutivo dell’Internazionale. Anch’io ero a Mosca in quei giorni: ero delegata al Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista che doveva avvenire a novembre. Bordiga era ancora a Roma.

A Mosca ci raggiunse la notizia che Mussolini aveva avuto dal Re l’incarico di formare il governo. (…) Arrivò Bordiga. Tutti l’aspettavamo per avere da lui notizie dirette dei fatti. Ci guardò sorpreso: “Ma perché discutete tanto su queste cose?”. Ripeteva le sue categoriche affermazioni: “Che cos’è il governo di Mussolini? È un governo borghese, è la dittatura della borghesia, come il governo Giolitti, come il governo di Bonomi, o di Facta, che l’hanno preceduto; non pone nessun problema nuovo al Partito Comunista, né alla sua politica, né alla sua tattica”.

Dissenso sul duce

La discussione di Gramsci con Bordiga fu lunga e approfondita, io ne fui quasi sempre testimone.

Era uno scontro fra due posizioni inconciliabili: l’una, negazione di ogni azione politica concreta; l’altra, il seguire le situazioni, la realtà delle situazioni per adeguarvi la politica, la tattica e l’azione. Non era possibile un accordo fra quelle due posizioni.

Io ebbi anche un breve incontro con Lenin insieme con Bordiga. Bordiga a Lenin fece la stessa esposizione – con lo stesso commento, che aveva fatto a noi – dell’avvento del governo fascista in Italia; Lenin ne fu – mi parve – molto meravigliato; quando ci salutò ci disse: “Cari compagni, voi avrete una situazione molto difficile, che durerà un tempo lungo e duro; bisognerà non perdere mai il contatto con la realtà”.

Io pensai che Lenin, da Mosca, malato com’era, si rendeva conto come Bordiga non fosse riuscito a rimanere in contatto con la nuova realtà. Lenin ci disse ancora: “Non perdete mai il contatto con gli operai, con i contadini italiani, qualunque sia la situazione”.

Stellantis, i poli italiani fermi al 50%

Sul piano della forma, l’amministratore delegato della neonata Stellantis, Carlos Tavares, ha voluto incontrare subito tutti i sindacati, anche la Fiom – non firmataria del contratto aziendale – lasciata per anni fuori dai tavoli. Su quello della sostanza, però, restano tutte le preoccupazioni che da anni aleggiano negli stabilimenti italiani di Fiat Chrysler. Da Mirafiori a Pomigliano, il ritmo di produzione si ferma al 50% della capacità. L’obiettivo piena occupazione è ancora tutto da definire.

“Il sentimento in fabbrica è di timore rispetto alle sovrapposizioni, ma anche di speranza di riaprire gli stabilimenti. Tavares ha confermato che questa è l’intenzione”, ha detto la segretaria Fiom Francesca Re David. Il mondo sindacale saluta con favore la fusione con Peugeot e la nascita del quarto costruttore mondiale. Ora va tradotta in pratica la volontà di far funzionare a pieno regime gli impianti. L’impegno di Tavares è di completare il piano Fca (mai centrato). Fiom, Fim e Uilm sanno che la vera partita si giocherà però sul futuro piano, da costruire facendo i conti con le rivendicazioni dei singoli Stati. Le indicazioni di Tavares sono per il momento generiche: vuole rafforzare i marchi italiani, che però dovranno “dimostrare di essere redditizio per non sparire”.

In casa Fca i problemi sono noti. Il polo torinese ha raddoppiato la produzione nel 2020, in realtà per effetto dei pessimi dati del 2019. Ora si pone la questione di 160 lavoratori somministrati che scadono a Mirafiori. A Cassino sono lontani i picchi del 2017, quando venivano promesse assunzioni da Matteo Renzi: il calo è costante, si riducono i dipendenti e si usano ammortizzatori sociali. A Pomigliano l’obiettivo è far partire il nuovo Suv Alfa Romeo Tonale nella seconda parte del 2021, ma per le prospettive più lunghe bisognerà confermare la Panda. “Tavares ha prospettato le difficoltà che il mercato presenterà – ha detto il leader Uilm Rocco Palombella –. Sarà essenziale essere più bravi dei rivali”.

