Sospensione dei brevetti: l’Ue chiude l’ultima porta

Il vertice tanto atteso tra Unione europea e Unione africana è finito soltanto con una vaga promessa della commissaria Ursula von der Leyen: ritrovarsi in primavera per trovare una soluzione.

A due anni dall’inizio ufficiale della pandemia di Sars-Cov-2, con solo l’11% degli africani vaccinati, non era quello che sperava di sentirsi dire il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, che dall’ottobre del 2020 sostiene all’Organizzazione mondiale del commercio la proposta di sospendere temporaneamente i brevetti sui vaccini e i farmaci anti Covid. “Qui si tratta della vita di centinaia di milioni di persone, contro la redditività di poche aziende”, ha attaccato il presidente sudafricano a Bruxelles.

La tensione era nell’aria già da una decina di giorni, da quando l’Unione africana aveva fatto sapere di voler inserire nel testo del partenariato con l’Ue la liberalizzazione dei brevetti dei vaccini. Bruxelles resta l’ultimo grande blocco del mondo contrario, e al vertice Von der Leyen lo ha ribadito: “È necessario proteggere la proprietà intellettuale”.

Per Oxfam Italia ed Emergency è “un insulto per milioni di persone che nei Paesi più poveri stanno perdendo i propri cari”. L’unico annuncio concreto della due giorni di incontri istituzionali è arrivato dal direttore dell’Oms, l’etiope Tedros Ghebreyesus: Egitto, Kenya, Nigeria, Senegal, Sudafrica e Tunisia inizieranno a produrre vaccini anti-Covid a base mRna, ha detto. È la strada che vuole perseguire l’Ue, quella delle licenze obbligatorie. Significa che i governi di queste sei nazioni africane potranno obbligare Pfizer o Moderna a concedere loro l’uso dei brevetti per la produzione dei vaccini. Non è chiaro se verranno pagate royalties alle aziende farmaceutiche, ma di sicuro così facendo i brevetti non verranno liberalizzati.

Vito Bardi e gli altri: in Basilicata i tamponi salvavano solo i “vip”

Il tampone in Basilicata come spartiaque del potere, del censo. C’era chi poteva, e subito. E chi non poteva, e doveva aspettare. Nella sofferente sanità lucana, allo scoppio della pandemia da Sars Cov 2, c’era chi come Salvatore Palmiro Parisi doveva attendere dieci giorni con le dita viola, senza respiro e un febbrone da cavallo prima di ottenere un tampone perché, scrisse la moglie, “al 118 risposero ‘non possiamo mica mandare l’ambulanza a fare un tampone a tutti quelli che hanno la febbre’”.

E c’era invece chi, come il governatore FI Vito Bardi, tre suoi assessori, Francesco Fanelli, Donatella Merra e Gianni Rosa, il consigliere regionale Gerardo Bellettieri e un nutrito drappello di dirigenti e staffisti dei vertici della Regione Basilicata, riusciva a ottenere il tampone immediatamente. Nei giorni drammatici in cui fare il tampone era meno facile che vincere alla lotteria, a Bardi ne furono fatti tre: l’8, il 13 e il 23 marzo 2020. I primi due processati in poche ore, per il terzo, inopinatamente, si dovette aspettare aprile inoltrato. Tutti con esito negativo. Parisi invece era positivo e malato, ma ci vollero 10 giorni tra la febbre e il ricovero, entrò dritto in terapia intensiva e ne uscì cadavere il 30 marzo.

Stessa sorte di Antonio Nicastro, giornalista blogger di Potenza che si faceva chiamare ‘Astronik’. Aveva denunciato i ritardi della sanità lucana nell’effettuazione dei tamponi. Poi si contagiò anche lui. Stava male, era sintomatico. Mendicò per giorni un tampone, attese una settimana per averlo dopo la segnalazione del 13 marzo 2020 del medico di base all’azienda sanitaria, e avrebbe dovuto aspettare altri tre giorni se il figlio non avesse denunciato pubblicamente la vicenda sui social. In ospedale per lui non ci fu niente da fare, il virus aveva scavato a fondo nei polmoni, fu intubato quasi subito, morì il 2 aprile 2020.

