Marogna, Vaticano “No a estradizione”. Ma la processa

Il Vaticano ha rinunciato all’estradizione di Cecilia Marogna. La donna era stata arrestata a Milano con un ordine di cattura internazionale emesso dai pm della Santa Sede. Marogna è finita nell’inchiesta finanziaria che ha travolto la Segreteria di Stato. I magistrati d’Oltretevere la accusano di aver ricevuto oltre 500mila per volontà dell’allora sostituto Angelo Becciu. Il denaro avrebbe dovuto sostenere missioni umanitarie, ma la Marogna lo avrebbe usato per rinnovare il guardaroba e l’arredamento di casa. Il Vaticano ha precisato che a carico della donna “è di imminente celebrazione il giudizio per un’ipotesi di peculato commesso in concorso con altri”. E che si vuole “consentire all’imputata – che ha già rifiutato di difendersi disertando l’interrogatorio dinanzi all’Autorità giudiziaria italiana, richiesto in via rogatoriale dal promotore di giustizia – di partecipare al processo in Vaticano, libera dalla pendenza di misura cautelare nei suoi confronti”. Per la difesa quella della Santa Sede è una “fuga senza onore”.

Rosarno, ai domiciliari il sindaco di FI: voto di scambio. “Boss decise lista e programma”

“Stiamo facendo il programma, stiamo facendo una cosa snella”. Francesco Pisano è un dentista di Rosarno. Già condannato negli anni 90 nel processo “La mafia delle tre province”, per la Dda di Reggio Calabria è un pezzo da novanta dell’omonima cosca chiamata dei “diavoli”. È lui quello che, secondo il procuratore Giovanni Bombardieri, si è “posto come lo stratega delle elezioni comunali del 2016”, vinte dal sindaco Giuseppe Idà, ex Udc oggi di Forza Italia, finito ieri agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta “Faust”.

Su richiesta dell’aggiunto Gaetano Paci e dei pm Adriana Sciglio e Sabrina Fornaro, i carabinieri hanno arrestato 49 persone per ’ndrangheta. Tra questi c’è Pisano, il deus ex machina delle elezioni amministrative. Faceva tutto lui: dall’aspirante sindaco al programma elettorale passando per il simbolo della lista e per i candidati a consigliere. Uno di questi, l’architetto Domenico Scriva, è finito ai domiciliari. La cosca Pisano lo voleva assessore ai lavori pubblici, ma il sindaco Idà non lo ha nominato per paura di essere additato come vicino alla ’ndrangheta. Eppure lo stesso Idà sottoponeva i suoi discorsi pubblici al dentista-boss che gli faceva da consulente sulla correttezza grammaticale delle frasi da pubblicare su Facebook. La contropartita dei “diavoli”, per gli inquirenti, era il mutamento della destinazione urbanistica di alcuni terreni di proprietà della cosca e la riapertura del centro vaccinale in un immobile dei Pisano. “È un figghiolu pulito… certo un giovanotto che va plasmato”. Il dentista lo ha sponsorizzato con tutti e, prima della vittoria, organizzava cene a nome del “futuro sindaco di Rosarno”. Una di queste ha destato l’interesse degli investigatori “non solo per la presenza del candidato, ma anche per quella annunciata del consigliere della Regione Calabria, Giovanni Arruzzolo”.

Pure lui di Forza Italia, non è indagato, ma il suo nome compare nell’ordinanza. A casa del fratello Francesco ci sarebbe stato un incontro tra Pisano e il sindaco Idà che, una volta eletto, aveva preso le distanze. Nel dicembre 2016, aveva anche applaudito le forze di polizia per l’arresto del latitante Marcello Pesce. E Carmine Pesce, detto “u sardignolo”, non la prende bene: “Dove si trova adesso il sindaco… Grazie a Carmelo Pesce che gli abbiamo raccolto i voti… lo faccio andare sotto inchiesta e in due minuti, lo buttano fuori… ma guarda che brutto cambio”.

E nell’Emirato Descalzi dell’Eni si fa il vaccino

Domenica 10 gennaio, più di una settimana fa, Claudio Descalzi ha fatto il vaccino anti Covid a Dubai, quello prodotto da Pfizer Biontech. Non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che in questo momento l’emirato riserva il diritto di vaccinarsi solo agli over 60 con cittadinanza o residenza a Dubai. Come ha fatto allora a vaccinarsi l’amministratore delegato di Eni, che di anni ne ha 65, ma che – per quanto noto – è residente in Italia?

