“In Germania non ci si capacita della crisi italiana: Renzi ha pensato a sé, non al Paese”

“La classe politica tedesca ha problemi urgenti da risolvere, innanzitutto la gestione della pandemia, tuttavia la crisi politica italiana non poteva non impressionare a ogni livello per la tempistica inopportuna e per le sue caratteristiche incomprensibili”. Mentre il presidente del Consiglio Giuseppe Conte inizia a riferire al Parlamento, il direttore del più autorevole settimanale liberale, Die Zeit, l’italo-tedesco Giovanni Di Lorenzo sottolinea al Fatto che l’esito della crisi politica avrà ripercussioni, seppur indirette, anche sull’Unione europea.

Direttore Di Lorenzo, ci può spiegare perché?

I vertici dell’Unione europea e i Paesi membri, in modo particolare la Germania – essendo state la cancelliera Angela Merkel e la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, a spingere affinché venisse accordata a Roma la tranche più imponente di denaro per il Next Generation Eu – sono preoccupati per un eventuale esito sovranista e antieuropeista di questa crisi. Se in Italia si tornasse al voto e venissero eletti i sovranisti, come mostrano i sondaggi, per gli italiani le cose si farebbero più difficili in termini di aiuti.

Il neo segretario della Cdu, Armin Laschet, molto vicino ad Angela Merkel, possibile candidato cancelliere per le consultazioni del prossimo autunno, ha però dichiarato che “questa crisi è rischiosa ma Renzi ha ragione a chiedere i soldi del Mes”. Ha ragione secondo lei?

Che possa avere ragione o meno è da stabilire, resta il fatto che l’opinione pubblica e i vertici della Germania sono rimasti sorpresi dalla situazione politica che si è generata in Italia a causa del modo con cui il senatore Matteo Renzi ha agito. Non ci si capacita del motivo per cui l’ex premier abbia aperto questa crisi nel momento in cui l’Italia deve presentare il piano per ricevere gli aiuti più imponenti della propria storia recente. L’analisi più condivisa è che quella di Renzi sia stata una manovra politica non per il bene del Paese ma per gli interessi del proprio partito. Se è comprensibile che il leader di un piccolo partito come Italia Viva possa avere timore che i miliardi stanziati dall’Unione europea vengano gestiti in modo iniquo o che si cambino le strutture economiche, non è però giustificabile aprire una crisi così destabilizzante quando c’è bisogno di un governo molto stabile proprio perché ci troviamo in una contingenza storica drammatica e inedita. Sarà difficile per un’Italia sovranista ottenere la solidarietà economica dei vertici europei.

A proposito di sfide inedite, come mai la campagna vaccinale tedesca continua ad andare a rilento nonostante la Germania abbia acquistato con un accordo bilaterale anche una tranche da 30 milioni di dosi Pfizer-Biontech?

La campagna è in ritardo per mancanza di dosi sufficienti di vaccino. La Germania prima è stata molto attaccata, anche dall’Italia, per aver acquistato con un accordo bilaterale 30 milioni di dosi Pfizer-Biontech, non considerando che quest’ultima è un’azienda tedesca per cui ne aveva il diritto, subito dopo invece è stata derisa per gli errori di gestione e la lentezza delle inoculazioni. Mi pare che, soprattutto per l’Italia, qualsiasi cosa la Germania faccia sia mossa da egoismo e cinismo. La realtà è che oggi i cittadini tedeschi accusano il ministro della Salute di aver acquistato poche dosi dalla tedesca Biontech e la cancelliera Merkel di aver dato priorità alla gestione degli acquisti da parte della Commissione europea anziché da Berlino per il popolo tedesco.

Il Pd spinge per “allargare”. Iv conferma l’astensione

“La vera partita inizia mercoledì”. Nel Pd lo dicono un po’ tutti. Il pallottoliere dei dem non è brillante (i voti a Palazzo Madama oscillano tra i 152 e i 155), ma la versione ufficiale è che ne basta uno in più. Ma poi si ricomincia. Perché il Nazareno sa che per non morire per Giuseppe Conte servono un patto di legislatura, un rimpasto corposo che possa essere davvero considerato un Conte ter (meglio se attraverso dimissioni e reincarico) un allargamento della maggioranza, magari a quella parte di Forza Italia che i dem cercano di attrarre nel campo della coalizione anti sovranista fin dalla nascita del governo giallorosso.

La “strada strettissima” evocata dal segretario, Nicola Zingaretti durante il gruppo dei senatori Pd è quella del governo, ma anche quella del partito. Non è facile non rimanere schiacciati da Conte, da una parte, e da Matteo Renzi, dall’altra. Perché per ora, il Pd continua a tenere la porta sbarrata al suo ex segretario, ma da domani chissà.

“Non possiamo accettare tutto”, chiarisce Zingaretti a Palazzo Madama. Se il premier otterrà la fiducia, si apre una nuova fase di trattative. Meno sono i voti, più le richieste dei dem aumenteranno. Con una serie di posti da assegnare non solo a chi decide di appoggiare l’esecutivo, ma anche ai dem. Dal ministero dell’Agricoltura alle deleghe lasciate libere grazie agli spacchettamenti di alcuni dicasteri. A proposito di deleghe, c’è quella ai Servizi segreti da assegnare: dovrebbe andare a Luciana Lamorgese, con la prima conseguenza che tra le caselle libere ci sarà il Viminale. Senza contare l’operazione di sistema che sta portando avanti il Nazareno da qualche mese: la legge proporzionale è entrata nel pacchetto complessivo. Dovrebbe contribuire a conquistare Forza Italia (o almeno una parte consistente di quel partito). Per arrivare anche in Italia a quella “maggioranza Ursula” (con riferimento agli elettori della Presidente della Commissione europea), evocata ieri anche da Luigi Di Maio.

