Ho visto cose…

Quelli che “Renzi guarda al Pd: magari si convincono a scaricare Conte” (Corriere) e invece il Pd scarica lui.

Quelli che arriva il governo Draghi, anzi Cottarelli, anzi Cartabia, anzi Franceschini, anzi Di Maio, anzi Guerini (tutti i giornali) e invece niente, un’altra volta.

Quelli che invocano costruttori (Conte e i giallorosa) e si ritrovano in casa i muratori.

Quelli che “il governo di scopo anche col centrodestra”, anzi “di unità nazionale” (Francesco Verderami, Corriere), e vabbè.

Quelli che “un governo di scopo con un altro premier” (Pisapippa) e nessuno se li fila.

Quelli che “Rosato e Boschi ministri”, “Boschi alla Difesa” (Corriere), “Boschi, rientro quasi certo” (Messaggero) e ne avessero azzeccata una.

Quelli che “Giuseppi si illude di restare, ma lo scontro è su di lui” (Minzolingua), “Sul Conte sventola bandiera bianca” (Verità), “Conte fa testamento”, “Conte al capolinea”, “Ciaone Conte” (Giornale), e ciaone a loro.

Quelli che “La triade Conte-Casalino-Travaglio l’ha presa in quel posto. Mattarella e il Pd hanno abbandonato Conte” (Dagospia) e certo, come no.

Quelli che “Salvini sicuro: in arrivo altri senatori dal M5S” (Repubblica) e non ne arriva mezzo.

Quelli che “La crisi può aiutare Renzi a tentar la scalata alla Nato” (Domani) e appunto. Domani.

Quelli che “Renzi indica problemi veri” con “critiche inappuntabili” (Domani) e appunto, Domani.

Quelli che “ricucire con Renzi” (Fabrizio Cicchitto fu Licio) e “recuperare Renzi” (Piercasinando) e invece niente sarte e niente Muccioli.

Quelli che “Renzi: io rischio l’osso del collo, bisogna stare compatti come una falange” (Corriere) e poi glielo spiega Nencini il concetto di falange.

Quelli che, con l’aria di chi dice una cosa originalissima, “se sommassimo gli astenuti ai contrari sarebbero più dei favorevoli” (rag. Claudio Cerasa) e se poi sommassimo pure gli abitanti di Tor Tre Teste e tre quarti della palazzina sua, sarebbe proprio una débâcle.

Quelli che “non abbiamo un Recovery Plan e gli altri hanno già fatto i bandi” (Alessandro De Angelis) a un allibito Orlando che domanda chi, dove, quando, de che, in quale film.

Quelli che “La politica parla a se stessa e non più al Paese” (Marco Follini, Stampa) e prima di passare al Pd facevano il vicepremier di Berlusconi.

Quelli che leccavano i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni con Forza Italia al gran completo o a rate alfaniane e verdiniane (giornaloni tutti) e ora fanno le faccine schifate per la Rossi e la Polverini.

Quelli che governavano grazie a De Gregorio, Razzi, Scilipoti&C. (Meloni, confratelli d’Italia e Lega) e strillano ai nuovi De Gregorio, Razzi e Scilipoti perché quelli vecchi erano meglio.

Quelli che per vent’anni erano alleati dei Mastella (FI, Lega e FdI) e ora ululano “Mastella! Mastella!”, per nostalgia.

Quelli che “Mi voleva Mastella, ho detto no” (Calenda), poi scoprono che sono eurodeputati.

Quelli che “Comunque la si pensi, Renzi l’ha giocata bene fin qui” (Gaia Tortora) e intanto gli medicano la mandibola sghemba e il naso rotto perché ha dato una lezione a Conte con una botta col mento sul pugno e una nasata sul ginocchio.

Quelli che “Conte con questi numeri è finito”, “Chiunque si dimetterebbe”, “Spera di governare con 152 voti al Senato”, “Conte ha 153 voti”, “Sotto i 155 per dignità dovrebbe dimettersi”, “Mi azzardo a dire che stasera Conte è politicamente morto”, “Renzi

ha fatto, coi mezzi dati nella situazione, la battaglia giusta. Riconosciamolo”, “È la stagione della mitomania” (Jacopo Iacoboni, Stampa), ecco appunto.

Quelli molto di sinistra che stravedono per la Bonino che è molto di sinistra, infatti fa perdere la sinistra, vota sempre come la destra e, se serve, ci fa un giro.

Quelli che volevano riaprire l’Italia il 28 marzo, col record dei morti perché gliel’avevano chiesto i morti medesimi (l’Innominabile), e ora rinfacciano a Conte il record dei morti.

Quelli che “senatori contattati da generali della Finanza, amici del capo dei servizi segreti Vecchione, arcivescovi e monsignori vicini al card. Bassetti” (Massimo Giannini, Stampa)… ah è falso? Eppure me l’ha detto mia zia.

Quelli che al governo Conte “serve un rilancio”, “una svolta”, “un cambio di passo”, “una scossa”, “un’anima”, “una visione”, “un nuovo patto”, “una ripartenza” (Pd e giornaloni) e non capiscono perché il Paese non capisce.

Quelli che “il governo è morto e al Colle farò il nome di Draghi” (Innominabile) e neanche li han fatti salire, al Colle.

Quelli che “entro lunedì mandiamo a casa Conte” (Innominabile) e invece martedì a casa ci sono andati loro.

Quelli che “un governo Giorgetti di ricostruzione” (Giachetti) e sono ancora lì con la paletta e il secchiello in mano.

