Quando i decibel non erano ancora alti e il mare d’inverno era solo un film in bianco e nero visto alla tv, “da ragazzo mi salvavo dalle botte grazie agli occhiali da vista: davanti alla mia miopia, gli altri recedevano. Ma la mia l’ho sempre detta, non mi sono mai nascosto”. Enrico Ruggeri è ancora così.
A sessanta e passa anni ha sbugiardato la teoria del “da giovani si è incendiari, da grandi pompieri”: lui ha trovato la terza via, il suo passo, costante e meticoloso, refrattario a facili suggestioni, magari impulsivo, però vero, come quando scrive la sua biografia e racconta della Milano anni Ottanta sotto la “neve” (“pippavano tutti”); o dà una pacca sulla spalla a Morandi per spiegargli che negli anni Settanta ha indirettamente finanziato i suoi curatori fallimentari (“Con le vendite dei suoi dischi, la Rca ha puntato su artisti come Venditti o De Gregori”); oppure con il lancio del suo nuovo brano dedicato al dramma vissuto da Chico Forti (“Per anni in Italia se lo sono filato poco, forse perché bello e ricco”). Nel frattempo, però, trova il tempo per un tweet (“Fermiamo tutto per un solo positivo ogni 400 persone”) e scatena l’inferno: “L’articolo su di me pubblicato dal vostro sito mi ha massacrato”.
Lei si lancia, i suoi colleghi sono più attenti.
Non è questione di cervelli accesi, ma dei social.
Cioè?
L’artista teme le reazioni; oggi se gli domandi “per quale squadra tieni?”, la risposta si articolerà in una matriosca: “Sono della Juve, ma anche dell’Inter, simpatizzo per il Napoli e le romane giocano bene. Amo la Nazionale”.
Terrorizzati.
Dopo il mio tweet non avete idee di quanti colleghi mi hanno chiamato: “Bene, bravo”. Ho il record delle felicitazioni segrete; (ci pensa) ha presente la vecchietta di Mezzogiorno e mezzo di fuoco?
Sì.
Quando va dallo sceriffo e gli sussurra: “Scusi se l’ho chiamata negro”. E prima di salutarlo: “Naturalmente non dirà a nessuno che le ho rivolto la parola”. Mi sento come lo sceriffo nero.
È negazionista?
Mi hanno tacciato di fascismo.
Dovrebbe essere abituato.
Be’, sì.
Ma…
Il fascista è nemico delle libertà, quindi sarebbe stato più giusto tacciarmi di anarchia o darmi del cazzaro.
Test: il Ventennio ha prodotto qualcosa di buono?
(Ride) Bastardo!
Risposta?
Non mi faccio fregare come Fusto Leali (cacciato dal Grande Fratello dopo commenti sul duce).
Ha sostenuto che gli artisti hanno meno appeal di un tempo.
Torniamo al discorso di prima: se hai il timore delle tue idee, se ti nascondi, tentenni, diventi il re del cerchiobottismo, è normale perdere peso specifico. Diventi uno capace solo di galleggiare; (ci pensa) ma oggi è il tripudio alla mediocrità.
Tranchant.
Sa qual è l’unico social fallito? Myspace. Per entrarci era necessario saper suonare, altrimenti ti sentivi a disagio; mentre con Facebook vale tutto, siamo apparentemente uguali, si dà conforto alla mediocrità con libertà di aggressione.
Ci resta male quando la insultano?
Be’, insomma; in generale, quando scrivo qualcosa, ho cinquemila complimenti e dieci attacchi; ma quando ho visto seimila insulti sul vostro sito ho provato una sensazione diversa, che non sono ancora in grado di decifrare.
La mascherina la mette?
Certo! Spesso sono stato considerato generoso, e non ho la barca o l’aereo privato, il mio lusso era offrire grandi cene agli amici: oggi offro tamponi, una volta alla settimana arriva una signora in studio e ci controlla tutti.
Poco tempo fa ha celebrato un numero: 3.500 volte sul palco.
In questi primi sessant’anni ritenevo la mia vita un intervallo tra un live e l’altro: lì sto a mio agio; il concerto in pantofole su Facebook una volta l’ho definito come un film porno al posto del sesso, oggi penso pure peggio.
