Fake news Quella finta storia del rider ricco e felice: “La Stampa” dà i numeri

Dacci oggi il nostro veleno ideologico quotidiano, ovvero come piegare la realtà ai propri desideri e vivere felici. Chiedo scusa se dopo il solenne Giorno del Pallottoliere (ieri al Senato) mi occupo di piccole pieghe della vita reale, ma corre l’obbligo, e capirete perché.

Tutto comincia la scorsa settimana, con una rubrica di Antonella Boralevi, illustre scrittrice, sull’illustre quotidiano La Stampa. Titolo: “Da commercialista a rider felice”. Storia edificante: si parla del signor Emiliano, 35 anni, che aveva uno studio di commercialista, ma “il Covid gliel’ha fatto chiudere” (sic). Lui non si è perso d’animo e ha cominciato a fare il rider, a consegnare pizze e pranzi e cene, pedalando in bicicletta per “100 km al giorno” (sic) e guadagna 2.000 euro netti al mese e in certi mesi addirittura 4.000. “Uno stipendio da manager. Ed è felice” (sic). Segue virulenta intemerata sulla dignità del lavoro, il rispetto di sé, la vergogna del Reddito di Cittadinanza elargito a due milioni e passa di persone che – manigoldi – stanno a casa a far niente, mentre potrebbero anche loro guadagnare “come un manager” consegnando pizze. Insomma una notizia, seguita dalla moraletta, la solita vecchia solfa sulla colpa dei poveri, che sono poveri e assistiti perché non muovono il culo pedalando per 100 km al dì. Troppo bello per essere vero.

E infatti non è vero.

Il rider felice non si chiama Emiliano (ma Emanuele), non ha 35 anni (37), non ha mai avuto uno studio di commercialista, fa il rider dal 2018 (quindi prima del Covid), non in bicicletta (moto), non guadagna né 2.000 né 4.000 euro al mese, ma arriva a 1.600 se lavora nove ore al giorno tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell’anno. Ciliegina sulla torta, viene fuori che questo Emiliano/Emanuele è un grande sostenitore del cottimo, già organizzatore di un sindacato giallo messo su di concerto con qualche azienda del settore, favorevole al contratto truffa sottoscritto solo da un minuscolo sindacato di destra che tutti i rider del regno schifano e denunciano come abusivo.

Tutto benissimo: la storiella edificante che la signora Boralevi usa per insultare chi è costretto a chiedere un aiuto allo Stato è un tale concentrato di menzogne, imprecisioni e assurdità perfettamente ricamate da rasentare il falso ideologico. Qualcuno – en passant – fa notare che al regime di paghe attuale per incassare 4.000 euro netti consegnando pasti bisognerebbe correre dalle 18 alle 20 ore al giorno, sette giorni su sette, ma pazienza, basta imparare a dormire pedalando.

Naturalmente non è l’incidente giornalistico della signora Boralevi che ci preoccupa, anche se ha provocato parecchie contusioni alla realtà, alla verità e al buonsenso. La parte illuminante della storia è invece il sottotesto, antico ma mai morto: i poveri (sette milioni e passa, nel Paese) non hanno dignità né rispetto di sé, mentre il signor Emiliano/Emanuele, la cui storia (inventata) sembra alla signora Boralevi “non di ‘colore’, ma di speranza” (sic), ci dà una lezione di vita. Insomma, un esempio per tutti quegli sciagurati che stanno sul divano a far niente incassando un lauto (?) assegno mentre potrebbero fare la Milano-Sanremo carichi di pizze tutti i giorni, vivere felici, e perdipiù mostrare con il loro luminoso esempio che i poveri d’Italia, Covid o non Covid, sono gente senza dignità. Una buona dose di veleno ideologico, insomma, un po’ di sale soavemente liberista sulle ferite aperte di chi non ce la fa e chiede aiuto invece di pedalare. Che stronzi, eh?

