Per prima cosa, vorrei ricordare in quale situazione si sono trovati l’Ordine Nuovo e Gramsci a Livorno, e dopo Livorno. Bisogna risalire un po’ più lontano, al momento in cui la rivista dell’Ordine Nuovo nasce. Se si leggono, per esempio, con un po’ di attenzione i primi numeri della rivista si trova un articolo di Gramsci – che fu allora oggetto di lunghe discussioni – in cui Gramsci fa un quadro del Partito Socialista Italiano con piena fiducia; illumina il valore storico di questo partito, l’opera compiuta dai socialisti nella formazione delle leghe di braccianti, dei sindacati operai, delle cooperative, delle migliaia di sezioni socialiste, di circoli operai; (…). E Gramsci conclude: “Questo Partito ha dietro di sé delle forze immense, ha conquistato attorno ad alcune delle sue personalità la fiducia di masse intere di popolazioni”.
Un partito al 30%
(…). Tutto questo vi dico perché vorrei che aveste un quadro un più esatto di quella situazione. Un Partito che aveva tutte quelle forze, che otteneva più del 30% dei voti alle elezioni, che aveva anche nelle campagne, soprattutto dell’Emilia (…) delle forze notevoli e un fiorire di istituzioni proletarie, un Partito così non era facile pensarlo spaccato, diviso, abbandonato come una cosa senza valore. Difatti, a conclusione di quell’articolo – a cui io accennavo – Gramsci dice: “Rompere l’unità di un simile Partito sarebbe un delitto, sarebbe un danno per la classe operaia e per tutta la popolazione lavoratrice italiana”. Questo il concetto da cui Gramsci parte, nel ’19, il 1° maggio 1919, quando crea l’Ordine Nuovo: il Partito Socialista è il Partito dei lavoratori italiani; non il vero partito della classe operaia inteso in senso marxista: chiaro, preciso, colto e ben indirizzato, ma rappresenta i lavoratori italiani. Si tratta, diceva Gramsci, di rinnovarlo. Rinnovarlo in relazione alla situazione nuova che la stessa guerra ha creato, che ha dato slancio a tutta la produzione industriale, a tutta la parte operativa, laboriosa della nazione; che ha portato una coscienza nuova nella classe operaia, costruita nelle nuove fabbriche con la nuova organizzazione, col nuovo modo di lavoro, all’interno stesso delle fabbriche. Bisogna rinnovare il Partito riportando nel Partito il marxismo, la nostra dottrina; e dando al Partito una meta ben chiara, che sia il Socialismo.
Il sol dell’Avvenire
(…) Ora, diceva Gramsci, questo non è un Partito: è una disgregazione (…). La destra tendeva a inserirsi nel governo per attuarvi qualche riforma senza modificare il sistema; parlava chiaro in tal senso (…). Il centro massimalista proclamava sempre la rivoluzione in modo rumoroso, in modo molto estremista rispetto a noi ordinovisti e rispetto anche allo stesso Bordiga; era estremista nelle formulazioni; ma concepiva la rivoluzione come “il sol dell’avvenire”, molto lontana e molto indefinita. E c’era la sinistra; la quale non era unita, perché formata da elementi eterogenei, intorno a Bordiga. Anche Bordiga, bisogna inquadrarlo nel suo tempo e nella sua situazione; viveva a Napoli, il socialismo a Napoli era molto diverso dal socialismo di Torino (…). Un contatto con la classe operaia, diretto, Bordiga non l’aveva mai avuto, né conosciuto; era entrato nel Partito partendo dalla conoscenza teorica del marxismo, innamorato del marxismo; delle sue formule matematicamente ordinate nella sua mente (…). Secondo lui la rivoluzione maturava negli eventi, nello sviluppo della situazione. Ciò che occorreva – pensava – era l’esistenza di un Partito non maggioritario, ma un partito di quadri, centralizzato, basato su una disciplina ferrea, con un’organizzazione di tipo militare; preparato spiritualmente e materialmente al momento della lotta violenta per la conquista del potere. Questa era la definizione che Bordiga dava del Partito. Egli non vedeva nella rivoluzione un processo che si compie – come diceva Gramsci – quotidianamente, in modo continuo, attraverso la lotta di ogni giorno, in ogni situazione, e che ha alla sua testa la classe operaia con la sua avanguardia, ma al suo seguito l’insieme della popolazione che lavora nelle città e nelle campagne.
Diverso era il concetto di Partito per Gramsci: il Partito Socialista è il partito della classe operaia; un Partito – diceva Gramsci – che ha autorità non perché ha una gerarchia stabilita, ma perché ogni operaio, nel momento in cui sostiene una lotta, sa che quella lotta avviene in quanto risponde al pensiero che è il pensiero del suo Partito. Cioè il partito diventava – per Gramsci – la sintesi di tutte le aspirazioni della classe operaia. (…).
