Quando Matteo Renzi finisce di parlare, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, seduti ai banchi del governo, si guardano, si scambiano rapidamente un’impressione. L’ex premier non ha ufficializzato l’astensione e improvvisamente i conti potrebbero non tornare. I due sono i ministri che fino al momento dello strappo hanno tenuto aperta la trattativa con Renzi. E sono i più vicini al centro moderato. Il capo delegazione dem tiene aperto il dialogo con l’Udc per i tre voti che servirebbero da subito, per provare a far partire l’operazione di un governo politico con una “quarta gamba” centrista e che poi deve arrivare a FI. Ma Pier Ferdinando Casini li tiene fermi, gioca su più tavoli, anche in virtù della sua vicinanza a Renzi.
L’ex premier sa che la maggioranza è in affanno: e dunque attacca frontalmente Giuseppe Conte, pur se con toni più composti di quelli utilizzati in questi giorni. Ma non ufficializza l’astensione annunciata a mezzo stampa. Si ferma prima: “Volete andare avanti con una maggioranza raccogliticcia? Bene, andate avanti, mi auguro sia maggioranza, raccogliticcia lo è di sicuro”. Parla per venti minuti, leggendo gli appunti di un intervento limato accuratamente. Sembra un segnale appositamente scelto la cravatta verde che ammicca ai colori della Lega. Non c’è niente di scontato.
Nel frattempo i fedelissimi rifanno i conti. Votare no resta una tentazione, espressa esplicitamente dai falchi, come Ernesto Magorno. Anche l’ex premier ci pensa, nel caso i numeri siano abbastanza per mandare sotto il governo.
Il parziale immobilismo scelto dal Pd contribuisce ad aumentare i giochi e la confusione. In Senato per tutto il giorno si vedono arrivare deputati M5s, nel tentativo di dare il proprio contributo al suk un po’ isterico in cui si è trasformato Palazzo Madama. I dem sono defilati. “Non vogliamo gonfiare troppo Conte”, raccontano voci interne al partito. Traduzione: i dem hanno lasciato al premier l’onere e l’onore di conquistarsi la sua maggioranza, dando il loro avallo all’operazione politica, ma senza intervenire troppo, fatto salvo il pressing di Franceschini. Ma controllando che il pallottoliere continui a segnare un numero intermedio: 156 sì sarebbero abbastanza per provare ad andare avanti, troppo pochi per evitare un rimpasto corposo.
“Un patto di legislatura ha bisogno di una maggioranza politica coesa e larga. Per questo è giusto chiedere a chi vuole dare un contributo al Paese di esserci”, scandisce in Aula Franco Mirabelli, vicepresidente dei senatori Pd, aprendo ai centristi. Nel frattempo, il capogruppo Andrea Marcucci nei corridoi chiude a Renzi con parole che sembrano inequivocabili. “Se volete tornare alla politica, sapete dove trovarci”, ha sfidato così il suo ex partito il fu Rottamatore. Non ci sono gli estremi. Non si va molto oltre la mozione degli affetti nell’incontro quasi casuale tra lui e Guerini.
Intanto da giorni il partito di Nicola Zingaretti avverte che serve un nuovo patto politico, ricorda che Conte deve cambiare passo. È pronto a chiedere un rimpasto vero e proprio. Si aspetta di partecipare alla redistribuzione dei posti, vuole entrare nella governance del Recovery Fund. In palio, se Luciana Lamorgese va ai Servizi segreti, c’è il Viminale. In pole per entrare nell’esecutivo c’è Andrea Orlando. Ma se il nuovo gruppo si forma rapidamente, il governo assume una forma politicamente compiuta. Se ciò non accade, si scivola verso le elezioni, magari a primavera inoltrata. O verso un governo istituzionale, dopo l’apertura del semestre bianco.
Intanto, la giornata va avanti. Dopo la replica del premier, Teresa Bellanova annuncia l’astensione di Iv. Tra i renziani si valuta pure di uscire dall’Aula per far mancare il numero legale e spedire Conte al Colle. Saltano la prima chiama per verificare la tenuta della maggioranza. Tra loro i dem cercano qualche sì: gli attenzionati sono Comincini, Conzatti, Grimani, oltre a Nencini. E poi intervengono in extremis a chiudere sui sì di FI, Causin e la Rossi. Nelle ultime, frenetiche ore della giornata, la trattativa per il governo, non può neanche partire. Troppe incognite.