Cravatta verde: Renzi “leghista” Pd spettatore sui Responsabili

Quando Matteo Renzi finisce di parlare, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, seduti ai banchi del governo, si guardano, si scambiano rapidamente un’impressione. L’ex premier non ha ufficializzato l’astensione e improvvisamente i conti potrebbero non tornare. I due sono i ministri che fino al momento dello strappo hanno tenuto aperta la trattativa con Renzi. E sono i più vicini al centro moderato. Il capo delegazione dem tiene aperto il dialogo con l’Udc per i tre voti che servirebbero da subito, per provare a far partire l’operazione di un governo politico con una “quarta gamba” centrista e che poi deve arrivare a FI. Ma Pier Ferdinando Casini li tiene fermi, gioca su più tavoli, anche in virtù della sua vicinanza a Renzi.

L’ex premier sa che la maggioranza è in affanno: e dunque attacca frontalmente Giuseppe Conte, pur se con toni più composti di quelli utilizzati in questi giorni. Ma non ufficializza l’astensione annunciata a mezzo stampa. Si ferma prima: “Volete andare avanti con una maggioranza raccogliticcia? Bene, andate avanti, mi auguro sia maggioranza, raccogliticcia lo è di sicuro”. Parla per venti minuti, leggendo gli appunti di un intervento limato accuratamente. Sembra un segnale appositamente scelto la cravatta verde che ammicca ai colori della Lega. Non c’è niente di scontato.

Nel frattempo i fedelissimi rifanno i conti. Votare no resta una tentazione, espressa esplicitamente dai falchi, come Ernesto Magorno. Anche l’ex premier ci pensa, nel caso i numeri siano abbastanza per mandare sotto il governo.

Il parziale immobilismo scelto dal Pd contribuisce ad aumentare i giochi e la confusione. In Senato per tutto il giorno si vedono arrivare deputati M5s, nel tentativo di dare il proprio contributo al suk un po’ isterico in cui si è trasformato Palazzo Madama. I dem sono defilati. “Non vogliamo gonfiare troppo Conte”, raccontano voci interne al partito. Traduzione: i dem hanno lasciato al premier l’onere e l’onore di conquistarsi la sua maggioranza, dando il loro avallo all’operazione politica, ma senza intervenire troppo, fatto salvo il pressing di Franceschini. Ma controllando che il pallottoliere continui a segnare un numero intermedio: 156 sì sarebbero abbastanza per provare ad andare avanti, troppo pochi per evitare un rimpasto corposo.

“Un patto di legislatura ha bisogno di una maggioranza politica coesa e larga. Per questo è giusto chiedere a chi vuole dare un contributo al Paese di esserci”, scandisce in Aula Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori Pd, aprendo ai centristi. Nel frattempo, il capogruppo Andrea Marcucci nei corridoi chiude a Renzi con parole che sembrano inequivocabili. “Se volete tornare alla politica, sapete dove trovarci”, ha sfidato così il suo ex partito il fu Rottamatore. Non ci sono gli estremi. Non si va molto oltre la mozione degli affetti nell’incontro quasi casuale tra lui e Guerini.

Intanto da giorni il partito di Nicola Zingaretti avverte che serve un nuovo patto politico, ricorda che Conte deve cambiare passo. È pronto a chiedere un rimpasto vero e proprio. Si aspetta di partecipare alla redistribuzione dei posti, vuole entrare nella governance del Recovery Fund. In palio, se Luciana Lamorgese va ai Servizi segreti, c’è il Viminale. In pole per entrare nell’esecutivo c’è Andrea Orlando. Ma se il nuovo gruppo si forma rapidamente, il governo assume una forma politicamente compiuta. Se ciò non accade, si scivola verso le elezioni, magari a primavera inoltrata. O verso un governo istituzionale, dopo l’apertura del semestre bianco.

Intanto, la giornata va avanti. Dopo la replica del premier, Teresa Bellanova annuncia l’astensione di Iv. Tra i renziani si valuta pure di uscire dall’Aula per far mancare il numero legale e spedire Conte al Colle. Saltano la prima chiama per verificare la tenuta della maggioranza. Tra loro i dem cercano qualche sì: gli attenzionati sono Comincini, Conzatti, Grimani, oltre a Nencini. E poi intervengono in extremis a chiudere sui sì di FI, Causin e la Rossi. Nelle ultime, frenetiche ore della giornata, la trattativa per il governo, non può neanche partire. Troppe incognite.

Per blindare aula e commissioni dieci “costruttori”

Li ha chiamati uno a uno, durante la pausa pranzo. E poi, nella replica del pomeriggio, li ha nominati (“Senatrice Drago…”, “Senatore Nencini…”) davanti a tutto l’emiciclo per rispondere alle loro critiche e recuperare quei voti in bilico. Ma il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che per tutto il giorno si tiene informato sul pallottoliere via Whatsapp con i suoi collaboratori, ci è quasi riuscito: i “volenterosi” al Senato sono 7 e vengono anche da Forza Italia. Più il renziano Riccardo Nencini e l’ex 5S Lello Ciampolillo. “Gli altri arriveranno nei prossimi giorni, a scoppio ritardato” ironizza amaro un pontiere. Alla fine la fiducia a Palazzo Madama passa con 156 voti contro i 140 dell’opposizione (con 3 senatori a vita, ma manca un M5S assente per Covid). Poco sotto i 158 su cui si scommetteva ieri mattina. Mancano gli ex M5S – Mario Giarrussoe Tiziana Drago. Ma a puntellare il governo ci pensano due ex FI, portati dagli sherpa Pd: Andrea Causin(“da Conte una nuova stagione”) e Mariarosaria Rossi, l’ex “badante” di Silvio Berlusconi (subito espulsi). Qualcuno lo legge come un segnale dell’ex premier per il governo.

