Biden giura, ma la grana dei migranti guasta la festa

Alle 12 a Washington, le 18 in Italia, Joe Biden giura come presidente degli Stati Uniti. Tutto l’evento sarà sostanzialmente virtuale: persino i balli la sera sono stati sostituiti da uno speciale televisivo condotto da Tom Hanks. Trump, invece, lascia la Capitale per la Florida di buon mattino, senza incontrare il suo successore.

Cerimonia a parte, Biden ha un problema urgente da risolvere: l’onda migratoria che arriva dal Centro America. Il pugno di ferro verso i migranti Trump lo esibiva con orgoglio, convinto di guadagnare voti e sostegno: l’accelerazione dei rimpatri degli illegali, la separazione dei figli dai genitori all’ingresso nell’Unione, il no ai ‘Dreamers’, il muro lungo il confine con il Messico.

Decisioni spesso realizzate solo in parte, come il muro, perché non finanziate dal Congresso, oppure rimaste sulla carta, o bloccate dalla magistratura. Ora, Joe Biden vuole rovesciare quelle politiche: ha piani per regolarizzare gradualmente gli illegali, accelerare il ricongiungimento dei minori alle famiglie, ridare la speranza ai ‘Dreamers’; e lasciare il muro com’è. Ma la marcia degli honduregni, per il momento bloccati in Guatemala, può creargli seri imbarazzi, se la carovana – già forte di circa 7.000 persone e che continua a ingrossarsi – dovesse presentarsi al confine fra Messico e Usa nelle prossime settimane, quando l’Amministrazione si sarà appena insediata e col Senato alle prese in parallelo con la conferma dei ministri e l’impeachment a Trump. Le priorità del momento infatti sono la lotta alla pandemia e il rilancio dell’economia, oltre che il tentativo di ridurre la polarizzazione del Paese e lenire le divisioni dell’Unione. Per questo, Biden mette sull’avviso gli honduregni: “Non è il momento di mettersi in viaggio verso gli Usa”, dice un funzionario del Transition Team. La carovana chiede al 46° presidente di “onorare gli impegni” nei confronti dei richiedenti asilo, ma il suo staff spiega che “la situazione al confine non cambierà dall’oggi al domani” e che i migranti “non potranno entrare subito” nell’Unione. L’impegno a rovesciare molte delle politiche sull’immigrazione di Trump è confermato, ma il flusso di migranti potrebbe, nelle prossime settimane, compromettere gli sforzi anti-pandemia e costituire una distrazione per l’opinione pubblica e anche per l’Amministrazione.

Per ora, il ‘lavoro sporco’ lo stanno facendo i guatemaltechi, che – denuncia la viceministra degli Esteri honduregna Nelly Jerez – “hanno completamente militarizzato le vie di comunicazione” verso il Messico. Il presidente messicano Andres Manuel Lopez Obrador già esorta Biden a fare profonde riforme della politica di immigrazione: “Nella sua campagna – ricorda Lopez Obrador – Biden s’era impegnato a mettere a punto una riforma dell’immigrazione e spero che sia in grado di farlo”. Per il nuovo presidente, le grane sono numerose. Trump ha ieri revocato le restrizioni di viaggio dall’area Schengen e da Gran Bretagna, Irlanda e Brasile a partire dal 26 gennaio, una settimana dopo la fine del suo mandato. E Jen Psaky, la portavoce di Biden, ha dovuto subito chiarire che le restrizioni Covid esistenti per i viaggiatori provenienti dall’estero non saranno tolte. Non migliora, dunque, neppure in extremis il clima della transizione, mentre i dati della pandemia sono da record: i contagi si avvicinano ai 24 milioni e i decessi superano i 400.000.

Videovendetta contro zar Putin

Da ieri impazza nel web Dvoresc dlya Putina, “Palazzo per Putin”. È un documentario: dura un’ora e 53 minuti. L’ha prodotto e realizzato Aleksej Navalny, il grande oppositore, tramite l’Fbk, il suo Fondo anticorruzione. Il titolo è spiccio. Non lascia spazio all’immaginazione. Denuncia gli sperperi del presidente russo, descritto come un satrapo, e gli arricchimenti altrettanto sospetti del suo clan, amanti comprese (questa è la novità: nomi, cognomi, circostanze). Fulcro dello scandalo, un palazzo smisurato costato miliardi, a Gelendzhik, sulle rive del Mar Nero, tre ore di auto a nord di Sochi. Più che una residenza, una piccola città con tanto di chiesa, protetta da recinzioni invalicabili, plotoni di guardie, posti di controllo. Area no fly. Putin lì è lo zar.