Ma nel Pd le posizioni, sotto la superficie, divergono. C’è chi attribuisce al capogruppo in Senato, Andrea Marcucci, il mancato ritorno dei senatori di Iv nel gruppo Pd.I 18 del Senato stamattina dovrebbero astenersi in maniera compatta. Ma c’è chi si aspetta che all’ultimo minuto qualcuno potrebbe essere folgorato sulla via di Conte. Di certo, da domani in poi, anche loro hanno intenzione di vendere chiara la pelle. Il discorso di Conte ai renziani non è piaciuto. Ma il loro nervosismo è palpabile per una scelta che li mette fuori. Non a caso, i renziani continuano a fare riunioni fiume alla ricerca di una quadra che non c’è. Ettore Rosato, intervenendo in Aula al posto della capogruppo Maria Elena Boschi (ostentatamente a braccia conserte, mentre parla il premier), cerca di rovesciare il quadro: “Lei presidente Conte ha una maggioranza politica e numerica per andare avanti. Ma davvero i problemi si chiamano Matteo Renzi? La mano tesa la porgiamo perché siamo costruttori”. Conte è stato chiaro sulla chiusura all’ex premier. Ma se l’allargamento non decolla, Base Riformista, la corrente di Lorenzo Guerini e Luca Lotti, è pronta a riprendere il dialogo con Renzi. Magari pure per un altro premier. Suona come un avvertimento, allora, l’intervento del capogruppo alla Camera, Graziano Delrio: “Serve un patto di legislatura”. D’altra parte, dal Pd più che ottimismo ed energia, trapelano tensione e incertezza. Nonostante le dichiarazioni di giubilo con le quali il segretario accoglie il voto della Camera, che dà la maggioranza assoluta al governo.

Dario Franceschini è una sfinge, seduto in Aula per gran parte del dibattito. I ministri Peppe Provenzano, Enzo Amendola, Paola De Micheli fanno capolino nel cortile del Transatlantico. Apparizioni fugaci, battute rimandate. È costellato di interrogativi il percorso del Pd. Intanto, fonti di Iv fanno sapere che oggi qualcuno potrebbe dire no, qualcuno sì, qualcuno astenersi. Significa che – con i conti sbagliati – il governo può andare sotto. Se non sulla fiducia, su qualche provvedimento importante prossimo futuro. Tanto per chiarire il potere di ricatto di Renzi. Comunque vada, oggi comincia la vera crisi.

Giallorosa in cura: il medico è Tabacci. Leghisti annichiliti

Spiace per Clemente Mastella, autoproclamatosi “medico a cui si domanda la cura”: i malati abbondano e, in giro, c’è una concorrenza da far paura. Bruno Tabacci, per dire, è circondato dalle telecamere fuori da Montecitorio, assediato dagli aspiranti “costruttori” dentro, ricevuto con tutti gli onori ai banchi del governo durante le comunicazioni del premier Giuseppe Conte. Per non parlare di Gianfranco Rotondi, che pure da fedelissimo di Berlusconi, riceve davanti all’ingresso dell’infermeria della Camera e offre assistenza a chi come lui non vuole morire sovranista: “Speriamo prenda almeno una mezza fiducia, altrimenti finiamo tutti in bocca a Salvini”.

Eccoli, i sommersi e i salvati del Conte bis. E guai a rinfacciare doppiezze, calcoli e altre amenità. Nemmeno chi ha tradito, vuol sentirne parlare: “Il presidente non ci può dare lezioni – argomenta un renziano – perché nemmeno lui è immune all’eterogeneità delle coalizioni, ha governato con Salvini e poi con Zingaretti… non è immune!”. Inutile tentare analogie con la sventurata app che doveva tenere il filo della pandemia. Qui dentro il Covid pare non se lo ricordi nessuno. Sì, sono tutti distanziati e con le mascherine (perfino Vittorio Sgarbi, che tre sere fa cenava in uno dei ristoranti in rivolta contro il Dpcm, ne ha due: una sul volto, l’altra in mano), eppure, fuori dalle dirette tv, tiene poco banco l’assurdo di una crisi che si consuma al ritmo di quattrocento morti al giorno.

Ci sono i leghisti annichiliti: non si spiegano come Renzi abbia potuto giocarsi così male l’occasione della vita. “Io ero convinto che arrivasse Draghi”, scuote la testa un deputato lombardo. “Ma poi perché non ha aspettato il semestre bianco? A quel punto avremmo dovuto dire di sì anche noi: adesso invece come facciamo a non chiedere le elezioni?”. È terribile, pare, anche solo intravedere l’orlo del precipizio. Lo ripetono ancora i renziani, attoniti nel vedere Conte “drammatizzare così” (sic). Riannodano il discorso del premier, ci trovano segnali di speranza: “Ha fatto appello a ‘tutti’”. E lì in mezzo, si consolano, ci siamo anche noi. Nel dubbio si asterranno, aspettano a braccia conserte, come Maria Elena Boschi in aula, vestita a lutto dalla mascherina ai piedi.