Sì ai 32 miliardi per i ristori. Gualtieri: “Sono gli ultimi”

“Nelle intenzioni del governo questo è l’ultimo scostamento di bilancio per la pandemia”: Roberto Gualtieri, nel giorno in cui il Parlamento autorizza (anche col voto del centrodestra) 32 miliardi di maggior deficit per il prossimo decreto Ristori, ripete ben cinque volte nella sua audizione alle Camere che per lui la fase emergenziale, almeno dal punto di vista della finanza pubblica, s’avvia a conclusione. Un’insistenza che risuona in modo sinistro se unita all’unica domanda su cui il ministro dell’Economia ha svicolato: a che punto sono le trattative per riformare il Patto di Stabilità? Non si sa ed è lecito pensare non a buon punto: nel 2022 – nonostante il sostegno della Bce, che Gualtieri dà per scontato – bisognerà tornare a fare i conti con le virgole di deficit, il percorso di rientro del debito e le diavolerie del cosiddetto output gap, cioè con l’armamentario sado-economico alla base del Fiscal compact. Per oggi, intanto, la situazione sta come segue.

Finanza pubblica. In attesa delle cifre ufficiali, l’anno pare essersi chiuso secondo le previsioni: Gualtieri scommette su un calo del Pil che non supererà il 9% nonostante le chiusure dell’ultimo trimestre (“sui dati certi dei primi nove mesi lo stesso che in Francia e inferiore a quello registrato in Paesi come Spagna e Regno Unito”); il deficit sarà tra -10,5 e -10,8%, inferiore alla somma tra disavanzo ciclico e interventi anti-Covid (segno che immettere soldi nell’economia “aiuta” anche i conti pubblici); il debito chiuderà al 157%. Quanto al 2021, visti i 32 miliardi autorizzati ieri, rispetto alle stime d’autunno cambiano i numeri del deficit (dal 7 all’8,8%) e del debito (dovrebbe rimanere stabile per poi calare di due punti l’anno nel biennio successivo per riportarlo nel 2031 al livello del 2019); cambierà probabilmente, ma in futuro, la proiezione di crescita (+6%), “ma confidiamo di non andare troppo lontano”.

Ristori e aiuti passati. Questi i numeri dati da Gualtieri: “Complessivamente sono state varate misure pari a circa il 6,6% del Pil, 108 miliardi, a cui si aggiungono 300 miliardi di crediti che sono stati oggetto di moratoria e 150 miliardi di prestiti garantiti erogati. Si tratta di uno degli interventi più rilevanti che ci sono stati in Europa paragonabile per entità solo a quello messo in campo dalla Germania”. Per settori, le imprese, considerando anche gli interventi fiscali, hanno avuto oltre 48 miliardi; lavoro e sociale circa 35 miliardi; gli enti locali oltre 12 miliardi; la sanità oltre 8 miliardi; i servizi pubblici e sociali 4,5 miliardi. In senso stretto “il totale dei ristori e dei contributi a fondo perduto erogati ammonta a oltre 10 miliardi di euro”.

Il prossimo decreto. Intanto la filosofia: aiuti “temporanei e limitati”, per “non appesantire in modo permanente la finanza pubblica”. Stabilito questo, ed essendo l’ultimo scostamento, serve “un uso selettivo ed efficiente” delle risorse. I contenuti sono all’ingrosso noti, i dettagli – che contano assai – ancora no. Ci saranno, ad esempio, fondi per allungare la Cassa Covid (a oggi nel 2021 sono finanziate 12 settimane usabili fino al 30 giugno): la collegata proroga del blocco dei licenziamenti però, visto che le risorse non copriranno tutti come nel 2020, Gualtieri la vorrebbe “selettiva”, forse legata ai “settori che hanno sofferto di più la crisi”. Stesso discorso per i ristori veri e propri: basta coi codici Ateco e il paragone di fatturato aprile 2019/aprile 2020 che penalizza soprattutto le attività stagionali, ma la quantità delle risorse comporta che si usino paletti più stringenti per delimitare la platea (quali non si sa ancora). L’invio delle cartelle fiscali (sia Entrate che Riscossione) è sospeso e col prossimo decreto sarà spalmato nei prossimi due anni: non è chiaro, però, se ci sarà la quarta rottamazione delle cartelle chieste dal M5S.