Il sistema di potere messo a nudo

Navalny svela ogni angolo di quel Palazzo perché così mette a nudo il sistema di potere del Cremlino, le connessioni finanziarie con gli oligarchi e le immense sottrazioni, tramite vorticosi giri azionari, delle risorse nazionali. Col suo j’accuse, Navalny risponde alla proditoria mossa del Cremlino. Il 17 gennaio, infatti, è stato arrestato all’aeroporto di Sheremetevo, dopo aver trascorso quattro mesi e mezzo a Berlino per curarsi dall’avvelenamento quasi letale del 20 agosto scorso. È qualcosa di più di una semplice vendetta. È volere innescare un cortocircuito mediatico, a pochi mesi dalle elezioni amministrative. L’uomo in galera indica, prove alla mano, chi dovrebbe starci al posto suo. Il re è nudo. Non ha alibi. Dalla cella, l’oppositore invita a scendere in piazza per protestare contro la satrapia.

L’inchiesta è bruciante. In Occidente avrebbe provocato una crisi immediata. In Russia, no. Un po’ di scandalo, un po’ di indignazione, mi dicono gli amici di Mosca: “Il re ha un castello. Ma ha anche i vassalli, cioè i russi. Chi non è fedele, lo cancelli. Come nell’Unione Sovietica. Chi non era fedele, era già morto”. Perché la Russia è sotto stretto controllo: “Non appena Putin si è insediato al Cremlino, ha soggiogato la televisione, i tribunali e ha istituto un sistema di frode elettorale, per controllare e sequestrare la Russia. Un pezzo per ogni amico. Uno siede sui torrenti di Gazprom, il secondo inizia a mungere Rosneft, il terzo assume i più grandi progetti di costruzione”, spiega Navalny. Una banda “di tangentisti e truffatori dell’ufficio del sindaco di San Pietroburgo si è impossessata di tutti i posti chiave e si è autoproclamata brillante manager e salvatrice della Russia”.

Diffuso sul canale YouTube NavalnyLive, nel web russo il video è diventato virale, superando nei primi minuti il mezzo milione di visualizzazioni. Sul sito palace.navalny.com, la ricostruzione della dettagliata inchiesta è corredata da documenti, foto, planimetrie. L’incipit musicale del video ricorda quelli di certi film italiani degli anni Settanta, come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Indagare sul Palazzo, dice Navalny, è fondamentale. È il luogo per “capire tutto di Vladimir Putin”. Il più sorvegliato della Russia: “Uno Stato nello Stato. È il segreto più grande di Putin.

Segretezza custodita con le armi e i miliardi

Un segreto protetto da centinaia, migliaia di persone: dalle guardie ai giardinieri ai fornitori ai costruttori sino alle persone più ricche e famose della Russia. Un segreto. Un edificio. Noi lo visiteremo. Per capire e ‘visitare’ Putin. Cercheremo di convincerci, coi nostri occhi, che quest’uomo, nella sua brama di ricchezza, è completamente folle. Scopriremo con chi e come viene finanziato questo lusso. La più grande tangente della storia per costruire il palazzo più costoso del mondo”.

Secondo i documenti, è il più grande edificio residenziale privato russo: 17.691 metri quadrati. Del costo di 1.100 milioni di euro. Le foto prese dall’alto mostrano ampi lavori di riparazione. Strano, visto che era pronto da sei anni.

È successo un disastro. Provocato dal male oscuro e sempiterno della Russia: la trascuratezza. Da una progettazione maldestra. In compenso, Putin si è fatto fare una pista da hockey sul ghiaccio. Dentro le viscere di una collina. Attorno, 68 ettari di terreno. In realtà, il territorio del palazzo è grande cento volte: 7mila ettari di proprietà dell’Fsb, l’erede del Kgb di cui Putin era stato tenente colonnello.