Quindi…
Come vedere un film porno con le mani legate dietro la schiena; mi spiego: se c’è Bruce Springsteen, chitarra e voce, che canta pezzi di Bob Dylan, allora lo capisco; ma assistere a Ruggeri che si cimenta con le solite canzoni, lo trovo assurdo.
Sul palco esiste uno stile “alla Ruggeri”.
E pensare che da ragazzo mi volevano picchiare.
Chi?
Le femministe. Per loro trattavo l’asta del microfono come un’esibizione fallica; ho rischiato le botte.
E le ha mai prese?
Sono sempre arrivato al limite; già da ragazzo indossavo i Ray-Ban: al tempo era simbolo della destra, ma in realtà imitavo Lou Reed. La mia fortuna era la miopia: più volte avvicinato, minacciato per gli occhiali da sole, all’ultimo li toglievo e si accorgevano delle lenti graduate.
Mai uno schiaffone.
Sono uno molto calmo.
Sempre.
Dopo un atterraggio di fortuna, con l’aereo pieno di fumo, sono stato l’ultimo a uscire, poco prima del comandante, con gli altri passeggeri che si accalcavano verso i portelloni e si ferivano.
Niente la agita.
Interiormente, ma fuori non do mai questa sensazione.
Neanche Sanremo.
Lo stress del Festival è un luogo comune che piace essere raccontato dagli artisti. Quel palco è un passaggio televisivo importantissimo, che risparmia mesi di promozione e per questo sono andato e ho costruito parte della mia carriera.
Però…
Mi emoziono di più se ho mille persone a teatro, la gente pagato un biglietto, è uscita di casa, ha parcheggiato, ha aspettato… A Sanremo il pubblico non è lì solo per te.
Ha dichiarato: “Non vado mai in vacanza”.
È cambiare la routine per qualcosa di divertente: a me piace la mia quotidianità, tra musica, radio e la scrittura di un libro.
Nella sua autobiografia non mancano racconti duri. Veri. Anche crudi. I suoi figli l’hanno letta?
Ho tre figli; a quello di trent’anni ho solo detto: “Ecco, quando hai tempo dagli un occhio: dentro ci sono un po’ di cose che non ti ho mai raccontato”. In realtà ho aspettato che morissero i miei parenti: se mia madre fosse ancora viva, quella bio non sarebbe mai uscita.
I due figli più piccoli?
Hanno dieci e quindici anni; io a 15 avevo già letto cento libri, oggi non li affrontano neanche se gli spari.
Cosa la emozionava da quindicenne?
Ho iniziato con Salgari, poi tutti i classici come I ragazzi della via Pal; anzi, sono proprio andato in via Pal, ma non c’è nulla, una via normale, una schifezza; poi verso i 17 anni ho scoperto autori come Fante e Bukowski, scrittori che assecondano la tua incazzatura.
Autori cari alla sinistra.
Però sul tram mi hanno insultato perché avevo in mano un disco di Bowie: “Dove vai con quel frocio fascista?”; in realtà quello di Bowie, Lou Reed o Roxy Music era un atteggiamento gay friendly.
Anche lei?
No, ero abbastanza… non gliel’ammollavo, però assillavo le donne, si vedeva la mia propensione: prima di diventare famoso, vivevo le classiche difficoltà degli adolescenti.
La fama aiuta.
È lo spartiacque.
Più utile per i soldi o per le donne?
Allora per le donne; in realtà ero già appagato della mia piccola fama scolastica, quando ero individuato come quello che canta e suona.
Quando ha capito il valore della sua voce?
Con il tempo, all’inizio mi sono lanciato solo perché avevo una faccia come il culo più spiccata di altri; poi ho iniziato a capire; qualche mese fa, entro in autogrill, bardato, occhiali scuri, la mascherina, chiedo il caffè e il barista: “Lei è Ruggeri!”. E indossavo pure il cappellino, altrimenti la pelata mi rende ancor più riconoscibile.
Ha sofferto l’assenza di capelli?
Quando inizi a perderli non è la migliore delle notizie, ma dopo un annetto mi sono abituato, e la fortuna è stata l’arrivo di Ronaldo. Ronaldo quello vero (è fervente interista, ndr) che ha sdoganato i pelati del mondo, prima c’era solo Yul Brynner.