Nel decreto ci saranno poi fondi per la decontribuzione delle partite Iva che hanno avuto cali rilevanti di fatturato (1,5 miliardi), per Naspi e Discoll (serviranno per i licenziati di oggi e domani), per il trasporto pubblico, la sanità (i vaccini) e le forze dell’ordine. Sperando che bastino, visto che questo scostamento – dice Gualtieri – è l’ultimo.

“Matteo cercava la testa del premier. Nessuno scandalo per i voti da destra”

Paola Taverna, il giorno dopo il voto da dentro o fuori. Come è andata? “La maggioranza ha dato un segnale di compattezza attorno a Giuseppe Conte, e questa è la cosa fondamentale”, sostiene la vicepresidente del Senato e veterana del Movimento. A pochi metri, dentro Palazzo Madama, senatori che commentano. E anche due eletti che si salutano, di questi tempi, sembrano l’embrione di una trattativa.

Partiamo da chi ha provocato tutto questo, cioè da Matteo Renzi. Perché lo ha fatto? Voleva la testa di Conte?

Ha agito in modo insensato, quindi non saprei dare una spiegazione razionale. Però sì, direi che l’obiettivo fosse far cadere il presidente del Consiglio. E credo che dietro ci fossero soprattutto ragioni personali. Lui soffre Conte, diciamo.

Per settimane molti della maggioranza sono rimasti in silenzio di fronte agli attacchi di Renzi al premier. Forse in diversi lo hanno mandato volentieri avanti, no?

La maggioranza ha sempre provato a confrontarsi con Renzi e ad ascoltare le sue ragioni. Si sperava di non dover difendere a oltranza Conte. Dopodiché lui è andato avanti, e martedì con il voto di fiducia gli è arrivato un segnale chiaro.

Magari anche Conte ha sbagliato, accentrando troppo. Voleva anche tenersi la delega ai Servizi segreti.

In aula il premier ha pronunciato un discorso di grande apertura a tutti i partiti, anche di opposizione, e ha manifestato nuovamente la disponibilità ad assegnare quella delega. Ma un tema come quello dei Servizi non doveva entrare in una logica di ricatto politico.

Ce l’avete fatta con 156 voti di maggioranza. Il governo è appeso a un filo sottile.

È stato un voto di ripartenza, che segna il venir meno di Renzi dentro il governo. Ma ciò non vale per i parlamentari di Iv, con i quali il confronto nelle commissioni è sempre stato aperto e collaborativo. La crisi si è aperta per le decisioni di un singolo.

I voti dei renziani ora vi servono disperatamente…

Quando Conte in Senato ha chiesto aiuto, si è rivolto a tutti i parlamentari. E credo che anche quelli di Iv si stiano interrogando su cosa è più giusto per il Paese.

Però per sopravvivere vi sono serviti anche i voti di due forzisti, tra cui quello di Mariarosaria Rossi, per anni l’ombra di Silvio Berlusconi. Non è doloroso dover inghiottire anche questo per voi 5Stelle, pur di andare avanti? Addirittura FI?

È doloroso doversi occupare di una crisi politica mentre c’è un’emergenza economica e sanitaria. Quei due voti hanno risposto a una richiesta di aiuto per il Paese.

Nel 2013 eravate entrati in Parlamento rifiutando ogni alleanza, e ora trattate con Udc, forzisti e quant’altro. Sbagliavate prima, o vi siete piegati oggi?

Nel 2018 ci siamo presentati con un progetto e degli obiettivi da raggiungere. Questa legge elettorale ci ha imposto di rivolgerci ai partiti, chiedendo chi volesse percorrere un pezzo di strada con noi, e così abbiamo formato due governi. Conte ha seguito la stessa via, proponendo un patto di legislatura fondato sull’esigenza di portare l’Italia fuori da un incubo e di dare risposte ai cittadini. Non ci vedo nulla di scandaloso a formare una nuova maggioranza su queste basi.

L’obiezione è facile: anche i 5Stelle accettano tutto pur di non andare a casa.

Io ero pronta ad andare al voto anche prima di formare i governi con la Lega e con il Pd. E sarei stata prontissima a tornarci se l’unica soluzione fosse stata la permanenza di Renzi in maggioranza. Dopodiché la Costituzione prevede elezioni ogni cinque anni, e non si cura delle ambizioni personali.

Il patto con Pd e LeU va rafforzato, anche in vista delle Amministrative?

Martedì ho visto una grande prova di lealtà e coesione da parte dei partiti. Ed è una buona base per i progetti futuri.