La notizia della vaccinazione di Descalzi è stata raccontata a Il Fatto da un dirigente che vive e lavora negli Emirati Arabi Uniti, un manager del settore petrolifero che dice di averla appresa direttamente dal numero uno del Cane a sei zampe. Domenica 10 gennaio Descalzi era infatti ad Abu Dhabi – capitale degli Emirati, distante un’ora e mezza di macchina da Dubai – per un appuntamento di lavoro. Alle 11 del mattino ha incontrato i vertici di Adnoc, l’azienda petrolifera di Abu Dhabi, con cui Eni ha in corso diversi affari pubblicizzati sul suo sito internet. È durante quell’incontro – finora mai comunicato da Eni né da Adnoc – che il numero uno di Eni avrebbe raccontato di voler subito dopo andare a Dubai per fare il vaccino Pfizer Biontech.

La procedura in teoria è semplice. Bisogna prenotare chiamando un numero verde, oppure attraverso una app, e poi andare in una delle sei cliniche autorizzate a somministrare il vaccino. Abbiamo chiesto conferma a Eni dell’avvenuta vaccinazione di Descalzi, domandando con quale motivazione l’amministratore delegato ha ottenuto il diritto al vaccino. A queste domande, la società controllata dallo Stato italiano ha risposto: “Confermiamo l’avvenuta vaccinazione. Le Autorità degli Emirati Arabi, infatti, nell’ambito dell’ultima missione di business svolta dal management di Eni, missioni che avvengono regolarmente da alcuni anni, in modo periodico e piuttosto frequente, hanno offerto ai rappresentanti Eni, compreso l’Amministratore delegato, la possibilità di poter beneficiare del programma di vaccinazione del Paese. Questo anche per consentire al management di potersi muovere in loco con maggiore libertà in relazione alle opportune restrizioni anti Covid”.

Eni, che a Dubai ha diverse società controllate, rivela dunque indirettamente che nell’emirato ci sono delle eccezioni alla regola, e cioè che nonostante il vaccino Pfizer-Biontech sia al momento disponibile ufficialmente solo per cittadini e residenti con oltre 60 anni di età (gratuitamente), in realtà esistono altre categorie di persone che possono “saltare la fila” per ottenere il rimedio al Covid-19. Abbiamo chiesto anche ad altri gruppi italiani con sede a Dubai se ai loro manager è stata data la possibilità di fare il vaccino. Le domande inviate a Intesa Sanpaolo, Maire Tecnimont e Webuild per ora sono però rimaste senza risposta. Eni, invece, ha spiegato che “per ragioni di privacy non siamo in grado di fornire i numeri di dettaglio, ma possiamo confermare che una parte dei colleghi ha effettivamente beneficiato del vaccino messo a disposizione dalle autorità”. Di certo, il fatto che Dubai permetta di vaccinarsi anche a persone che non hanno teoricamente diritto a farlo crea diversi problemi. Il primo fra tutti è che non si capisce perché, se Descalzi ha potuto fare il vaccino Pfizer Biontech, le tante persone che vivono e lavorano a Dubai, magari in posti altrettanto se non più rischiosi come i negozi e i ristoranti, siano costretti ad aspettare, prima di essere immunizzati.

Da Dubai alle Maldive i furbetti del lockdown

La regola è semplice: almeno fino al 5 marzo prossimo, gli italiani non potranno andare in vacanza fuori dall’Unione europea causa pandemia. Niente Dubai né Maldive: bandite tutte le destinazioni preferite da chi ama svernare sulla linea dell’Equatore. È scritto a chiare lettere su viaggiaresicuri.it, il sito gestito dal ministero degli Esteri, e funziona così da parecchi mesi. Eppure, nelle ultime settimane, queste due destinazioni sono state prese d’assalto da parecchi vip nostrani. E non solo.

L’influencer e scrittrice Giulia De Lellis è stata a Dubai per il ponte dell’Immacolata, negli stessi giorni in cui nell’Emirato c’era anche il suo ex fidanzato Andrea Damante, altro influencer diventato famoso grazie a Uomini e Donne. A Dubai è stata di recente anche Chiara Nasti, altra giovanissima stella dei social network, mentre la showgirl Jo Squillo ha preferito trascorrere il Natale sulle spiagge delle Maldive. Tutto noto grazie agli stessi profili social dei vari vip, che hanno pensato bene di pubblicizzare i loro viaggi al caldo durante il lockdown scatenando la curiosità di alcuni loro seguaci. I quali si sono chiesti: “Ma come hanno fatto ad andare lì nonostante i Dpcm?”. Ecco, appunto: come hanno fatto ad andare a Dubai e alle Maldive nonostante i divieti?

Per cercare una risposta ci siamo finti in cerca di un viaggio esotico, disposti a spendere parecchi quattrini pur di trascorrere qualche settimana al caldo. E in pochi giorni abbiamo scoperto l’arcano.

Anti covid I “nuovi” pacchetti vacanze

Milano, zona San Babila. Al terzo piano di una elegante palazzina residenziale c’è una delle più famose agenzie-viaggi per persone con una certa disponibilità finanziaria. “Luxury travel”, è la descrizione che appare sul sito internet: “Al servizio dei clienti più esigenti. Contattaci”. Al telefono, di fronte alla nostra richiesta di voler andare a fare una vacanza di un paio di settimane a Dubai o alle Maldive, la titolare dice che è meglio vedersi di persona.