Come mai Chico Forti.
Quando vedo un’ingiustizia impazzisco, e nel suo dramma ho trovato l’apoteosi del lassismo, dell’imprecisione, delle indagini a cazzo di cane, come direbbe Pannofino; (pausa) secondo me i suoi guai nascono quando decide di girare il documentario sulla morte di Versace.
Ci sono voluti molti anni.
L’Italia si è sempre mossa con il freno a mano, forse perché era figo, bello, coi soldi e nella narrazione appariva meno vittima.
Da quanto segue la vicenda?
Da sempre; (ci pensa) ho la fortuna di avere uno studio in cui creare, registrare; magari un giorno uscirò con un album, anche se pubblicare qualcosa sfiora il ridicolo, visto il mercato.
Quante canzoni ha nel cassetto?
Tantissime brutte, ma non sono capace di lavorare sui brani: dopo che l’ho scritta, la chiudo lì.
Ha la fila di interpreti che le chiedono pezzi?
Un tempo di più, oggi non sarei in grado di seguire le mode, non riuscirei a realizzare un brano per nuovi artisti come i Boomdabash.
C’è un errore che si ripete: alcuni attribuiscono a Fossati Il mare d’inverno.
In un tweet, la Wind, scrisse: “Curiosità: Il mare d’inverno è di Pino Daniele e Fiorella Mannoia”. A quel punto ho risposto: “E Wind prende benissimo”.
Cosa ne pensa dell’“Auto-Tune”, il sistema che aggiusta l’intonazione?
Lo utilizzano pure al Festival.
Lo trova osceno?
Certo… oramai nell’80 per cento dei concerti si usano le sequenze, che in realtà sono nastri pre-registrati: è come andare al ristorante e mangiare pesce congelato spacciato per fresco.
Un suo complesso?
Da ragazzino gli occhiali. Poi sono diventati un vantaggio.
Come andava a scuola?
Alle elementari un fenomeno, alle medie ho scoperto altri interessi; (cambia leggermente tono) nel giudizio della maturità hanno scritto: “Il candidato ha difficoltà a esprimersi, non ha dimestichezza con la lingua italiana”. Ogni tanto lo pubblico come forma di rivincita.
Tra uno scudetto dell’Inter e una fenomenale notte d’amore?
Non sono Rocco Siffredi, ma ho più notti fenomenali che scudetti nerazzurri.
La moglie di Faletti l’ha ringraziata: “Enrico mi ha spiegato che esistono tre categorie di successo: pubblico, critica e tempo”.
C’è un cantante che all’inizio era di nicchia, e quando lo incontravo mi spiegava: “La critica è con me, il pubblico non capisce nulla”; di colpo inizia a vendere una barca di dischi, e lo rivedo: “I critici sono dei cazzari, chi decide è la gente”.
Quindi…
Conta il tempo.
Com’è il suo ego?
Se ho deciso di andare sul palco e cantare è evidentemente sviluppato, ma ci sto attento, perché è una malattia, per questo cerco di circondarmi di persone che non mi danno ragione a tutti i costi.
Lei sul palco si rivede?
Poco.
Si piace?
No, trovo sempre qualche difetto, ma è parte dell’ego.
Ha scritto brani importanti, non le scoccia venir spesso ricordato per Si può dare di più?
Un po’ sì; l’anno prima avevo vinto il premio della critica con Rien ne va plus, in quel momento ero super coccolato e la stampa, soprattutto romana, continuava a scrivere “Ruggeri grande autore, ma a cantare insomma”. Allora mi sono girate le palle e quando è partita l’idea di Si può dare di più ho accettato, a patto di cantare la nota più alta del brano.
Che grinta.
Lì Morandi mi offrì una lezione di vita: nel brano c’è una frase, “perché la guerra, la carestia…”, e io ero contrario, mentre Gianni subito: “La canto io, perché ci credo”. Aveva ragione.
Lei a Morandi ha spiegato: “Hai finanziato i tuoi curatori fallimentari”.
È la verità: con i soldi di Morandi e della Pavone, la Rca pagava i primi fallimenti di Venditti e De Gregori, che poi sono diventati successi.
Chi è lei?
Un curioso un po’ bastian contrario. Alla fine un combattente.