Ora però per reggere Conte dovrà varare un rimpasto, distribuendo poltrone, no?

Invece di parlare di rimpasto voglio affrontare le tante cose da fare, il consolidamento del governo e il piano di rilancio. Per quanto riguarda il M5S posso solo confermare che la nostra squadra fin qui ha lavorato bene e sta dando il massimo.

Si va avanti solo con Conte premier?

Lui è la sintesi di ogni mio discorso. È un’eccellenza, un cittadino che solo il Movimento poteva indicare per Palazzo Chigi.

Lo vorrebbe come leader del M5S?

Ne sarei onorata.

Bunga bunga addio: la badante di B. lavora “al progetto Conte”

“Qui bunga bunga, 2 del mattino, ti saluto…!”. La famosa intercettazione in cui Mariarosaria Rossi parla con Emilio Fede è tornata in mente a molti martedì sera, quando la senatrice forzista ha pronunciato forte e chiaro il suo “Sì!” al governo di Giuseppe Conte, lasciando sbigottiti i colleghi di partito, a partire dalla presidente Elisabetta Casellati, che ha strabuzzato gli occhi, nella bolgia infernale del voto di fiducia.

E quel “Sì!” è risuonato forte nella notte romana e ben oltre confine, nel sud della Francia, dove ha provocato una piccola fitta al cuore già malandato di Silvio Berlusconi.

Mariarosaria Rossi per circa 8 anni per Berlusconi è stata tutto: assistente, tenutaria dell’agenda, consigliera e amica. E pure tesoriera del partito e compilatrice delle famigerate liste elettorali. Chissà quanti dei suoi colleghi forzisti sono in debito con lei e quanti invece sono fuori per colpa sua. Con lei si è addirittura coniata una nuova categoria politica, quella della “badante”. Colei che tutto sa e (quasi) tutto può. L’ombra di Silvio Berlusconi, come oggi è Licia Ronzulli.

Il leader la vide per la prima volta in un video in cui, insieme alla sua amica Francesca Pascale, intonava a squarciagola “Menomale che Silvio c’èèè…”. Poi la conobbe di persona a un’iniziativa politica romana, in zona Cinecittà. E da lì non se ne staccò più: eletta deputata nel 2008, Rossi entra poco alla volta nell’inner circle berlusconiano, con la piena fiducia di Marina. Quando nel 2010 scoppia il finimondo del Bunga Bunga, con tutto il corollario di Noemi, Ruby e olgettine varie, viene coinvolta ma non in pieno, anche se poi è rinviata a giudizio nel processo Ruby-ter. Così, dopo l’addio di Veronica Lario, quando c’è da ricostruire l’immagine a Silvio, Marina si affida a Rossi, come assistente, e a Pascale, come fidanzata. Il cerchio magico cui poi si aggiunsero Alessia Ardesi e Deborah Bergamini.

Un potere assoluto che a volte la mette in contrapposizione con Denis Verdini e Gianni Letta. Lei, però, affronta tutte le situazioni col sorriso. “Il suo pregio è un’estrema simpatia”, racconta un senatore. E infatti era la spalla perfetta, alle cene più o meno eleganti, alle barzellette di Berlusconi. “Insieme facevano ridere fino alle lacrime”, si ricorda. E per tenere Berlusconi sempre più lontano dalle tentazioni e dai mille questuanti di Palazzo Grazioli, affitta pure un castello, quello di Tor Crescenza, di cui lei è la perfetta “zarina”.

Il quadro, però, va in frantumi in un caldo pomeriggio del giugno 2016, quando il leader ha un grave malore. Pascale e Rossi l’avevano portato a tre comizi in 24 ore. Pochi giorni dopo, l’ex Cav. subirà un importante intervento al cuore. Rossi si presenta al San Raffaele ma Marina non la fa entrare: “Siete due pazze, stavate per ammazzarlo, da oggi considerati licenziata!”. E Mariarosaria Rossi da quel dì entra nel cono d’ombra, sostituita dalla Ronzulli.