Nell’incontro faccia a faccia tutto diventa più chiaro: “Le ho chiesto di venire di persona perché ho molti clienti che hanno viaggiato durante il lockdown e temevo fosse un controllo”, ci dice l’agente. “Sa, è illegale andare a fare le vacanze alle Maldive o negli Emirati – spiega lei – può andare unicamente in Europa, mentre fuori dall’Ue può recarsi solo per motivi di salute, studio, lavoro o ricongiungimento familiare”.

Le regole elencate dall’agente sono le stesse che appaiono sul sito del ministero degli Esteri, le stesse con cui abbiamo imparato a familiarizzare in questi mesi di divieti e di Dpcm. Ma la nostra interlocutrice sa come aggirare i divieti. Questione di soldi, soprattutto, perché i viaggi che ci propone non sono alla portata di tutti.

L’agente spinge soprattutto sulle Maldive. “Ci sono due o tre resort che sono rimasti aperti durante tutta la quarantena”, assicura mentre fa scorrere sul computer le foto di una di queste strutture. Si chiama Soneva: un’isola-resort da girare solo a piedi o in bicicletta, con ville private da 264 metri quadrati, spiaggia privata, piscina interna, la possibilità di avere uno chef sempre a disposizione. La soluzione costa 2.500 euro al giorno, ci viene spiegato, ma si può fare anche di più. Per 3.700 euro al dì è possibile affittare una palafitta in mezzo al mare: due piani di casa, doppia piscina e una serie infinita di altre sciccherie. “Ho clienti che qui hanno trascorso tre mesi di lockdown”, assicura l’agente, mentre spiega come le sono andati gli affari durante la pandemia: “Considerando che non si potrebbe proprio andare a fare le vacanze”, dice, “non mi posso lamentare”.

Solo negli ultimi tre mesi l’agente dice di aver venduto questo genere di pacchetti vacanze a 20 persone. “Sono andati tutti a Dubai o alle Maldive, perché sono le destinazioni più sicure, le uniche dove si può ancora andare, almeno per quanto ne so io”, spiega.

Espediente/1 Il “permesso per lavoro”

Le chiediamo perché proprio Dubai e le Maldive, ed è qui che viene fuori il trucco. “A Dubai – racconta l’agente – tutti i miei clienti hanno dichiarato di andare per motivi di lavoro e nessuno ha mai dovuto esibire una documentazione per provarlo”. Basta quindi dichiarare che si va per lavoro e nessuno controlla? Nessuno chiede dettagli sul lavoro che dobbiamo fare, sulle persone che dobbiamo incontrare? “No, a nessuno dei miei clienti è stato chiesto”, assicura la venditrice. Sarà un caso, ma i vip che hanno pubblicizzato su Instagram le loro vacanze a Dubai o alle Maldive hanno detto tutti di essere stati lì per lavoro. L’ultima a farlo è stata Jo Squillo. Davanti alle telecamere di Barbara D’Urso, dopo le polemiche nate a causa delle sue foto alle Maldive, la conduttrice ha garantito: “Mi tolgo dall’elenco dei vip in vacanza, io ero lì per lavoro. È il mio lavoro che faccio da venti anni: ho una trasmissione televisiva, produco tre programmi televisivi, sono andata a registrare due puntate del mio format, un programma che si occupa di moda. Lo vedrete tra poco in tv”.

Espediente/2 Il corso di biologia marina

In realtà, la nostra agente di viaggi racconta che c’è un modo più sofisticato per andare a farsi una bella vacanza alle Maldive senza avere problemi con la legge. E non c’è bisogno di essere Jo Squillo e avere una trasmissione televisiva: è sufficiente avere tanti soldi. “Si va per motivi di studio”, ci dice l’agente. Funziona così: “Ci sono resort, come quelli con cui collaboriamo noi, che organizzano al loro interno dei corsi di biologia marina o di astronomia. Prima della sua partenza, le arriverà una lettera d’invito al corso da parte del resort, così che lo possa mostrare all’aeroporto in Italia in caso di controlli. Alla fine del soggiorno le verrà invece rilasciato un certificato di partecipazione al corso. Certo, se poi il cliente va alle Maldive e non fa il corso, quello, poi, è un problema suo…”.

Scuole superiori, rientri in 4 regioni. E c’è chi ha aperto per ribellione

Lazio, Piemonte, Emilia Romagna, Molise: ieri sono tornati in classe al 50 per cento gli studenti delle scuole superiori dopo settimane di slittamenti e anche dopo diverse sentenze dei tribunali amministrativi che dalla Lombardia all’Emilia Romagna hanno annullato le ordinanze dei governatori.

