Vaccino CureVac, l’Ue desecreta il contratto

Il vaccino contro il Covid potrebbe non funzionare o essere poco sicuro, mentre resta incerto chi pagherà in caso di effetti indesiderati. È quanto si apprende da una lettura del contratto firmato dall’Ue con la casa farmaceutica tedesca Curevac, reso pubblico ieri sul sito della Commissione.

Lo scorso novembre è stato pattuito l’acquisto iniziale di 225 milioni di dosi, con un’opzione per ulteriori 180 milioni. Viene così tolta la segretezza su almeno uno degli accordi per la fornitura del vaccino agli Stati membri siglati dall’esecutivo di Bruxelles con le case farmaceutiche (oltre all’azienda tedesca, AstraZeneca, Sanofi-GSK, Janssen Pharmaceutica di Johnson & Johnson, BioNtech-Pfizer e Moderna). “È un passo incoraggiante, ora chiediamo trasparenza anche sugli altri contratti”, afferma Olivier Hoedeman dell’Ong Corporate Observatory Europe.

Il testo del contratto afferma testualmente che “le parti riconoscono che le tempistiche di sviluppo accelerate per fornire la sperimentazione clinica e il programma di monitoraggio concordato con l’Agenzia europea del farmaco (Ema) significano che il contraente (ossia Curevac) in nessuna circostanza può garantire o assumersi alcuna responsabilità che il prodotto sarà finalmente disponibile o produrrà i risultati desiderati, cioè mostra un’efficacia sufficiente per prevenire un’infezione da Covid-19, o sarà privo di effetti collaterali inaccettabili e che la somministrazione del prodotto sarà pertanto condotta sotto la responsabilità esclusiva degli Stati membri partecipanti”. La condivisione di responsabilità tra l’azienda e i governi nei confronti di richieste di indennizzo da parte delle eventuali vittime di danni alla salute causati dal vaccino non è chiara, poiché diverse clausole risultano oscurate nella versione pubblica del contratto.

Il riserbo su questo cruciale aspetto era già stato denunciato la settimana scorsa dal francese Pascal Canfin, Presidente della Commissione salute dell’Europarlamento, che aveva potuto leggere il contratto a porte chiuse insieme ad altri eurodeputati. Insomma non c’è modo di capire in quali casi a risarcire dovrà essere lo Stato anziché l’azienda. Nascosto anche il prezzo, peraltro già accidentalmente twittato a dicembre dalla ministra belga del bilancio (10 euro a dose).

Il contratto non include clausole sulla trasparenza dei costi e la condivisione della proprietà intellettuale del vaccino, aspetti su cui avevano insistito le Ong visto che ricerca e sviluppo sono stati sostenuti con ingenti fondi pubblici. Nel luglio del 2020 CureVac aveva ottenuto un prestito da 75 milioni di euro dalla Banca europea per gli investimenti. Il suo vaccino, che deve ancora essere approvato dall’Agenzia europea del farmaco, è di tipo Rna come quelli di Pfizer-Biontech e Moderna già in fase di somministrazione.

Il dossier di Fontana contro la zona rossa: una paginetta Word

Una sola pagina, divisa in tre punti: l’inaffidabilità del fattore Rt; l’ignorata incidenza dei contagi; l’errato calcolo dei posti letto di terapia intensiva attivabili in Lombardia. Il dettagliato – quanto segreto – dossier epidemiologico annunciato dal Pirellone e allegato da Attilio Fontana al ricorso al Tar depositato ieri per smontare il Dpcm del 14 gennaio, in realtà tanto dettagliato non è. Il Fatto ha potuto leggerlo in esclusiva.

Chi si aspettava uno studio con grafici, curve epidemiologiche, analisi e confronti, un testo in grado non solo di dimostrare che la Lombardia non merita la zona rossa, ma anche che gli stessi 21 parametri fino a oggi utilizzati dal Governo per stabilire le fasce di colore sono sbagliati, è destinato a rimanere deluso. Il documento Word di una pagina riporta poco più di quanto annunciato da Fontana nei giorni scorsi: è errato usare il fattore Rt per decidere il colore da assegnare a una Regione, perché è un valore troppo datato; il fattore dell’incidenza dei casi ogni 100 mila abitanti è stato sottovalutato (ma solo per la Lombardia); la Regione non ha 1.200 letti di terapia intensiva bensì 1.800, considerando tutti quelli attivabili, Fiera compresa.