Un matrimonio alle spalle, un figlio e un’amicizia “speciale” col giornalista di Sky Claudio Calì, da almeno due anni in Senato dava segni di insofferenza. Anche se con Berlusconi si sentiva (e vedeva) ancora. Nel 2018 c’era stato un riavvicinamento: era spesso ospite a Villa Maria, dalla Pascale. Tra le ultime foto insieme, l’84° compleanno di B. La fine del rapporto tra Silvio e Francesca, però, l’aveva di nuovo allontanata. “Telefonava e nemmeno glielo passavano”, racconta un senatore. “Non la sentivo da un mese e mezzo”, ha detto ieri l’ex Cav. Il giorno della fiducia, Rossi sarebbe stata ricevuta a Palazzo Chigi dal premier. Le voci dicono che stia “lavorando al progetto Conte”. Insomma, una scelta anche politica. “Non mi ha sorpreso”, conferma Renata Polverini. E adesso nel partito sono terrorizzati da altre uscite. “Che succede in Forza Italia?”, ha chiesto ieri Matteo Salvini a Berlusconi.

Renzi voleva la crisi, fermato dai suoi: “Così non reggiamo”

Senato, 19 gennaio 2021. La maratona teatrale di 12 ore si risolve nel proscenio, nell’auletta del gruppo di Italia Viva. Matteo Renzi vorrebbe votare no e aprire la crisi, ma i suoi senatori gli fanno cambiare idea, sono pronti ad andarsene. Il resto è recita, una lunga serie di atti per lo più comici.

I – Ore 9.45 Giuseppe Conte entra in ritardo, parla poco più di un’ora, ripete in sostanza il discorso del giorno prima alla Camera. Riceve 31 applausi (blandi) e un’ovazione finale da Pd e 5Stelle. Parole definitive su Renzi: “Non si può cancellare quello che è accaduto”.

II – 11.00 Il senatore Tommaso Cerno, già renziano, antirenziano, dem e antidem, annuncia gaudioso ai giornalisti: “Torno al Pd e voto molto convintamente la fiducia a Conte”

III – 12.45 Si affacciano a Palazzo Madama Scilipoti e Razzi. Il primo: “È l’ora dei responsabili”. Il secondo: “Alla fine non cambia mai niente, ognuno si fa i cazzi suoi”.

IV – 14.17 Lezione di memoria e ironia di Sandra Lonardo, per i detrattori Lady Mastella: “Mai avrei immaginato di fare l’elogio della responsabilità di Salvini, che ruppe il patto con Forza Italia e Fratelli d’Italia e fece da costruttore per l’alleanza con gli odiati 5Stelle”. E poi “Meloni ieri ha parlato con disprezzo di una linea aerea della famiglia Mastella. Proprio lei che utilizzò il confortevole aereo Scilipoti per conservare il posticino di ministro nel governo Berlusconi”.

V – 17.35 Un idealista in cravatta verde di nome Matteo Renzi: “Conte mi ha offerto un incarico all’estero, ma ho detto no. Perderemo tutto? Forse sì. Per noi la politica non è cambiare idea per tenersi le poltrone”. Dietro le quinte si gioca tutto. Renzi riunisce i suoi, dopo aver parlato al telefono con Salvini e con Forza Italia. Ha deciso di schiacciare il tasto dell’atomica: votare no e giocarsi tutte le fiches sul ribaltamento di Conte. C’è un problema: i suoi senatori non gli vanno dietro, il gruppo rischia di spaccarsi. Renzi ripiega: alla prima chiama non si vota e si fiuta l’aria, alla seconda sarà astensione.

VI – 18.50 Parentesi lisergica del grillino Andrea Cioffi: “Lì, sulla superficie della foglia, nasce l’amore. Quando l’anidride carbonica entra nel verde e, ballando sotto i raggi del sole, ebbra del suo calore, si divide, lasciando l’ossigeno libero di volare e il carbonio libero di riunirsi, insieme agli altri convitati alla festa, per definire una meravigliosa collana”.

VII – 19.30 Un altro idealista di nome Matteo, con una sciccosa mascherina della Lega, cita una frase di Beppe Grillo: “I senatori a vita non muoiono mai, o muoiono troppo tardi”. Liliana Segre ringrazia.

VIII – 21.21 Doppio colpo di scena nella prima chiama: votano sì i forzisti Andrea Causin e Mariarosaria Rossi, un tempo nota come “la Badante” (di Berlusconi). L’ex grillino Mario Michele Giarrusso, eroe dell’antimafia e delle braciate di carne, vota no, nonostante le parole di Conte su Borsellino pare fossero dedicate a lui.