È stata una giornata di monitoraggi, per capire se i tavoli con le prefetture e il coordinamento sui territori fossero stati efficaci. Certo, è presto per fare un bilancio, ma quello che è tornato indietro dagli Uffici scolastici regionali e dalle autorità dei trasporti per il momento dà uno spaccato ottimistico. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli è stata la prima a intervenire: “Nelle Regioni e nelle province autonome che hanno ripreso la didattica in presenza delle scuole superiori, a fronte dei 390 milioni stanziati dal governo, sono stati attivati 23,4 milioni di km di corse aggiuntive, fino alla fine dell’anno scolastico – ha ricordato –. I modelli organizzativi territoriali, che hanno coniugato flessibilità degli orari e le specifiche esigenze locali, coordinati dai prefetti, hanno funzionato consentendo la ripresa dell’attività in presenza al 50 per cento nelle scuole superiori senza criticità”. Il comparto dei trasporti è infatti considerato l’anello debole del sistema di sicurezza sui contagi a scuola. Le prime immagini e testimonianze di ieri raccontavano di addetti al distanziamento alle fermate degli autobus (anche personale in divisa) soprattutto nelle grandi città. Nei prossimi giorni si saprà sia dove il sistema ha resistito, sia dove non ha funzionato. Sono state previste turnazioni e scaglionamenti in entrata e uscita e ieri è stata emanata una circolare del ministero dell’Interno che stabilisce la possibilità di far rientrare gli studenti da un minimo del 50% al massimo del 75% lasciando autonomia agli istituti. Una libertà che, insieme a quella di ritardare la ripresa delle lezioni per motivi sanitari, servirà ad adeguare le azioni in base alle condizioni della regione. Non è mancato, comunque, chi ha deciso di continuare con la Dad, come in qualche istituto bolognese.

Ci sono però ribelli e ribelli: se in Veneto e Friuli i genitori hanno promosso un altro ricorso al Tar contro le scuole ancora chiuse, in Sardegna l’Istituto Ipsia, Agrario, Nautico, Alberghiero e Socio Sanitario “Ianas” di Tortolì, in Ogliastra ha deciso di riaprire le porte nonostante l’ordinanza del governatore Solinas che aveva decretato la Dad fino al 31 gennaio. A seguire, l’annuncio della scuola civica di musica di Nuoro che ha fatto tornare i suoi 237 alunni anche se solo per le lezioni individuali. Il dirigente scolastico dello Ianas, Gian Battista Usai, ha scritto al prefetto di Nuoro spiegando che “la scelta dipende esclusivamente dalla disposizione nazionale, mentre l’ordinanza regionale è un solo atto amministrativo”. Resta aperto il “buco nero” Campania, dove finora sono tornati in classe solo fino alla terza elementare: quarta e quinta rientreranno nei prossimi giorni. Forse.

“Qui per indagare e Pechino promette accesso illimitato”

“Le autorità cinesi ci hanno promesso che alla fine della quarantena avremo accesso a tutto ciò che chiederemo di visitare”. In una stanza d’albergo a Wuhan è in quarantena Dominic Dwyer, virologo dell’Università di Sydney, nella squadra di esperti che l’Oms ha inviato in Cina per investigare su SarsCov2. Sta pianificando via Zoom controlli e visite da compiere nelle prossime settimane, scambia informazioni coi colleghi cinesi. “Molte persone stanno osservando attentamente ciò che facciamo qui”.

Professor Dwyer, sulla sua squadra gravano grandi pressioni e responsabilità, come affrontate tutto questo?

Bisogna mantenere un approccio scientifico. Siamo in 15: specialisti di virus animali, di virus umani, epidemiologi. Ogni esperto nel nostro team ha molta esperienza alle spalle in questo specifico settore di studio, abbiamo anche l’abilità di mettere da parte la pressione.

A Wuhan avrete accesso illimitato?

Dalla fine della quarantena, il 28 gennaio, le autorità cinesi ci hanno promesso che avremo accesso a tutto ciò che richiediamo di visitare: in primis il mercato di Wuhan. Niente sarà off limits usciti da qui.

Lei nel 2003 fu già mandato in Cina per la Sars.

Sono due virus molto diversi. Quella della Sars era una malattia “da ospedale”: le persone si ricoveravano, i malati erano nei letti. SarsCov2 contagia persone che diventano molto malate, alcuni Paesi sono stati fortemente colpiti come Italia, Cina o la mia Australia. Ma il Covid-19 si diffonde anche tra gli asintomatici, è una malattia della comunità intera.

La Cina è cambiata da quell’emergenza di quasi 20 anni fa?

La loro risposta alla crisi è stata migliore di quella del 2003, sono più organizzati e veloci nella gestione dell’emergenza. La mia impressione è positiva: hanno, oggi, meno casi degli altri Paesi, hanno investito risorse nella lotta al virus.