Quelli che “Conte accerchiato non cede su nulla”, anzi “Conte pronto a cedere su tutto”, “Subisce la lista della spesa, obbedisce a Iv sui fondi Ue e dà gli 007 al Pd” (Giornale) e non ne azzeccano una neppure se dicono tutto e il suo contrario.

Quelli che “ora il governo è più debole di prima” (tutti), perché non sono più abituati a un governo senza i due Matteo.

Twitch, il social per “under 25” sempre incollati allo schermo

Twitch, “la tv di domani”. Twitch, “il futuro dell’intrattenimento digitale”. Twitch, diventa broadcaster di te stesso. Parliamo della piattaforma di live streaming del momento, con una media di 26,5 milioni di spettatori al giorno e oltre 6 milioni di creator (artefici di contenuti) unici: la loro età media oscilla tra i 16 e i 25 anni. E il 2020, complice il confinamento domiciliare di massa, è stato l’anno del boom. Anche fuori dagli Stati Uniti. Per esempio, in Italia. Nato nel 2011 come costola di Justin.tv, Twitch è stato rilevato da Amazon nel2014 per quasi un miliardo di dollari. I gamer, i player professionisti restano i mattatori della scena, con le riprese in tempo reale di sessioni interminabili di partite ai videogiochi e agli eSport. Dal chiuso delle loro asfittiche e ipertecnologiche camerette-mondo, ammanniscono ai propri devoti fluviali dirette paratelevisive che manco Fidel Castro negli anni settanta. E si inquadrano ossessivamente mentre gareggiano a Fortnite, Fifa 2021, Call of Duty. Più presidiano con joypad e piglio militare il video, più gli streamer piacciono, generano “community”. Ma Twitch sta mutando un po’ pelle e spalanca i cancelli alla musica, al fitness, al cibo, alle chiacchiere raminghe, agli spoileratori di serie tv, alle challenge.

Certo, proliferano i casi di chi sta a narrare per ore su come andrebbero spacchettate le figurine dei Pokémon o socializza le sue reazioni istintive (live reaction) durante il posticipo calcistico della domenica sera. E anche qui gatti e tatuaggi funzionano tantissimo. Alcuni cercano di cavarvi qualche profitto, grazie alle donazioni dei fan e alla vendita diretta di giochi. Qualcuno è diventato una star, come POW3R, al secolo Giorgio Calandrelli, gran maestro del gaming e 1 milione e 66 mila follower. La grande maggioranza invece galleggia, comprensiva di opinionisti, battutisti, avventurieri virtuali e cosplayer. Ogni tanto entrano in Twitch pesi massimi della politica: Bernie Sanders ci ha trasmesso comizi e Trump è stato bannato persino da lì. E si scorgono membri di spicco della classica società dello spettacolo: da Drake al pilota di formula 1 Charles Leclerc, da Fedez a Christian Vieri con la sua BoboTv, tra talk e sketch con gli amici. E non mancano gli utenti anziani, archeo-smanettoni. Roba da baby boomer, altro che la generazione Z. Un esempio tra i tanti è tal Jenyfear, seguita da 50 mila persone. Svedese, pasionaria di World of Warcraft, è un’ex infermiera di 69 anni. Un modo, come tanti, per scacciare la solitudine contemporanea. Solo che così si finisce per vivere in una specie di eterno e indolente interno giorno. Come in un lockdown permanente. È il nuovo bello della diretta. Distanziati e “in sicurezza”, ma barricati in casa, a streammare su Twitch.

“Il Monello” e il Vagabondo sono abbracciati da 100 anni

A100 anni da Monello. 21 gennaio 1921, la prima del primo lungometraggio di Charlie Chaplin, oltre sessanta minuti, pari a sei rulli di pellicola: davanti alla Carnegie Hall di New York c’è una ressa inimmaginabile oggi, al netto delle sale chiuse. Rimarrà in cartellone per mesi, sospinto – caso più unico che raro nella sua carriera – dal favore unanime della critica e dal plauso incondizionato del pubblico: The Kid, da noi Il Monello, era santo subito, pardon, capolavoro istantaneo. Santo laico, e anarchico, era Charlot, nei panni sdruciti del Vagabondo. Uno che il bene decideva di farlo, senza aver eluso l’orrore, anzi, sobbarcandoselo, ché il ritrovamento del monello (Jackie Coogan) non è epifania di bontà, ma precipizio morale: prima l’uomo prova ad abbandonare il fagotto vicino all’immondizia, poi a mollarlo a una madre, quindi a gettarlo nel tombino.