 

Revenge Porn di politici e cronisti contro Conte

Abbiamo un problema. Questo Conte non schioda, non crolla, non cade. Eppure era quasi certo: abbiamo visto tutti gli speciali e le maratone e la colpa della crisi è chiarissimamente sua, dei “tavoli” di Conte, del “Recovery” di Conte, dell’“inconcludenza” di Conte, del “ritardo sui vaccini” di Arcuri e di Conte, “della verifica permanente imposta dal governo”. Non certo di colui che ha denunciato il vulnus democratico dei Dpcm, che – ormai è chiaro – erano gingilli di Conte del tutto innecessari, come la proroga dello stato d’emergenza, per non parlare dell’“offesa al Senato” fatta con l’invocazione ai responsabili (non come quello che il Senato lo voleva radere al suolo e riempire di consiglieri regionali). I commentatori sono gente perbene e non possono dire che Renzi li fa godere e gongolare, però ne riciclano alcuni argomenti, specie i più risibili. Conte ha “elogiato Trump” e si è mostrato “tiepido” nel condannare l’assalto al Congresso (hanno verificato se i tweet che hanno spinto Jack Angeli a uscire di casa sono partiti dall’account di Casalino?). Anche gli 80 mila morti sono colpa di Conte, come va ripetendo quello che il 28 marzo voleva riaprire tutto e che coi morti ci parla. Proprio il disturbatore d’Italia viene intercettato dai microfoni de La7 a tarda sera per le strade di Roma, mentre cammina fischiettando come i piromani, e mica gli si chiede conto dello scempio che ha ordito, ma del “coinvolgimento degli apparati dello Stato per fare pressioni su dei parlamentari. Lei ci può dare delucidazioni?” (De Angelis di Huffington Post). E persino uno come Renzi non se la sente di cavalcare la panzana e dice che per questo bisogna chiedere al direttore de La Stampa.

Chiesto conto dello scoop del suo giornale, Sorgi dice che “sapevano tutti” di cardinali e Servizi (con ciò confermando che la fonte non esiste, è una voce di corridoio che tutti rilanciano e diventa vera), del resto i cardinali tifano per Conte perché “Conte è cattolico” (come dire che Totti sta organizzando una festa a sorpresa per il mio compleanno perché sono romanista). Non solo: abbiamo visto i sondaggi e l’acuta previsione che “più dura Conte e più cresce Salvini” si è rivelata falsa; Salvini e Meloni scendono, crescono i 5Stelle e Leu, invece. È tutto un commentatume un po’ piccato, un po’ delicato di stomaco: Conte incassa la fiducia alla Camera e l’Italia opinionista televisiva si assesta sulla linea Giachetti (renziano): “Festeggiare per 5 voti in più della maggioranza assoluta alla Camera mi pare eccessivo. Per chi sa leggere i numeri anche sugli equilibri futuri nelle commissioni sembra più una débâcle”, o almeno speriamo (questi erano quelli che dicevano “rosiconi” agli altri).

Il giornalismo anti-governativo (e bonario con Salvini, mentre per Crosetto e Meloni impazzisce proprio) si è sintonizzando sullo stile dei politici virtuali, quelli che su social e giornali sono al 37% e nello spazio-tempo reale al 3%: Calenda denuncia di aver ricevuto una telefonata da Mastella che gli chiedeva l’appoggio a Conte in cambio dell’appoggio del Pd a Roma (per dire come siamo messi male). Cioè Calenda, ex Confindustria, ex Ferrari, ex Sky, ex Italia Futura, ex Scelta Civica, ex Pd, ora Azione, denuncia il trasformismo di Conte-Mastella (e tutti lo rilanciano: come avesse sventato un golpe).