Ma ci sono nuovi infetti a Wuhan.

Sì, anche a Pechino. Alcune città sono entrate in lockdown, ma il numero totale è nettamente inferiore a quello di Usa o Uk.

Il virus non ha portato solidarietà tra governi e Stati. L’ha portata tra gli scienziati?

Italiani, australiani, americani: qualsiasi medico, di qualsiasi nazionalità, vuole sapere come curare i pazienti, come prevenire morti, come vaccinare. I cinesi vogliono saperlo proprio come tutti gli altri. A volte la politica si mette di mezzo, ma ogni Paese ne ha una e bisogna tenerla separata.

Lei è docente di Immunologia e malattie infettive all’Università di Sydney. I virologi sono diventati i nuovi profeti da cui il mondo cerca risposte?

Sì, il mio campo scientifico è diventato popolare. Io ho deciso di intraprenderlo quando è scoppiata l’epidemia di Hiv, in quei giorni ho capito l’importanza di questa scienza, un percorso non battuto da molti all’epoca.

Molte sono state le polemiche sui vaccini, numerose per quelli russi e cinesi. Lei con quale si vaccinerà?

Alcune aziende come Astrazeneca, Pfizer e Moderna hanno reso pubblici i dati. Io lo farò appena rientrato in patria: userò qualsiasi vaccino il mio Stato metterà a disposizione.

Cosa crede che troverete nelle prossime settimane a Wuhan?

Non troveremo il paziente zero. Ma non importa dove troveremo cosa, noi cerchiamo il “come”. Come il coronavirus si è diffuso a Wuhan, perché proprio al mercato: per la presenza di animali, per il movimento o quantità di persone? Sono queste le domande importanti. Sarebbe potuto accadere anche in altre città, ma deve esserci un motivo, un qualcosa per cui è successo qui. Noi abbiamo il compito di identificarlo così da essere pronti per la prossima pandemia, quando arriverà. Dobbiamo acquisire esperienza e sapere per il futuro.

Moratti: “I vaccini in base al Pil”. E Fontana oggi impugna il Dpcm

Attilio Fontana dichiara guerra al governo. In tribunale. “Non impugniamo l’ordinanza. Impugniamo il Dpcm”, ha dichiarato ieri il presidente della Lombardia. Col suo ricorso – che sarà presentato entro la mattinata di oggi al Tar del Lazio –, Fontana intende infatti minare alla base il provvedimento del presidente del Consiglio del 14 gennaio, non il singolo atto del ministro Roberto Speranza. Con buona pace di tutte le interlocuzioni Stato-Regioni.

Così, se mai la Lombardia dovesse vincere, il governo sarebbe costretto a rivalutare la condizione di ogni regione. Per Fontana si deve abbandonare il fattore Rt come indicatore fondamentale per decidere il colore di una regione, a favore di un’analisi basata “principalmente sull’incidenza dei nuovi positivi”. Incidenza, che attualmente in Lombardia si attesta intorno a quota 130 nuovi casi al giorno, “mentre ci sono altri che hanno incidenza 360”, ha detto. Questo, per il presidente, permetterebbe di classificare la Lombardia come “arancione”. L’Rt sarebbe da rifiutare perché “strutturalmente in ritardo” e “non più accettabile”.

Un discorso tecnico che però fa a pugni con la mancanza di informazioni sui dati da parte dello stesso Pirellone. Nessuno – consiglieri regionali di maggioranza e minoranza, Cts regionale, tecnici – ha infatti ancora visto l’annunciato dossier allegato al ricorso al Tar. Ma Fontana insiste: “A proposito della pseudo polemica sui dati voglio solo dire che li abbiamo e li comunichiamo regolarmente ai sindaci. Non teniamo nulla di riservato”. E, proprio mentre Fontana faceva professione di limpidezza, scoppiava la polemica dei sindaci dell’hinterland milanese perché il sistema di biosorveglianza del Pirellone – il “Cruscotto”, l’unico strumento aggiornato con continuità che consente ai primi cittadini di monitorare e attivare azioni efficaci a supporto della popolazione colpita da Covid-19, gestito da Aria – non è aggiornato da giorni.