Nessuna paura, il vagabondaggio di Chaplin, che pure era già andato, con Vita da cani e Charlot soldato, oltre il cortometraggio, voleva il passo lungo, e i minuti sono condizione necessaria, ma non sufficiente. “Un film con un sorriso – e, forse, una lacrima”, dichiara la prima didascalia, e quel sorriso lacrimevole taglierà il genere slapstick come un coltello: l’emozione è azione, il sentimento drammaturgia, sicché le comiche trovano l’umano, il comico l’umanesimo. Chaplin non ha solo abilità ed empatia per catalizzare questa rivoluzione di registro e genere, bensì l’autobiografia: un padre assente, una madre malata psichiatrica, un fratello, Sydney, simbiotico, l’orfanotrofio per domicilio iterato. Il monello c’est lui, crudeltà e abbandono sono i segni particolari sulla carta d’identità, insomma, sa quel che mette in scena, e come: i benefattori, i filantropi stanno altrove, gli sono alieni per censo e estrazione, se il Vagabondo accetta di prendersi carico del Monello sarà, e così è, con una scrollata di spalle. Due contro il destino, due contro il Sistema: poliziotti e burocrati sono d’abitudine i cattivi, perché umanisti si cresce ma antisociali si nasce, e Chaplin non ha alcuna remora a professarvisi. Melodramma, comicità e anarchismo vanno a nozze, e il Vagabondo è sposo, sposa e prete insieme. Solo lì, nella finzione, giacché nella vita reale sta divorziando dalla prima moglie, Mildred Harris, e nel peggiore dei modi: i legali minacciano di pignorargli tutti i beni, Il Monello compreso, sicché con il fedele collaboratore Roland “Rollie” Totheroh deve partire in fretta e furia da Los Angeles e cambiare città, prima Santa Fe e poi Salt Lake City, trasportando i negativi originali del film in alcuni barattoli di caffè. Meta finale New York, con conseguenze potenzialmente esplosive: “Noleggiammo un furgone per andare a ritirare i negativi. Ricordo – dichiarò Rollie a Film Culture nel 1972 – che era ora di punta e stavamo attraversando il ponte per arrivare nel New Jersey quando sentimmo un odore fortissimo di nitrato. (…) Aperte le scatole ci rendemmo conto che, soprattutto quelle sul fondo, erano pronte ad esplodere. Sarebbe potuto succedere sul traghetto…”. Per fortuna, sarebbe deflagrato sullo schermo, infrangendo tanto i vetri – l’indimenticata mala educación impartita dal Vagabondo al Monello – quanto il pregiudiziale diaframma tra comico e drammatico, gag e riflessione: sarebbe rimasto il più grande successo di Charlie Chaplin, e tra i suoi film migliori. Ancora oggi, a distanza di un secolo, ché ha saputo toccare cuore e archetipi, e se al primo non si comanda, i secondi non vanno in prescrizione.

Non c’è solo poesia, ma grammatica nel Monello, il grado zero del capolavoro cinematografico. E possiamo riscoprirlo con filologica precisione: sulla piattaforma “Il Cinema Ritrovato fuori sala” della Cineteca di Bologna c’è il restauro del film, realizzato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata, con la colonna sonora eseguita dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, recuperando la partitura originale di Chaplin, finalmente alla giusta velocità. Fatevi sotto.

 

L’Italia, che grande Shaw

Pubblichiamo stralci di “Carne di cannone”, uno dei cinque scritti inediti di George Bernard Shaw in “Appunti d’amore e di guerra”, da domani in libreria con Mattioli 1885.

In una bella giornata, sul finire dello sfortunato e famigerato diciannovesimo secolo, mi ritrovai sul Lago di Como, col corpo che si crogiolava nel sole italiano e nel colore italiano, e la mente nervosamente concentrata sugli svantaggi umani di tutta quella meraviglia.

Eccola là, al suo meglio, la bellezza italiana, che riempie di passione gli uomini di ogni nazione, sia che l’Italia sia la loro terra oppure no. Vale milioni, questa bellezza, eppure si mostra per niente, ai probi e agli improbi, ai ricchi e ai poveri. Svaluta se stessa a tal punto, che, in effetti, il lavoratore italiano, mentre aspetta di afferrare la nostra gomena intanto che noi sfioriamo i pali al porto di Cadenabbia, non la guarda neppure: pensa di valere di più, anche se non di molto; per esser precisi, un penny all’ora, così che, nel tormentato campo dell’industria, un portuale di Londra ne vale sei italiani…

Sono in piedi sul ciglio di una specie di ponte degli uragani, guardando in basso, verso la folla povera o frugale sul ponte principale. Tra di loro ci sono uomini che viaggiano in terza classe perché non ce n’è una quarta. Io viaggio in prima perché non c’è una doppia prima. Accanto a me, a guardare il lago per motivi artistici (così immagino, ma è possibile che lui pensi lo stesso di me) c’è Cosmo Monkhouse, che riceverà presto i suoi annunci mortuari, come funzionario pubblico per necessità, e come appassionato amante delle arti per scelta, e anche un po’ un poeta. Mi piace molto Monkhouse, che è, per quanto mi riguarda, una persona molto più piacevole di quanto non sia io. È piuttosto anziano, Cosmo; abbastanza, in ogni caso, perché il suo stile di vita gli abbia lasciato un segno addosso. Mi perdo nell’aritmetica mentale, e alla fine me ne esco con il calcolo approssimativo che lui lavora sei ore al giorno, e guadagna sei scellini all’ora o giù di lì, domeniche e vacanze incluse. Vale, dunque, centoventi operai italiani. Rappresenta la critica di alta classe, a cui gioco anch’io di tanto in tanto… Noto in lui una caratteristica che ho notato in tutti gli uomini di una certa età di mia conoscenza che hanno amato per tutta la vita l’Arte… È un particolare sguardo infossato, come se il loro centimetro più esterno avesse perso vitalità e si fosse del tutto mummificato… Ma mentre rilevo questo aspetto in Monkhouse, noto che sta anche fumando un sigaro. Anche tutti gli altri dilettanti di mia conoscenza fumano; e il dubbio che ora inizia ad assillarmi è se sia l’abitudine al fumo, o l’abitudine a fare dell’Arte per la Vita la propria dieta mentale, a far sì che questi uomini muoiano in superficie in questo modo bizzarro. Inizio a ripensare ai miei stessi inizi, alla mia precoce determinazione a non voler diventare un uomo di lettere, ma a fare della penna il mio strumento, e non il mio idolo. A questo pensiero, divento in fretta molto arrogante, e mentre ringrazio insistentemente la Provvidenza per la grazia salvifica che mi ha impedito di diventare uno di quegli amanti dell’Arte che frequentano i circoli letterari, una canzone erompe dal basso, fragorosa e turbolenta, eppure con una nota speciale come di una gioia bloccata sul nascere.