Dalla denuncia dei familiari è nata un’indagine coordinata dal procuratore capo Francesco Curcio e dall’aggiunto Maurizio Cardea: oltre 2.000 pagine di documenti e di verbali allegati all’avviso di conclusione inchiesta notificato a 11 indagati a vario titolo di omicidio per colpa medica, omissione d’atti d’ufficio, falso. L’indagine ha riguardato tempi e procedure della gestione dell’emergenza nelle prime settimane. La corsa ai tamponi. Le attese per ottenerli. I criteri seguiti per dettare le priorità. Nicastro fu “scavalcato” da 34 persone. Il Quotidiano del Sud che ha anticipato la storia le chiama ‘Vip’. Tra i quali Bardi e i vari politici e dirigenti regionali. Il direttore del laboratorio d’analisi dell’ospedale San Carlo di Potenza, Antonio Nicastro, sentito come teste il 23 aprile 2020, ha messo a verbale che i tamponi di Bardi e di alcuni ‘vip’ furono “portati direttamente dal Direttore Sanitario dell’Asp Luigi D’Angola (indagato, ndr) che mi riferì di aver personalmente eseguito i tamponi al personale della regione Basilicata in quanto autorità che aveva avuto rapporti con persone certamente risultate positive.

L’informativa sintetizza così: “Fu largamente privilegiato il criterio epidemiologico e non quello clinico, in un momento in cui bisognava dare priorità ai soggetti che avevano sintomi evidenti. E sono stati favoriti soggetti politicamente vicini ai vertici dell’Asp di Potenza”. Bardi e gli altri non sono indagati. Il governatore, contattato dal Fatto quotidiano, commenta così: “Piena fiducia nella magistratura, sarà fatta totale chiarezza, sono a disposizione per ogni tipo di chiarimento. Bisogna rispettare il dolore della famiglia Nicastro”.

 

“Probabile 4ª dose per tutti” Il Green pass per ora rimane

La decisione non è stata presa, i governi dell’Unione europea hanno appena cominciato a discuterne, ma la necessità di un’ulteriore dose di vaccino anti-Covid il prossimo autunno, un altro booster volgarmente detto quarta dose per tutta la popolazione o quasi, è considerata “tra il possibile e il probabile” secondo un autorevole membro dell’esecutivo italiano. Naturalmente continueranno a osservare l’evoluzione del virus e delle sue varianti, da qui all’autunno le cose cambieranno più di una volta e non si possono escludere indicazioni differenti a seconda delle fasce d’età. Prima che ai governi la valutazione spetterà a Ema, l’Agenzia europea del farmaco, quindi alle agenzie nazionali. E il responsabile delle politiche vaccinali dell’Ema Marco Cavaleri nei giorni scorsi aveva detto che “non ci sono ancora prove sufficienti per raccomandare un secondo booster”. Lo stesso Cavaleri peraltro a gennaio avanzava più di una perplessità sostenendo che “somministrazioni ripetute non sono una strategia duratura”.

La possibilità o probabilità di una quarta somministrazione è uno dei motivi per i quali il governo, al momento, non pensa affatto a significativi allentamenti del rigido regime di Green pass rafforzato (guariti o vaccinati) e anzi ipotizza di prolungare gli obblighi vaccinali (categorie varie e over 50) oltre la scadenza fissata al 15 giugno, che già supera di due mesi e mezzo quella dello stato d’emergenza. L’altro motivo è incentivare le terze dosi, che sono quasi 37 milioni (circa il 62 per cento della popolazione contro quasi 49 milioni, l’82 per cento, con due dosi) ma dal punto di vista del governo non bastano a scongiurare eventuali recrudescenze. “Togliere il Green pass sarebbe un disincentivo alle vaccinazioni”, dicono dal governo. Per ora, comunque, andiamo bene: l’indice di riproduzione del virus Rt è sceso a 0,77 che è il valore più basso dal giugno scorso; continuano a diminuire i nuovi casi e i pazienti in ospedale. Per quel poco che ormai contano i colori, 4 Regioni passano dall’arancione al giallo e quindi da domani tutta la Penisola sarà gialla, tranne Umbria e Basilicata (bianche) e Friuli-Venezia Giulia (arancione).