Fontana ieri ha ribadito: “Mi auguro davvero che presto possa riunirsi di nuovo il tavolo di confronto con le Regioni per rivedere, con il ministro Speranza, i parametri di riferimento. La Lombardia e i lombardi hanno fatto, e stanno facendo, la loro parte con responsabilità e spirito di sacrificio. Per questa ragione ritengo che l’assegnazione della zona rossa sia fortemente, e ingiustamente, penalizzante per la nostra Regione”. Come se la zona rossa fosse una punizione decisa per i lombardi (e solo per loro).

“Il dossier che Fontana promette da giorni – accusa il capogruppo M5S in Regione, Massimo De Rosa – altro non è che mezza paginetta di considerazioni generiche. I criteri applicati alla Lombardia sono gli stessi applicati al resto d’Italia. Non era Fontana quello che chiedeva misure uguali per tutti?”. E aggiunge: “Se il Cts converrà che ci sono i dati per passare in arancione, ne saremo felici. Se invece venisse accertato l’ennesimo inciampo dell’amministrazione, questa volta nella raccolta ed elaborazione dei dati, significherebbe che la zona rossa si sarebbe potuta evitare”.

A proposito di “inciampi”, continua a non funzionare il “Cruscotto”: il sistema di biosorveglianza che consente ai sindaci lombardi di monitorare la diffusione del Covid nella popolazione in tempo reale, gestito da Aria. Almeno dal 13 gennaio il sistema conteggia tra i malati anche i guariti, fornendo dati inaffidabili. Gli stessi che poi concorrono a determinare il colore della Regione. “Il Pirellone polemizza sui dati con il governo, ma non è in grado di raccogliere e fornire ai sindaci informazioni credibili e sicure sui contagi”, attacca per il Pd, Pietro Bussolati. “Il tilt è l’ennesimo flop dell’agenzia Aria, già protagonista del disastro vaccini antinfluenzali. Il tilt non è dei sistemi informatici, ma è politico, della peggior giunta d’Italia”.

In chiave antilombarda sono state invece le polemiche seguite alla proposta di Letizia Moratti di legare la distribuzione dei vaccini al Pil. Se per il presidente della Campania Vincenzo De Luca siamo “a un passo dalla barbarie”, per il ministro Francesco Boccia “l’utilizzare il parametro del Pil è un’ipotesi contraria alla civiltà e ai diritti universali”, ed è stato il ministro della Salute Roberto Speranza a ricordare che “tutti hanno diritto al vaccino indipendentemente dalla ricchezza del territorio in cui vivono. In Italia la salute è un bene pubblico fondamentale garantito dalla Costituzione”. Travolta dalle critiche ieri la neo assessora aveva tentato una goffa giravolta, cercando di smentire se stessa, e sostenendo che il riferimento al Pil non era rivolto ai vaccini, bensì alla zona rossa. Una retromarcia che però si è scontrata con l’audio delle sue parole – inequivocabili – pubblicate ieri in esclusiva sul sito del fattoquotidiano.it.

Ritardi Pfizer: governo e Regioni pronti all’azione legale congiunta

Pfizer assicura che dalla prossima settimana, a partire dal 25 gennaio, sarà nuovamente garantito il quantitativo di dosi di vaccino previsto dal piano di consegne. Che in febbraio tutto tornerà a procedere come stabilito, con il recupero completo di quanto non fornito fino a questo momento. Ma di fronte ai continui ritardi nelle forniture e ai tagli ai rifornimenti (29% in meno questa settimana) nessuno, in realtà, crede più alle promesse del colosso farmaceutico americano, che per primo ha messo a punto il siero anti-Covid insieme all’azienda tedesca BionTech.

Né il commissario all’emergenza Domenico Arcuri, né tantomeno il ministro della Salute, Roberto Speranza. Ed è anche per questo che ieri sera il governo ha chiesto alle Regioni di avviare una azione legale collettiva nei confronti di Pfizer. Una richiesta avanzata nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni. A tutela della salute pubblica, con un procedimento che dovrebbe essere sottoscritto da tutti i governatori. L’appiglio sembra esserci. In assenza di penali a carico dell’azienda statunitense, dovrebbe infatti valere il piano di consegne concordato con i vari Paesi Ue. Piano che si configura a tutti gli effetti come una parte integrante del contratto stipulato con la Commissione europea. E che quindi può essere fatto valere, a riprova delle inadempienze accumulate, in un’aula giudiziaria.