E poi i Servizi, oh, i Servizi! Il presidente del Copasir, Raffaele Volpi, friccica: “Ha detto che lascia la delega e che possono rivolgersi a noi per chiarimenti? Ci conviene aprire un centralino, rispondiamo anche via WhatsApp”. Bisogna correre, scattare. E lo sa la sottosegretaria 5 Stelle Laura Agea, che all’ingresso sfila gli scarponcini e calza decollete. Serve contegno, insegna un altro grillino Riccardo Ricciardi (già noto per le accuse in Aula al “modello Lombardia” quando ancora Giulio Gallera era un intoccabile): “Dovevi dire ‘ciaone!’ alla fine del tuo intervento”, lo sfottono i colleghi. “Sai quante ne avevo! Quante!”. Non si è trattenuto, al contrario, il leghista Claudio Borghi che si rivolge sprezzante al premier: “Ma sa chi ha di fianco, lei? L’ex dj!” dice, riferendosi al ministro Alfonso Bonafede, prima di sostenere che Conte “se ne andrà come chi lascia la casa occupata, dopo aver rubato tutto e aver defecato al centro della stanza”. Né si contiene la forzista Licia Ronzulli, che ascolta Conte insieme ad Antonio Tajani da uno schermo della Corea (il corridoio dietro all’aula): “Che schifo! – sbotta, quando sente parlare dei ‘posti’ che il premier mette a disposizione – Ma questo è impazzito! Ma chi glielo ha scritto ’sto discorso?!”. I Pd non si fanno vedere. Qualche metro più in là un 5Stelle si avvicina a un renziano: “Quando Renzi ha aperto la crisi, la Fiorentina aveva vinto 3 a zero con la Juve. Ieri ha preso 6 gol dal Napoli: dobbiamo aspettarci la guerra termonucleare?”.

Senato a quota 155. Ma da domani Udc e azzurri disponibili

A metà pomeriggio, quando la seduta della Camera viene interrotta per la sanificazione, Giuseppe Conte entra nella sala del governo a Montecitorio, ma ha la testa da un’altra parte. Alla conta di questa mattina in Senato, dove i margini per la maggioranza sono più stretti: “A quanto siamo?” chiede il premier al suo segretario particolare Alessandro Benvenuti. Risposta: “155-156”. Questa è la base dei voti certi. Da qui si sale. Il pallottoliere dei “volenterosi”, come li ha ribattezzati ieri il premier, lo tiene a Palazzo Chigi il capo di gabinetto Alessandro Goracci, ilgrand commis che fa l’ambasciatore con senatori indecisi e leader dei piccoli partiti (come Lorenzo Cesa dell’Udc). A Chigi ormai si sono rassegnati che questa sera, dopo il discorso del premier, al Senato i giallorosa non avranno la maggioranza assoluta, cioè il magico numero dei 161 voti. Ma la soglia psicologica è fissata a 155: stare sotto è un problema, sopra si inizia a respirare. “Non impicchiamoci a 161 – ha detto a Goracci chi nel Pd tiene il conto – per ora basta la maggioranza relativa, nelle prossime settimane altri voti arriveranno”.

E però le trattative vanno avanti, nella notte e stamani quando i senatori dem chiameranno uno ad uno i propri ex colleghi di Italia Viva per convincerli a votare la fiducia. Ergo: abbandonare Matteo Renzi. Saverio De Bonis, ex M5S che dal Maie accoglie i “volenterosi” , scommette: “I sì saranno 158, ci sarà una sorpresa”. La base di partenza è 152 (il M5S Francesco Castiello sarà assente per Covid): oltre a Pd, M5S, misto e senatori a vita (Segre, Monti, Rubbia e Cattaneo), ieri si è aggiunto l’ex dem Tommaso Cerno (“Mi fido di Conte, ha rottamato Renzi e Salvini”), sono dati per acquisiti anche i voti del Psi Riccardo Nencini e dell’ex M5S Mario Giarrusso. Così, si arriva a quota 155. Sopra – escludendo le presenze di Giorgio Napolitano e Renzo Piano – c’è l’incognito: incerti sono gli ex M5S Tiziana Drago (“Deciderò domani”) e Lello Ciampolillo e non è escluso che possa arrivare il sostegno di qualche renziano. I maggiori indiziati sono Leonardo Grimani, Nadia Ginetti e Donatella Conzatti. Anche per questo, per provare ad aprire un varco nel ventre dei 18 senatori di IV, il segretario Pd Nicola Zingaretti drammatizza: “La situazione è seria, nel voto nelle Camere si vede chi fa delle scelte e chi altre”. Anche perché il Pd è preoccupato dal fatto che da domani in molte commissioni parlamentari non ci sarà maggioranza. E così è partito il blitz per convincere Emma Bonino. Un voto difficile, ma non impossibile. Dando per scontata l’astensione di IV, l’opposizione dovrebbe fermarsi tra 140 e 142 voti. “Lo scarto sarà di oltre i dieci” assicurano dal Pd. Tutto dipenderà anche da possibili assenze tattiche di Forza Italia. Ché il malessere, nel gruppo berlusconiano, cova da tempo. Almeno dal voto del 9 dicembre sulla riforma sul Mes, quando nove senatori azzurri non avevano votato. E le assenze del centrodestra potrebbero essere il preludio per l’allargamento della maggioranza, sulla scia del voto favorevole di ieri di Renata Polverini che ha lasciato FI.