La politica biliare e ghiandolare ha esondato dal Palazzo, dove maestri sono Renzi e i suoi, che appena viste le brutte hanno cominciato a buttare lì nelle interviste (ché c’è ancora chi li intervista) che “Zingaretti verso Conte ha usato parole molto più gentili di quelle che usava nei nostri colloqui privati…”, e chissà quante chat di WhatsApp sono pronte per essere esumate in extremis. È il Revenge Porn applicato alla politica: prima intrallazzano, poi millantano una supposta trasparenza minacciando di farci vedere le pudenda. Sorgi, fine analista, dice facendo una smorfia orripilata che Conte nella replica era “stanco”, come stesse commentando una partita. Poi ripetono tutti come un mantra: “manca l’anima” (i discorsi Conte se li deve far scrivere da Coelho). Intanto in studio ci si dedica alla polverizzazione della Polverini, colpevole di aver votato la fiducia e di essere uscita da Fi. Ora è una “fascista”, non come quando la Bellanova andava in tv ad aprire la start-up di Iv a “tutti, destra e sinistra” e Polverini era “la benvenuta”. Repubblica ha qualcosa di molto duro da dire riguardo il discorso di Conte: tanto per cominciare, era “beige”; poi, la piega dei capelli di Conte era “impeccabile” (pensa se non lo fosse stata!), mentre la mise era da “testimone della sposa”, anzi peggio: da “padrino di cresima”: se non basta questo a far dimettere un Presidente del Consiglio, ditemi voi cosa. Il giorno del voto al Senato la profezia autoverificantesi dei commentatori non si verifica. Si tiene a bada la ghiandola. Sarà per la prossima volta.

 

Covid Anche senza test antigenici l’indice di positività diceva ben poco

Oggi sul web non sono riuscito a sapere quanti sono stati i positivi individuati dai tamponi molecolari e quindi non posso calcolarmi il tasso di positività, confrontandolo con quelli di cui tenevo nota giornalmente. Potenza del nuovo metodo di calcolo che mette insieme tamponi molecolari e test rapidi, non permettendo di distinguere tra i due. “Crolla l’indice di positività” dicono i media, ma non è invece becera censura?

Un elettore molto deluso

 

Caro elettore deluso, il problema c’è. Al ministero della Salute hanno resistito a lungo alla equiparazione dei test antigenici ai molecolari voluta dalle Regioni, che infatti è molto parziale come in altri Paesi europei: il rischio di falsi negativi è elevato e, specie dove il virus circola molto, si rischia di dare rassicurazioni fasulle a persone potenzialmente contagiose. Così i due tipi di test sono in due colonne diverse del bollettino, si può anche calcolare quanti contagi rilevati con il molecolare e quanti con l’antigenico. Ad ogni modo “crolla l’indice di positività”, quando da un giorno all’altro si sono aggiunti migliaia di antigenici, è una sciocchezza. Anche prima, però, la percentuale era calcolata su una massa di test che comprende quelli di controllo. E le nostre Regioni ne fanno da meno di mille (Calabria) a oltre tremila ogni 100 mila abitanti (Friuli-Venezia Giulia e Veneto) in 7 giorni (elaborazioni di Giorgio Presicce, Regione Toscana). Per gli antigenici si va da poche decine a migliaia. Che percentuali calcoliamo su questi numeri? Sembra più utile, se ci interessa questa percentuale, farla sul totale delle persone testate, che si ottiene per sottrazione da un giorno all’altro. Lo pubblicano la Fondazione Gimbe e “Pillole di ottimismo”.

In Germania il Robert Koch Institut diffonde tutti i giorni perfino in inglese 7 pagine che indicano, tra l’altro, l’incidenza settimanale anche locale e per fasce d’età, quanti pazienti entrano nelle terapie intensive e quanti ne escono (con distinzione tra vivi e morti che da noi non c’è) e le stime di Rt a 4 e a 7 giorni. Ma non il rapporto positivi/tamponi tanto amato in Italia. Qui ci sembra affidabile solo il report settimanale su cui decidono i colori delle Regioni, basato sui dati dell’Istituto superiore di sanità e non su quelli del bollettino quotidiano.

Alessandro Mantovani

Mail box

 

Ispirato dall’Angiolieri ho scritto un sonetto…

S’i’ fosse foco, arderei Salvini;

s’i’ fosse vento, lo tempesterei;

s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;

s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo;

s’i’ fosse prence Renzi interdirei;

s’i’ fosse papa, i’l’ scomunicherei;

s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?

Da Roma la Meloni caccerei.

S’i’ fosse Conte in Parlamento andrei;

sanza paura, sanza alcun timore;

vinta la sfida, al Colle salirei;

e direi al presidente: fue n’errore;

di un giovane narciso un po’ impudente;

fondator d’un partito ch’ora more.