Incassata la fiducia, da oggi si apre la trattativa per allargare la maggioranza ai centristi. Obiettivo: dieci voti per blindarsi al Senato. Sicché nelle ultime ore si sono intensificati i contatti con l’Udc che chiede un ministero di peso, come la Famiglia, in cambio dei suoi tre voti al Senato (“Ma poi non c’è più posto in Consiglio dei ministri, va aperto il secondo anello” scherza il ministro Stefano Patuanelli). E se Paola Binetti si aggira per il Salone Garibaldi dicendo “mai dire mai”, l’outing lo fa Antonio Saccone, avvicinato dal ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà: “Voteremo no, ma siamo pronti ad accogliere le proposte del governo”. I tre senatori centristi si porteranno dietro altri tre di FI (Luigi Vitali, Mariarosaria Rossi e Andrea Causin) ma la speranza è di svuotare il gruppo renziano: da lì potrebbero arrivarne 4-5 che ieri erano già pronti a lasciare il capo in caso di “No” al voto di fiducia.

E il nuovo gruppo centrista è necessario per evitare il Vietnam nelle commissioni dove i renziani sono quasi ovunque l’ago della bilancia. Obiettivo: neutralizzarli. In primis, Iv ha due presidenti alla Camera (Luigi Marattin e Raffaella Paita) e al Senato (Anna Maria Parente e Riccardo Nencini). Poltrone che pesano per velocizzare o rallentare l’iter delle leggi. Alla Camera l’unica commissione dove i giallorosa sono autosufficienti è la “Affari Sociali” e i renziani sono decisivi nelle più pesanti: la Giustizia e Affari costituzionali dove arriveranno la riforma del processo penale e la legge elettorale. Stesso discorso al Senato dove in 10 su 14 commissioni i giallorosa rischiano di andare sotto: dalla Affari Costituzionali alla Giustizia ma anche nella Bilancio dove arriverà il Recovery Plan. Dal Pd si dicono tranquilli ché “se Renzi vuole bloccare le commissioni, i suoi lo mollano”. Ma a Montecitorio Bruno Tabacci sta provando ad allargare il gruppo per neutralizzare Iv, mentre al Senato l’operazione del gruppo centrista, tra cui 5 renziani, diventa fondamentale. Ma questa partita inizia oggi.

Conte sul filo: tocca quota 156. Il voto finale si chiude al Var

L’avvocato soffre fino a tarda sera, ma è salvo. Esce incolume dall’ordalia del Senato, Giuseppe Conte, con 156 sì, di cui due recuperati all’ultimo secondo, e 140 no alla fiducia. Il premier resta lontano dalla vetta dei 161 voti, la maggioranza assoluta. Ed è stata comunque decisiva l’astensione dei 18 eletti di Italia Viva, la creatura di Matteo Renzi. Ma non gli è andata male, anche grazie ai due inaspettati sì dei forzisti, Mariarosaria Rossi e Marco Causin, cacciati in diretta da FI.

Così Conte può respirare, “anche perché mancava un 5Stelle con il Covid e voti come quelli della Binetti (Udc) si possono recuperare” ricordano. Ma da oggi dovrà correre, cioè darsi da fare perché nascano prima possibile due gruppi centristi nelle due Camere, di cui uno, vitale, proprio a palazzo Madama. “Fatti quelli, si potrà arrivare al rimpasto” dice un dem ben addentrato. Ossia a “quel rafforzamento della squadra di governo” che ieri il premier è tornato a promettere, per attirare Responsabili ma anche per tranquillizzare il il Pd e il M5S. Ieri in ambienti di governo girava già una sorta di nuova lista, con il ministero dei Trasporti e Infrastrutture scorporato in due dicasteri, e la resurrezione del ministero delle Pari opportunità. In pratica, modi per allargare la squadra con nuovi posti, senza sconvolgere l’assetto, quindi senza le dimissioni del premier. Però un Conte ter, formale o solo di fatto, pare inevitabile. Ma con che tempi? “Potrebbero servire settimane” dicono da ambienti di Palazzo Chigi. Ma tutto questo tempo a occhio Conte non lo ha.