In questo quadro la commissione tecnico scientifica dell’agenzia del farmaco Aifa ha approvato la quarta dose per le persone particolarmente fragili, immunodepresse, che avevano ricevuto la dose addizionale a 28 giorni dalla seconda. Sono trapiantati, malati oncologici trattati con farmaci immunosoppressivi o mielosoppressivi o affetti da immunodeficienze varie, insufficienza renale cronica grave, pregressa splenectomia e Aids. L’Ema aveva già dato il via libera.

“Siamo convinti che, senza abbandonare la prudenza, si va verso un alleggerimento delle regole e delle misure”, ha dichiarato ieri la ministra degli Affari regionali, Mariastella Gelmini. Ma se il Green pass per ora non si tocca nella sostanza, e nemmeno l’obbligo di mascherine al chiuso, si prevede al massimo qualche allentamento delle restrizioni all’aperto. Con la pubblicazione della legge di conversione del decreto del 24 dicembre, emendato sul punto, torna da oggi al 75 per cento la capienza degli stadi (60 per gli impianti sportivi al chiuso) anche se la Serie A non ha fatto in tempo a vendere gli eventuali biglietti in più. Il sottosegretario alla Salute Andrea Costa ha anticipato che si potrebbe arrivare al 100 per cento prima del 24 marzo, quando l’Italia giocherà con la Macedonia a Palermo nel primo spareggio per i Mondiali del Qatar. L’ipotesi trova ulteriori conferme.

Lupi per Agnelli

La lettura dei giornaloni ci induce a un moto spontaneo di commozione e gratitudine per una famiglia di buoni samaritani torinesi che dona un miliardo di euro allo Stato per i nostri bisogni più impellenti. I titoli più soavi sono sulle testate dei benefattori. Stampa: “Accordo tra Fisco e gruppo Agnelli: un miliardo per le sedi in Olanda. Exor: ‘Corretta la nostra interpretazione delle norme. Nessuna sanzione, contenzioso chiuso’”. Repubblica: “Accordo col Fisco sul passaggio in Olanda. La società: ‘Operato secondo le regole’”. Ma anche il Sole 24 ore non scherza: “Exor e Agnelli, quasi 1 miliardo per chiudere la vertenza fiscale”. E il Corriere: “Exor-Agnelli, pace da 950 milioni con il Fisco”. Non è ben chiaro a quale guerra o “vertenza” o “contenzioso” sia seguito l’“accordo” di “pace”. Ma è pacifico che i donatori subalpini nulla dovevano, avendo osservato rigorosamente “regole” e “norme”, il che rende ancor più nobile il munifico gesto di devolverci metà degli utili. Un po’ come quegli imputati che patteggiano anni di galera, ma restano innocenti. Ci par di vederlo, il giovine John Elkann che arringa il folto gregge degli Agnelli, leccandosi il pollice mentre sfoglia il libretto degli assegni: “Mi voglio rovinare: facciamo un miliardo e un bacio sopra, se no dicono che siamo tirati! Apro una parente: se non sganciamo subito il miliardo, il fisco potrebbe affibbiarcene 2 o 3 per l’Exit Tax non pagata col trasloco in Olanda, e cara grazia che c’è lo sconto Draghi. Ma questo non lo diciamo, anche perché dallo Stato abbiamo incassato 10 miliardi fino al 2013 e ora si ricomincia. Chiusa la parente. Senza nulla a pretendere, i fratelli Elkann, che siamo noi”.