Guariente Guarienti

 

La somma dell’evasione fiscale è impressionante

Voi giornalisti del Fatto, che non avete padroni e non avete dietro di voi chi ha la residenza fiscale e legale all’estero, dovreste maggiormente richiamare l’attenzione sull’evasione fiscale. 160 miliardi di euro all’anno, cifra non molto lontana dai 209 miliardi concessi dall’Europa per questa crisi.

Mariella Fissore

 

I miei dubbi su Meb e le proposte della destra

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa il collegio elettorale dove MEB è stata eletta. E mi domando come mai non viene chiesto agli esponenti della destra i primi 10 provvedimenti che farebbero, se al governo, in merito ai problemi sanitari in ordine alla somministrazione dei vaccini.

Marco Gabrielli

 

Meloni denuncia quello di cui ha goduto nel 2010

Gentile Onorevole Meloni, alla Camera ha parlato di mercimonio, urlando scandalizzata. Noi cittadini potremmo urlare scandalizzati, non certo lei, Salvini, Renzi, ecc., perché il mercimonio lo avete fatto tutti. Nel suo caso, le ricordo che fece parte del governo Berlusconi come ministro della Gioventù dal 2008 al 2011. E non può non ricordare che il governo Berlusconi fu salvato nel 2010 dal voto di Razzi, Scilipoti e De Gregorio. Addirittura il suo primo ministro fu processato e condannato per aver pagato 3 milioni di euro De Gregorio per cambiare partito, ma la condanna andò in prescrizione. E lei, grazie a questo mercimonio, continuò a fare il ministro sino al 2011. L’ha dimenticato? Per questo forse lei e tutti gli altri non volete concederci il potere di esprimere la preferenza, perché sapete che noi non dimentichiamo.

Vito Mario Burgio

 

Bisogna aprire le scuole con logica e intelligenza

Mi rivolgo a voi con tanta stima quanto con amarezza per l’ottusità e la miopia che la recente decisione di riaprire le scuole medie superiori dimostra nei confronti di una situazione sì difficile da affrontare, ma gestita nel peggiore dei modi. Emblematica la cromia del Lazio che in zona gialla lascia i ragazzi con Dad al 100%, mentre proprio quando la curva dei contagi induce il governo a un cambio di scala di gravità passando all’arancione, viene annunciato il parziale rientro con modalità e tempi che definire opinabili è quantomeno riduttivo.

Paolo Loss

 

Renzi, un occhio su di sé e uno sulla Giustizia

Visto l’odio, non celato, verso il ministro Bonafede da parte di Renzi, si capisce che la prescrizione è la vera causa delle crisi dei Conte 1 e 2. Con i genitori e buona parte del Giglio Magico nei guai giudiziari, il buon Renzi deve cercare di salvare sé e gli amici. Deve trovare (B. docet) un ministro della Giustizia che faccia approvare le leggi che servano per farla franca. E dove si può trovare se non in un bel governo di destra? Io ti faccio cadere il governo e tu mi aiuti in sede giudiziaria.

Giorgio Monaco

 

Anch’io vorrei scegliere i miei parlamentari

L’articolo 67 della Costituzione Italiana riporta: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Da sempre assistiamo a condizionamenti di vario tipo, a partire dai capi dei partiti di appartenenza, amici, parenti, eccetera. I movimenti dei transfughi vengono utilizzati da tutti i partiti per cercare di inasprire i “vincoli” in barba alla Costituzione Italiana. Sono pienamente d’accordo sull’iniziativa del giornale che dirige tesa a consentire ai cittadini di poter scegliere veramente i propri rappresentanti in Parlamento; tale iniziativa deve però difendere e far implementare pienamente l’art. 67, altrimenti i cittadini saranno liberi di scegliere solo dei “pupi”.

Sebastiano Oriti

 

Twitter & C. sono aziende private e libere

Sono decisamente favorevole alla tesi della legittimità del divieto opposto a Trump dai social al suo accesso alle rispettive piattaforme. È innegabile che i social, in particolare Fb e Twitter che sono stati tra i primi a negare l’accesso, sono società di diritto privato ed è altrettanto pacifico che in società di questo tipo la gestione sia libera, nel senso che non può subire impedimenti o divieti di sorta.