Tutti i “fantasmi del regime”: le voci silenziate

Sull’abaco delle perdite e dei guadagni c’è un numero che Pechino non vuole rendere noto ed è quello dei suoi fantasmi: insieme ai contagi, in Cina, sono scomparsi anche quelli che tentavano di contarli. Sono i dissidenti cinesi del coronavirus, coscienze risvegliatesi mentre gli altri serravano le porte di casa temendo la malattia. Uomini e donne che sono stati presto dimenticati, ma che hanno tentato di sfidare l’elefantiaca macchina della propaganda cinese, intenta a nascondere nei giorni più funesti del Covid-19, il numero reale di morti e malati, per arrotondare a ribasso le stime della diffusione dell’infezione. Anche questo ha fatto il virus a Pechino: ha imbavagliato giornalisti.

La campagna anti-virus non si è ancora conclusa nella Repubblica, non si arresterà mai invece quella mediatica del regime, sfidata da giornalisti, blogger, attivisti, o semplici cittadini, che hanno deciso di raggiungere la culla dell’epidemia nei giorni in cui non si sapeva ancora lo fosse. Le uniche armi difensive a disposizione erano telecamere improvvisate, telefonini e microfoni di fortuna. Quei reporter improvvisati sono diventati i “fantasmi di Wuhan”, scomparsi mentre qualcosa che rimaneva ancora segreto e misterioso accadeva e il governo cinese tentava di silenziare le voci di quanti si dimostravano allarmati per quello che sarebbe passato alla storia come il primo focolaio di una pandemia che avrebbe divorato il mondo senza poter essere fermata.

Le immagini tragiche degli ospedali saturi le aveva viste solo in tv la 37enne Zhang Zhan, seduta nel suo ufficio nella ricca Shanghai, prima di decidere di raggiungere la culla dell’emergenza. Alla toga ha preferito la telecamere, agli scaffali pieni di tomi dei codici di legge ha preferito i forni crematori dove si accumulavano cadaveri, scene che era riuscita a documentare pubblicando tutto sui canali Youtube, Twitter, Wechat. Il virus le ha cambiato non uno, ma almeno tre destini: dopo una prima vita da avvocato, una seconda molto breve e coraggiosa da reporter, Zhang Zhan adesso vive la terza vita da prigioniera dietro le sbarre di Pechino. Per aver diffuso “false informazioni sul Covid-19 attraverso testi, foto, video ed altri media”, e “per aver provocato litigi e problemi” – formula di rito generica delle sentenze di tutti i dissidenti cinesi – la corte di Pudong del tribunale della sua città, l’ha condannata a quattro anni di carcere.

Come Zhang Zhan, era un avvocato anche Chen Quishi, scomparso e poi riapparso, ma in manette a febbraio scorso. Per indagare la sua improvvisa sparizione aveva raggiunto Wuhan anche il giornalista Li Zehua, che, a sua volta, non ha lasciato più tracce ed indizi di sé e del suo lavoro di documentazione, fino ad aprile scorso, quando è stato rilasciato dalle forze dell’ordine cinesi. Una sorte simile l’hanno condivisa Chen Mei e Cai Wei, due attivisti che avevano pubblicato alcune interviste di una dottoressa che informava con anticipo dei focolai che avrebbero presto impestato il resto del Paese.

Una lezione, quindi, la Cina la riceve da se stessa: o almeno da quella piccola sacca di coraggiosi che non hanno temuto di violare le regole imposte. Ha provato a farlo anche Fang Bin, cittadino di Wuhan. Se tutti gli altri sono diventati icone della libertà di parola e delle loro vicende si conoscono i dettagli grazie ai giornali, di Fang nessuno ha più notizia da un anno: è uscito dalla sua abitazione uno di quei giorni, per non fare mai più ritorno da nessuna parte.

Europa e mondo record di morti in Gran Bretagna

NNuovo record assoluto di decessi in Gran Bretagna: 1.610 morti per Covid nelle ultime 24 ore: un numero mai raggiunto dall’inizio della pandemi. I nuovi contagi giornalieri sono scesi invece a 33.355, contro i 37.535 di lunedì. In germania il governo centrale e i 16 Länder tedeschi hanno raggiunto un accordo per l’estensione del lockdown duro fino al 14 febbraio. In Francia, dove il 14 gennaio il governo ha imposto il coprifuoco anticipato alle 18 in tutto il Paese, si registra un sensibile calo dei nuovi contagi. Secondo quanto riferito dal ministro della Salute, Olivier Véran, nei 15 dipartimenti in cui l’anticipo dalle 20 alle 18 è operativo già dal 2 gennaio il numero dei nuovi casi quotidiani è diminuito del 16%.