Guardo oltre il parapetto. Là, proprio sotto di me, ci sono tre giovanotti in piedi, appena troppo grandi per poter essere chiamati ragazzi, ognuno con un documento come una dichiarazione dei redditi nella fascia del cappello, e ognuno con il braccio affettuosamente avvinto al collo del vicino, che cantano a perdifiato. Sono un po’ ubriachi, ma non così ubriachi come lo sarebbero degli inglesi nelle stesse circostanze, di liquore inglese. Sono determinati a restare di ottimo umore; e le coccarde nel cappello di uno di loro evidenziano l’occasione festosa. Cerco di capire le parole della loro canzone, e riesco solo a coglierne il senso generale, che, come capita nelle canzoni, non è affatto un senso, ma un nonsenso. Cantano le gioie della vita di un soldato, le sue avventure, le sue immoralità, i suoi amori leggeri, il suo bere e far baldoria, e la sua indifferenza a tutte le conseguenze. Improvvisamente il povero diavolo al centro, che conduceva il coro e cantava più forte di tutti, si ferma e comincia a piangere. L’uomo alla sua destra inizia anche lui, per simpatia; ma quello sulla sinistra, il più tranquillo, li riprende; e cantano più sfrontati che mai.

Una strofa o due, e la canzone va in pezzi di nuovo, per sempre. I suoi ultimi mugugni sono fugati da un nuovo la dell’uomo sulla destra, che inizia un’aria tremendamente struggente sul lasciare la casa, la madre, e così via. Questa sembra piacergli parecchio; infatti, la finiscono abbastanza bene. A nervi rinfrancati, parlano un po’, bevono un po’, poi iniziano a scherzare un po’ e fare un po’ gli spavaldi, infine sbottano nel più marziale e avventuroso dei canti, sulle conquiste che li attendono quando la spada, il rancio, e l’ammirazione delle donne saranno la loro unica occupazione. Finiscono due versi senza piangere; e poi l’uomo al centro si butta al collo del suo compagno, e singhiozza apertamente e in modo straziante.

Allora capisco il significato dei documenti nei loro cappelli. Sono delle reclute, appena coscritte, che partono per le loro destinazioni. Scendono al porto successivo. E io non ricordo più nulla di quella sera sul Lago di Como, come se il mio stesso imbarco e il mio sbarco non avessero mai avuto luogo.

Turismo, migliaia di guide senza ristori

Tra gli autonomi e i precari, quanti vengono esclusi dai sussidi? Il settore turistico, collassato a fine febbraio e con prospettive di ripresa pressoché nulle per il 2021, rappresenta un interessante caso studio. Il governo ha fornito diversi sussidi generali prima, tra aprile e maggio, per tutte le partite Iva che avevano subito un calo del fatturato rispetto all’anno precedente, poi alcuni stanziamenti straordinari per gli stagionali del settore. Ma quanti sono rimasti esclusi da queste misure?

Non sono disponibili dei numeri precisi, ma è certo che una sostanziosa parte dei lavoratori del settore del turismo culturale sono rimasti alla porta, per i più vari motivi. C’è il caso di chi aveva il grosso delle proprie entrate da una partita Iva ma aveva anche un secondo lavoro in un altro settore, che magari copriva solo il 10 o 20% delle entrate mensili: esclusi. Poi c’è chi è rimasto escluso a causa di problemi burocratici, codici Ateco (la classificazione Istat delle attività usata per identificare quelle da chiudere e ristorare) e tipologie di contratti: operatori di hotel e alberghi inquadrati come lavoratori a tempo determinato e non stagionali, o dipendenti di aziende che formalmente non si occupavano di turismo. “Non sappiamo quanti siamo, in un gruppo Facebook in cui ci siamo raccolti siamo in 600 ma è una minima parte” ci spiega Mafalda, che lavorava come guida turistica in un’azienda di trasporti e quindi non ha ricevuto nulla. “Gran parte della categoria non è riuscita a usufruire dei bonus, ne sono rimaste escluse le guide titolari di una pensione anche minima o le guide che erano in maternità nel 2019” spiegava Isabella Ruggiero di Agta – Associazione guide turistiche abilitate – in audizione in commissione Industria e Turismo del Senato il 17 novembre scorso.

Tra ottobre e novembre, il Ministero dei Beni culturali e del Turismo ha provveduto finalmente con uno stanziamento straordinario di 20 milioni specifico a favore di guide e accompagnatori turistici. Ma, incredibilmente, la platea dei beneficiari non si è allargata: si è ridotta. Questi ristori, c circa 5 mila euro per 8 mila soggetti potenziali, sono arrivati solo a 6.090 guide e accompagnatori turistici in tutta Italia. Tanti i motivi dell’esclusione, dalle guide escursionistiche, dotate di un diverso patentino nonostante il codice Ateco sia quello delle guide turistiche, alle guide a partita Iva che, come in primavera, lavoravano formalmente nel settore “sbagliato”, o che operavano non come singoli ma come microsocietà. E poi c’è il caso delle guide escluse per errori nella compilazione della domanda, come Sabrina, che opera a Siena: “Ho impiegato due settimane per riuscire a inoltrare la domanda, la piattaforma mi dava continuamente errori. E nonostante ciò per un disguido tecnico è stata rigettata”, spiega aggiungendo che sono almeno in 400 in questa condizione. Alice Battistella, accompagnatrice turistica a Venezia, è tra le fortunate che hanno avuto accesso al bonus “perché avevo il codice Ateco giusto, per fortuna. Ho impiegato una settimana per inoltrare la domanda, altre colleghe, assediate da impegni lavorativi e familiari, non ce l’hanno fatta. Non penso sia sano fornire ristori a poco più di 6 mila persone quando siamo in decine di migliaia ad aver perso ogni entrata con il crollo del turismo. Il governo dovrebbe prendere atto della complessità eccessiva della situazione ed erogare sussidi molto più ampi almeno per gli anni 2020 e 2021”.