Lo sa bene il premier, che ieri mattina in Senato ammette subito: “I numeri sono importanti e oggi ancora di più, questo è un passaggio fondamentale”. Al punto che il premier evoca la “rabbia” che cova lì fuori, così da teorizzare: “Solo la politica può evitare che il malessere diventi contrapposizione”. Tradotto, se questo governo non regge si potrebbe rischiare. D’altronde per tutto il giorno dal governo fanno filtrare preoccupazione, per smuovere indecisi e spingerli a votare per la maggioranza. “Drammatizzare, evocando il rischio del voto” è la linea, predicadagli sherpa che fino all’ultimo momento in Senato avvicinano gli eletti. “Il presidente è sempre al telefono” sussurrano, per lo meno nelle pause per la sanificazione dopo il suo intervento in mattinata. Conte chiama e manda messaggi chiedendo di continuo lo stato dei numeri al ministro per i Rapporti con il Parlamento, il grillino Federico D’Incà, che tiene il filo delle trattative. Nel tardo pomeriggio ascolta i 20 minuti di critiche e frecciate di Matteo Renzi, sfogliando carte. Poco dopo tocca ancora al premier per le repliche, e cita subito “il preoccupante calo demografico”, per rincorrere il voto dell’ex 5Stelle Tiziana Drago (inutilmente). Soprattutto, risponde a Renzi sul primato di morti per l’Italia: “Siamo stati i primi colpiti dalla crisi e non avevamo il manuale. E da noi non si invecchia bene”. Poi si rivolge direttamente al fu rottamatore: “Avete bloccato per 40 giorni il Recovery Plan, ma quando mai non si è potuto discutere? Nessuno vi ha mai chiuso le porte”. E glielo rinfaccia: “Avete scelto la strada dell’aggressione”. Precisa ma non picchia, il premier. L’astensione di Iv serve. E alla fine riconosce: “Se non ci sono i numeri questa maggioranza va a casa”. E infatti rimette sul tavolo “il rafforzamento della squadra di governo”. È disposto a concedere, tanto: “Quando parlavo di squadra migliore del mondo usavo un’iperbole”.

In serata, il voto e il giallo finale del sì dell’ex 5Stelle Ciampolillo. I ministri vanno tutti dalla presidente Casellati, per far ammettere il suo voto. E Ciampolillo e il socialista Nencini sono ammessi come sì. Patemi, da crisi.

Ora però piantatela

Viste le premesse, in Senato poteva andare molto peggio. Ma anche molto meglio, se nel Pd tutti avessero remato nella stessa direzione come nel M5S e in LeU. Quattro giorni fa il dem Walter Verini dichiarava al Dubbio che i parlamentari scippati da Iv al Pd “non c’è bisogno di andarli a cercare”, perché il loro “smarrimento si tocca con mano”. Possibile che in quattro giorni il Pd non sia riuscito a riconquistarne nemmeno uno in Senato? Del resto domenica è stato Di Maio, non il suo capogruppo Delrio, a scoprire che l’ex leader e deputato del Pd Maurizio Martina pensava di astenersi sulla fiducia perché in procinto di passare alla Fao, quando ancora i giallorosa temevano di mancare la maggioranza assoluta pure alla Camera, e a convincerlo a votare in extremis. L’impressione è che una parte del Pd sperasse di sfregiare il premier, per tenerlo in piedi ma zoppo e forzargli la mano in vista di un rimpastone o addirittura di un nuovo governo con chi scalpita all’uscio di Palazzo Chigi, magari al posto di ottimi ministri come la Lamorgese.

Il che fa tremare al pensiero dello spettacolo che potremmo ciucciarci nei prossimi giorni: un nuovo mercato delle poltrone che paralizzi il governo per altre settimane, cioè un pernacchione in faccia agli italiani che da ieri sera speravano di aver archiviato questa crisi demenziale. Il governo l’ha sfangata. E Conte è riuscito, almeno per ora, nel capolavoro di liberarci dai due massimi irresponsabili della politica: i due Matteo. Ma se il governo perderà altro tempo non per rimpiazzare i ministri che i rispettivi partiti ritengano inadeguati e riempire le caselle vuote con un riconoscimento ai nuovi venuti, ma per rimettere tutto in discussione, peggio se con una crisi formale per il “Conte ter” che richiederebbe giorni e giorni di chiacchiere inutili e incomprensibili, si giocherà la fiducia di quella maggioranza di italiani che dicono: “Meglio un governo coi responsabili che con gli irresponsabili”. E potrebbe financo resuscitare i due Matteo, che al momento languono al minimo storico della loro parabola politica. L’Innominabile, supportato dagli opinionisti della destra e della sinistra salviniana, ha tentato anche ieri di rivoltare la frittata con le solite balle. Ha persino attribuito la crisi più pazza del mondo a un fantomatico “arrocco personale” di Conte contro di lui, quando tutti sanno che è accaduto l’opposto: è stato lui a rovesciare il governo ritirando la sua delegazione e dando al premier del “vulnus per la democrazia”. Ma a furia di sentir ripetere quelle panzane, col coro della stampa dei padroni alle spalle, i ricordi sbiadiranno. E, se gli italiani non vedranno subito un governo che si rimette al lavoro, risorgeranno anche i morti.

“Cara sorella, noi Wittgenstein abbiamo pellacce dure: in casa non c’è alcuna tenerezza”

Cara Mining! Prevedo che si tratterà di una lunga lettera. Ti voglio infatti scrivere di un argomento sul quale mi ero proposto di scriverti già da tanto tempo e ti prego di prendere davvero in considerazione quello che ti dico, e di non gettarlo al vento. Voglio chiedere a te e a Paul qualcosa che riguarda la nostra festa di Natale. Tu sai certo che questa festa, da quando mamma è morta, non è più stata del tutto soddisfacente, e credo anche che questo sia ovvio; prima di dare spiegazioni voglio però esprimere la mia preghiera, che è quella di invitare alla festa alcuni amici a cui siamo tutti affezionati. Ora, la ragione è che neppure noi cinque fratelli (ma ancor meno noi con i nostri nipoti) siamo fatti in modo da formare insieme una bella compagnia senza il condimento degli amici: tu puoi magari conversare con me e con la Gretl, ma chiacchierare insieme tutti e tre diventa già più difficile. Ancora meno facile è fra Paul e Gretl. La Helene va d’accordo con tutti noi, ma non ci verrebbe in mente di riunirci a tre: io, te e Helene.