Guido De Maio

La legge antitrust per smantellare i monopoli dei social

Yochai Benkler, professore alla Harvard Law School, spiega che i troll russi, la cui propaganda tossica sfrutta i social per fare gli interessi del Cremlino (destabilizzare l’Europa e gli Usa, per esempio appoggiando Brexit, sovranisti e Trump), inducono sfiducia nelle istituzioni democratiche creando “un mondo dove niente è vero e tutto è possibile (Benjakob, 2021). Negli Usa, la fonte principale della disinformazione furono Trump e i media di destra, spiega Benkler: i russi si limitarono ad amplificare le loro bugie. Il grottesco attacco al Congresso (cinque morti) fu preceduto dalla campagna online #StopTheSteal: fomentata da Trump con video deliranti di “chiamata alle armi”, che Facebook e Twitter poi rimossero, e rilanciata da Fox News, accreditava la falsa tesi trumpiana dei brogli elettorali. I troll russi avevano già eccitato i gruppi QAnon con la balla del Deep State, lo Stato occulto (secondo la balla, Trump potrebbe sconfiggere il Deep State con informazioni devastanti di cui ebrei e media impediscono la pubblicazione). Allo stesso tempo, i troll russi galvanizzavano la sinistra radicale con altre balle (Trump è una marionetta di Putin, Putin lo ricatta con materiale compromettente, Trump ha rubato l’elezione a Hillary Clinton in combutta col Cremlino). La strategia: polarizzare, esacerbando la sfiducia reciproca, per minare la democrazia Usa. La tattica è quella di appoggiare entrambe le fazioni (in Ucraina, nel 2016, i troll russi sostennero sia i nazionalisti che i separatisti, con lo scopo di indebolire il governo di Kiev). Di rincalzo, procedeva l’attacco trumpiano ai fatti, con un’opera incessante di confusione fra verità e opinione. Benkler, citando il precedente di Fox Media che negava il cambiamento climatico, aggiunge: “Se i russi vogliono disorientare l’avversario, i media mainstream, quando parlano di post-verità, fanno il loro gioco”. Idem chi dubita si possa definire cos’è pericoloso e fake news: se fosse davvero impossibile, non esisterebbero i codici (civili, penali e deontologici) e le policy. Si è capito, finalmente, che il laissez faire digitale provoca disastri, e si invoca una regolamentazione. Per il livello Trump (discorsi tossici) basta la policy di Twitter? Sì (non si aspetta un giudice per fermare un pericolo), ma la policy deve essere resa stringente, con una norma che assoggetti le piattaforme (di fatto, media company) alle stesse regole cui devono attenersi gli editori: non viene lesa alcuna “libertà di espressione”. Chi si sentirà censurato, potrà ricorrere a un Garante. La recente proposta della Commissione europea, invece, lascia intatta la premessa del comma 230 Usa (“i social non sono responsabili dei contenuti”): l’ennesimo pasticcio che fa il gioco dei social, dei loro lobbysti a Bruxelles, e dei troll che foraggiano i social coi propri volumi di traffico. Il secondo passo dovrà essere quello di applicare la legge anti-trust smantellando i monopoli creati da Facebook, Google, Amazon & C. come venne fatto con l’At&t negli anni 80. Il terzo passo, quello decisivo, l’ha proposto Richard Stallman, esponente del Free Software Movement: “Proibire per legge qualunque sistema che raccoglie dati, non importa se è un’azienda, un’organizzazione non profit, o una struttura pubblica: non gli deve essere permesso di raccogliere dati se non giustificano questa attività come necessaria alla funzione da svolgere”. Il legislatore può, e deve, intervenire; ma senza perdere di vista il quadro generale: le piattaforme vogliono conservare il proprio modello di business (sorvegliare, estrarre, condizionare). È un modello tossico, e va eliminato dalla circolazione come si eliminò la vernice al piombo (Lanier, 2018). Time is up!