Il 2020 del Rdc: col Covid s’è scoperto fondamentale

Tra le altre cose, il 2020 è stato l’anno in cui il Reddito di cittadinanza ha visto un nuovo scatto in avanti, una seconda galoppata di domande quasi paragonabile al boom di aprile 2019, data di esordio. Negli ultimi dodici mesi, lo hanno richiesto oltre 712 mila famiglie, cifra alimentata soprattutto da quei nuclei che – a partire da ottobre – hanno finito il primo ciclo di aiuti e hanno subito ripresentato i moduli. L’85% di chi è andato in scadenza, in sostanza, ha inoltrato istanza di rinnovo, segno che – complice la pandemia – ne ha ancora bisogno poiché rimasto in povertà. Il governo aspetta una nuova crescita e la ministra Nunzia Catalfo punta a rimpolpare i fondi con 1,2 miliardi nel decreto Ristori.

La corsa dei beneficiari, quindi, si è già spinta di nuovo vicino alla quota record: al momento la carta acquisti sostiene circa 2,9 milioni di persone con una cifra media di 528 euro. Poco meno numerosi dei 3,1 milioni abbondanti raggiunti a settembre con il picco. Questa leggera discesa rispetto al massimo si spiega col meccanismo della legge che ha istituito il Reddito, la quale prevede un mese di stop dopo il diciottesimo mese quindi era destinata a generare una fisiologica curva discendente dopo un anno e mezzo dall’approvazione.

Ma andiamo con ordine. Alla fine del 2019, al suo settimo mese di vita, il Reddito di cittadinanza era “nelle tasche” di 2 milioni e 513 mila persone. A chiederlo erano state 1 milione e 554 mila famiglie, ma 457 mila domande (il 29,4%) erano state rigettate per mancanza di requisiti. Sembrava essersi assestato ormai su quelle cifre, tra l’altro coincidenti con le previsioni che l’Inps fece ai tempi di Tito Boeri, ma la ripresa delle domande dopo il calo di dicembre 2019 è stata immediata. Un po’ perché con l’anno nuovo arrivano i nuclei che hanno aggiornato l’Isee, ma soprattutto per la pandemia che ha spinto in tanti a rifugiarsi nella misura anti-povertà. Al punto che paradossalmente il Reddito, pur architettato in tempi normali, si è rivelato quasi più efficace di molti strumenti messi a punto durante l’emergenza. La salita progressiva delle domande è stata costante tra marzo e maggio – i mesi più difficili del lockdown – poi si è un po’ fermata a giugno e luglio. Ad agosto è calata, ma comunque ha registrato un numero molto più alto di agosto 2019. A settembre ha ripreso la crescita (e ha confermato l’aumento rispetto a settembre 2019) e il numero dei beneficiari, come detto, ha raggiunto il record sforando abbondantemente i tre milioni. Poi, a ottobre, è arrivato il problema della pausa forzata.

Le prime famiglie ad aver ricevuto il Reddito ad aprile 2019 hanno finito i diciotto mesi, perciò hanno dovuto subire la fermata di un mese. I beneficiari totali si sono fermati a 2,2 milioni, crollati di 900 mila. Si temevano ripercussioni sociali, gli amministratori locali (anche di destra, coalizione molto critica sulla misura) chiedevano un provvedimento ponte.

Alla fine l’Inps ha rimediato accelerando le pratiche, rispondendo alle domande di rinnovo e pagando la prima rata a metà novembre anziché alla fine del mese, dando così due settimane di respiro. Nel giro di un solo mese, poi, i percettori sono ripiombati a 2 milioni e 780 mila, per chiudere a dicembre con 2 milioni e 858 mila. Nel frattempo, l’Inps ha in pancia 180 mila richieste, metà delle quali per rinnovi: ipotizzando un accoglimento del 73%, cioè quello attuale, è plausibile ipotizzare 300 mila nuovi beneficiari. Chiaramente, il prossimo mese avremo anche una nuova ondata di scadenze – circa 200 mila individui – quindi il saldo finale dovrebbe essere un aumento di circa 100 mila.

Accanto a quello “di cittadinanza”, nel 2020 si è aggiunto il Reddito di emergenza, con requisiti un po’ meno stringenti, che mira alla fascia che se la passa leggermente meglio rispetto ai super poveri. La prima infornata, partita col decreto di maggio, ha coperto 702 mila persone con un importo di 558 euro a famiglia; quella del decreto Agosto si è fermata a 581 mila. La proroga di novembre e dicembre è andata a 163 mila persone. Quella di gennaio, non destinata a tutti, sarebbe l’ultima mensilità. Condizionale d’obbligo: l’emergenza è ancora tra noi, è ipotizzabile un ripristino.