Ma questa è una partita che inizierà da domani, quando il governo lavorerà per portare dentro l’Udc e un pezzo di FI. Ieri i centristi hanno ribadito il “no” alla fiducia anche perché l’Udc ha molti amministratori in giunte di centrodestra, ma la trattativa partirà nelle prossime ore. D’altronde è proprio a loro che Conte si riferiva ieri aprendo ai valori “popolari” e alla legge proporzionale. “Del discorso del premier ci sono passaggi interessanti”, spiega la senatrice Udc, Paola Binetti. Una trattativa, quella con i centristi, che potrebbe servire per portare dentro anche senatori di FI. I nomi sono quattro: Luigi Vitali, Laura Stabile, Anna Carmela Minuto e Andrea Causin. Matteo Salvini e Giorgia Meloni – che ha accusato Conte di volare sulla “Mastella Airlines” – provano a tenere compatta la coalizione, ma un big del centrodestra dice: “Con il proporzionale, centrodestra e centrosinistra non esistono più”. In attesa del vertice dei forzisti, i dem ricordano: “Oggi è l’anniversario del Patto del Nazareno, un buon auspicio…”.

Il premier chiede “aiuto”, apre al proporzionale e si prepara al Conte-ter

Il primo tempo della partita dove Giuseppe Conte si gioca tutto è andato bene, anzi meglio. Il conto recita 321 Sì alla Camera, cioè cinque voti sopra la maggioranza assoluta. Ma è oggi al Senato che il presidente del Consiglio dovrà cercare una maggioranza, se non assoluta, almeno cospicua nella votazione di fiducia. L’unica via per “voltare pagina”, come ha promesso ieri a Montecitorio, sancendo la rottura definitiva con Matteo Renzi, “perché non si può cancellare quanto accaduto”. Però ora servono voti, tanti, quantomeno per non restare lontano da quella quota 161 voti che ieri sera pareva ancora irraggiungibile. “Questi 321 voti possono aiutarci” sussurravano ieri diversi giallorosa, fiduciosi nel fatto che l’esito potrebbe spingere qualche renziano a dire sì in Senato. Nell’attesa ieri Conte ha provato ad aiutarsi con un discorso in cui ha promesso, molto.

Innanzitutto, una legge proporzionale “quanto più condivisa”, cioè quanto invocano i centristi di varia natura e Forza Italia. Ma anche il “rafforzamento della squadra di governo”, aprendo a un rimpasto ampio e quindi a un Conte ter, l’unica formula con cui placare gli appetiti degli alleati presenti e futuri. Un riassetto che il premier, raccontano, vuole chiudere “in pochi giorni”. Al punto che, secondo voci insistenti, potrebbe salire prestissimo al Colle per concordare tempi e modi del rimpasto: già domani o giovedì. Ma tutto ovviamente dipenderà dal voto in Senato: vitale per il premier, provato da certe scorie. Per questo nel suo intervento a Montecitorio assicura che “mi avvarrò anche della facoltà di designare un’autorità delegata per l’intelligence di mia fiducia.” Ma soprattutto chiede: “Se avete delle proposte di modifica della legge (sui Servizi, ndr), seguite i canali istituzionali e se avete delle richieste di controllo, c’è il Copasir. Ma teniamo fuori il comparto di intelligence dalle polemiche”. Però i punti nodali del discorso sono altri. Partendo da quella richiesta ai deputati: “Aiutateci a ripartire e a rimarginare al più presto la ferita che la crisi in atto ha prodotto con i cittadini”.

Ed è la via per imbastire il processo dialettico all’avversario, a quel Renzi che non citerà mai, come un perfetto innominabile. “Provo un certo disagio, perché sono qui a provare a spiegare le ragioni di una crisi di cui non ravviso alcun plausibile fondamento” sostiene Conte, che accusa Italia Viva “di attacchi anche scomposti, al termine dei quali ha deciso di scomporsi”. Una lunga “teoria di contrappunti spesso sterili”, sostiene, con “continui rilanci”. Un assalto che “ha fatto anche aumentare lo spread”. Ma ora basta, assicura Conte, che punta su “un’alleanza a vocazione europeista, che faccia una scelta di campo”: molto diversa da quei sovranisti da cui il premier prende le distanze, anche se nel 2018 a Chigi era arrivato anche grazie a loro, ai leghisti che infatti in aula gli rinfacciano il suo fresco passato. Ma Conte ora ha altro in testa, sostituire Iv con gruppi organizzati. Così apre il più possibile, invocando “il contributo di formazioni che si collocano nel solco delle migliori e più nobili tradizioni europeiste: liberale, popolare, socialista”. Certo, “l’appoggio dovrà essere limpido e trasparente” giura, come a dire che non vuole il mercato dei posti. Però, per richiamare i Responsabili di varia natura, Conte mostra il miele che serve, una legge elettorale proporzionale cui abbinare “alcuni correttivi alla forma di governo”, anche per “restituire al Parlamento un ruolo centrale”.

Non a caso, ventila misure anche per “ridurre il ricorso alla decretazione d’urgenza”. Sa dai tanti mal di pancia per un governo considerato troppo accentratore, e infatti un dem critico come Graziano Delrio lo dice: “Sulla centralità del Parlamento voltiamo pagina”. Dopodiché al Pd e anche a un pezzo mica piccolo del M5S, per non parlare dei Responsabili, devi dare anche altro. E Conte apre: “Alle forze di maggioranza chiederò di completare il confronto per un patto di fine legislatura e di concordare le forme più utili anche a rafforzare la squadra di governo”. Per ora precisa solo l’ovvio, ossia che non terrà la delega all’Agricoltura. Ma la partita dei ruoli è già in corso. E si riparla di uno sdoppiamento del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, mentre per i Responsabili servirebbero almeno due ministeri e il Pd è tornato a puntare il Viminale. Ma prima c’è l’ordalia, in Senato.