IX – 22.15 Casellati chiude la seconda votazione, ma – teatro – restano fuori, arrivati in ritardo, i senatori Riccardo Nencini (renziano, ultimo custode del socialismo italiano) e Alfonso Ciampolillo detto Lello (ex grillino, candidato sindaco a Bari nel 2009: 767 voti). Che fine avevano fatto? Qualcuno giura che si fossero attardati per parlare con Conte in persona. Specie Ciampolillo desta preoccupazione: il suo sì era dato come acquisito. Gli ex colleghi grillini lo insultano nelle chat: dove cazzo sta? I due riemergono e vogliono votare. Con sprezzo del ridicolo, Palazzo Madama inaugura il Var: la presidente Casellati studia i video della seduta con i questori. La richiesta è arrivata alle 22.14 – sostiene –, un minuto prima del triplice fischio. Nencini e Ciampolillo votano la fiducia. Il pallottoliere si aggiorna: 156 sì, 140 no, 16 astenuti. Dal Senato per ora è tutto.

“Troppa enfasi”: il silenzio-assenso (irritato) del Colle

Fastidio, se non irritazione vera e propria. La ressa mediatica attorno alla fatidica salita dell’Avvocato al Colle ha provocato una dura reazione del capo dello Stato. E così, contrariamente alle consuetudini seguite in questi anni, Sergio Mattarella non ha voluto far trapelare nulla del colloquio con Giuseppe Conte, nella prima serata di ieri. Un incontro breve, nemmeno un’ora, all’indomani della tormentata due giorni della fiducia in Parlamento. Il premier ha aggiornato il presidente sullo stato dell’arte delle trattative per reclutare i “Costruttori” e varare la quarta gamba di centro al posto dei renziani di Italia Viva. Di qui il riserbo di Mattarella, forse venato pure di qualche imbarazzo in queste ore frenetiche di trasformismo a fin di bene.

In ogni caso, come fanno sapere fonti di governo, il capo dello Stato non avrebbe posto condizioni. E questo silenzio-assenso, allora, non fa che confermare il sostanziale sì del Colle all’operazione condotta nel pieno rispetto di una Repubblica parlamentare. Una svolta maturata esattamente una settimana fa, dopo la decisione di Renzi di ritirare le sue due ministre dall’esecutivo. Fino a quel momento l’irritazione era stata tutta per il premier e la sua scelta di mandare un ultimatum a Italia Viva, “se rompe mai più con loro”. Al punto da far esporre sia il Quirinale sia il segretario del Pd Nicola Zingaretti per chiedere e ottenere una retromarcia da Conte. Ma quando poi Renzi è andato avanti lo stesso, il capo dello Stato ha sostenuto il premier nella sua decisione di cercare una nuova maggioranza con i “Costruttori” in sostituzione di Italia Viva. Certo, contano i tempi ovviamente. Da settimane, ormai, Mattarella chiede di fare presto e di non distogliere energie dalla lotta alla pandemia, al centro del suo ultimo messaggio di San Silvestro. Ma forse proprio i tempi sono l’incognita maggiore di questa operazione. Spacchettare ministeri per moltiplicare le poltrone è una mossa faticosa oltre che ardita. Occorre ascoltare, trattare e poi incassare il sospirato sì dell’interlocutore di turno. Riuscirà Conte a fare tutto entro pochi giorni, prima che finisca il mese di gennaio? E soprattutto quale sarà la solidità del gruppo dei volenterosi o responsabili? Mattarella nei giorni scorsi ha osservato con fastidio la fake news dominante su giornali, tiggì e talk sull’esistenza di una maggioranza assoluta al Senato, la famigerata quota 161. A differenza del suo predecessore “monarchico”, il presidente ha svolto sinora il suo mandato con realismo democristiano (non interventista) e cercando di interpretare al meglio il ruolo di arbitro. Le sue preoccupazioni sono quelle di avere una maggioranza autosufficiente, non raccogliticcia, in grado di sostenere il più grande piano di ricostruzione e rilancio economico, il Recovery Fund, in settant’anni di Repubblica.