Ad accorgersene, il sindaco di Peschiera Borromeo, Caterina Molinari, che già il 15 gennaio aveva lanciato l’allarme con una lettera all’Ats Milano, al prefetto e alla Regione Lombardia. “Il sistema mostra una situazione ovviamente errata della distribuzione del contagio sul territorio – scriveva –. Tutti i pazienti inseriti in elenco risultano ‘infetti positivi’ ad esclusione di quelli inseriti come ‘segnalati attivi/chiusi’, con il risultato, chiaramente non attendibile, che a oggi nel territorio di Peschiera Borromeo sarebbero presenti 1.200 pazienti positivi (su una popolazione di 24 mila abitanti)”. Il sindaco sottolineava così che, secondo la Regione, Peschiera stava vivendo un picco di contagio del 5%. In pratica, “tutti i pazienti, anche quelli guariti o negativizzati, sono tornati a essere infetti”. Col risultato di rendere “di fatto inefficace l’azione delle autorità sanitarie locali”. Non solo, una mal funzionamento che ha posto più di un dubbio circa la veridicità dei dati trasmessi a Roma, quegli stessi dati che poi hanno confinato la Lombardia in zona rossa. Polemiche che Fontana ha liquidato con un autoassolutorio “può essere che ci sia stato qualche problema per poche ore…”.

Ma ieri è stato anche il giorno del primo incontro della neo vicepresidente e assessore al Welfare, Letizia Moratti con i capigruppo in consiglio regionale. Un incontro durante il quale ha riferito di aver passato la prima settimana a “prendere conoscenza della materia e delle strutture”. Ha anche annunciato di aver “suggerito” al commissario Domenico Arcuri di aggiungere quattro nuovi parametri per decidere i criteri di distribuzione dei vaccini: mobilità, densità abitativa, zone più colpite dal virus e, soprattutto, il contributo che ogni singola regione dà al Pil nazionale. Come dire: a parità di condizioni, se sei ricco, è giusto che tu abbia il vaccino prima di una zona depressa. Perché va bene l’uguaglianza, ma senza esagerare.

Dosi, da Pfizer altra riduzione: “Aumenteremo nel 2° trimestre”

“Le consegne” del vaccino Pfizer-Biontech anti Covid-19 “riprenderanno regolarmente a partire dalla prossima settimana, distribuendo le quantità di dosi di vaccino previste per il primo trimestre e un quantitativo superiore alle attese nel secondo trimestre”. Così ieri ha rassicurato Paivi Kerkola, ad di Pfizer Italia, dopo l’allarme per la riduzione delle dosi di vaccino. Pfizer e Biontech, spiega Kerkola, “hanno già informato dei programmi di consegna aggiornati l’Unione europea. E stanno lavorando senza sosta per ampliare le proprie capacità produttive in Europa”.

Ma ieri si registra ancora un cambio di programma deciso unilateralmente da Pfizer nella consegna dei vaccini destinati all’Italia: secondo quanto si apprende da fonti del commissario Domenico Arcuri, la casa farmaceutica statunitense ha consegnato 48mila dosi delle 397mila previste per questa settimana, dopo il taglio di 165mila deciso venerdì. Domani ne arriveranno solo 53.820 e solo mercoledì le restanti 294.840. La comunicazione è stata data dalla Pfizer alle 17 agli uffici del commissario spiegando che il ritardo è dovuto al nuovo piano di distribuzione per le prossime settimane. Comunque sulla base dell’attuale andamento della campagna vaccinale, l’immunità di gregge potrà essere raggiunta in Italia tra 147 settimane, ovvero a novembre 2023: la stima è della Fondazione Hume, sulla base dell’indice Dqp (“Di questo passo”) che viene calcolato ogni settimana. Tra i vaccinati ieri, a Roma, anche Sami Modiano, 90 anni, sopravvissuto ad Auschwitz 76 anni fa: “Anche questa è fatta”, ha sorriso.

Intanto ieri i nuovi casi sono stati 8.824, 377 le vittime, tornano a crescere i pazienti in terapia intensiva: +41, continuano a diminuire nei reparti ordinari: -127.

L’ultima di Rosato: “Alzare lo stipendio dei deputati”

Ah, se fosse lui a sedere sullo scranno più alto della Camera dove, per ora, è solo vice. Par di capire che se toccasse al renzianissmo Ettore Rosato prendere il posto oggi occupato da Roberto Fico, tra gli arazzi di Montecitorio suonerebbe di nuovo la musica dei tappi di champagne, come ai bei vecchi tempi: qualche mese fa, nonostante il lockdown, il maggiorente di Italia Viva si era conquistato le simpatie di molti suoi colleghi. In Ufficio di presidenza era arrivato a battere i pugni sul tavolo pur di denunciare lo sconcio dell’abbassamento verticale della qualità della vita a Palazzo, causato da un certo pauperismo pentastellato di marca demagogica. E così, prendendo al balzo gli alti lai dei malpancisti che non avevano digerito il vulnus imposto dalla chiusura della buvette e per la mensa pizzicata a servire persino pesce surgelato e arance marocchine, ha tuonato contro il servizio di ristorazione “non all’altezza” della situazione. E ha avuto pure da ridire sui servizi del trasporto addirittura “mortificanti l’alta funzione parlamentare”, ora che la regola imporrebbe agli eletti di prenotare aerei e treni con un certo anticipo in modo che l’amministrazione possa risparmiare sul prezzo dei biglietti per i trasferimenti da o verso Roma.