Ci par di vedere pure i colleghi di Stampubblica, ai quali va la nostra solidarietà. S’erano appena riavuti dalla fatica di nascondere il sequestro di 30 milioni ai cavalieri Gedi (gestione De Benedetti) per una presunta truffa da 38 all’Inps e di maledire il M5S per le truffe miliardarie sul superbonus (mai esistite) e zac! Gli capita fra capo e collo la notizia del padrone che prende i soldi e scappa, viene beccato e ne restituisce un po’ per evitare il peggio, mentre con l’altra mano ritira il primo dei 3-4 miliardi in 8 anni gentilmente offerti dal trio Draghi-Giorgetti-Cingolani. Ora chi lo dice a Sebastiano Messina, che su Rep voleva “vietare a vita l’uso della parola ‘onestà’” ai 5Stelle che “permettono a un imbroglione di truffare un miliardo – un miliardo! – col superbonus e consentono a mafiosi, finti poveri e latitanti di incassare ogni mese il reddito di cittadinanza” (500 euro!). In attesa di trovare un’anima pia che lo avvisi col dovuto tatto, Rep mette a pag. 1 il miliardo dallo Stato agli Agnelli e a pag. 25 il miliardo dagli Agnelli allo Stato. Sennò poi la gente sospetta che questi Agnelli siano parenti.

Ilva di Taranto, Petrini torna a casa per cercare il nesso tra salute e lavoro

Il filo che attraversa il libro di Valentina Petrini è riassunto nella frase che il medico dice a sua madre quando le scopre un tumore: “Se può non resti a Taranto”. Il tumore, Taranto, quartiere Tamburi e quartiere Paolo VI, sono i volti di un incubo che non abbandona mai l’autrice. Che la induce a fare controlli su controlli in ogni momento della sua vita solo per il fatto di essere nata e cresciuta a Taranto.

Il tumore, i vari tumori, attraversano diverse pagine del libro a cominciare dalla storia del piccolo Lorenzo Zaratta, con un rarissimo tumore al cervello comparso a soli tre mesi e su cui, dopo la morte, scatterà un’inchiesta giudiziaria.

Ma il tumore è anche il lato doloroso che si conficca in questa storia per porre il nodo del “bilanciamento” tra salute e lavoro, due diritti che a Taranto alla fine sono entrambi sequestrati dalla soverchieria del più forte. L’industria, il regno dei Riva, i suoi agganci multiformi, le lunghe braccia che hanno fatto tacere gli allarmi e seppellito le proteste. Come accadde già durante la nascita dell’Ilva, con gli allarmi del dottor Alessandro Leccese, ufficiale sanitario che segnala la pericolosità dell’impianto e di cui Petrini va a rintracciare il diario conservato nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano in provincia di Arezzo. Lo scontro si ripete costantemente, e costantemente il “bilanciamento” favorisce la fabbrica e non l’ambiente come alla fine di un’intervista sofferta è costretta ad ammettere la pm Patrizia Todisco, che nel 2012 si permise di sequestrare l’Ilva. Anche dopo la sentenza “Ambiente svenduto” del 2021 il nodo resta intatto: il lavoro o la salute? E perché non tutelare entrambi? Perché ammettere che qualche diritto diventi un “lusso”, come ebbe a dire Stefano Rodotà? Sono le domande che Petrini pone costantemente – anche a uno spaesato ministro Cingolani – e sono tanto impellenti quanto direttamente collegate alle sue radici, alla città in cui è nata e cresciuta e che ancora adesso si porta dentro.

Il cielo oltre le polveri Valentina Petrini Pagine: 45  – Prezzo: 18 – Editore: Solferino

 

“Mi interessa la verità ma non serve a nulla”

Dici Giorgio Scerbanenco, pensi alla prolificità e alle trame noir, e scatta il parallelo con Georges Simenon. Solo che mentre l’autore belga figura tra i classici della Pléiade, il nostro resta sospeso nel limbo della narrativa di consumo. Come se, a dispetto della crescente rivalutazione postuma, gli mancasse sempre un credito per la canonizzazione definitiva. Un triste paradosso in un Paese che ha tuttavia consacrato due Meridiani ad Andrea Camilleri e accolto i libri di Gianrico Carofiglio tra i finalisti del premio Strega.