Una svolta che però richiede l’accordo con tutte le Regioni. In gioco c’è molto. Ci sono i richiami del vaccino a cui sottoporre tutte le persone che sono già state sottoposte alla prima somministrazione. C’è il proseguimento della campagna vaccinale, secondo una tabella di marcia – dopo gli operatori sanitari e sociosanitari e gli ospiti delle case di riposo, gli ultraottantenni – che a questo punto non potrà essere rispettata. Tanto che per i grandi anziani ancora non si sa quando effettivamente potranno partire le vaccinazioni. All’incontro tra governo e Regioni è stata poi affrontata la questione delle scelte discrezionali di Pfizer nelle consegne ai vari punti vaccinali. Discrezionalità che ha determinato tagli diversi alle forniture nelle varie regioni.

C’è chi ha ricevuto fino al 60% in meno di quanto previsto (come il Trentino), chi si è visto tagliare quasi il 50% (come l’Emilia-Romagna), chi invece (è il caso di Piemonte e Liguria) circa l’11%. Una distribuzione a macchia di leopardo (alcuni territori, come le Marche, la Basilicata e il Molise hanno ricevuto il 100% di quanto dovevano avere) che in molte regioni sta compromettendo il piano di somministrazione del richiamo agli operatori del sistema sanitario. Per cercare una soluzione, la struttura commissariale di Arcuri sta valutando questa ipotesi: scambi tra punti vaccinali che hanno più scorte e altri che stanno esaurendo il magazzino, sulla base di uno screening delle giacenze che dovranno fare le Regioni. Soluzione che potrebbe anche essere semplice se lo scambio riguarda punti di somministrazione collocati nella stessa città o regione ma che tra aree lontane diventa inevitabilmente molto più complicata. I tagli alle forniture del vaccino sono state comunicate da Pfizer venerdì scorso: 165 mila dosi in meno questa settimana. Decisione unilaterale, come ha ribadito Arcuri. E senza preavviso.

Sono 10.497, intanto, i nuovi conta accertati nelle ultime 24 ore in Italia a fronte di 254.070 tamponi (molecolari e antigenici) effettuati, pari a un tasso di positività del 4,1% (14,6% se calcolato in relazione ai singoli casi testati). Diminuiscono i ricoveri in terapia intensiva (-57) e quelli nei reparti ordinari (-185). Ancora molto alto il numero dei morti: 603 in 24 ore. I vaccini somministrati hanno superato quota 1 milione e 200 mila dosi. Le persone che hanno ricevuto anche la seconda iniezione sono circa 5 mila.

Toscana ”Crisi”: i dem mollano Iv, 5s in maggioranza?

Così come in Parlamento, anche in Toscana la maggioranza potrebbe risentire delle bizze renziane. E così, nelle prossime settimane, il governatore dem Eugenio Giani potrebbe perdere il sostegno di Italia Viva, allargando però la coalizione al Movimento 5 Stelle.

Numericamente non cambierebbe nulla: il Pd raggiunge da solo la maggioranza in Consiglio regionale e i due eletti renziani sarebbero sostituiti da altrettanti esponenti grillini. Ma dal punto di vista politico sarebbe una svolta, caldeggiata soprattutto da quella parte del Pd toscano più vicina al segretario Nicola Zingaretti che potrebbe così rompere le catene con la stagione renziana del centrosinistra locale. Anche perché i rapporti sono sempre più tesi: da dicembre, in linea con la tempistica della crisi di governo, Iv ha alzato i toni nei confronti del governatore, criticando la proposta di allargare la giunta – per paura di perdere centralità – e sbattendo i piedi per ottenere la demolizione e la ricostruzione dello stadio Franchi di Firenze.

Il risultato è che adesso si aprirà una verifica in maggioranza – ieri c’è stato un primo incontro tra Giani e il renziano Stefano Scaramelli – per capire che ne sarà della coalizione e della giunta). Inevitabile che il destino della Toscana si intrecci agli affari di governo: anche il Nazareno guarderebbe con favore a un avvicinamento locale col M5S se a Roma Iv finisse all’opposizione; così come il Movimento non perderebbe occasione per rinsaldare l’alleanza che sostiene Giuseppe Conte stabilendo un asse locale. Motivi per cui la consigliera 5Stelle Irene Galletti resta alla finestra: “Se vogliamo prendere la direzione che a Roma ha illustrato il premier bisogna fare delle scelte. Il primo passo, però, spetta al Pd”. Tradotto: si può fare, purché si ridiscuta il programma alla luce del cambio di maggioranza, soprattutto nelle parti che stavano a cuore ai renziani – l’ampliamento dell’aeroporto di Firenze, per dirne una – e che i grillini non potrebbero mai sostenere.

Macaluso, il migliorista anti-Pd che voleva un partito socialista

Emanuele Macaluso è morto a novantasei anni, a due giorni dal centesimo anniversario della fondazione del Pci. Una fatale coincidenza che rende più significativa la sovrapposizione tra la sua parabola politica e quella della sinistra italiana comunista e postcomunista. Ché Macaluso da uomo del Novecento era un totus politicus, un togliattiano puro educato al realismo e la gradualismo, anziché alla vaghezza dell’utopia rivoluzionaria. Fino a qualche mese fa era ancora possibile vederlo passeggiare per le strade di Testaccio, il popolare quartiere di Roma dove abitava in una casa piccola e austera, zeppa di libri. Poi il ricovero a Natale per il cuore e la fine.

Macaluso era siciliano. Era nato a Caltanissetta il 21 marzo del 1924 e a sedici anni era già antifascista e clandestino. Divenne comunista in sanatorio, dove si trovava per curare la tubercolosi. Quando uscì, un incontro che gli procurò non pochi guai giudiziari, oltra a una profonda felicità privata. S’innamorò di Lina, giovane come lui, che però si era già sposata a tredici anni e aveva due figli. Andarono a vivere insieme e dopo la Liberazione gli avversari politici spinsero il marito della donna a denunciare la coppia. Accadde così che i due finirono in carcere per adulterio. Anche per questo motivo, Macaluso, venne dirottato dal partito nisseno al sindacato e a soli ventitré anni si ritrovò segretario regionale della Cgil, chiamato da Giuseppe Di Vittorio.

Fu un’esperienza decisiva: nella Sicilia del latifondismo mafioso, stare dalla parte dei contadini comportava un prezzo pesante: agguati e intimidazioni di boss e cosche. L’acme di questa deriva sanguinosa fu la strage di Portella della Ginestra, il primo maggio del 1947. Negli anni Cinquanta, Macaluso ritornò anche all’impegno col Pci e da consigliere regionale varò la famosa operazione Milazzo, una manovra che ribaltò il governo regionale dc grazie a un’alleanza con dissidenti scudocrociati e pezzi di destra. Fu quindi segretario regionale del Pci e arrivò a Roma nel comitato centrale. Era il Partito di Palmiro Togliatti. il Migliore. Nel 1963, da deputato, iniziò la sua lunga esperienza parlamentare, terminata nel 1992 da senatore.

Togliattiano, fu ai vertici del Bottegone, in segreteria, con i successori del Migliore: Luigi Longo ed Enrico Berlinguer. A quest’ultimo fu molto legato ed è a lui che Berlinguer confidò la storia, a lungo segreta, dell’attentato subìto a Sofia nel 1973, nella Bulgaria comunista. Tuttavia, Macaluso si trovava a destra del “centro” berlingueriano erede del togliattismo, mentre a sinistra c’era l’anticapitalismo classista di Pietro Ingrao. Era la destra amendoliana, di cui Giorgio Napolitano è stato in seguito l’esponente più noto. Insomma, i riformisti oppure i miglioristi, una definizione che Macaluso rivendicava. Migliorista (e garantista), ma con un senso forte del partito e della sua struttura popolare, in termini di masse. Anche per questo dopo la Bolognina, Macaluso guardò con scetticismo alle evoluzioni postcomuniste culminate nel Pd. Un partito che lui considerava già morto alla nascita. Avrebbe preferito, Macaluso, una grande forza socialdemocratica. Alla guida dell’Unità dal 1982 al 1986, nella Seconda Repubblica ebbe un’intensa attività pubblicistica, dirigendo Le Ragioni del Socialismo e poi il Riformista e scrivendo numerosi saggi.

De Magistris si candida, la sinistra non sa che fare

È bastata una nota di Luigi de Magistris, tra l’altro annunciata da giorni, a mettere tutti spalle al muro in Calabria: Pd, M5S, civici e Sardine che da tre mesi sono alle prese con interpartitiche senza concludere nulla in vista delle prossime Regionali.

Il sindaco di Napoli ha sciolto la riserva e ha annunciato la sua candidatura a presidente della Regione: “Mi candido per amore della Calabria”. La notizia è arrivata in mattinata, quando de Magistris era già in tour tra la provincia di Cosenza e quella di Catanzaro per “costruire insieme alleanze, convergenze e candidature”.

Dopo dieci anni da sindaco della terza città italiana, per lui è un ritorno nella terra dove è stato pm dal 2003 al 2008, quando venne “cacciato per aver investigato il sistema criminale composto da politici, affaristi, magistrati, professionisti ed uomini delle istituzioni”.

Per chi lo ricorda con la toga e per come, da solo e senza partiti, ha guidato il capoluogo campano, la sua candidatura sta riscuotendo consensi. La speranza è di pescare voti nel partito più grande, quello dell’astensione, che l’anno scorso è arrivato al 56%. Intanto de Magistris ha già incassato il sostegno di Mimmo Lucano. E il sindaco di Napoli non nasconde l’entusiasmo: “Posso essere strumento per un processo di liberazione dal basso”.

La prima di de Magistris è stata con l’altro candidato civico, Carlo Tansi, che finora non ha mai messo in discussione la volontà di candidarsi lui stesso. Lo stallo c’è ancora, sentendo De Magistris: “L’incontro per me è andato bene, ma per costruire dobbiamo lavorare”.

E se per l’ex pm l’ipotesi di essere sostenuto dal M5S “è prematura”, il presidente dell’antimafia Nicola Morra dice “che non ha elementi per esprimermi a favore o contro” de Magistris: “Dovreste chiederlo a chi si occupa della campagna elettorale per il Movimento”. La verità è che i grillini non sanno come uscire dal guado, non hanno un candidato e ancora sono in forse pure le liste.

In casa Pd va anche peggio. I dem un nome ce l’avrebbero ed è quello del consigliere uscente Nicola Irto, 39 anni e 12mila voti alle ultime Regionali. Irto attirerebbe gran parte del centrosinistra, alcune civiche e, “se Zingaretti la finisse di fare l’amico del giaguaro solo a Roma – dice un esponente dem – si potrebbe pensare pure a un’alleanza con il M5S. Ma si deve fare ora, altrimenti la partita è persa”. Al riguardo, il commissario Pd locale, Stefano Graziano, rassicura: “Il nome arriva entro la fine della settimana”.

Il rischio è che il centrosinistra si sfaldi. Italia Viva alle comunali di Reggio ha preso quasi il 4% e alle Regionali potrebbe toccare un 6% che il senatore Ernesto Magorno è già pronto a portare in dote al centrodestra. Un pezzo del Pd, così, potrebbe seguirlo mentre l’altro ritornerebbe in mano all’ex governatore Mario Oliverio, messo da parte e pronto a rendere la cortesia. Consegnando la Regione alla destra.

Renzi è sempre più ricco: oltre un milione nel 2019

Poche ore prima del suo discorso contro Giuseppe Conte gli uffici del Senato hanno pubblicato la dichiarazione dei redditi di Matteo Renzi.

Il senatore ieri ha citato i dati sul Pil in calo ma il suo personale prodotto interno del 2019 è salito, di molto.

Matteo Renzi ha dichiarato un reddito complessivo di un milione e 92 mila e 131 euro per l’anno 2019 e ha pagato 425 mila e 655 euro di imposte.

Per avere un’idea, nel 2019 (redditi 2018) aveva dichiarato 811 mila euro e nel 2018 (redditi 2017 quando era senza posto in Parlamento) solo 29 mila e 315 euro. Da sindaco di Firenze nel 2013 era fermo a 98 mila euro mentre da premier nel 2016 dichiarava 103 mila euro: un decimo del 2019. Come senatore Renzi porta a casa 14 mila e 600 euro netti circa. Per arrivare a un milione e 92 mila euro quindi mancano all’appello 900 mila euro circa.

Tutte le entrate dei libri di Renzi dovrebbero aggirarsi sui 100 mila euro lordi di diritti. Per il documentario su Firenze prodotto da Lucio Presta fu pagato nel 2018 ben 453 mila euro e non sembra possibile che il senatore documentarista avanzasse ancora qualcosa nel 2019.

Quindi restano 800 mila euro ‘in cerca di autore’. In realtà la cifra sopra il milione non è una sorpresa. Renzi da tempo sostiene che i suoi redditi di conferenziere gli hanno fatto superare il milione di euro nel 2019. Con i suoi amici si è lamentato recentemente della flessione subita a causa del Covid che ha bloccato gli eventi. Renzi su Linkedin appare come un professionista: ‘public speaker’ si legge accanto al suo nome sul sito, non senatore, quello è scritto sotto come ‘attività’.

Ma quanto guadagna per uno speech Renzi?

La relazione dell’Uif di Banca d’Italia sulle operazioni bancarie sospette (ma lecite) connesse al prestito da 700 mila euro, ricevuto dalla famiglia Maestrelli e poi restituito per l’acquisto della casa, analizzava i conti di Matteo Renzi. Secondo L’espresso, che pubblicò la relazione UIF, il prestito per l’acquisto della casa fiorentina, fu restituito in parte, nel 2018, grazie al cachet da 453 mila euro pagato a Renzi da Presta per il documentario.