E se Conte dovesse fallire non c’è alternativa a un governo elettorale che porti al voto in primavera o in estate, prima che scatti il semestre bianco agli inizi di agosto (cioè gli ultimi sei mesi del mandato presidenziale, quando il capo dello Stato non può sciogliere le Camere). Anche questo, probabilmente, Mattarella spiegherà ai tre leader del centrodestra che hanno chiesto con insistenza di avere un colloquio: Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani. Tra le ipotesi della crisi più di una volta si è parlato di un esecutivo di destra con l’appoggio di Italia Viva e di un altro manipolo di responsabili, gli anti-Costruttori. Solo velleitarismo: anche perché i due maggiori leader dell’opposizione, Salvini e Meloni, non hanno mai fatto una richiesta del genere al Quirinale. L’hanno detto solo a uso e consumo di tg e talk, nel solco di una propaganda populista fine a se stessa, ma mai presa in seria considerazione. Non resta che aspettare, quindi, la fine delle trattative di Conte con centristi e ribelli di Italia Viva.

Costruttori nel pantano: il Psi non cede il simbolo

Al senatore dem di lunga data che scorre sul telefonino i lavori di aula e commissioni, quasi viene un mancamento. Nei prossimi dieci giorni a Palazzo Madama, dove i renziani sono l’ago della bilancia in 10 commissioni su 14, arriveranno il Recovery Plan e il decreto Ristori (commissione Bilancio) dove i senatori di Italia Viva potrebbero già mettere in difficoltà il governo. Ma a preoccupare gli sherpa Pd e M5S che hanno iniziato la caccia ai “volenterosi” è una data segnata in rosso: mercoledì 27 gennaio. Quel giorno, prima alla Camera e poi al Senato, sarà messa ai voti la relazione di Alfonso Bonafede sulla Giustizia e ieri il renziano Luciano Nobili ha annunciato che Iv voterà contro. Il governo non ha problemi alla Camera mentre al Senato potrebbe andare sotto. Senza pensare che il patto dei due Matteo siglato martedì sera per scatenare “il caos” al Senato potrebbe partire già dalla conferenza dei capigruppo, dove la destra e i renziani hanno la maggioranza.

Sicché è scattata la corsa contro il tempo dei pontieri per provare a trovare altri “costruttori” che si aggiungano ai quattro – Nencini, Ciampolillo, Rossi e Causin – che martedì sera hanno votato la fiducia. L’operazione è a tenaglia. Da una parte c’è il Pd con Base Riformista che sta provando a far tornare a casa 4-5 senatori di Italia Viva, dall’altra Palazzo Chigi e Dario Franceschini che stanno dando l’assalto ai centristi di Udc e Forza Italia. La prima è un’operazione di corteggiamento che va avanti da giorni e i dem sono convinti di convincere Eugenio Comincini (“Senza ricucitura tra Iv e governo non andrei all’opposizione” diceva martedì), l’ex Ds Leonardo Grimani ma anche Mauro Marino, martedì assente per Covid. Probabile il rientro di Annamaria Parente, con cui il Pd recupererebbe la presidenza della commissione Sanità e Nadia Ginetti.

Da Chigi invece è partito l’assalto per recuperare i voti del centrodestra. In primis i tre senatori dell’Udc (Antonio De Poli, Paola Binetti e Antonio De Poli), ma il segretario Lorenzo Cesa pretende un ministero di peso, come la Famiglia. Binetti cita il Papa: “Si è messo in moto un processo”. Ma le condizioni sono tante: “Vediamo se Conte vuole allargare la squadra e venirci incontro sui temi: più fondi sulla disabilità e no a legge su eutanasia e liberalizzazione delle droghe”. Un sentiero stretto. Ma la vera sorpresa potrebbe arrivare da FI: dopo Rossi e Causin, si parla di altri 4-5 uscenti tra cui Sandro Biasotti, Maria Carmela Minuto e Luigi Vitali.

Se alla Camera il federatore dei “costruttori” è Bruno Tabacci, al Senato questa figura latita: il socialista Riccardo Nencini potrebbe diventarlo solo nel caso in cui accettasse un posto di governo. Ma dovrebbe togliere il simbolo ai renziani mandandoli nel Misto e per ora non sembra intenzionato a farlo. E allora, nella maggioranza, torna con forza il nome di Gaetano Quagliariello di “Cambiamo!”, citato da Conte nella replica di martedì e avvicinato da diversi ministri. Lui per il momento resta fedele ai totiani, ma potrebbe avere un peso quando si tornerà a parlare di legge elettorale e riforme costituzionali.