Siamo, insomma, delle pellacce dure e coriacee, che per questo faticano ad avvicinarsi l’un l’altro con tenerezza. – Invece le cose funzionano a meraviglia se con noi ci sono degli amici che hanno toni più leggeri e che portano nella compagnia quello che a noi manca. Che ci sia possibile vedere i fratelli di domenica nella Alleegasse lo dobbiamo soltanto ai nostri amici. Non intendo dire naturalmente che i fratelli si radunino nella Alleegasse solo per incontrarvi gli amici e non i loro fratelli e parenti, ma essendo in tanti è più confortevole anche per noi se siamo diluiti dagli amici. Se vi riflettete, arriverete alla medesima conclusione, ammesso che non vi sia già nota. Ora non credo affatto che si possa dire: ma è davvero triste che non siamo in grado di stare bene soltanto fra di noi. La cosa non è affatto triste; le nostre nature sono semplicemente così, e le nostre migliori qualità dipendono in parte da questo fatto. – Fra di noi riusciamo a chiacchierare, ossia a socializzare a due a due – ma non arriviamo a fare giochi e cose simili. E quando si sta insieme, bisogna fare qualcosa. È un non senso voler stare bene insieme senza che vi sia qualcosa di comune a tutti – (e la piacevolezza in sé non è un’attività). Né è sufficiente stare soltanto a rimirare l’albero e i regali… Ripeto: non si capisce perché proprio quella sera dovremmo riuscire a realizzare con successo quello che per tutto l’anno non possiamo o non vogliamo fare, ossia stare insieme noi cinque senza amici… Vi saluta cordialmente il vostro Ludwig.

novembre 1929

“L’isola di Arturo” diventa Capitale della cultura 2022

Cesare Brandi: “Un allineamento di case alte, di tutti i colori, strette come una barricata con tante arcate chiuse a mezzo, come strizzassero un occhio”. Carlo Collodi: “Un’isoletta piccola e carina, che a girarla intorno sarebbe una passeggiata di quattro chilometri appena”. Toti Scialoja: “Piatta come una scodella rovesciata, una dolcezza ondulata che si prolunga e si scioglie nel mare”. Niente più che un puntino sul mappamondo. Eppure a ogni angolo ecco la scenografia di un romanzo, di una poesia, di un film, di un dipinto.

Pochi luoghi come Procida hanno fomentato l’ispirazione degli artisti, da Boccaccio a Alphonse de Lamartine (durante un suo viaggio in Italia fu folgorato da una giovane isolana, Graziella. L’amore tra il poeta e la ragazza fu vissuto sullo sfondo idilliaco dell’isola, luogo di ambientazione del suo romanzo Graziella del 1852). Suona come un riconoscimento più che meritato l’annuncio del ministro Franceschini che proprio Procida sarà Capitale italiana della cultura nel 2022.

“Sarà una buona occasione per tornarci mezzo secolo dopo perché non ci ho più rimesso piede. Procida per me è più letteratura che realtà”. Commenta così la notizia al nostro giornale il 77enne scrittore e critico romano Franco Cordelli, che alla famosa isola in provincia di Napoli consacrò il suo esordio letterario. “Andai a Procida nell’estate del 1969 su invito del poeta Elio Pagliarani, con il quale lavoravo a Paese Sera. Lui aveva preso in affitto una casa. Avrei dovuto restarci almeno due settimane ma in capo a due tre giorni scappai, annichilito dalla ingombrante personalità di Pagliarani. Forse scontai un complesso di Edipo. Scappai e la mia reazione fu quella di scrivere Procida, che uscì nel 1973. Il libro nacque da una specie di rivolta contro la letteratura sperimentale, sulla quale pure mi ero formato”.

Racconta ancora Cordelli: “Procida è per antonomasia L’isola di Arturo di Elsa Morante. Per descrivere l’isola decisi di ricopiare due passaggi da quel romanzo. Riprodurli però mi sembrò innaturale e li modificai secondo il mio estro. Anni dopo venni a sapere che la Morante non mi perdonò mai di avere profanato la sua prosa”.

Il rapporto tra il maestro Pagliarani e l’allievo Cordelli sembra ricalcare fatalmente il rapporto tra l’adolescente Arturo e il padre Wilhelm nel menzionato capolavoro della Morante, vincitore del premio Strega nel 1957. Arturo cresce in solitudine tra le spiagge e le scogliere (“La mia isola ha straducce solitarie chiuse tra muri antichi”). Il padre Wilhelm è spesso assente per lavoro e lui trascorre l’infanzia a idolatrarlo inventando storie fantasiose sui suoi viaggi. Quando il padre ricompare con Nunziata, la sua giovane sposa e coetanea di Arturo, il ragazzino se ne innamora ma viene respinto. Crescendo Arturo scopre la disillusione: l’Eden di Procida è ormai troppo stretto, è giunto il momento di affrontare la vita vera e non più quella sognata. Arturo abbandona così la sua infanzia, il suo paradiso, la sua isola, per partire “adulto” verso la terraferma.