Per l’acquisto della casa Renzi ha contratto nel luglio 2018 con la moglie Agnese Landini un mutuo del Banco di Napoli da un milione. La restituzione avverrà con 360 rate (scadenza agosto del 2048, quando Renzi avrà 73 anni) di 3646 euro al mese.

Con questi redditi, Renzi non avrà problemi di restituzione.

Nel 2018, secondo le relazioni Uif pubblicate da L’espresso, sopra citate, per due interventi in Inghilterra, il senatore ha fatturato alla Algebris fondata dall’amico Davide Serra 57 mila euro. Altri 84 mila euro sono arrivati sempre nel 2018 dalla società Celebrity Speakers per quattro interventi del 3 e 4 giugno e poi del 18 e 19 settembre. Per un evento in Kazakistan a Renzi nel 2018 è stato pagato un gettone di 10 mila euro.

Su Linkedin figura come public speaker che fa anche attività di senatore e di docente alla Stanford University di Firenze.

Il 2019 è stato l’anno del boom dei suoi speech. A gennaio è a New York per Goldman Sachs. A febbraio è a Riyadh per la Commissione Saudita per il Turismo. A marzo è negli Emirati per due eventi: a Dubai parla di Educazione Globale e ad Abu Dhaby alla New York University.

Sempre a marzo vola a Londra dagli amici di Algebris e poi fa un dibattito alla Debt Capital Markets Conference.

Il 4 aprile alle 16 e 10 parla a Zurigo al Fund Experts Forum e alle 18 e 9 minuti l’Ansa batte: “Governo: Renzi, Salvini-Di Maio basta scuse e foto al parco”. Il senatore è duro con i due ministri: “Li paghiamo per risolvere i problemi: quando se ne renderanno conto?”.

Ad Aprile torna a Riyadh per la Financial Sector Conference. A maggio va allo Swiss Economic Forum di Interlaken e ad Astana in Kazakhstan per il 12esimo Economic Forum. A giugno è a Zurigo per Banque Pictet & Cie.

Poi vola in Cina. La Bojin International lo aveva già invitato alla fine del 2018 e gli organizza un tour. Il 23 è a Pechino (dove interviene anche a un secondo evento per Glaubicz Garwolinska Consultants Conference) poi il 24 giugno a Qingdao e il 25 è a Tai’an. A giugno è a Seoul per l’Asian Leadership Conference 2019. A luglio ad Atene per The Economist. A ottobre vola a New York e a novembre del 2019 è a Londra per parlare di Europa alla Bnp.

Ieri in Senato Renzi ai suoi confidava: “Ora che siamo fuori dal governo farò ancora più conferenze e guadagnerò di più”.

Finestre aperte, bollette e Covid: benvenuto governo Di Maie

Fuori ci sono 5 gradi, ma le finestre del Salone Garibaldi sono tutte spalancate: unico modo di lavarsi la coscienza per questo assembramento in spregio alle norme anti-Covid. “Abbiamo avuto 150 richieste di accredito – ammette la vicepresidente del Senato, Paola Taverna – almeno fossero stati voti…”. Ma qui oggi, nella folla di Palazzo Madama, i veri “big” non sono i ministri, i leader di partito, le cariche istituzionali: brillano nuovi e vecchi peones, i cui voti ora pesano una legislatura intera. “Oggi giura il governo Di Maie”, sghignazza il forzista Maurizio Gasparri, prendendo a prestito la sigla del partitino degli italiani all’estero a cui sono approdati i primi “volenterosi”. Ed ecco Saverio De Bonis, ex grillino e ora costruttore, dispiaciuto perché “Nencini poteva essere più inclusivo”. E poco più in là, senti Tommaso Cerno, che al telefono si accalora: “Sono entrato nel Pd, ma non ho mica preso la tessera eh!”. Paola Binetti intrattiene gli interlocutori mimando con il piede sul pavimento gli spostamenti da destra a sinistra mentre “noi siamo al centro da sempre”, ricorda battendo le Melluso al suolo. Per non parlare degli assenti: lo sventurato Francesco Castiello si è beccato il Covid, ieri mattina si è negativizzato, qualcuno era pure disposto ad andarlo a prendere (“Io da qui a Napoli ci metto 58 minuti”, si offre il collega Dessì), ma una complicazione lo ha tenuto lontano. Altri sono in cerca di una vetrina: “Se non lo facciamo parlare, non vota la fiducia”, si preoccupa un 5Stelle. Invece il palco se lo sono presi da soli, Domenico Scilipoti e Antonio Razzi. Il primo fa interviste a gettone, l’altro ostenta indifferenza: “Il portiere mi ha chiamato per una bolletta del gas”. Così, con la scusa della casa che ha lì vicino, s’è affacciato a vedere lo spettacolo: “La regola mica vale solo per me – dice, omaggiando se stesso e Maurizio Crozza – tutti pensano ai cazzi loro”. Poi, passa Liliana Segre, ma lui per fortuna era già andato a pranzo.

“Conte è meglio di Renzi: è umile, ci ha chiesto aiuto”

“È stata una decisione maturata nelle ultime settimane e presa all’ultimo minuto. Non lo sapeva nessuno”. Renata Polverini, ex presidente della Regione Lazio e, dal 2013, deputata del Pdl e di Forza Italia, lunedì sera a sorpresa ha votato la fiducia al governo Conte, mettendosi di fatto fuori da FI. Ora si è spostata nel Misto, in attesa che nasca “una forza moderata di centro che faccia riferimento a Giuseppe Conte”. Ieri sera è tornata da Giovanni Floris, dove per lei tutto cominciò, nel 2008.

Onorevole, sono un paio d’anni che lei è data in uscita da FI. Sembrava dover passare a Italia Viva.

Quando Renzi è uscito dal Pd ho seguito le sue mosse con attenzione. Ci siamo parlati, lui mi ha chiesto di entrare, ma alla fine ho detto no. Non mi ha convinto il suo progetto e, a pelle, non mi ha convinto lui.

Renzi ora parla di “soccorso nero” a Conte…

Be’, se facevo così schifo, perché mi ha cercata fino a qualche mese fa?

Perché Renzi ha aperto la crisi?

È incomprensibile. Non ho sentito nessuno dire che ha fatto bene.

Com’è nata la folgorazione per Conte?

Con il premier ho iniziato un confronto qualche tempo fa, ci capiamo perché in lui ho trovato una persona normale, come lo sono io. La spinta finale, però, mi è venuta ascoltando l’appello ai “costruttori” da parte del presidente Mattarella. Ho deciso solo dopo il discorso di Conte alla Camera. Mi sono piaciuti i contenuti, ma soprattutto il tono. In un mondo cinico come quello della politica, la sua richiesta di aiuto è stata un gesto di umiltà che gli fa onore e mi ha commosso. E poi sono andata a risentirmi il discorso di quando mi sono dimessa da governatrice del Lazio (a seguito delle polemiche sulle “spese pazze” che investirono il Consiglio, ndr). In politica, a volte, bisogna rischiare.

Le è stato offerto qualche incarico?

Assolutamente no. Io le cose me le devo sempre conquistare. A me interessa il progetto politico.

Sarà la prima iscritta al partito di Conte?

Non so se il premier avrà voglia di scendere in campo con un suo soggetto. Ma credo che ci sia la possibilità di lavorare a una forza moderata, liberale, europeista, che stia tra Ppe e il Pse, in quello spazio che né Renzi né Calenda sono stati capaci di occupare.

FI non andava bene?

Non era più quella fondata da Berlusconi. Il mio disagio nasce proprio a causa di una deriva sempre più forte verso una destra sovranista e populista che non è la mia destra, che è quella sociale.

C’è pure una sua foto col braccio teso.

In vita mia non ho mai fatto il saluto romano! Quello è un fermo immagine di un momento in cui stavo salutando. La mia prima tessera di partito è stata quella del Pdl. Prima ho fatto politica guidando il sindacato di destra, l’Ugl, e ancora mi considero tale: una sindacalista. Sono lontana dalla destra populista di Meloni e Salvini. I miei colleghi forzisti mi chiamavano “compagna Polverini”.

Nessuno del suo partito ha provato a trattenerla?

No, perché non lo sapeva nessuno. Oggi (ieri, ndr) Gianni Letta mi ha detto: ma perché non ce ne hai parlato?

E Berlusconi?

Per lui nutrirò sempre grande affetto e stima. L’ho chiamato, ma non sono riuscita a parlarci.

Dagospia ha messo in relazione il suo passaggio in maggioranza a una sua presunta relazione sentimentale con Luca Lotti.

Lotti è una persona con cui parlo e mi confronto politicamente da tempo. Tra noi è nata un’amicizia, ma non c’è nulla di più. Nessuna relazione.

Lo slogan della sua campagna per la Regione Lazio nel 2009 era “Con Te”. Un presagio?

Ah ah. Ci abbiamo riso con Conte. Mi ha detto: “Vedi che ti eri portata avanti…?”.

A Salvini e a Meloni piace il trasformista (se è loro)

Che straordinario senso del ridicolo hanno i leader della destra che gridano allo scandalo. In aula Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno alzato il volume della retorica, strillando per il “mercimonio” e la “squallida compravendita” dei parlamentari in soccorso al governo. Si sottovalutano: sono entrambi cultori della materia, praticano il calciomercato della politica con talento e disinvoltura da anni, senza tanto clamore.

Nelle sue sanguigne invettive contro il governo, Meloni si è dimenticata di sé, del suo passato più e meno recente. Una vita fa, nel 2008, giurava come ministra della Gioventù nel governo Berlusconi IV, quello della zuffa con Gianfranco Fini e del divorzio tra Forza Italia e una parte della destra post fascista. La ministra Meloni rimase aggrappata a Silvio (abbandonato due anni dopo per fondare Fratelli d’Italia) e non fu per nulla scandalizzata dal mercimonio, quello sì, messo in piedi da Berlusconi per barricarsi a Palazzo Chigi nel 2010: la più famosa campagna acquisti di “responsabili” della storia, quella che ha regalato alla frenologia e alla politica italiana i profili di Antonio Razzi e Domenico Scilipoti (oltre a una micidiale squadra di parlamentari pentiti, tra cui Michele Pisacane, Francesco Saverio Romano, Calogero Mannino, Massimo Calearo e Bruno Cesario). Non era nemmeno la prima crisi parlamentare pilotata da Berlusconi grazie alle sue straordinarie risorse persuasive: quattro ani prima in Senato aveva fatto cadere Prodi grazie al sostegno, tra gli altri, di un galantuomo come Sergio De Gregorio (passato a Forza Italia, confesserà, dietro al pagamento di “quasi 3 milioni di euro”). Nemmeno allora si ricordano interventi scandalizzati della giovane deputata di Alleanza Nazionale Giorgia Meloni, che stava scoprendo il peso e la solennità delle istituzioni da vicepresidente della Camera.

Oggi che fustiga Conte “Barbapapà”, Meloni chiude un occhio sul “mercimonio” di casa sua. Fratelli d’Italia in questa legislatura ha perso un deputato (Maria Teresa Baldini, passata in FI) e ne ha guadagnati tre: l’ex forzista Galeazzo Bignami e i due ex grillini Davide Galantino e Salvatore Caiata. Ma a livello locale la campagna acquisti dei meloniani è stata ciclopica, nello sforzo di svuotare quel che resta del partito di Berlusconi e respingere la concorrenza della Lega: transfughi ovunque, da Nord a Sud; piccoli consiglieri (a Cuneo addirittura uno eletto nel centrosinistra, Alberto Coggiola) e grandi notabili locali (i patti con Raffaele Fitto in Puglia e Michele Iorio in Molise).

L’altro censore della “squallida compravendita” parlamentare, Salvini, è fuori categoria: gioca un campionato a sé, considerato che l’intero gruppo leghista è stato eletto nel quadro di un’alleanza di centrodestra che il “capitano” ha tradito subito dopo il voto, andando al governo con il M5S. La Lega più di ogni altro partito ha beneficiato dei cambi di casacca: in questa legislatura sono 11 gli eletti convertiti al salvinismo (uno solo ha fatto il percorso inverso). Sei ex berlusconiani (Laura Ravetto, Federica Zanella, Maurizio Carrara, Antonino Minardo, Benedetta Fiorini, Elena Testor e 5 ex grillini (Antonio Zennaro, Ugo Grassi, Stefano Lucidi, Alessandra Riccardi, Francesco Urraro).

Il vero capolavoro la Lega l’ha fatto a livello locale. La svolta nazionalista di Salvini ha richiesto la creazione dal nulla di una classe dirigente al Sud, dove ha saccheggiato quelle degli altri partiti. Per spazio ci si deve limitare ad alcuni degli esempi più illustri: i primi salviniani in Sicilia, Alessandro Pagano e Angelo Attaguile, entrambi ex democristiani (il primo persino alfaniano) indagati per voto di scambio, poi Angelo Collura (pure lui vicino ad Alfano), Igor Gelarda (ex grillino), Giuseppe Savoca (ex Pd). In Campania a guidare il partito di Salvini c’era Vincenzo Nespoli, ex An, di recente condannato a 8 anni per bancarotta e riciclaggio. In Puglia, Salvini ha svuotato il serbatoio di Berlusconi e si è affidato ai due “fittiani” Nuccio Altieri e Roberto Marti (pure lui in un’inchiesta su case popolari e Sacra Corona). Quando Salvini sembrava il cavallo vincente, era una corsa a cambiare partito.