Adesso, però, Rosato è tornato alla carica puntando a un bersaglio addirittura più grosso. Guadagnandosi sincera ammirazione da chi, sotto sotto, accarezza le sue stesse idee, ha rivendicato il diritto all’aumento dello stipendio per Lorsignori deputati, che sarebbero costretti alla dieta del fantino: praticamente a pane e acqua. Ma riavvolgiamo il nastro. A dicembre, il collegio dei questori di Montecitorio ha proposto come da indirizzo ormai consolidato, di prorogare il blocco dell’ammontare dell’indennità parlamentare, dei rimborsi delle spese di soggiorno e per l’esercizio del mandato. Mal gliene incolse. Perché a quel punto il coordinatore di Italia Viva è tornato a farsi sentire per scongiurare l’ipotesi che i tagli proseguissero oltre il 2022, col rischio di calmierare a oltranza i trattamenti economici dei deputati: quelli che subentreranno a partire dal 2023 o prima se la crisi di governo dovesse precipitare il Paese alle urne. E così, quando si è trattato di approvare il bilancio triennale di Montecitorio, che vale fino alla fine naturale della legislatura, (oggi appesa a un filo per via del suo capo, Matteo Renzi), ha provato a giocare l’asso: “Sarebbe ragionevole prorogare le misure (di contenimento della spesa, ndr) soltanto fino alla fine della legislatura in corso, per tutelare l’autonomia decisionale dell’Ufficio di presidenza della legislatura successiva”. Tradotto: già il prossimo anno potrebbero essere cancellate le misure di riduzione dell’indennità parlamentare introdotte fin dal 2011, così come lo stop alla sospensione dell’adeguamento dello stipendio in vigore dal 2006. E così gli stipendi dei deputati oggi ridotti alla miseria, si fa per dire, di circa 10 mila euro al mese, potrebbero tornare a lievitare d’un colpo a quota 15 mila. E non solo. Se si aprisse il varco indicato da Rosato, verrebbe pure meno il tetto che attualmente mortifica la diaria mensile a “soli” 3.500 euro e pure quello alle spese di mandato che fruttano la bellezza di altri 3.690 euro in busta paga. Per ora la sua proposta è stata accantonata, ma tornerà a rifarsi sotto: ha spuntato l’impegno che se ne riparli al momento dell’aggiornamento di bilancio, tra qualche tempo. Ma fin d’ora ha messo la zeppa pure su un’altra questione che potrebbe tornare a far crescere i costi della Camera. Perché secondo Rosato è giusto pensare agli stipendi degli eletti, ma senza dimenticare i vitalizi. E così sempre in Ufficio di presidenza ha insistito perché la Camera faccia di tutto per mettere in condizione gli ex inquilini di Palazzo a tornare a bussare a quattrini. Come noto, i loro assegni sono stati sforbiciati nel 2018, ma recentemente dopo un lungo contenzioso, l’organo di giustizia interna di Montecitorio ha azzoppato in parte il taglio. Prevedendo che possa in parte essere reintegrato laddove i vitaliziati dimostrino che le loro condizioni di vita siano deteriorate, per via di difficoltà economica o di salute nel frattempo sopravvenute. Già in centinaia si sono fatti sotto per riavere il malloppo perduto, ma non basta: “La Camera ha il dovere di informare adeguatamente tutti gli interessati dei nuovi criteri per la rideterminazione del trattamento previdenziale” ha preteso Rosato, che per questo e pure per la battaglia sugli stipendi a Palazzo è già omaggiato come un eroe.

Chi rimpiange i Servizi del passato: 30 anni di traffici, scandali, reati

Nel mondo all’incontrario in cui vive gran parte della politica italiana, i Servizi segreti sono oggi un grande problema, una grande preoccupazione, un immenso cruccio. È giusto: la salute di una democrazia si misura (anche) dall’efficienza e dalla correttezza dei suoi apparati di sicurezza. Il loro controllo democratico è una delle condizioni per poter dire che le istituzioni sono salde. Così è comprensibile che la delega governativa ai servizi sia anche argomento di discussione e di contesa tra le forze politiche. È però lunare che diventi, oggi, un grimaldello per scardinare una maggioranza di governo, come Matteo Renzi e i suoi hanno cercato di fare nelle scorse settimane e ancora nel dibattito parlamentare di ieri.

Intendiamoci, anche Norberto Bobbio, sul finire della vita, confessò di avere “sottovalutato gli arcana imperii” a cui si dedicano gli apparati segreti di Stato. Viviamo in Italia, la cui storia repubblicana è stata scandita per decenni da dossieraggi, ricatti, golpe tentati e stragi riuscite, utilizzo di gruppi eversivi e trattative con le mafie. Nessuno, a proposito di questa materia così delicata, può mettere la mano sul fuoco, ma sembra che gli attuali vertici dei servizi di sicurezza non siano stati coinvolti in scandali come i loro predecessori. Una coazione a ripetere, una catena lunghissima di scandali, continuata anche dopo che erano finiti i tempi durissimi della guerra fredda e del Muro.