La legge del 2%

Qualunque cosa pensino del discorso di Conte, le persone sane di mente non possono non apprezzarne almeno lo stile e non pensare cosa sarebbe dell’Italia se finisse nelle grinfie di stilnovisti come quel tal Borghi, che dietro le quinte offre “buoni ruoli” ai 5Stelle se passano alla Lega e in aula discetta autobiograficamente di chi “defeca al centro della stanza”. Per recuperare un po’ di fiducia in un Parlamento sempre più screditato, attendiamo l’intervento di Liliana Segre, che alla sua età ha disobbedito ai medici ed è scesa a Roma – come ha raccontato a Gad Lerner sul Fatto – per votare la fiducia a Conte all’insegna di “un richiamo fortissimo di senso del dovere e indignazione civile”. Certo, a infoltire le file dell’antiparlamentarismo c’è il solito indecoroso mercimonio dei “responsabili” o “volonterosi” o “costruttori”. Ma ancor più vergognoso è l’uso propagandistico che ne fanno – oltre ai giornalistucoli della sinistra salviniana – Iv, Lega, FdI e financo FI: cioè i professionisti del trasformismo che evocano Mastella e Scilipoti come spaventapasseri. Da che pulpito! Quando l’Innominabile scippò 48 parlamentari al Pd per fondare Iv, sabotare il governo e infine rovesciarlo, che altro fece se non un’operazione alla Mastella&Scilipoti? E quando Iv, Lega e FdI imbarcavano transfughi M5S, FI e Udc, dov’era chi oggi dà degli incoerenti ai coerenti ex Pd ed ex M5S che tornano nella maggioranza M5S-Pd? E quando Salvini chiede a Mattarella (nel marzo 2018 e in questi giorni) l’incarico per un governo di centrodestra senza avere i numeri, a cosa pensa se non a “responsabili” in uscita da altri partiti?

Ecco perché, se non il vincolo di mandato, sarebbe ora di introdurre la norma costituzionale suggerita da Zagrebelsky: la decadenza del parlamentare che cambia (legittimamente) schieramento per farla finita col tradimento della volontà popolare. Se la norma fosse già in vigore, oggi nessuno cercherebbe “responsabili”, perché Iv non sarebbe mai nata, la maggioranza godrebbe ottima salute e il governo si occuperebbe dell’Italia anziché della crisi più pazza del mondo. Non sappiamo come andrà oggi in Senato: se Conte andrà avanti o andrà a casa. Nell’attesa, un sentito ringraziamento per non aver mai nominato l’Innominabile, applicandogli la legge del 2% e degradandolo a “quello della conferenza stampa”. Per una volta, dopo mesi di occupazione totale di tv e giornali, ieri nessuno ha osato proporre di tornare con lui. Anzi, meglio: nessuno, a parte i suoi portaborse, ha parlato di lui. Almeno per 24 ore ci siamo liberati dello Scilipoti di Rignano. Anche se quello di ieri fosse stato l’ultimo giorno del Conte-2, ne sarebbe valsa la pena.

La resurrezione a piedi. Una via di 650 chilometri

È la guerra che non finisce mai, non gli esami. Guardiamoci intorno: è ovunque. Perché noi siamo ovunque, e lei è dentro di noi. Il più letale dei virus. Contagia tutto: aria, acqua, tempi, spazi, coscienze. Miriadi quelle che si lasciano infettare. Pochissime, invece, lottano per restare immuni. Le stesse che, a rischio della loro vita, combattono il virus per salvare la nostra. Santificate la sera, bestemmiate la notte, dimenticate al mattino dopo. Ora che eravamo libere è la storia, luminosissima e dolorosissima, di una di loro: Henriette Roosenburg. Giovane universitaria olandese, che si unisce alla resistenza antinazista. Catturata, subisce un processo-farsa, viene condannata a morte e imprigionata nel carcere di un piccolo centro della Sassonia, in attesa dell’esecuzione. La sua voce, nuda e cristallina, ci fa vivere le cinque settimane più importanti di tutta la sua vita. E, spero, anche della nostra. Sei maggio-13 giugno 1945: il tempo che passa dalla sua liberazione al giorno nel quale, ritrovati casa e affetti, tornerà a qualcosa che potrà di nuovo chiamare vita. Ora che eravamo libere – che Fazi pubblica, per la prima volta in italiano, nella vivida traduzione di Arianna Pelagalli – è un diario di viaggio imperdibile dei quasi 650 chilometri che separano inferno e paradiso.

Henriette è una NN: “Nacht und Nebel” (Notte e Nebbia). Così chiamano i prigionieri come lei. Ultimi tra gli ultimi. I più vessati. Sia dai “fidati” che dalle guardie. Definizione perfetta: nella notte più buia del Novecento, una nebbia viscosa nasconde l’orizzonte alle coscienze. È lei a insegnare a Henriette che il corpo umano riesce a sopportare molte più privazioni di quante crediamo, “a patto che la mente abbia qualcosa cui appigliarsi, anche la cosa più sciocca”. Molte NN – scrive – morirono prima della fine della guerra, “semplicemente perché la loro mente aveva gettato la spugna e rinunciato a combattere”. E “la gente può restare aggrappata alla vita anche nelle circostanze più atroci purché trovi qualcosa, al di fuori di sé stessa, su cui concentrarsi, basta anche un misero pezzetto di stoffa”. Quando la speranza è ormai disperazione, accade l’inimmaginabile: il Reich millenario si sgretola. Il momento più agognato. Ma anche il più pericoloso. Il colpo più duro di un regime è sempre quello di coda. “Ora che sentivamo che la fine della guerra era vicina, lo spettro del plotone d’esecuzione tornò a farci visita”. Il vortice di speranze diventa un baratro di sconforto. All’improvviso, però, qualcuno intona la Marsigliese. Henriette l’ha sempre amata. Se mai avesse voluto cantarla, quello sarebbe stato il momento perfetto. Rimane in silenzio, però. Per rispetto. “Avevo l’impressione che loro [le francesi] avessero diritto all’esclusiva. O forse avevo la gola troppo piena di lacrime; non lo so. […]. Fu in assoluto il momento più solenne della mia vita”. E anche la cosa migliore che potesse capitare dal punto di vista psicologico: “Ci tenne insieme, ci trasformò da un branco di belve assatanate a un gruppo di esseri umani con uno scopo e dei motivi di orgoglio. Il vecchio spirito della resistenza, offuscato e sopito dagli innumerevoli mesi di malnutrizione e disumanizzazione, tornò prepotentemente a galla; smettemmo di spingere e sgomitare e ricominciammo a trattarci con gentilezza”.