137.885 nuovi casi negli Stati Uniti e 1.381 decessi registrati nel Paese nelle ultime 24 ore. Numeri in calo rispetto a quelli delle passate settimane. Numeri in calo anche in Russia, dove il dato dei contagi è tornato ai livelli di metà novembre. E nonostante il terzo lockdown ancora in corso e la percentuale di persone vaccinate più alta al mondo, nelle ultime 24 ore Israele ha fatto registrare un nuovo record di contagi giornalieri, sfondando il tetto dei 10 mila: per l’esattezza, 10.021 nuovi positivi nel Paese a fronte di circa 100 mila test, con un tasso di positività del 10,2%.

Cina, Da Wuhan a regina dei vaccini

C’è la paura che il virus, che avevano saputo domare per primo, adesso possa tornare. Forse si avvicina una nuova ondata dell’epidemia di SarsCov2 e la Cina – nell’imminenza dei movimenti interni per il Capodanno, il 12 febbraio – vuole dimostrare al mondo di saper costruire in fretta l’argine per contenerla: a sud di Pechino, in soli cinque giorni, il primo di cinque ospedali che verranno costruiti per curare i nuovi contagiati è stato già terminato. Nuovi malati vengono registrati ogni giorno nella provincia di Hebei, ma le autorità della capitale della regione, Shijiazhuang, hanno ricordato a tutti che su dieci milioni di persone testate, solo 247 sono risultate positive: “Non gridate ancora al lupo”, non è ancora “tempo di guerra”.

A nord est, nelle province di Nangong, per 28 milioni di cittadini è iniziato il lockdown per decine di nuovi ricoveri causati – dice la commissione sanitaria nazionale –, da viaggiatori in entrata nel Paese e da cibo congelato d’importazione. Intanto le tute bianche si fanno riprendere ligie dalle telecamere mentre cementano stanze per ora vuote. Ma a Pechino, se alcune cifre sono da temere, altre sono da festeggiare: entrambe riguardano il coronavirus.

Ieri c’era la Via della seta, oggi c’è quella parallela, liquida e trasparente del siero: la Cina vaccina. Non solo se stessa, ma anche Paesi che domani saranno alleati o amici e la appoggeranno al tavolo dei negoziati nelle istituzioni internazionali. La nuova via di Pechino è stata costruita velocemente proprio come gli ospedali, da un continente all’altro, grazie alla profilassi sintetizzata dalla compagnia statale Sinopharm e dalla Sinovac, azienda biofarmaceutica produttrice del CoronaVac, che ha assicurato la produzione di 300 milioni di dosi in un anno.

Altri due nuovi sieri sono in fase di studio alla Cansino Biologics e alla Anhui Zhifei Longcom. Nonostante si conoscano i risultati solo delle prime due fasi della ricerca, le fiale del Dragone sono state già infilate nei container che hanno raggiunto Turchia, Brasile, Indonesia, dove il vaccino si è dimostrato efficiente rispettivamente al 91,25%, 50,4% e 65,3%. Le attendono anche a Singapore, Malesia, Filippine. Mentre ci sono accordi in corso con il Cile, hanno già approvato la soluzione Bahrein ed Emirati Arabi.

Tour africani, concessioni temporanee, accordi d’oro a lungo termine. Il virus serpeggia di confine in confine, lentamente lo seguono i vaccini per sconfiggerlo, ma questo mese ha viaggiato soprattutto il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, che ha stretto mani e accordi in Nigeria, Congo, Botswana, Tanzania, e anche alle Seyshell, “il più piccolo degli Stati d’Africa che ha accolto il ministro della nazione più popolosa al mondo”. Per l’acquisto del vaccino il presidente Xi Jinping ha promesso che può essere concesso un debito di due miliardi ai Paesi africani e di un miliardo a quelli latino americani e caraibici, nell’ambito di una cooperazione sanitaria che si tradurrà nel tempo in accordi commerciali favorevoli a Pechino. Perché cinesi ed africani, ripete l’ultima voce alimentata dalla propaganda comunista, “condividono identità nel mondo che cambia” e sono due popoli che nell’era Covid-19 rimangono insieme nella “salute e dolore”.

Promettendo di curare quella virale, la Cina aumenta l’unica vera influenza che gli sta a cuore: quella geopolitica. Come gli epidemiologi, anche i politologi hanno sintetizzato una formula per questa strategia e hanno cominciato a chiamarla “la diplomazia dei vaccini”, quella che sta usando la Cina per mietere consensi laggiù dove l’Occidente ha lasciato uno spazio vuoto, evitando anche questa volta di attraversare strade tortuose, difficili.