Se un tempo si andava al cinema per vedere il mondo, oggi capita di muoversi nel mondo per ritrovare i luoghi che si sono visti sul grande schermo. Ben 40 pellicole sono state girate a Procida. Da Il corsaro dell’isola verde del 1952 a Vaghe stelle dell’Orsa di Visconti nel 1965, fino al recente Il talento di Mr. Ripley con Matt Damon nel 1999. Ma certamente il film che restituisce la bellezza di Procida e che la immortala nell’immaginario collettivo è Il postino di Massimo Troisi, uscito nel 1994.

Le sirene della mondanità non hanno mai sedotto Procida, che conserva un volto autentico, senza le superfetazioni del lusso. Non ci sono negozi griffati, come nelle isole vicine. Si respira ancora l’aria di un’Italia che non c’è più. Forse per questo Troisi scelse l’isola per raccontare l’amicizia negli anni 50 tra il poeta Pablo Neruda e Mario Ruoppolo, un disoccupato figlio di pescatori. Mario nel film pronuncia la battuta, che potrebbe valere anche per Procida sotto i riflettori nel 2022: “La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve”.

Il filosofo giardiniere: Ludwig. “Lettere alla famiglia” di folli

Tra tutte le famiglie “infelici a modo loro” quella dei Wittgenstein è esemplare: “Uno tiranneggia amorevolmente l’altro”, tre figli su otto si suicidano e gli altri, i sopravvissuti, sono “pellacce dure e coriacee, che per questo faticano ad avvicinarsi con tenerezza”.

Da tale stirpe dannata discende il più grande filosofo del Novecento: Ludwig Wittgenstein (1889-1951), che ha “avuto una vita meravigliosa”, dice lui, con humour austriaco, lontano dallo stereotipo dell’intellettuale grigio e ammuffito. Tornano ora, dopo 23 anni dalla prima edizione (Archinto), le sue Lettere alla famiglia (1908-1951), dal valore più aneddotico che teoretico, ma preziose per inquadrare il genio eclettico e fumantino del primo pensatore del secolo breve, che è stato soprattutto altro: eremita, soldato, giardiniere, maestro, cacciatore di aquiloni… Vostro fratello Ludwig è un’antologia riveduta, corretta e ampliata, in libreria da giovedì con Mimesis: raccoglie perlopiù missive alle e dalle sorelle Helene, Hermine e Margarete, oltre a qualche traccia dell’amato fratello Paul e della nipote.

Ottavo e ultimo figlio dell’industriale Karl Wittgenstein, Ludwig perde tre fratelli su sette per suicidio – Hans, Rudolf e Kurt –, ma anche con gli altri non intrattiene sempre rapporti idilliaci (si legga la lettera qui accanto, ndr), nonostante i contatti di penna e l’affetto dei maggiori per il fratellino “Lukas, Luki, Lukerl”, nomade e irrequieto sin da ragazzo. La corrispondenza inizia nel 1908, quanto Ludwig è un promettente 19enne: dopo aver studiato Ingegneria meccanica a Berlino, si sposta a Manchester per approfondire l’aeronautica, ma si trova male, con continue liti con gli assistenti del prof perché non sanno disegnare. In estate, allora, punta su Glossop, in un centro di ricerca, dove si occupa degli aquiloni per meteorologi. Anche questa infatuazione dura poco: incoraggiato da Frege e Russell, inizia allora a dedicarsi alla filosofia, dal 1911 a Cambridge. Nel frattempo, gli muore il padre, lasciando una lauta eredità, che lui dona in beneficenza “agli artisti austriaci privi di mezzi”, come, tra gli altri, i poeti Rilke e Trakl.

Pausa. Troppa filosofia angustia; perciò Ludwig si isola sui fiordi norvegesi in un eremo da lui costruito. Pausa. È tempo di tornare all’azione: la Prima guerra mondiale è scoppiata, perché non arruolarsi? Così parte per il fronte nel 1914, e viene persino medagliato; ciononostante trova il tempo di annoiarsi e studiare: sono gli anni in cui abbozza il Tractatus, unica sua opera rilevante pubblicata in vita. Lo termina nel 1918, durante una licenza militare, ma il saggio esce solo nel 1921 come Logisch-philosophische Abhandlung e nel ’22 come Tractatus logico-philosophicus. Nel frattempo sperimenta altre peripezie, come la prigione e il confino a Cassino: “La mia vita qui è assolutamente monotona. Non lavoro e penso sempre se diventerò mai una persona perbene”.

Tornato a Vienna dopo la guerra, Wittgenstein si iscrive a un corso per diventare maestro di scuola elementare: inizia a insegnare nel 1920, lavorando al contempo come aiuto giardiniere in un monastero. Pure la carriera di docente, però, è fulminante: nel ’26 Ludwig è accusato di maltrattamenti ai danni di uno scolaro e lascia l’incarico. Torna in un monastero, questa volta come giardiniere capo, e progetta la costruzione della casa della sorella Margarete. L’architettura è una delle sue passioni; durante una vacanza norvegese, si preoccupa persino delle dimensioni e del pizzo della tovaglia per l’altare di un curato suo amico, mentre viene assunto in una ditta di succhi di frutta perché non riesce a stare inattivo.