Conte: “Rimpasto in sette giorni”. La contromossa per chi tentenna

Vuole e deve accelerare, chiudere la partita della nuova maggioranza entro sette, massimo dieci giorni. Con un rimpasto, ma senza un Conte ter, cioè senza le sue dimissioni. E vuole segnali concreti di vita, dal suo governo. “Ora dobbiamo fare la differenza”, scandisce il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, durante il breve vertice con i capidelegazione e i leader dei partiti di maggioranza a Palazzo Chigi, prima di salire in serata al Quirinale. Il premier è provato da giorni e giorni di battaglia logorante, ma anche “tranquillo e concentrato” assicurano fonti di governo. Sa che nei prossimi giorni si gioca tutto per l’ennesima volta: il voto di fiducia delle Camere non basta a garantire la sopravvivenza del suo governo, ora serve un’operazione politica.

E così, nella riunione, il premier e i partiti fanno il punto, convenendo sulla necessità di “rafforzare e allargare” la maggioranza e di farlo il più rapidamente possibile. Sanno che Renzi li aspetta al varco. Secondo fonti del M5S, il capo di Iv avrebbe detto ai suoi parlamentari di resistere ancora dieci giorni, “perché li bloccheremo nelle commissioni e poi dovranno tornare da noi”.

Per questo Conte si è dato una settimana, perché il tempo stringe su più fronti. Mercoledì prossimo il Senato vota sulla Relazione annuale della Giustizia del Guardasigilli grillino Bonafede, e Iv ha già annunciato voto contrario. A Palazzo Chigi sono convinti di poter superare anche questo scoglio, ma è un altro test ad alta tensione. Senza contare che è tutto fermo, mentre la data fissata per presentare il Recovery Plan italiano alla Commissione europea è la metà di febbraio. Dunque bisogna formare i nuovi gruppi parlamentari dei Responsabili alla Camera e al Senato, la quarta gamba per sostituire Iv. E continuare a cercare di conquistare parlamentari alla causa, in modo il più possibile organico. “Lavoriamo su tutti i fronti” dicono dal governo. Ma l’operazione politica più importante è quella nei confronti di Forza Italia. Ci sta lavorando direttamente Conte, insieme a Dario Franceschini. E l’interlocutore numero uno è Gianni Letta. Oltre alla sopravvivenza dell’esecutivo, in gioco per il premier c’è la possibilità di fare una propria lista, mentre per il Pd l’obiettivo è portare a casa quella coalizione elettorale anti-sovranista teorizzata da Goffredo Bettini fin dalla nascita del governo giallorosso. Ma sul tavolo ci sono anche gli equilibri dentro l’esecutivo, dopo giornate molto nervose nella maggioranza. I Cinque Stelle più volte hanno richiamato gli alleati ad agire con più forza sui renziani per riportarli nel Pd. Anche per questo i dem ieri ci tenevano a ribadire lo sforzo fatto da loro. Il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio, da giorni sottolinea di aver portato sul sì l’intero gruppo dem (anche gente come Luciano Pizzetti che non aveva mai votato una fiducia) e di aver recuperato i renziani Vito De Filippo e Michela Rostan, oltre a Renata Polverini. Per quel che riguarda il Senato, plurime fonti dem raccontano che il capogruppo Andrea Marcucci ha lavorato per settimane su Riccardo Nencini, che conosce da sempre. Sono proprio Marcucci e Delrio, due tra i più critici nei confronti del premier, tanto da insistere per un Conte ter. Ma su questo il premier non vuole ancora cedere. Punta ancora a un rimpasto limitato, con la creazione di qualche posto in più. Operazione che appare difficile, vista la necessità di ricompensare i “Costruttori”, e le richieste pressanti del Pd.

L’idea di Palazzo Chigi è quella di procedere anche con lo spacchettamento di alcune deleghe. Voci insistenti assegnano il ministero dell’Agricoltura a Nencini. L’ex Iv continua a negare di voler togliere il simbolo a Renzi, ma se lo facesse, con l’ingresso dei suoi nel Gruppo Misto e la conseguente redistribuzione nelle commissioni, depotenzierebbe di molto il potere di ricatto dell’ex premier. E poi un posto per il dem Andrea Orlando va trovato, dicono. Si parla anche di quello di sottosegretario a Palazzo Chigi, in sostituzione di Fraccaro, che però è sostenuto da Conte.