Libere degli indumenti sporchi e laceri della prigione, le prigioniere non sono più numeri ma esseri umani. E, finalmente, dei soldati americani sul cofano di una Jeep. Due dèi. “Parlavano una lingua che capivamo”. Potevano rispondere alle loro domande e, forse, suggerire loro come andarsene da quell’inferno. Sembra che Hitler sia morto davvero, che i nazisti stiano capitolando, che la guerra stia per finire. E, d’un tratto, davanti agli occhi delle NN, si spalanca un “dolce paesaggio fatto di campi di grano e di segale che ondeggiavano maturi nella brezza […], sormontato dall’ampio e soleggiato cielo di maggio nel quale una miriade di nuvolette salpava allegramente verso il nulla. […]. L’immensità della libertà ci investì come un’onda sulla spiaggia, inghiottendoci, togliendoci il respiro, facendoci barcollare sulle gambe stanche. Avevamo tutti una gran voglia di cantare, piangere, urlare e ridere, tutto in una volta, ma restammo a lungo immobili e in silenzio”.

La resurrezione comincia lì. Seicentocinquanta chilometri di Europa devastata: tanti ne dobbiamo percorrere, insieme a Nell (trent’anni), Joke (venti), Dries (unico maschio: ventisei) e Zip (Henriette: ventotto), per capire quale dono immenso abbiamo ricevuto da anime come le loro. E, soprattutto, quale imperdonabile follia sia anche la sola idea di lasciarcelo rubare. O, peggio, gettarlo via, come un giocattolo che non diverte più. “Meditate che questo è stato”. E può essere ancora. Se accadrà, sarà solo colpa nostra. La strada, ormai, la conosciamo. Ce l’hanno indicata Nell, Joke, Dries e Zip. Seguiamola.

Israele. Con l’intelligenza artificiale i fucili sono più letali

Michal Mor e Shir Ahuvia sono due donne israeliane esperte di tecnologia che hanno messo a punto un sistema destinato a cambiare completamente le battaglie sul terreno fra reparti di fanteria. Smart Shooter è un dispositivo di tiro basato sull’intelligenza artificiale che rende i fucili intelligenti, più precisi e più letali. Le unità di fanteria sono in genere quelle meno supportate dalla tecnologia, rispetto ad altri rami dell’esercito come Aviazione o Marina. La tecnologia dell’azienda fornisce abilità da cecchino a tutti i soldati rendendo i loro fucili intelligenti e connessi: l’intero plotone e i centri di comando e controllo possono vedere ciò che i soldati vedono attraverso il mirino nelle operazioni diurne e notturne. Smash Fire Control System, è dotato di telecamera, tecnologie di visione artificiale, software e algoritmi di elaborazione delle immagini. Si monta sulla canna di qualsiasi fucile d’assalto standard. Il soldato guarda attraverso un cannocchiale ottico e decide chi è il bersaglio e quando sparare, ma è il sistema che aggancia il bersaglio, traccia i movimenti e, utilizzando l’elaborazione della previsione dell’impatto assistita dal computer, sincronizza il rilascio del colpo. Il bersaglio può essere statico o in movimento, il sistema garantisce capacità di un colpo solo fino a 300 metri. I dati dell’esercito americano indicano che la probabilità di un colpo sotto stress è inferiore al 20% a 200 metri e al 10% a 300 metri. Con i sistemi di controllo del fuoco Smash, i soldati che hanno sperimentato il sistema per la prima volta hanno raggiunto l’80% di centri.

Ci vogliono solo pochi minuti per addestrare i soldati a usare il sistema, ha detto spiega la dottoressa Mor, a differenza delle tre settimane di addestramento per usare un normale fucile. “È come se stessimo inventando lo smartphone per il mondo dell’esercito”, ha spiegato, “la nostra è una piattaforma che cambierà l’intera mentalità di come dovrebbero essere le cose”. I sistemi sono già utilizzati dall’Idf e dalle forze speciali Usa, in dicembre la start-up israeliana ha ottenuto un contratto milionario dal Ministero della Difesa indiano.

 

“In Catalogna non è cambiato nulla: ci vuole il referendum”

Il 7 gennaio una corte d’appello belga ha rifiutato di consegnare alle autorità spagnole Lluís Puig, confermando la decisione dell’estate scorsa. L’ex consigliere alla Cultura della Catalogna si era rifugiato in Belgio insieme a dei colleghi nel 2017, dopo la “dichiarazione unilaterale di indipendenza” della regione spagnola. Mentre si avvicinano le elezioni in Catalogna, previste per il 14 febbraio, e rinviate al 30 maggio per la pandemia, per il più celebre degli esiliati politici catalani, Carles Puigdemont, ormai parlamentare europeo, la prospettiva dell’estradizione sembra dunque allontanarsi.

Come ha reagito alla decisione del tribunale che blocca l’estradizione di Lluís Puig?

È una decisione definitiva poiché il procuratore belga ha deciso di non andare in cassazione. Mostra che la strategia politico-legale che lo Stato spagnolo ha messo in atto da più di tre anni contro di noi è fallita. ‘Game over’. Il processo di Lluís Puig rientra nella stessa procedura che riguarda me e il mio consigliere alla Salute dell’epoca, Toni Comín. Tutti e tre siamo stati convocati davanti al giudice in prima istanza, ma io e Comín avevamo invocato il nostro statuto di eurodeputati. Il giudice aveva deciso dunque di confermare il mandato d’arresto contro Puig e di sospendere la procedura contro di me e Comín. Ciò significa che, anche se il Parlamento europeo dovesse revocare la nostra immunità, il tribunale prenderà nei nostri confronti la stessa decisione presa per Puig.

Ma su di lei pesano accuse più gravi, inclusa la “sedizione”…

Innanzi tutto, la decisione della corte tedesca dello Schleswig-Holstein, nel 2018, diventata definitiva perché la Spagna non ha fatto appello, stabilisce che non c’è stata né ribellione né sedizione. Dal canto loro, le autorità belghe considerano che, se Puig fosse rimpatriato in Spagna, i suoi diritti fondamentali sarebbero minacciati e in particolare la presunzione di innocenza. Il tribunale si è basato sulle conclusioni del gruppo di lavoro delle Nazioni Unite contro la detenzione arbitraria: hanno stabilito che, viste le dichiarazioni di certi politici e membri della procura spagnola, che danno per scontato la nostra colpevolezza, non avremmo un processo equo in Spagna. I giudici hanno inoltre ritenuto che la Corte suprema che si occupa del nostro caso che ha sede a Madrid, mentre i fatti sono accaduti in Catalogna, non è competente. Questo vale per Puig, ma anche per me e per Comín.

Si ritiene soddisfatto?

Uno degli obiettivi che ci eravamo fissati quando abbiamo scelto l’esilio è stato raggiunto: poterci difendere in un contesto che tutelasse pienamente i nostri diritti. Il prossimo obiettivo è far uscire di prigione i prigionieri politici, che hanno subito persecuzioni.

Il 14 gennaio si è aperto al Parlamento Ue il dibattito sulla revoca della vostra immunità, prima del voto in plenaria. La perdita dell’immunità appare possibile. La sentenza su Puig cambia le regole del gioco?

Sono dibattiti diversi. La decisione del Pe è politica. La delegazione spagnola è molto potente all’interno del Partito popolare europeo e dei socialdemocratici, ma anche nel Gruppo dei conservatori e riformisti europei, che conta deputati di Vox, il partito neofranchista che ha avviato la procedura d’accusa popolare contro gli indipendentisti catalani durante il processo. È chiaro che la delegazione spagnola non intende perdere. Il nostro obiettivo è ricordare che siamo oggetto di una persecuzione politica che punta a impedirci di svolgere il nostro mandato di eurodeputati. In sostanza, al Parlamento viene chiesta l’autorizzazione di metterci in prigione. I deputati devono sapere che non avremo un giudizio equo e giusto in Spagna.

Ma, lei dice che, pur in caso di revoca dell’immunità, la giurisprudenza belga ormai vi protegge…

Certo. Ma è importante che il Pe invii un segnale politico forte alla Spagna: non è così che si risolve un problema politico.

Nel 2017, al momento della dichiarazione unilaterale di indipendenza del governo catalano, contavate sul sostegno di alcuni responsabili europei, ma vi siete ritrovati isolati. La situazione è cambiata da allora?

A essere onesti, nel 2017, non pensavamo di trovare alleati nell’Ue. È un club di Stati: sapevamo che avrebbero sostenuto ufficialmente la posizione della Spagna. Invece il silenzio dell’Ue di fronte alla violenza della polizia spagnola contro persone innocenti e pacifiche, durante il referendum del 1 ottobre 2017, è stata una vergogna storica. Non dico che l’Europa debba sostenere la causa catalana, ma avrebbe potuto condannare violenze inaccettabili così come, a ragione, condanna quelle in Bielorussia. Pensavo che la Convenzione dei diritti fondamentali dell’Ue ci avrebbe protetto, ma sbagliavo.

La coalizione di sinistra di Pedro Sánchez e Unidas Podemos al governo, segna una rottura nel modo in cui Madrid gestisce la questione catalana?

Niente affatto. Non c’è stata una sola parola di perdono. Né un solo dibattito parlamentare sull’abolizione di questo delitto del XIX secolo che si chiama sedizione, né sulla legge sull’amnistia. Certo, il clima è un po’ cambiato, ma nei fatti con un governo della destra Pp saremmo allo stesso punto.

Eppure è stato dato il via ad una riforma per modificare l’accusa di “sedizione”.

È solo propaganda. Dove sta la legge? C’è stato forse un dibattito in Parlamento? La sedizione oggi è un delitto assurdo. Non esiste più nella maggior parte dei paesi d’Europa, a eccezione dell’Irlanda, ma l’ultima condanna per sedizione risale a un secolo fa…

Oriol Junqueras (Erc), in prigione dal 2017, ex vicepresidente della Catalogna quando lei era al governo, ripete che, prima di organizzare un nuovo referendum, bisogna ampliare la base degli indipendentisti, che oggi non pesa neanche il 50%…

Oggi abbiamo il 47,5% dei voti nel Parlamento catalano e una maggioranza parlamentare in numero di seggi. L’unico modo per confermare la base è indire un referendum. Il nostro dell’ottobre 2017 è stato violentemente ostacolato dal governo spagnolo. Ma noi abbiamo considerato che fosse valido e che bisognava procedere alla dichiarazione d’indipendenza. Condivido l’idea che dobbiamo dimostrare che siamo più del 50% a volere l’indipendenza. Ma la questione è un’altra: cosa faremo quando supereremo il 50%? Tutti i partiti spagnoli hanno già detto che anche con il 60 o 70% i nostri diritti ci sarebbero negati. Abbiamo un muro di fronte a noi e dobbiamo essere pronti a…

Disobbedire?

A demolire quel muro.

Se le elezioni del 14 febbraio saranno mantenute in Catalogna, la campagna si concentrerà sulla gestione della pandemia e non sull’indipendenza e sui prigionieri. È un problema per il campo indipendentista?

È normale perché l’epidemia pone delle sfide difficili per il presente e il futuro. Ma ci mostra anche, drammaticamente, cosa significa dipendere dalla monarchia spagnola. Non abbiamo avuto le risorse per aiutare i lavoratori autonomi e le piccole e medie imprese, come è stato fatto in altri paesi.

Ma la salute è una competenza regionale in Spagna…

Solo su carta. Quasi il 95% delle tasse della Catalogna vanno allo Stato. Quindi, bene le competenze, ma senza soldi come si fa? La Catalogna rappresenta il 19% del Pil spagnolo e non possiamo neanche gestire il fondo europeo, di cui le Pmi avrebbero bisogno.

C’è chi la critica per una forma di ‘caudillismo’ e per la personalizzazione a oltranza del dibattito sull’indipendenza da Bruxelles…

Mi criticano se continuo a battermi e mi criticherebbero pure se decidessi di ritirarmi. Lo scopo è di impedirmi di fare politica. Ma non sono andato in esilio per farmi una vacanza.

L’idea è sempre di tornare in Catalogna?

Certo. Ogni giorno mi sveglio dicendomi che sarà l’ultimo giorno di esilio. Ma so anche che potrei passare qui il resto della mia vita.

 

Salario minimo. Il dibattito oscurato dalla crisi. Troppi lavoratori poveri o con contratti pirata

Malgrado la crisi, il milione di licenziamenti in pancia alle imprese italiane e la rigida posizione della Confindustria, il tema del salario minimo è più vivo che mai. Lo ha posto (di nuovo) in agenda una direttiva europea e, nella settimana appena passata, se ne sono occupate le commissioni Lavoro di Camera e Senato. La ministra Nunzia Catalfo vuole introdurlo con il Recovery Plan e detassare gli aumenti collegati ai rinnovi contrattuali per alzare le paghe dei lavoratori.

C’è una direttiva, come detto, quindi non conta come la recepiremo, l’importante sarà centrare il risultato di portare gli stipendi a livelli dignitosi. L’obiettivo è pure combattere la concorrenza sleale dell’Est e c’è chi è convinto che noi, con una solida tradizione di contrattazione collettiva, potremmo persino ignorare la richiesta europea. Ma non è così: proprio perché lo vuole l’Ue, nasce già una questione sulla definizione di lavoratore a cui applicare il minimo. Da noi spesso ci si ferma ai dipendenti, la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea, invece, inserisce anche le forme atipiche come tirocinanti e falsi autonomi, tra l’altro molto presenti da noi. “Su questo aspetto – ha detto martedì il professor Marco Barbieri alla commissione – i progetti di discussione in Parlamento non sono adeguati perché limitati ai subordinati”.

Il cuore del problema è la cifra. La Commissione europea indica come parametri il 60% delle retribuzioni mediane e il 50% di quelle medie. Oggi in Italia esistono contratti, come la vigilanza privata e servizi fiduciari, con minimi da 4,60 euro l’ora. La gran parte dei lavoratori è coperta da un contratto collettivo, ma questi sono il risultato di rapporti di forza sproporzionati a favore delle imprese. I lavoratori dipendenti protetti dall’ombrello dei contratti collettivi – ha detto il presidente Inapp Sebastiano Fadda – sono l’88,9%. Ma nel settore ristorazione e accoglienza si scende al 76%, fino al 67,6% per la sanità e i servizi socio-assistenziali privati. C’è poi il proliferare di accordi “pirata”: avevamo 549 nel 2012 e oggi siamo a 856. A settembre 2020, per esempio, l’Ugl ha firmato il contratto dei rider che non prevede neppure minimi orari – equi o meno che siano – ma istituzionalizza il cottimo. Lo stesso sarebbe successo agli shopper con l’intesa Assogrocery-Fisascat Cisl, ma i lavoratori l’hanno bocciata.

La proposta presentata nel 2018 da Nunzia Catalfo, allora presidente della commissione Lavoro al Senato, prevede il minimo di 9 euro lordi come riferimento per la contrattazione collettiva. Il professor Maurizio Del Conte l’ha definita “una cifra astratta calata dall’alto”. Per la ricercatrice Marta Fana, invece, il minimo di legge serve a evitare la possibilità di concorrere al ribasso e spingerebbe le imprese alla produttività (opinione condivisa dall’Inapp) espellendo solo le aziende meno efficienti. Non basta però una cifra minima: bisogna anche limitare fenomeni come il part time involontario e le esternalizzazioni selvagge, che rischiano di eludere un’eventuale norma. Per Federico Martelloni, associato all’Università di Bologna, va reintrodotto l’obbligo di parità di trattamento tra chi lavora nell’azienda committente e chi opera in appalto.