Da Guerre Stellari all’autosfascio: riciclato in 6 mosse

È ora che Matteo Renzi inizi seriamente a pensare a un futuro oltre la politica, visto che dopo le ultime prodezze perfino Luciano Nobili ora risponde ai suoi whatsapp mattutini verso sera, a ridosso della cena. A volte con emoticon. Dunque mi permetto, con umiltà, senza toni denigratori, avvalendomi della libertà di satira e del diritto di critica, appellandomi all’articolo 21 della Costituzione e ricordandogli che nel 2014 l’ho votato e che non ho beni intestati, di suggerirgli alcune strade alternative alla politica. Matteo Renzi potrebbe, per esempio, diventare:

1) Doppiatore nelle nuove saghe di Guerre stellari

Il regista J.J. Abrams ha infatti notato che la lingua parlata da Renzi nel tentativo di dire qualcosa in inglese è incredibilmente somigliante allo shyriiwook, lingua madre di Chewbecca. Pare dunque che il noto regista lo abbia già prenotato per il prossimo, attesissimo capitolo della saga: “La minaccia fantasma: se perdo il referendum mi ritiro dalla politica”.

2) Militante femminista

Forte delle sue battaglie per la valorizzazione della donna in politica e fuori dai confini della politica, potrebbe fondare un nuovo movimento femminista oltre i pregiudizi, di rivendicazione del ruolo della donna, per la parità dei diritti nei rapporti giuridici, politici, economici e sociali, naturalmente assieme a Michela Murgia. Ah no, giusto: ha querelato anche lei. Del resto, per Renzi quest’ultima fa parte di una frangia un po’ troppo estremista del femminismo, quella con un vizio di forma imperdonabile: pensa. E non solo. Il carattere sovversivo della sua figura trova una conferma nella formazione ambigua della scrittrice: non è mai stata negli scout.

3) Notaio per accertare la verità 

Forte della sua affidabilità, della sua lealtà, della garanzia offerta dalle sue promesse, dal rispetto dei patti e della fiducia accordatagli, Matteo Renzi potrebbe intraprendere una brillante carriera da notaio. Chi di noi, infatti, non pensa a lui quando c’è da affidare a qualcuno la funzione di garantire la validità di contratti e di negozi giuridici? Chi non vorrebbe ardentemente contare sulla sua presenza quando c’è da mettere nero su bianco che si è detto il vero, sapendo che la sua firma lo attesterà e non cambierà idea, mettendoci nei guai? Chi? Nessuno. In effetti non è una buona idea.

4) Teatrante nella Pièce “vulnus”

Potrebbe vendere il suo spettacolo “Vulnus”. L’unico spettacolo che parte con 15 minuti di applausi scroscianti e finisce con il pubblico che lancia le sedie sul palco, mentre l’interprete principale si chiude il sipario da solo dicendo che vuole sapere cosa farà degli incassi il proprietario del teatro.

5) rottamatore di Gabriele Paolini

Quando un inviato si apposta sotto i palazzi della politica o davanti a un falò sulla spiaggia, Renzi appare dal nulla, fingendo di passare lì per caso, tipo per andare in tabaccheria a comprare il filtro per le sigarette elettroniche, un po’ come accaduto con Paolo Celata l’altra sera. Sembra che Paolini, fiutata l’intenzione, sia già molto preoccupato e che stia cercando i numeri tra gli inviati tv. Celata ha già detto che si asterrà, in bilico la Sardoni che sembrerebbe comunque già in contatto telefonico con Mastella. Pare che il Pd la sosterrà nelle sue intenzioni di darsi malata alla prossima maratona.

6) Sfasciacarrozze sulla magliana

Potrebbe rilevare uno sfasciacarrozze sulla Magliana e sfogare questa attitudine da psicoanalisi di rompere tutto. Un po’ come i bambini con un eccesso di energie vengono dirottati nello sport perché non sbattano la testa contro il muro o spacchino i mobili, lui potrebbe triturare, demolire, smembrare, sezionare, comprimere, tagliare, far esplodere, schiacciare scooter, macchine di lusso e utilitarie tutti i giorni, h 24. E noi lo sosterremmo in questo duro percorso psicoanalitico, anche a costo di sacrificare auto nuove, appena uscite dal concessionario, come giovani fanciulle ateniesi offerte al Minotauro. Chissà che Demolition man smetta così di essere la fama che ormai lo precede e non diventi l’insegna del suo sfasciacarrozze. Di sicuro, saperlo lì, a sublimare le sue pulsioni distruttive mentre riduce una 500 in una scatoletta di alici immaginando che sia la fine di Conte o del nemico del momento, farebbe stare tutti più tranquilli. Anzi, finalmente sereni.

Le città del futurotra alberi e verde

Qwuando Claudio Abbado, per tornare a dirigere nella sua Milano dopo anni di ostracismo avanzò l’idea di piantare non so quanti alberi per disinquinare una delle arie peggiori d’Europa, venne quasi preso per fuori di testa. Ma dove e come si potevano piantare tanti alberi in città e dintorni? Si poteva, si poteva, come confermavano il Parco del Nord Milano e altri esempi o progetti. Ma in realtà non si volevano creare le condizioni per un ritorno alla grande di Abbado e i sogni rimasero nel cassetto. Ora in tutta Italia sembra lievitare la riscoperta del Verde, sull’onda di un’Europa dove nei convegni non si parla più di “parchi” bensì di “foreste urbane” e si procede. Perché? Perché il verde in tutte le forme, di parco, di foresta, verticale (sull’esempio felice dei grattacieli di Stefano Boeri lodati in tutto il mondo) viene considerata finalmente con convinzione la medicina fondamentale per ripulire l’aria che purtroppo respiriamo.

E quella della Valle del Po è la più inquinata di tutta Europa, in particolare intorno a Milano, ma anche fra Venezia e Padova e a sud, a Napoli e nel Frusinate. La stessa Roma non scherza pur avendo circa 300.000 alberature delle quali 150.000 su strade, viali, piazze e altre grandi oasi nelle ville storiche. Tante città italiane hanno subìto una disastrosa decadenza passando dai Servizi giardini comunali dell’800-900 alle recenti gestioni private. Nella piazza centrale di Testaccio, a Roma, sorge un ovale di ippocastani che all’epoca si vollero uno coi fiori bianchi e il suo vicino coi fiori rosa. Con un effetto delizioso. Sul vastissimo sagrato della Chiesa Nuova, davanti alla fantastica Biblioteca della Vallicella del Borromini sorge una maestosa pianta orientale, la Pauwlonia, dalle grandi foglie carnose e dai mazzetti di fiori cilestrini, replicata di recente dall’altro lato della piazza dove sorge il monumento a Pietro Metastasio.

A sprazzi, insomma, si fa. Però il quadro generale è deprimente, tranne che per Villa Borghese di recente risistemata. Le altre Ville storiche sono per lo più in condizioni deplorevoli. Villa Doria Pamphilj sempre spaccata in due tronconi dalla Via Olimpica, senza che si sia rimediato a quella ferita assurda con uno o più sovrappassi alberati e fioriti. C’è di peggio perché di recente la Società di Propaganda Fide ha deciso l’abbattimento di decine e decine di alberi per usi industriali nella tenuta di Malafede, mentre all’Acquafredda un’altra società vaticana ha compiuto analoga operazione in omaggio all’ecologismo di papa Francesco.

Dal Campidoglio affiora una notizia che ha dell’incredibile e cioè una delibera con la quale, dopo anni di polemiche, si è stabilito di piantare alberi nella pietrosa e vuota piazza San Silvestro. Voluta dall’arch. Paolo Portoghesi, autore di pregevoli manufatti come la Moschea, completamente nuda perché “nelle piazze del centro storico romano non ci sono alberi”. Affermazione ormai smentita dalle rigogliose Pauwlonie della Chiesa Nuova e di piazza Sforza Cesarini e contraddetta dal fatto che piazza San Silvestro non è una piazza “storica”, bensì il risultato di un brutale sventramento da ricucire anche col verde. E così, dopo anni di vuoto fallimentare finalmente lo sarà. Speriamo con grazie e con gusto. Nel frattempo bisognerebbe che Roma curasse meglio e addirittura conservasse il suo verde più tradizionale: quello dei Pinus pinea aggrediti da un parassita, la Toumeyella parvicornis che sta facendo autentiche stragi nell’indifferenza delle autorità di tutela. Ma si sa che, nonostante una ricco patrimonio di parchi, di viali, di ville, di siepi, la qualità dell’aria rimane a Roma una delle peggiori d’Italia, del Centro per lo meno insieme alla derelitta Frosinone. Troppe auto in circolazione e troppo vecchie. Troppi impianti caldo/freddo a gasolio anziché a metano.

Un dato di fatto: Roma non ha ancora un regolamento comunale del verde. Ne sta discutendo dai tempi di Alemanno nientemeno con un confuso intreccio fra tavolo comunale, poco frequentato pare, interventi competenti quanto inascoltati, contributi – propri o impropri? – dei singoli Municipi e altri sminuzzamenti. Era un fascicolo chiaro e snello. Oggi è un librone. Grazie ai limiti della legge Bassanini può esserci un solo pletorico assessorato all’Ambiente che riunisce tutto: Ville Storiche, Parchi, verde di piazze e strade. Un mastodonte che assicura per prima cosa confusione e spesso impotenza.

Vi sono regioni che le bonifiche fra ’800 e ’900 hanno letteralmente “pelato”, l’Emilia-Romagna per esempio, che era tutta acqua e foreste nordiche. Poche settimane or sono, il presidente della Regione Bonaccini ha lanciato un piano di “riforestazione” su 4 milioni e mezzo di ettari, Saranno grandi corridoi verdi lungo fiumi, canali e golene (sperando che demoliscano le costruzioni abusive, tante, troppe, che provocano puntualmente alluvioni disastrose). Dovrebbero ricostituire anche taluni boschi di pianura nelle periferie urbane spesso desolate. Con quali alberi? In tal caso, il presidente Bonaccini dovrebbe accettare l’offerta dell’Associazione Nazionale Patriarchi di Forlì – che ha già realizzato vari giardini con talee di alberi secolari o millenari – rinvenuti fra Ferrara, Ravenna, Gattatico, Cesenatico, ecc; – di utilizzare anche questi Patriarchi (nella regione ne sono stati catalogati circa 1400). Anni fa, la Forestale rivestì di Pino Nero l’Appennino facendone una foresta austriaca.

Poi ci sarebbe il vasto capitolo del Verde Verticale, cioè grattacieli praticamente rivestiti di alberi e arbusti di cui un pioniere è il milanese Stefano Boeri e che si stanno diffondendo in tutto il mondo, addirittura come edilizia popolare in Olanda, a Eindhoven. Un verde che può salvare i cittadini da tante malattie dovute alla “mala aria” dove ora prosperano i virus.

 

Benvenuti al grande Mastella flop

Il mondo si interroga sulla variante sudafricana e brasiliana del Covid, sull’efficacia dei vaccini Pfizer e Astrazeneca; l’Italia, dal canto suo, si interroga sulla variante rignanese della crisi di governo e sul vaccino Mastella.

In questi giorni, passando da un canale televisivo all’altro, pensavamo di essere finiti su uno speciale di Techetecheté dedicato alla Prima Repubblica, di cui Clemente Mastella è stato un uomo simbolo; poi su uno speciale di Passato presente dedicato alla Seconda Repubblica, di cui Mastella è stato un emblema vivente; poi su uno speciale di Correva l’anno dedicato al centrodestra, di cui Mastella è stato un orgoglioso aedo; poi su uno speciale di C’era una volta dedicato al centrosinistra, di cui Mastella è stato un solerte ascaro.

Niente di tutto ciò. Ogni volta in video c’era il Mastella fresco di giornata e di tintura, giulivo, pronubo, eterno. In diretta e in tempo reale. “I responsabili sono come l’amante a cui prima o poi bisogna dare dignità”: un’idea davvero degna della politica, intesa come fedeltà a una visione del mondo.

“Sarò il regista della soluzione della crisi di governo”, ha promesso, però non ha specificato il titolo del programma lasciandoci struggere di curiosità. Come regista, Mastella si ispira un po’ a Temptation Island e un po’ a Rocky: abbiamo avuto Rocky 1, 2, 3, 4, ogni volta sempre più suonato, proprio come Mastella 1, 2, 3, 4.

Il momento gli sarà parso propizio: gli italiani sono costretti a casa con il morale sotto le suole delle scarpe, modesti ristori, poca dignità a mariti e mogli, figuriamoci agli amanti, la televisione gremita di virologi in gramaglie.

Tiriamoli su con qualche titolo che possa ridargli fiducia nella politica, deve essersi detto. Prima Da Benevento con furore, poi Temptation Montecitorio (ma il falò di confronto con Calenda è andato male). Infine, il reality show dell’anno, Grande Mastella Flop.

Lavoro, guadagno, pago, pretendo: il vaccino del Dogui

La sede di Milano del Fatto, dovete sapere, affaccia sul quel monumento all’ego del fu presidente altrimenti noto come Palazzo Lombardia: così chi scrive ha la fortuna di osservare da vicino, da quel po’ po’ di Formigoni a oggi, gli avvicendamenti della politica regionale. L’ultimo, com’è noto, è il passaggio di testimone tra l’affaticato Giulio Gallera e Letizia Moratti alla guida dell’assessorato al Welfare. Se qualcuno ce lo avesse detto un mese fa avremmo riso, ma siamo (di già!) qui a dire che quasi ci tocca rimpiangere l’avvocato delle gaffe, il quale tutto sommato si limitava a qualche inciampo linguistico o topografico. Ricorderete naturalmente, era de maggio, la spiegazione dell’indice Rt a 0,51 (e anche del motto “la matematica non è un’opinione”). “Cosa vuol dire? Che per infettare me, bisogna trovare due persone allo stesso momento infette, e non è così semplice trovare due persone allo stesso momento infette per infettare me”. In luglio poi aveva confuso l’unità di misura della temperatura corporea con un valore percentuale: “Se avesse chiamato il medico anche solo per un 37,5% di febbre…”. Qualunquemente si fa per scherzare: noi con Gallera ce l’abbiamo per gli inammissibili ritardi della campagna antinfluenzale e per la gestione diciamo discutibile dell’emergenza sanitaria.

Però guardate che, a dieci giorni appena dall’insediamento sul trono (è anche vicepresidente della giunta) pure Donna Letizia non scherza. Lunedì ha scritto una letterina a Babbo Natale Arcuri in cui chiedeva che, per la distribuzione dei vaccini anti Covid, si tenessero in considerazione quattro criteri, per puro caso tutti favorevoli alla Lombardia: “Contributo che le Regioni danno al Pil, mobilità, densità abitativa e zone più colpite dal virus”. Insomma: lavoro, guadagno, pago, pretendo (è il vaccino del Dogui). Le opposizioni in consiglio regionale sono insorte ed è intervenuto anche il ministro Speranza (“Tutti hanno diritto al vaccino indipendentemente dalla ricchezza del territorio in cui vivono. In Italia la salute è un bene pubblico garantito dalla Costituzione”). Nella serata di lunedì l’entourage della vicepresidente ha dovuto provare a “chiarire”. Così: “Il riferimento al Pil non è legato al concetto di ricchezza bensì alla richiesta di un’accelerazione nella distribuzione dei vaccini in una Regione densamente popolata di cittadini e anche di imprese, uno dei principali motori economici d’Italia. Se si aiuta la ripresa della Lombardia, si contribuisce in automatico alla ripresa dell’intero Paese”. Ah ecco, tutto più chiaro.

Al sindaco Sala ieri mattina sono cadute le braccia su Twitter (a noi non si può dire cosa). E pure a un sacco di gente (tra cui molti lombardi) che ha protestato sui social. Sicché in aula la vicepresidente è stata nuovamente costretta a chiarire: “La salute è indiscutibilmente un diritto prioritario e costituzionale di tutti i cittadini, senza differenza alcuna (ma va?). Non ho mai pensato di declinare vaccini e reddito”. Segue spiegone: “Il Pil è un indicatore economico-finanziario che attesta l’attività in una Regione, che, questo sì, ho detto, è il motore dell’Italia. In questo senso questa Regione ha la necessità di essere tenuta in considerazione, non parlo di piano vaccini ma di zona rossa”. Davvero? Ascoltare per credere l’audio sul sito del Fatto. E poi, come se fosse una questione di merito o di colpa: “Il rischio per questa regione è di fermarsi e di fermare il lavoro, le attività, la vita sociale e quindi per questo motivo, con il presidente Fontana, abbiamo ritenuto di presentare il ricorso per uscire dalla zona rossa, perché la Lombardia non la merita”. Dunque: Molise, scansati, che “Alboreto is nothing” e “la libidine è qui, amore: sole, vaccino e sei in pole position”.