La frazione comunista
Dopo la guerra avvengono movimenti non da poco (…). Tutti i moti a cui ho accennato erano ormai caduti nel vuoto: il movimento dei contadini era finito. Lenin diceva: Se almeno il Partito Socialista fosse riuscito a indicare qualche meta intermedia; liquidare nel Mezzogiorno il latifondo, sarebbe già stato un passo avanti. Il Partito Socialista aveva lasciato cadere nel vuoto tanto il movimento dei contadini come i grandi moti popolari contro il carovita, contro i pescicani, i profittatori della guerra, per la confisca dei profitti esagerati che i produttori per la guerra avevano accumulato. (…). Gramsci giudicò chiuso il momento di possibile sviluppo rivoluzionario; l’ondata – diceva – è crollata; la fiducia degli operai è spezzata. (…).
Gramsci pensò alla costituzione della frazione comunista che, di fatto, si costituì prima ancora che a Imola, nella riunione di Milano in cui si incontrarono Bordiga, Gramsci, Graziadei, alcuni elementi della sinistra massimalista; e avvenne una discussione generale e programmatica. (…).
Ma, a Milano, Gramsci comprese – come ebbe poi a raccontarmi – in quale situazione veniva a trovarsi l’Ordine Nuovo. (…).
A Milano egli capì che l’Ordine Nuovo nella frazione comunista sarebbe stato un gruppo ristretto rispetto alla forza che era già un partito nel partito: la frazione di Bordiga. Gramsci non ruppe con Bordiga, né si oppose al programma proposto da Bordiga – che sarà il programma della frazione –; e dove del pensiero di Gramsci non c’è quasi niente. (…) Correggere in senso gramsciano quel Programma non era possibile. Si trattava di un’impostazione fondamentalmente diversa. (…) Per Bordiga esisteva soltanto la lotta violenta per la conquista del potere nel momento in cui la società capitalistica è arrivata al suo crollo, alla catastrofe; allora l’avanguardia – se così, nel suo senso, può chiamarsi – il partito armato e preparato, conquista il potere e instaura il Socialismo. Ora con due impostazioni così opposte, con Gramsci che si proponeva di partire dalla fabbrica per creare i primi germi della sovranità del lavoro, e Bordiga che aveva quell’altra visione era difficile concordare un programma; o correggerlo. Bisognava o accettare di lavorare con Bordiga o rinunciare a formare il nuovo partito.
Era un programma di grande responsabilità in quel momento; e Gramsci lo risolvette decidendo che bisognava fare il partito, fare il partito con Bordiga. Bordiga aveva già l’impianto del partito nelle mani; era un impianto che aveva una sua impronta, rivoluzionaria, di questo non c’era dubbio. (…) Quale era l’illusione di Gramsci? Che nel lavoro comune, nell’azione politica concreta, Bordiga sarebbe uscito dal suo astratto e chiuso schema politico e sarebbe stata possibile con lui una collaborazione. (…). Purtroppo non fu così. (…). Soprattutto il dissenso diventa decisivo e porterà alla rottura, quando in Italia si instaura il fascismo. Il fascismo si instaura in Italia mentre Gramsci è a Mosca, da alcuni mesi a rappresentare il Partito nel Comitato esecutivo dell’Internazionale. Anch’io ero a Mosca in quei giorni: ero delegata al Quarto Congresso dell’Internazionale Comunista che doveva avvenire a novembre. Bordiga era ancora a Roma.
A Mosca ci raggiunse la notizia che Mussolini aveva avuto dal Re l’incarico di formare il governo. (…) Arrivò Bordiga. Tutti l’aspettavamo per avere da lui notizie dirette dei fatti. Ci guardò sorpreso: “Ma perché discutete tanto su queste cose?”. Ripeteva le sue categoriche affermazioni: “Che cos’è il governo di Mussolini? È un governo borghese, è la dittatura della borghesia, come il governo Giolitti, come il governo di Bonomi, o di Facta, che l’hanno preceduto; non pone nessun problema nuovo al Partito Comunista, né alla sua politica, né alla sua tattica”.
Dissenso sul duce
La discussione di Gramsci con Bordiga fu lunga e approfondita, io ne fui quasi sempre testimone.
Era uno scontro fra due posizioni inconciliabili: l’una, negazione di ogni azione politica concreta; l’altra, il seguire le situazioni, la realtà delle situazioni per adeguarvi la politica, la tattica e l’azione. Non era possibile un accordo fra quelle due posizioni.
Io ebbi anche un breve incontro con Lenin insieme con Bordiga. Bordiga a Lenin fece la stessa esposizione – con lo stesso commento, che aveva fatto a noi – dell’avvento del governo fascista in Italia; Lenin ne fu – mi parve – molto meravigliato; quando ci salutò ci disse: “Cari compagni, voi avrete una situazione molto difficile, che durerà un tempo lungo e duro; bisognerà non perdere mai il contatto con la realtà”.
Io pensai che Lenin, da Mosca, malato com’era, si rendeva conto come Bordiga non fosse riuscito a rimanere in contatto con la nuova realtà. Lenin ci disse ancora: “Non perdete mai il contatto con gli operai, con i contadini italiani, qualunque sia la situazione”.