L’Africa però non è poi così lontana da Budapest. Anche in Ungheria potrebbe presto arrivare un carico di migliaia di fiale Sinopharm, ha riferito in tv dall’ufficio ministeriale Gergely Gulyas: è il risultato della pressione pubblicamente esercitata dal premier Viktor Orban sull’autorità sanitaria nazionale che deve approvare velocemente il vaccino cinese perché quello europeo – proprio come quello che gli aveva promesso l’amica Mosca in dosi massicce – non è ancora arrivato.

Tutti tremano. Tutti temono. Gli Stati, le loro economie e governi. Quelli nati figli della crisi sanitaria e quelli sopravvissuti o rinati durante le quarantene: tutti, ma non la Cina. Con un crollo della produzione globale che la Banca mondiale ha stimato essere di oltre il 5%, le grandi potenze si sono fermate: ma di nuovo, non la Cina. Se il Covid-19 attanaglia e sommerge l’economia della prima potenza tra tutte, quella statunitense, rafforza in via diretta o di rimbalzo la seconda per potenza finanziaria della lista mondiale.

La conta dei positivi che per ora fa Pechino non è quella dei malati, ma dei record: nel 2020 l’economia cinese è cresciuta del 2,3%, una cifra che ha superato le aspettative degli stessi economisti di regime. Lo ha riferito prima Ning Jizhe, portavoce dell’Ufficio nazionale statistiche, dipartimento che ha pubblicato a gennaio l’ultimo report, e lo ha confermato poi il dato fornito dalle previsioni del Fondo monetario internazionale, secondo cui la Cina, nell’anno appena trascorso, era destinata a crescere solo l’1,9%.

Se il coronavirus ha arrestato la crescita del Paese nei primi mesi di ignoto e terrore, morti e quarantene, l’ha anche favorita da ottobre a dicembre scorso, quando le conseguenze sociali della pandemia sono state catalizzatore del boom dell’export: quando lo smart working è diventato obbligatorio in una nazione dopo l’altra, la fabbrica del mondo ha costruito strumenti protettivi e attrezzature digitali, registrando un guadagno del 27% superiore rispetto 2019. Dopo mesi in cui l’inimmaginabile si è verificato a ogni latitudine, i numeri confermano che quella cinese non è stata fortuna, ma gioco di previsione e strategia. Ha battuto il primato mondiale, ma la Cina ha perso comunque contro se stessa: il 2,3% del’aumento del Pil è il dato più basso che il Dragone registra dal 1976.

Il 2020 però è alle spalle e tra poche settimane, per festeggiare il Capodanno cinese, il 12 febbraio, milioni di lavoratori torneranno nelle loro regioni d’origine, mettendo a rischio la stabilità di quella linea che sul grafico continua ad essere assestata intorno allo zero contagi.

A Pechino sta per iniziare l’anno del Bufalo e sta per concludersi quello del Topo, animale che nel calendario asiatico simboleggia prosperità e ricchezza: contro ogni ipotesi e previsione razionale, lo zodiaco cinese aveva predetto molto prima di stime e bilanci degli economisti, come sarebbe davvero andato a finire per la Repubblica l’anno del Covid-19.

Lega, assolto a Genova l’ex tesoriere Belsito “Non creò danni d’immagine al Carroccio”