Eppure la bibliografia di Scerbanenco è tra le più seminali del secondo Novecento. Non c’è autore di genere che non gli sia debitore. Sul grande schermo ha ispirato, tra gli altri, il poliziottesco di Fernando Di Leo (vedi Milano calibro 9), concime dell’America pulp di Quentin Tarantino. Una capacità tanto incisiva di plasmare l’immaginario che, così come esiste “la Roma di Moravia”, esiste “la Milano di Scerbanenco”. I racconti de Il Centodelitti sono l’altra faccia del boom degli anni 60, l’affresco di una metropoli che sotto la patina del benessere nascondeva voragini di cinismo e solitudine.

Sia pure di origini ucraine, Scerbanenco è diventato per antonomasia l’incarnazione del meneghino. Nato nel 1911 a Kiev, figlio di un professore ucciso durante la Rivoluzione d’ottobre, approda con la mamma italiana prima nella capitale e poi a Milano dove si stabilisce nel 1929. È per dissipare l’eco della steppa che cambia la k del suo cognome in una c e si libera di Vladimir adottando il secondo nome, Giorgio. Lavora come magazziniere, autista d’ambulanza nei turni di notte, fattorino, uomo delle pulizie. Frattanto scrive racconti che è Zavattini a pubblicare per primo in un suo settimanale. Nel volgere di pochi anni Scerbanenco diventa il protagonista assoluto dei rotocalchi Rizzoli. Su Novella e Bella tiene rubriche di corrispondenza, scrive migliaia di pezzi, decine di romanzi. Natalia Aspesi ha affermato: “Ci sono intere generazioni di donne che si sono emancipate leggendo i romanzi rosa di Scerbanenco”.

Batte alla macchina da scrivere con un ritmo da operaio alla catena di montaggio, quattro cartelle all’ora, capace di scrivere ovunque, in qualunque situazione, pure sulla spiaggia quando d’estate va al mare. La fama internazionale si consolida quando incontra Oreste del Buono. È dal loro incontro che prende forma il ciclo dei romanzi più celebri con protagonista Duca Lamberti. È un medico radiato dall’ordine per avere praticato una eutanasia e che si reinventa investigatore. Pagine che immortalano vecchi cummenda che cercano la Venere privata, Milanesi che ammazzano al sabato perché il lunedì c’è da lavorare, e Traditori di tutti. I moventi degli omicidi sono la vendetta, il sesso, l’avidità. C’è dunque agli occhi di Scerbanenco uno Stato ancora innocente e senza peccato. La strage di Piazza Fontana sconvolge l’Italia due mesi prima della sua morte, nel 1969, a soli 58 anni.

Venere privata, di nuovo in libreria per La nave di Teseo, è il primo romanzo della serie in cui compare Lamberti: “Oggi ci sono i banditi con l’ufficio legale a latere, imbrogliano, rubano, ammazzano, ma hanno già studiato la linea di difesa con il loro avvocato nel caso fossero scoperti e processati e non vengono mai puniti abbastanza. Vogliono che gli altri stiano al gioco, alle regole, ma loro non ci vogliono stare”. Si respira la Milano degli anni in cui i gangster sono ancora “artigianali”: prostituzione, prime timide partite di droga e di armi da contrabbandare. Ulrico Brambilla, quello che in Traditori di tutti (romanzo anch’esso di nuovo sugli scaffali) gestisce il losco traffico, è anche uno che, tra una partita di merce e l’altra, sta dietro il banco della macelleria a tagliare filetti. Lo stile di Scerbanenco, il suo fraseggiare asciutto, si adatta come un calco agli eventi torbidi che racconta. Le descrizioni, quasi da verbale, stemperano le atrocità ma nello stesso tempo le mostrano in tutta la loro crudezza. Per di più non manca l’ironia, specchio altrettanto acuto con il quale riflettere la realtà. E sempre con una vena di disincanto. Ne I ragazzi del massacro si legge: “La verità era l’unica cosa che interessava Duca anche se poi non serviva a nulla”.

Tra la solitudine e il berlusconismo, il congedo dolente di Norberto Melis

Il commissario Norberto Melis non poteva sperare in un congedo migliore. Ché Hans Tuzzi alias Adrian Bon conclude la saga del poliziotto (sedici titoli) con un superbo romanzo che rifulge appieno del suo talento di scrittore, laddove lo stile è al solito elegante e ironico e la tanto bistrattata forma è anche sostanza. Dire addio è una cosa complessa quando si tratta di serie di successo e Tuzzi non viene meno alla sua innata vocazione per l’understatement. Niente volgari lacrimoni da fiction, tipici dei gialli di oggi, pensati e scritti per la tv. Piuttosto, attorno a Melis c’è un deserto dolente scandagliato dalla nostalgia e dal nulla del presente.

Rimasto solo, senza l’amata Fiorenza uccisa da un tumore, il poliziotto decide di andare in pensione a cinquant’anni, complice anche l’arrivo sulla scena politica dei metodi corrotti del cavaliere Papunà, il Satiro già piduista residente in Brianza. La parabola di Melis è così compiuta: dalla fine degli anni settanta all’alba del berlusconismo. Dunque, Melis è ancora a Milano (la città delle sue inchieste) quando si fa vivo un suo vecchio superiore, che adesso opera nella zona grigia se non nera del potere. Siamo nel 1994 e l’uomo chiede a Melis di andare in Veneto, nel paese immaginario di Brassanigo (che assomiglia tanto alla Verona leghista), per indagare sotto falso nome e da finto giornalista su un delitto di otto anni prima, mai risolto. A essere ammazzata fu una ragazza e tra i sospettati all’epoca ci fu un economista, nel frattempo diventato astro nascente della sinistra di governo. In pratica, l’ex commissario lo deve scagionare e per questo si trova immerso negli strabilianti vizi carnali del Nordest. Melis si fa chiamare Nereo Mani. Mani: come le anime defunte degli antichi romani. Appunto.

 

Ma cos’è questo nulla? Hans Tuzzi Pagine: 191 – Prezzo: 15 – Editore: Bollati Boringhieri

 

Per “il Proust del Kentucky”, il sesso è puro

Per lui nel sesso non c’era quasi mai stata gioia, piuttosto vergogna, ansia, paura. Non aveva mai davvero desiderato nulla di duraturo. Aveva accettato che la passione scemasse, che gli amori si dissolvessero, senza una ragione precisa. Preferiva la libertà, collisioni estreme, sesso occasionale e tanti saluti.

Quello che aveva provato per R., però, era diverso. La sensazione che niente potesse essere pulito e autentico svaniva “alla vista del suo sorriso, che diffondeva una sorta di purezza su tutto ciò che facevamo”. Quanto accaduto prima e dopo la rottura con lui, ventenne natio delle Azzorre, in quel di Sofia per un soggiorno studio, ha poco a che fare con l’amore e molto a che spartire con la sfera dei desideri più reconditi. Suoi, di quelli con cui si relaziona, dallo studente in crisi per un legame reciso all’uomo pescato su un sito d’incontri, e pure di chi legge. L’illusione di un sentimento che travalichi i meri appetiti della carne, e che vien da chiamare amore, si spezza quando R. torna a Lisbona ché a Sofia – una volta gloriosa Capitale ora piena di desolati condomini in stile sovietico, qui fotografata al tempo delle proteste in piazza contro la corruzione politica del governo di Oresharski (circa dieci anni fa), la criminalità organizzata, la torbida gestione dei servizi pubblici e la disoccupazione – non c’è spazio, men che mai per chi non è di casa e zoppica con la lingua.

Per il protagonista di Purezza, lo stesso insegnante americano che animava Tutto ciò che ti appartiene (selezione National Book Award), quello che ai suoi allievi legge le poesie di Frank O’Hara per i temi “ma soprattutto per quel suo rifiuto di ogni prudenza e senso di colpa”, tutto torna come prima. “Quante volte mi ero convinto di poter cambiare”, riflette, “lo avevo creduto sempre nei lunghi mesi con R., mesi trascorsi, malgrado la felicità, in uno stato permanente di fame; e nel sentirla sentii anche che quella determinazione era falsa, lo era sempre stata”. La voce narrante è ripetutamente attraversata da momenti di transizione emotiva, tra attaccamento romantico e compulsione erotica, tenerezza e brutalità, tormento e impermeabilità.

È un’opera, questa seconda del quarantenne americano Garth Greenwell, libro dell’anno per New York Times, Harper’s Bazaar, Oprah Magazine e altri, sulle molteplici forme del desiderio, sul sesso come terreno su cui vanno in scena i volti che di norma nascondiamo per pudore o imbarazzo (le pagine dedicate agli amplessi, tra dominazione e sottomissione, sono esercizio narrativo e stilistico di altissimo livello), sulle declinazioni del piacere, sull’amore come il più difficile dei rebus o la più grande illusione, sugli anfratti in cui si cerca riparo quando si è omosessuali in un Paese omofobo (e la Bulgaria, dove Greenwell ha lavorato come insegnante all’American College di Sofia, lo è), su quanto e come la società giudichi ogni forma d’intimità.

Calzanti, lusinghiere, le parole che Rebecca Makkai, candidata al Nobel per la letteratura, dedica a Purezza e al suo autore: “Se Henry James fosse vivo in questo strano secolo, se Thomas Mann si fosse concesso di scrivere di sesso esplicito, se Virginia Woolf si fosse lasciata andare di più, se Proust fosse nato in Kentucky, e se tutti loro avessero mescolato sangue e cervello, potremmo avere qualcosa come Greenwell”.

 

Purezza – Garth Greenwell – Pagine: 190 – Prezzo: 18,50 – Editore: Einaudi

O’Doherty, 93 anni, dipinge finestre là dove ci sono soltanto muri ciechi

Ci sono persone che riescono a esprimere i mille concetti dell’amore e della guerra con la sola lingua dell’arte. Brian O’Doherty è uno di questi. Pittore e critico d’arte irlandese, oggi ha 93 anni e vive a New York con la moglie Barbara Novak. Ma parte della sua vita l’ha passata nel borgo umbro di Todi, centro di ritrovo di molti artisti internazionali tra cui la scultrice americana Beverly Pepper. In Umbria, al posto della tela, Brian ha usato le pareti di casa per sfogare il proprio talento. Dal 1977, stanza dopo stanza, il piccolo rifugio estivo, aperto al pubblico dal 2019, si è trasformato in un’opera d’arte. Simboli, geometrie scomposte e figure: ogni pennellata è un dialogo silenzioso con lo spettatore.

Ci sono scritte in Ogham, alfabeto di origine celtica che parla attraverso una particolare disposizione di segni dritti o diagonali. Ma soprattutto c’è l’amore che unisce Brian e Barbara. Al terzo piano, la camera da letto ha solo due finestre che danno sulla strada. Eppure il pennello di Brian ne ha create cinque, una per ogni momento della giornata. “Barbara si lamentava sempre di aver comprato una casa che non ha vedute come quelle dal castello di Beverly Pepper, a 360 gradi sul paesaggio” racconta il fotografo italo-americano George Tatge, amico e vicino di casa dei coniugi O’Doherty a Todi. “Per accontentarla ha dipinto una scena sul mare che si apre sopra il letto”. La vita di Brian, però, è legata anche al conflitto nordirlandese. Il 30 gennaio 1972, il Bloody Sunday, fu uno dei giorni più dolorosi per lui. La reazione, anche qui, arrivò con l’arte concettuale. Per 36 anni ha usato lo pseudonimo di Patrick Irland, in segno di protesta. Poi, siglati gli accordi di pace nel 2008, l’artista volle seppellire per sempre quel suo passato, letteralmente. Accanto alla moglie Barbara e ai pochi invitati, tra cui Tatge, depose la propria maschera funeraria dentro la bara e si rivolse al pubblico con poche parole: “Grazie. Grazie per la pace”. Tutto il resto l’ha detto l’arte.

I Marchini, quando l’arte si fa “storia”

Il 23 aprile 1959, chiunque a Roma – o altrove – si interessasse d’arte aveva un impegno irrinunciabile: l’inaugurazione de La Nuova Pesa, la galleria d’arte che il mecenate Alvaro Marchini aveva aperto al 99 di via Frattina. Per l’occasione, in vista della grande affluenza, la strada era stata chiusa: erano attesi Lucio Fontana, Renato Guttuso, Carlo Levi – le cui opere erano esposte –, e ancora Moravia, Pasolini, Morante. Ancorché quelli fossero tempi vivaci per il mercato dell’arte, era un’altra la ragione di tanto clamore. Già dal nome, infatti, la galleria voleva dare una stoccata a quanto stava accadendo. Conclusosi il secondo conflitto mondiale, una nuova polarizzazione di fronti non armati, ça va sans dire, ma artistici animava il dibattito: in due parole, il nuovo e il vecchio. O meglio: da un lato, il desiderio di rispondere al rinnovamento dell’arte mondiale con l’astrattismo; dall’altro, l’impegno dei figurativi a far sposare il realismo con una posizione civile. Posizione scomoda, quest’ultima, che spesso li portò a esser messi da parte. Marchini, perciò, attorniato da Guttuso e altri figurativi, voleva dare un nuovo peso all’arte, un valore che passava attraverso l’impegno politico. Imprenditore edile, ex partigiano, decorato per i meriti nella Seconda guerra, antifascista convinto, l’agone ruscellava nelle vene di Marchini, tant’è che negli scantinati dei palazzi che costruiva, nacquero a metà degli anni ’30 le tipografie clandestine che stampavano i volantini contro il regime, nonché il quotidiano l’Unità.

È questa la trama che anima in controluce l’intensa mostra Una Storia nell’arte. I Marchini, tra impegno e passione (a cura di Fabio Benzi, Arnaldo Colasanti, Gianni Dessì, Flavia Matitti, Italo Tomassoni, visitabile fino al 22 aprile) che trova nell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma il suo genius loci. E non solo perché dalla sua fondazione nel 1593, l’Accademia vuol elevare l’impegno degli artisti, ma soprattutto perché come nei migliori romanzi, e dunque nella vita, sono anche qui le relazioni impreviste tra il patrimonio accademico e le opere esposte a morderci durante il cammino.

Così, in mezzo ai volti seicenteschi e imparruccati di membri della prima ora quali Pietro e Gian Lorenzo Bernini, Cherubino Alberti e Pietro da Cortona, spunta un sulfureo Autoritratto verde (1930) del pittore e scrittore partigiano Carlo Levi. E ancora, vedutisti e paesaggisti da Grand Tour dialogano con l’inquieto scenario urbano di Periferia di Renzo Vespignani (1958), l’amorfo e oscuro Palazzone di Titina Maselli (1952), i neorealisti Tetti di via Leonina di Guttuso (1962-64) o il lussureggiante Paysage de Vallauris di Picasso (1958). Così come i corpi appassionati di Giuditta e Oloferne di Giovanni Battista Piazzetta (1730) o l’Atleta Trionfante di Francesco Hayez (1813) si specchiano nelle figure stilizzate de Gli amanti di Osvaldo Licini (1953), nell’erotica Ragazza sul Golfo di Guttuso (1933), che ci offre i suoi seni. E che dire del putto reggifestone di Raffaello, la cui felicità si schianta contro la rassegnata povertà della bambina che gioca con le pietre ne I sassi di Fausto Pirandello (1938).

Ma questa storia, che poteva interrompersi alla morte di Alvaro Marchini nel 1985, sopravvive nell’arte e prosegue nell’impegno della figlia Simona (nota attrice e regista, oltre che gallerista) e nelle opere della sua nuova Nuova Pesa – da Giuseppe Salvatori a Toti Scialoja, da Carla Accardi a Rebecca Horn – che abbraccia il passato come fanno le due torri-verme che s’intrecciano e si baciano in L’amour di Magritte (1949).

 

Una storia nell’arte… Accademia di San Luca, fino al 22.04