L’ultima sentenza sulla strage di Bologna, che condanna in primo grado all’ergastolo Gilberto Cavallini, dedica un intero capitolo a Mario Mori, che dopo essere stato, dal 1972 al 1975, agente del Sid (il servizio segreto militare), dal 1978 al 1985 all’Anticrimine, dal 1986 al 1990 al comando dei carabinieri di Palermo e dal 1990 al 1998 alla guida del Ros carabinieri, dal 2001 al 2006 è stato direttore del Sisde, il servizio segreto civile. Oggi ha una condanna in primo grado a 12 anni per la trattativa Stato-mafia. E la Corte d’assise di Bologna ha appena chiesto sia processato per testimonianza reticente a proposito della sua attività investigativa sui terroristi neofascisti.

Dopo Mori, nasce il cosiddetto “Protocollo Farfalla”, un accordo tra l’amministrazione carceraria e il servizio segreto civile (che cambia nome in Aisi): un patto che consegna agli agenti segreti, escludendo il controllo della magistratura, le informazioni attinte dalle carceri italiane.

Poi è Nicolò Pollari a essere per anni il gran cerimoniere degli arcana imperii italiani. Durante la sua direzione del Sismi (il servizio militare erede del Sid), vengono alla luce almeno un paio di scenari segreti: grazie a una inchiesta da film americano condotta dai magistrati della Procura di Milano Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, che nel 2006 danno scacco matto agli agenti della Cia e ai loro partner del Sismi. Scoprono e mandano a processo – unico caso al mondo – i responsabili della extraordinary rendition avvenuta in Italia nel 2003, cioè il sequestro di persona avvenuto ai danni dell’imam Abu Omar, rapito a Milano e portato in Egitto dove è stato per mesi sottoposto a tortura. “Lo Stato”, dichiara Spataro, “non può comportarsi come l’Anonima sequestri”.

Quelli che oggi chiedono che la delega ai servizi di sicurezza sia passata dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte (che la detiene legittimamente, come prevede la legge del 2007) a un sottosegretario, durante il processo per sequestro di persona agli americani della Cia e agli italiani del Sismi apposero il segreto di Stato. Così Pollari e i suoi uomini si salvarono, dopo una condanna in appello a 10 e 9 anni: dichiarati nel 2014 dalla Cassazione improcessabili per segreto di Stato, apposto proprio dal governo di Matteo Renzi, che aveva anche sollevato davanti alla Corte costituzionale, contro la Procura di Milano, il conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato. In buona compagnia: lo stesso avevano fatto i governi Prodi, Berlusconi, Monti e Letta.

Il secondo scenario da brivido dell’era Pollari è la frenetica attività di Pio Pompa, strano personaggio devoto al fondatore del San Raffaele, don Luigi Verzé, diventato l’ombra (Shadow) di Pollari. Nel suo ufficio segreto, in via Nazionale a Roma, aveva accumulato centinaia di dossier illegali su magistrati, giornalisti, politici, intellettuali, gruppi e associazioni, da “disarticolare”, anche con “azioni traumatiche” – lessico Br – in quanto “nemici” del presidente del Consiglio pro tempore, Silvio Berlusconi. Pompa teneva anche i rapporti con i giornalisti: soffiava informazioni, chiedeva notizie, diffondeva dossier. Spesso farlocchi, come quello sulla morte del giornalista freelance Enzo Baldoni, diligentemente diffuso dall’agente Betulla, al secolo Renato Farina.

È l’Italia in cui agenti di pubblica sicurezza realizzano un sequestro di persona come quello del 2013 ai danni di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. È l’Italia di Michele Adinolfi, il generale della Guardia di finanza che fa carriera fino a diventare il numero due delle Fiamme gialle, dopo aver bloccato alcune indagini a carico di Matteo Renzi quando, tra il 2011 e il 2014, era a capo del comando interregionale di Emilia e Toscana. È l’Italia in cui la scorta di Renzi – a raccontare l’episodio è l’ex direttore del Corriere della sera Ferruccio de Bortoli – nel 2014 caccia in malo modo da un albergo di Forte dei Marmi il giornalista del Corriere Marco Galluzzo (“Venni strattonato. Dovetti alzare la voce per dire al caposcorta di non permettersi. Lui reagì minacciandomi. Mi disse che tutta la mia giornata era stata monitorata e che di me sapevano tutto, anche con sgradevoli riferimenti, millantati o meno, alla mia vita privata”).

Dopo una storia italiana così, lo scandalo sono i servizi segreti di oggi.