Nel ’29 riprende gli studi filosofici a Cambridge, ottenendo una cattedra e una borsa di studio, ma dal ’38 ricominciano le tribolazioni: la sua famiglia ha origini ebraiche, “sangue misto di 1° grado”, e tutti si vedono costretti a fuggire. Lui diventa cittadino britannico, viaggiando intanto in Irlanda e Stati Uniti e facendosi mandare ovunque, dalle sorelle, pacchi di biancheria intima, libri e dischi. Pur sullo sfondo, la filosofia resta la sua croce e delizia, fino alla morte nel ’51 per un cancro: “Cara sorella, scrivi che io sono un grande filosofo. Certo, lo sono, e tuttavia da te non voglio sentirlo dire. Chiamami ricercatore della verità e sarò contento… Chiaro, lo devo ammettere, la mia grandezza a volte sorprende persino me stesso”.

Sotterfugi, promesse e amori di Clemente, il dc da larghe intese

“Corro, schiatto e sbuffo, ma alla fine ce la faccio”. Sembra un Rap. Invece è Clemente Mastella, il simpatico Keyser Soze del Sannio. Un fuoriclasse. Che da tempo immemore gira intorno alla tavola imbandita della politica. Si avvicina zoppicando per saltare la fila. E appena riempito il piatto, se ne va a passo svelto e fischiettando. Ma in tanti anni di lenta e proficua digestione, non si è mai sognato di mangiare tutto lui. Sarebbe sciocco, sarebbe miope. La sua speciale attitudine sta nel fatto che almeno la metà del bottino rastrellato – che siano voti, posti ai raccomandati o torroncini di Benevento, detti “I Mastellini”, regalati ai giornalisti – è sempre a disposizione degli altri, come insegnano le sacre scritture (demo)cristiane. A disposizione della famiglia prima di tutto, allargata a cugini e consuoceri, degli amici che abitano a destra a sinistra, al centro, sopra e sotto, e quando occorre persino dei nemici in agguato a destra a sinistra, al centro, sopra e sotto. E questa attitudine che noi chiameremmo paraculissima faccia tosta, lui la chiama democrazia.

Che esercita ancora oggi, ogni domenica mattina, nel suo ufficio di sindaco di Benevento, sua ultima reincarnazione, dove riceve i questuanti, gli affranti, i bisognosi: “Le raccomandazioni per me sono come il sacramento. Non le considero immorali, ma una pratica onesta se segnala un talento, una virtù. Ho raccomandato portantini, invalidi, funzionari pubblici. Sono un missionario in un ospedale da campo. Esercito la Provvidenza”.

La sua invidiata professionalità, in queste ore di segreti traffici parlamentari, tutti a caccia dei misteriosi “responsabili”, l’ha messa a disposizione del primo ministro Giuseppe Conte, assaltato alla schiena dalla parte migliore del Renzi peggiore, quella che discende dal babbo. E lo fa maneggiando il fantastico ossimoro di trattare nell’ombra quel che rivela alla luce del sole: “Tratto, ma non lo dico. Sono il medico di questa crisi”. Medico non per caso, a prefigurare il ticket necessario alla cura e la futura parcella. Identica alle altre cento del passato.

Un passato leggendario, dal 1976 a ieri: otto legislature alla Camera, una al Senato, due a Strasburgo. Sottosegretario con Giulio Andreotti e Ciriaco De Mita. Ministro del Lavoro con Silvio Berlusconi. Ministro della Giustizia con Romano Prodi. Fondatore di una dozzina di partiti, dopo la dissoluzione dello Scudo crociato. L’elenco è uno scioglilingua balcanico: Dc, Ccd, Cdr, Udr con Francesco Cossiga, Udeur senza Cossiga. Poi Forza Italia. Poi Ulivo. Poi: Popolari per il Sud. Poi: Noi campani. Nelle ultime ore: “Meglio noi, per l’Italia”, che non è solo la sigla del nuovo nato, ma il riassunto di una vita.

Clemente nasce a Ceppaloni, 3 mila anime, in provincia di Benevento, anno 1947, padre maestro, mamma casalinga, famiglia di dignitosa povertà, “da bimbo avevo un solo paio di scarpe”.

Meschinello, ma tanto intelligente: studi alla Federico Secondo di Napoli, laurea in Filosofia. Fede democristiana. Due incontri della vita. Il primo al catechismo con Sandra Lonardo, moglie per sempre, baciata, dice la leggenda, sulla spiaggia di Long Island, New York. Il secondo con Ciriaco De Mita, incontrato forse a un tavolo di scopone avellinese, baciato politicamente a Nusco.

In cambio di quel bacio, un posto alla sede Rai di Napoli, saltando la fila delle graduatorie, ovvio, per poi riempirsi il piatto di buone relazioni con i sindaci beneventani, a cui telefonava di sera – dice sempre la sua personale leggenda – quando la redazione era vuota, per sponsorizzare la sua imminente candidatura alla Camera: “Facevo chiamare il centralino spacciandomi per il direttore della Rai. Segnalavo ai sindaci il mio nome. Funzionò”.