La Corte d’appello di Genova ha assolto l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio. Il processo riguardava le consulenze, ritenute fasulle, offerte a grandi aziende che in quel modo ottenevano benefici fiscali. Era l’ultimo processo nei suoi confronti. L’unico in cui Belsito non era imputato insieme a Umberto Bossi, e l’unico in cui la Lega si è costituita come parte civile, accusandolo di aver provocato al partito una sanguinosa perdita di consensi. Questa decisione è spiegata, nero su bianco, da un documento del 2014, momento di transizione tra la vecchia e la nuova Lega: in quella scrittura privata il partito si impegna a non chiedere i danni a Bossi, e gli riconosce, nel suo ruolo di presidente, un vitalizio fino a 450mila euro l’anno. I giudici hanno condannato il Carroccio a pagare le spese legali. “Forse dopo tanti anni i pm hanno capito che sono solo un capro espiatorio – ha commentato Belsito, assistito dall’avvocato Antonio Gallinari – Ho lasciato nelle casse del partito 41 milioni di euro liquidi e 19 milioni di euro di investimenti. Dove siano finiti non lo so, non dovete chiederlo a me, ma quando c’ero io i conti erano in ordine”. Secondo l’accusa, negli anni ruggenti, intorno a Belsito ruotava una rete di faccendieri, pronti a sfruttare il potere e le relazioni dell’ex sottosegretario. In quegli anni Belsito era arrivato a ricoprire il ruolo di vicepresidente di Fincantieri. Un incarico per cui oggi ammette di aver versato soldi al partito: “Il sistema delle retrocessioni del 15% era in voga da prima che arrivassi io ed era accettato da tutti. Alla Lega ho restituito personalmente 3mila euro, era normale. Ciò che non è normale è che siano scomparse le tracce dei 60mila euro in contanti che ogni mese uscivano dai conti per pagare in contanti dipendenti che venivano retribuiti in quel modo, attraverso rimborsi spese”.

Il processo era finito con assoluzioni per tutti anche in primo grado. Al centro delle indagini era finita la Polare scarl, una scatola vuota secondo la Finanza, che si proponeva di offrire consulenze tecnologiche a grandi società (come Siram, Fincantieri e Gnv) che avrebbero potuto scaricare quelle prestazioni come credito d’imposta. Per i giudici di primo grado non c’erano sufficienti prove dell’esistenze di un’organizzazione abbastanza strutturata da configurare il reato di associazione a delinquere. Con Belsito sono stati assolti anche l’imprenditore Stefano Bonet e Romolo Girardelli. Il quale (difeso dall’avvocato Giuseppe Maria Gallo), detto l’Ammiraglio, era considerato dagli inquirenti vicino alla ’ndrangheta. Non è solo stato assolto, ma è stato anche risarcito con 18mila euro per ingiusta detenzione.

B. era ricoverato, volevano sentirlo pure i pm di Roma

Silvio Berlusconi era stato convocato il 14 gennaio dalla Procura di Roma per essere sentito come persona informata sui fatti, nell’ambito dell’indagine in cui sono stati disposti accertamenti anche sull’audio di Amedeo Franco (deceduto nel 2019), giudice relatore della sentenza di Cassazione che nel 2013 ha condannato l’ex premier a 4 anni per frode fiscale nell’ambito del processo sui diritti tv di Mediaset. Ma il leader di Forza Italia, tramite suoi legali, ha fatto sapere ai pm romani che a quell’interrogatorio non poteva essere presente in quanto ricoverato nel Principato di Monaco dal lunedì precedente per una aritmia cardiaca. Lo stesso giorno l’ex Cav avrebbe dovuto presentarsi al processo Ruby Ter in corso a Siena e i suoi legali avevano presentato richiesta di legittimo impedimento. Ventiquattro ore dopo era stato dimesso dall’ospedale.

L’indagine di Roma è stata aperta dopo una denuncia per diffamazione presentata dal giudice Antonio Esposito. Ed è nell’ambito di questo fascicolo che i pm hanno deciso di svolgere ulteriori accertamenti anche sull’audio usato da una certa stampa come “prova” per riabilitare B. e depositato dalla sua difesa a sostegno del ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si tratta di una registrazione che risale al 6 febbraio 2014, nella quale il giudice Franco rinnega la sentenza che lui stesso aveva firmato. “I pregiudizi per forza che ci stavano (…) Si poteva cercare di evitare che andasse a finire in mano a questo plotone di esecuzione, come è capitato, perché di peggio non poteva capitare”, dice il magistrato portato al cospetto dell’ex premier da Cosimo Ferri (estraneo all’inchiesta), leader storico della corrente Magistratura indipendente, in passato sottosegretario alla Giustizia del governo Letta e ora in Italia Viva. Nell’ambito di questa indagine, quindi, i pm avevano convocato Berlusconi (non indagato) per avere qualche chiarimento su quella registrazione.