(3. Fine)

 

Vanità in aula Matteo si accomoda sul suo ego, nutrito dalle destre

Poltrona è la parola chiave che alla fine spegne Renzi e il suo falò delle vanità. La usa Conte nel suo ultimo minuto di replica: “Non mi arrocco. Non mi vergogno della poltrona su cui siedo. Basta farlo con dignità e onore”. Così va in fumo l’intera giornata che Renzi ha trascorso accomodato sulle spalle del suo ego a godersi lo spettacolo dell’incendio che ha appiccato. Si è nutrito del tam tam delle destre: buona musica per la sua vendetta, enormemente personale. Poi ha provato, in una ventina di minuti, a buttarla in politica: manca la visione, mancano le risorse per la scuola, per la giustizia, è in crisi l’economia, il turismo, la sanità, stanno cambiando l’America e la Cina. Ma davvero? E quando mai gli è stato impedito di parlarne, prima di scegliere la strada della guerriglia preventiva? Conte, nella replica, glielo dice pacatamente. Lo nomina persino e lo guarda. Ma Renzi sta già giocando con le sue ceneri dentro al telefonino. Il governo inizia la sua nuova navigazione. Lui un po’ meno.

Delusa. È sconfortante l’immagine che la politica sta dando di sé

Sono sconfortata dall’immagine che la politica sta dando di sé. Molti di noi hanno criticato il governo e le bozze del Recovery Plan, ma quello che mi turba è che in questa fase non si sia parlato affatto di contenuti e la politica si sia limitata a contare i voti, con le solite avance nei confronti degli indecisi. I renziani non hanno saputo essere chiari: ogni volta cambiavano bersaglio nelle loro critiche, alzando sempre più la posta nei confronti degli alleati. Dall’altra parte, devo dire che mi aspettavo migliori risposte e rassicurazioni dal governo, perché ho l’impressione che non abbia le idee chiare su quello che vuole fare. Adesso temo che una maggioranza raccogliticcia non darebbe garanzie e rischierebbe di cadere in poco tempo. Più facile che – ahimé – ci si debba preparare al voto, anche perché il rischio che vinca la destra non può costituire motivo per evitare le urne, in caso non ci sia una vera maggioranza.

Alle urne se non ci sono i numeri, meglio giocarsela alle elezioni

Resto scettico sulla possibilità che nelle prossime settimane prenda forma in Parlamento una “quarta gamba” di centro solida e credibile abbastanza da consentire a Conte la prosecuzione di un’efficace azione di governo. Non lo dico solo per i tatticismi miranti a procrastinare ogni scelta, in un estenuante surplace. La stessa aggressività con cui ieri Renzi ha cercato di demolire Conte, da lui sofferto come ostacolo alla riconquista di una centralità perduta, prescinde da una circostanza decisiva: nel sistema politico italiano da ormai quasi 30 anni un centro non c’è più. E non risorgerà a breve, neanche se favorito da un’infausta legge proporzionale, perché ne mancano le condizioni strutturali. Dunque? Se i partiti dell’attuale maggioranza verificheranno, nel più breve tempo possibile, di non poter mettere insieme altro che una stampella precaria, meglio farla finita e presentarsi coalizzati alle elezioni. Nella sfida fra una responsabile scelta europea e la demagogia sovranista, non partirebbero affatto perdenti.

Liliana Segre ha fatto l’opposto dei distruttori

Se la sono anche cercata, ma difficilmente esiste una categoria più disprezzata e vilipesa di quella dei politici (forse, ex aequo con noi giornalisti). In questi giorni, poi, le cronache parlamentari sguazzano gioiose tra Montecitorio e Palazzo Madama perché l’articolo (in quanto merce) di scherno sul suk dove si mercanteggiano i voti a favore, o contro il governo, si scrive da solo. Mi assumerò dunque il rischio della facile derisione affermando: a) che non tutti gli onorevoli sono dei manigoldi a caccia di prebende e vitalizi; b) che nel dibattito sulla fiducia a Conte non sono mancati gli interventi bene argomentati ed espressi; c) che l’applauso che ha salutato l’ingresso in aula della senatrice a vita Liliana Segre è stato toccante e di grande dignità per l’istituzione. È stato il senatore Pier Ferdinando Casini a cogliere l’attimo interrompendo il suo intervento. Poco dopo è toccato alla senatrice M5S Alessandra Maiorino trovare le parole giuste: “Dobbiamo dire grazie alla senatrice Segre, che ha anteposto la salvezza del Paese alla sua stessa incolumità. L’esatto contrario che ha fatto colui che ci ha portato a questa situazione”.

Non conosco la Maiorino (leggo che si occupa di laicità e di diritti civili), ma posso dire che nei sei minuti a disposizione ci ha messo intensità e passione. Conosco l’obiezione: ma come, fai l’elogio di una grillina appartenente cioè a quel movimento di esagitati che intendevano aprire il Parlamento come una scatola di tonno? Può essere che la guerra contro la cosiddetta “casta” sia stata, anche, condotta pretestuosamente. Però, il pregiudizio politico ha agito in entrambi i sensi e dunque anche attraverso la superficiale narrazione di un movimento di scappati di casa, ignoranti e inetti, destinati a essere dimenticati presto dall’elettorato. Così non è stato, e quanto alla presunta incompetenza è così difficile prendere atto che attraverso la funzione esercitata, quella legislativa, che comporta applicazione e studio, si è formata una classe dirigente di nuovo conio rappresentata non indegnamente sugli scranni e al governo? Non è con il facile disprezzo del Parlamento e dei suoi ospiti che si difende la democrazia. Come ci ricorda la lezione di Liliana Segre, giunta in quell’aula malgrado i rischi connessi all’età per dare la fiducia al governo. Spinta, ha detto a Gad Lerner, “da un richiamo fortissimo, un misto di senso del dovere e di indignazione civile”.

Caso Karachi, lo scandalo di Stato fra armi e mazzette

Arriva in tribunale, 25 anni dopo i fatti, uno dei più grossi scandali di Stato in Francia, il “caso Karachi”. Da ieri sono l’ex premier di Mitterrand, Edouard Balladur, 91 anni, e il suo ex ministro della Difesa, François Léotard, 78, a comparire davanti alla Corte della Repubblica, la sola abilitata a giudicare gli ex membri di governo. Un processo storico dunque ma che, come ha scritto Le Monde, “odora di naftalina”. Malgrado l’età, i due ex responsabili politici si sono presentati entrambi in aula alle 14 di ieri, primo giorno del processo, Balladur in abito elegante, Léotard, la cui salute è definita fragile, senza avvocato. L’ex premier (1993-95) è sospettato di aver finanziato la sua campagna per l’Eliseo del 1995, persa contro il detestato rivale politico Jacques Chirac, con le tangenti versate per due enormi contratti di vendita d’armi conclusi dal governo francese nel 1994 con Pakistan e Arabia Saudita. Al centro dell’inchiesta, soprattutto un versamento di 10,2 milioni di franchi dell’epoca (circa 1,5 milioni di euro). Balladur e Léotard sono incriminati per abuso di beni sociali, reato per cui rischiano cinque anni di prigione, ma negano le responsabilità. A portare i giudici sulla pista delle tangenti è stato l’attentato di Karachi del maggio 2002, costato la vita a 14 persone, di cui 11 impiegati francesi della Dcn, la Direzione delle costruzioni navali, che si trovavano nel cantiere dove si fabbricavano i sottomarini Agosta, venduti da Parigi al Pakistan. Nel caso Karachi, lo scorso giugno, il Tribunale di Parigi ha condannato sei persone, tra cui il faccendiere libanese Ziad Takieddine, che aveva fatto da intermediario nel trasferimento del denaro. Si tratta di un nome noto alla giustizia: lo stesso Takieddine è implicato nell’inchiesta sui presunti finanziamenti libici della campagna 2007 per l’Eliseo di Nicolas Sarkozy. Nel caso Karachi, l’ex presidente, ex ministro del Bilancio e portavoce del governo nel 1994, sospettato di complicità, aveva ottenuto un non luogo nel 2016, ma nel 2018 la Procura ha riaperto l’inchiesta.