Da deputato, entusiasma i ragazzi italiani proponendo la settimana corta per la scuola. Diventa portavoce di De Mita, al suo apice di stella democristiana, capace di lunghi, tortuosi e a volte dialettali ragionamenti che Clemente sa sciogliere in cibo per elettori e casalinghe. Bravo anche a organizzargli la claque ai congressi, quella che Giampaolo Pansa battezzò “le truppe mastellate” capaci di applaudire il segretario per 24 minuti di seguito, proprio come nella Corea del Nord.

Con la gloria, per quanto riflessa, vennero i guai giudiziari, per reati come corruzione, concussione, falso, truffa. Lo inquisirono per le spese del suo giornale, il celebre Campanile, che riceveva una milionata di euro l’anno in rimborsi pubblici che poi diventavano stipendi, biglietti aerei, buoni benzina, trasferte, per Clemente e i suoi cari. Un crescendo di imputazioni, fino ai clamorosi arresti domiciliari della moglie, 16 gennaio 2008, accusata di partecipare a “una lobby dedita a occupare posti di potere”. Mastella, grida allo scandalo, al complotto. Si dimette da ministro della Giustizia. Si commuove: “Di fronte agli attacchi a mia moglie, getto la spugna. Tra l’amore della mia famiglia e il potere, scelgo il primo. Senza tentennamenti”. Cade il governo. Lui zoppica fino alla destra berlusconiana e incassa un seggio in Europa.

Il calvario dura 15 anni: processi, fango, notti insonni. E il prezzo di un infarto. Esce assolto da tutte le accuse: “Nessun magistrato ha mai pagato. Non li perdonerò mai, mai, mai”. Anche se alla fine si è riconciliato con quasi tutti, tranne Luigi De Magistris (cui tolsero l’inchiesta a Catanzaro, diversa da quella che aveva originato la crisi del Prodi2): “Nel suo viso c’è la ferocia. E le sue accuse erano inconsistenti”.

Risarcito nell’onore, oggi cavalca la sua nuova primavera. Che ammanta di saggezza: “Io sono un uomo di centro e resto al centro. Una chiappa a destra e una a sinistra. Se ti vogliono fottere a destra, tu vai a sinistra, se ti vogliono fottere a sinistra tu vai a destra. È l’etica del viandante”.

Meglio ancora è l’atletica di Clemente, “l’Alberto Sordi della politica”, che ci meritiamo da mezzo secolo.

Dice: “Il mio caso si dovrebbe studiare all’università”. Ha ragione. Basterebbe intendersi in quale indirizzo di studi, ora che abbiamo escluso Criminologia. Scienze politiche o Storia del Teatro?

“Il vero nemico di Navalny è l’Fsb: lo vuole annientare”

Il Tribunale distrettuale Simonovsky di Mosca ha rimandato dal 29 gennaio al 2 febbraio il processo sull’appello avanzato dal sistema penitenziario russo per revocare all’oppositore Alexei Navalny la condizionale concessagli per una condanna a tre anni e mezzo, inflittagli nel 2014. Se la Corte accoglierà la richiesta del sistema penitenziario, Navalny finirà in prigione. “Meglio attendere gli eventi”. Così l’analista Tatiana Stanovaya commenta le ultime notizie.

È rimasta sorpresa dallo spettacolo delle manette in diretta web all’atterraggio a Mosca?

Assolutamente no. L’autorità penitenziaria federale lo aveva preannunciato. L’unico interrogativo era tra gli arresti domiciliari o la detenzione in una prigione temporanea in attesa del processo: ora sappiamo che hanno scelto la seconda.

Lei si occupa di studiare, in particolare, i meccanismi formali e informali che spingono l’élite russa a influenzare le scelte del governo. L’arresto è avvenuto perché il Cremlino, come dice Navalny, è spaventato?

Si dipanano diverse logiche nel sistema del potere russo. Per Putin, Navalny non è un avversario politico o un leader dell’opposizione: il presidente lo giudica un individuo che, avendo commesso un crimine, va mandato in prigione. Se parliamo dei membri dei servizi di sicurezza, isiloviki, allora Navalny è una minaccia: per loro rappresenta l’intento collettivo occidentale di distruggere la Russia come sistema, per questo premono sul presidente affinché adotti la linea più dura. La situazione a cui abbiamo assistito conferma che hanno optato per questa logica. Per l’Fsb, Navalny è diventato un affare personale, merita di essere distrutto solo perché ha minato l’onore della corporazione.

Navalny vessato in Russia quanto amato in Occidente.

Secondo i sondaggi del centro indipendente Levada, gode del supporto di una base ristretta, circa il 3% dei russi. Se parliamo del suo avvelenamento, il 61% dei cittadini ha detto di non aver seguito il caso, per il 30% era una messa in scena. La cerchia di progressisti e liberali che lo segue invece è molto attiva. Però molti cominciano a chiedersi cosa è successo o come lo tratteranno. La domanda delle élite russe è un’altra: è giusto che sia l’Fsb a decidere del destino di Navalny?

Contro Mosca sono già arrivate le critiche dei leader occidentali, forse presto arriveranno anche le sanzioni.

Arriveranno di certo se la sentenza del processo sarà greve. Usa ed Europa imporranno misure punitive, ci sarà una nuova ondata di scontro a cui la Russia risponderà aumentando la sua retorica aggressiva. Più sarà aggressiva, più i siloviki saranno felici: per loro si creerebbe la situazione ideale per convincere Putin ad adottare politiche più conservatrici e repressive. Non sappiamo ancora come si comporterà la Casa Bianca di Biden verso Mosca, ma è certa una cosa: risponderà più adeguatamente e seriamente di Trump.

Il presidente bannato dai social media per istigazione di violenze di massa: questo precedente può essere usato anche contro Navalny?

Navalny deve temere che le autorità russe facciano pressione sulle aziende digitali come Facebook e Twitter per limitare la sua attività sui social, che usa per comunicare con i sostenitori. Loro già sanno che possono essere condannati penalmente per una sola parola sbagliata.

Se Navalny non rappresenta una minaccia per Putin, chi lo è?

L’obiettivo maggiore di Putin è far rimanere tutti nell’incertezza del suo futuro: è la strategia per evitare che scoppino lotte intestine tra élite, lobby, istituzioni, gruppi di influenza e pressione. Abbiamo visto cosa è successo quando un anno fa ha annunciato le riforme alla Duma. La prima domanda allora è stata: chi è il suo successore? E la seconda: quando scoppierà la guerra per sostituire Putin?

 

Trump e il mercato della grazia: a chi paga e agli amici

La raffica finale di grazie di Donald Trump è attesa nelle prossime ore: il magnate, prima di lasciare la Casa Bianca, concederà il perdono o commuterà la pena a un centinaio di persone. Ma, riferisce la Cnn, avrebbe però rinunciato a graziare se stesso, come s’era ipotizzato che avrebbe fatto: a farlo desistere, i dubbi giuridici sulla legittimità dell’atto, la portata in ogni caso limitata ai reati federali e, infine, l’effetto di aggravante nel processo di impeachment che deve iniziare in Senato a giorni.

Nella lista delle persone in odore di grazia ci sono colletti bianchi condannati per reati penali, rapper di alto profilo e vecchi amici e alleati come – si dice – Steve Bannon o Rudolph Giuliani, l’avvocato che, però, si è appreso a sorpresa nelle ultime ore, non farà parte del team di difensori del presidente nel processo di impeachment. Circola sempre la voce di grazia preventiva a membri della sua famiglia. L’ultimo atto della presidenza Trump sarà, dunque, coerente con tutto il percorso: una decisione divisiva e partigiana, frutto di valutazioni d’interesse più che di scelte di principio e/o ideali. C’è addirittura una sorta di tariffario della clemenza, rivelato dal New York Times: i provvedimenti sarebbero stati oggetto d’un vero e proprio ‘mercato’ nel quale molti hanno lucrato.

Il che rendere sempre più stridente il contrasto con il successore di Trump, Joe Biden, il cui discorso d’insediamento sarà – scrive la Associated Press – un appello all’unità nazionale. Sul Washington Post, l’avvocata Roberta Kaplan offre uno scorcio di quella che sarà la vita di Trump dopo la presidenza: una successione di cause da cui difendersi, promosse dalle Procure ma anche da singoli cittadini o da associazioni, come la nipote Mary Trump, la scrittrice E. Jean Carroll e gli attivisti neri che perseguono i suprematisti bianchi assassini a Charlottesville nel 2017, non condannati da Trump.

Nella ricostruzione del New York Times, le ‘tariffe’ pagate a personaggi vicini a Trump per avere accesso al presidente e riceverne la grazia o una commutazione della pena variavano dalle migliaia alle decine di migliaia di dollari, a seconda della difficoltà del caso. Il ‘mercato’ avrebbe portato, solo nelle ultime settimane, all’accoglimento da parte della Casa Bianca di 41 domande di grazia pagate a peso d’oro, senza contare quelle concesse ‘motu proprio’, senza bisogno di sollecitazioni.

Il magnate è infatti determinato a proseguire a strappare alla giustizia amici e alleati, come ha già fatto con l’ex manager della sua campagna Paul Manafort, l’ex consigliere Georges Papadopoulos, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn o l’amico e confidente Roger Stone.

Tra le persone che hanno ottenuto il perdono presidenziali ci sono anche figure oscure, che hanno però pagato. Così, un ex responsabile della campagna di Trump, di cui non viene fatto il nome, avrebbe ricevuto 50 mila dollari per cercare di far ottenere la grazia a John Kiriakou, un funzionario della Cia – licenziato – condannato per avere rivelato informazioni top secret – l’accordo prevedeva altri 50 mila dollari di bonus se la grazia fosse stata accordata –.

Il New York Times svela anche il ruolo di Brett Tolman, un ex procuratore federale, consulente della Casa Bianca, specializzato nel dare al presidente consigli su chi perdonare e chi no. Tra i lobbisti della grazia più attivi c’è pure uno degli ex avvocati personali del magnate, John Dowd.

Tolman, Dowd e altri loro sodali hanno incassato un bel gruzzolo: ogni domanda di grazia approdata sulla scrivania di Trump nello Studio Ovale valeva migliaia di dollari come minimo; e aumentava di valore se veniva accolta, com’è avvenuto nel caso del figlio di un ex senatore dell’Arkansas, Tim Hutchinson, condannato per corruzione e frode fiscale, o di una ‘socialite’ della Grande Mela che si riconobbe colpevole di truffa o come quello del fondatore di Silk Road, un sito specializzato nella vendita online di farmaci.