Rossi, archiviata indagine sui festini “Ma testi credibili”

Cala il sipario sul caso della morte dell’ex manager Mps, David Rossi. Il Tribunale di Genova ha definitivamente archiviato l’inchiesta sui presunti depistaggi sulle indagini dei pm di Siena e la pista che portava a festini a luci rosse che avrebbero coinvolto anche magistrati. Ma il giudice per le indagini preliminari, Franca Borzone, ha disposto l’invio degli atti al procuratore generale della Corte di Cassazione, a cui spetta promuovere le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati, e al Csm, “per valutare eventuali lesioni del prestigio della magistratura”. Un’ulteriore trasmissione di atti riguarda la Procura di Siena, per approfondire e verificare le affermazioni di uno dei testimoni (ritenuto meno credibile), e l’ipotesi di reato di prostituzione minorile. Negli atti sono compresi i verbali di due testimoni che accostano due magistrati a feste a base di sesso e cocaina.

Ulteriori accertamenti penali, scrive ancora il giudice, sarebbero inutili da portare avanti: se anche ci fossero elementi per portare avanti una tesi simile, si legge nel decreto di archiviazione di dieci pagine, i reati sarebbero comunque prescritti. Al tempo stesso, il giudice riconosce come attendibile almeno uno dei due testimoni che hanno riconosciuto i pm. Mentre il secondo andrà riascoltato.

Nel provvedimento viene dato conto anche delle carenze della prima indagine sulla morte del manager del Monte dei Paschi: la distruzione di alcuni reperti, in particolare di fazzoletti sporchi verosimilmente di sangue mai analizzati, è stata “errata nella forma e prematura nella sostanza”. David Rossi cade dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo 2013, mentre imperversa lo scandalo giudiziario sulla banca. Il caso viene archiviato due volte come suicidio. Una versione dei fatti cui la famiglia non ha mai creduto. “Ho perso fiducia nella giustizia”, ha commentato ieri Antonella Tognazzi, ex compagna di Rossi.

Expo 2015, Sala non fece un “falso innocuo” “Commise il reato, ormai però è prescritto”

Prescritto. Ma non “innocuo”, né “di conseguenza privo di rilevanza penale”. È il falso contestato al sindaco Giuseppe Sala, che è stato processato per aver firmato due atti retrodatati, dunque falsi, per sostituire due commissari di gara per il più importante e ricco degli appalti di Expo, quello sulla “piastra dei servizi”, la base su cui sono stati impiantati tutti i padiglioni di Expo Milano 2015. La Corte d’appello di Milano lo ha prosciolto il 21 ottobre 2020, ma ora sono arrivate le motivazioni della sentenza, che spiegano come i giudici abbiamo rigettato la richiesta d’assoluzione avanzata dai difensori di Sala, dichiarando estinto il reato soltanto per sopraggiunta prescrizione. Crollano così gli argomenti della difesa, che si trattasse di un “falso innocuo”, “privo di rilevanza penale”, o addirittura meritorio, come le bugie a fin di bene dette ai bambini. Niente di tutto ciò: i cittadini non sono bambini, il falso in atti pubblici è un reato. Se Sala l’ha fatta franca, è solo perché è arrivata, nelle migliori tradizioni della politica italiana, la prescrizione.

130 ristoratori impugnano il Dpcm al Tar: “Faremo riaprire”

Ricorso al Tar del Lazio da parte dei ristoratori bolognesi contro la chiusura disposta dall’ultimo decreto del premier Giuseppe Conte. Sono 95 le società, a cui fanno capo circa 130 ristoranti, che hanno deciso di impugnare il provvedimento davanti ai giudici amministrativi. Il ricorso sarà depositato oggi pomeriggio e contesta l’effetto discriminatorio del Dpcm: “Per i ristoranti è stata disposta la chiusura serale mentre altre attività, come i centri estetici e i parrucchieri, possono rimanere aperti”, dice il legale Massimiliano Bacillieri, al quale gli imprenditori hanno affidato il mandato, tramite il comitato “Tutela dei ristoratori bolognesi”, appena costituito. “Questo – prosegue Bacillieri – , in assenza di evidenze scientifiche tali da dimostrare che sono veicoli di diffusione del virus: parliamo solo di ipotesi”.

A ciò si aggiunge la questione ristori. Il metodo di calcolo messo a punto dal governo prevede un risarcimento pari al 10% del fatturato sopra il milione di euro, del 15% quando il valore del volume d’affari è inferiore. Così, osserva il legale, si verifica il “paradosso che chi fattura 900 mila euro ha diritto ad ottenere di più di chi ha ricavi superiori. Senza contare che i ristoranti che nel 2019 non avevano ancora aperto sono completamente esclusi dai ristori”. Con il ricorso, per ottenere la sospensione della misura, il comitato chiede anche il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno.