Il premier in battaglia: parla per convincere qualcuno ‘last minute’

I giallorosa si riuniscono e i si consultano, fanno i conti, rincorrono senatori, insomma lavorano per sopravvivere alla sfida di Matteo Renzi. E in serata sembrano un po’ più fiduciosi, anche sulla conta a palazzo Madama. Ma tanto Giuseppe Conte ha già deciso la strada. Oggi a mezzogiorno parlerà alla Camera e domani mattina al Senato per le due votazioni di fiducia: convinto di poter prendere la maggioranza assoluta a Montecitorio, mentre per reggere a palazzo Madama, il luogo dove nascono e muoiono governi, basterà una maggioranza semplice. Magari non troppo lontana da quei 161 voti che vogliono dire maggioranza assoluta. “L’obiettivo è di non scendere sotto i 154 voti” dicono fonti di governo, dove ieri ragionavano su una fascia tra i 151 e i 155 sì. E per stare a una buona quota sarebbe fondamentale uno smottamento almeno parziale dentro Iv, ossia che qualche renziano votasse la fiducia. “Già oggi ci aspettiamo segnali alla Camera” dicono gli sherpa di Pd e M5S. Però senza quota 161 non si vive a lungo.

Lo sa benissimo anche Conte, che nei colloqui privati ripete: “Gli altri voti arriveranno dopo la fiducia”. Nell’attesa, ieri il premier ha passato la domenica in casa a limare il discorso di oggi. Un intervento imperniato sul programma e sull’emergenza Covid ancora da combattere, in sintesi “sulle cose da fare da qui a due anni” come filtra da palazzo Chigi. Ma nessun duello rusticano con Renzi, quindi nessuna analogia con il discorso di fuoco dell’estate 2019 contro Matteo Salvini. Il premier dedicherà qualche passaggio allo strappo di Iv, forse in via indiretta.

Ma il tema non sarà il cuore del suo discorso, “anche per non ingigantire il peso di Renzi” dicono fonti di governo. Piuttosto, “sarà un intervento per convincere i parlamentari sugli obiettivi” come ha detto ai suoi Conte. La sua idea resta quella di sostituire i renziani con un gruppo moderato, “una formazione liberale che non abbia nulla a che fare con i sovranisti” come dicono anche dal M5S. Essenziale, per convincere innanzitutto il Quirinale che c’è ancora una maggioranza effettiva, a guidare il Paese. E così ci saranno abbondanti segnali a quel mondo nel discorso del premier, come se fosse un invito al tavolo. Ma bisognerà gestire la fila, perché diversi giallorosa continuano a invocare un rimpasto sostanzioso. E figurarsi i Responsabili, che stanno già chiedendo posti, anche agli emissari diretti di Conte come il capo gabinetto Alessandro Goracci. Però la linea dell’avvocato è un’altra, giurano. “Se i partiti vorranno cambiare qualcuno dei loro ministri, io prenderò in esame le loro richieste” è in sostanza il suo ragionamento, che esclude tavoli per ridisegnare la squadra, e soprattutto dimissioni pilotate per un Conte ter, che di certo favorirebbero un rimpasto. A meno che, come dicono ai piani alti dei partiti, non sia il Colle a pretendere dimissioni formali per avviare un nuovo governo. Di sicuro per ora il premier progetta solo di sostituire le due ministre e il sottosegretario renziano. Con una condizione non negoziabile: “Con Renzi non mi siederò mai più a un tavolo”. Poi però a margine ci sono i partiti che devono far quadrare i conti, e dove i nostalgici del fu rottamatore non mancano. Qualcuno perfino nel M5S, sempre nel terrore che senza Iv si precipiti presto nel voto anticipato. “Se Renzi si astiene sulla fiducia, a breve riproverà davvero a rientrare in maggioranza” sussurra un big del Movimento.

Ma tanto poi a guidare saranno i numeri, quelli dei voti nelle Camere. Le ultime stime danno la maggioranza assoluta di 315 voti (uno in meno del plenum perché il dimissionario Padoan non è stato sostituito) alla portata a Montecitorio, soprattutto se due 5Stelle ancora assenti per Covid rientreranno in tempo oggi. Però la partita vera si gioca sempre lì, in Senato. Per questo i giallorosa hanno riallacciato i contatti con l’Udc di Lorenzo Cesa. Prezioso, anche perché oltre ai 3 voti degli ex dc porterebbe in dote anche un po’ di forzisti. “Con loro a 161 ci arriveremmo di sicuro” spiegano. Una trattativa complicata, anche perché da palazzo Chigi hanno respinto le prime richieste di posti di governo dell’ex Dc. Ma ancora in piedi, giurano. Di certo la maggioranza dovrà per forza cercare numeri aggiuntivi per garantirsi un po’ di solidità. “Non possiamo mica sempre aggrapparci ai senatori a vita” ammettono dai giallorosa. Sarebbe come vivere alla giornata. Ovvero con difficoltà, e poco.

Ma mi faccia

Gombloddo! “Il tentativo di buttare la crisi su di me sta diventando imbarazzante” (Matteo Renzi, segretario Iv, Mezz’ora in più, Rai3, 17.1).Lui non voleva: è stata la Bellanova. Anzi no, Scalfarotto.

Il gioco delle coppie. “Nasce il governo Conte-Mastella” (Renzi, La Stampa, 13.1). Il governo Renzi-Verdini è momentaneamente trasferito per il 50% a Rebibbia.

SanPa, seconda stagione. “Casini: ‘Che errore i responsabili. È ancora possibile recuperare Renzi’” (Repubblica, 15.1). In comunità?

La Spectre. “Ormai comanda solo lui nel centrosinistra: Travaglio” (Piero Sansonetti, Riformista, 14.1). “Ultimi tentativi per salvare Conte. Li guidano Casalino e Travaglio” (Claudia Fusani fu Pompa, Riformista, 13.1). “… Senatori contattati da noti legali vicini al premier, da presidenti di ordini forensi a nome dello studio Alpa, da generali della Guardia di Finanza, da amici del capo dei servizi segreti Vecchione, da arcivescovi e monsignori vicini al cardinal Bassetti e alti prelati vicini alla Comunità di Sant’Egidio…” (Massimo Giannini, La Stampa, 17.1). E Jack lo Sciamano? E il divino Otelma? E Giovanni Rana? E la Gegia? Dove li mettiamo?

45 anni e sentirli. “Domani compiamo 45 anni. Quelli che da sempre leggono Repubblica” (Repubblica, 13.1). È previsto un risarcimento?

Parlando con pardon. “Assenza di donne in giunta? Non conta ciò che gli assessori hanno in mezzo alle gambe, ma ciò che hanno in mezzo alle orecchie” (Vincenzo Figuccia, consigliere regionale Sicilia ex Udc, ora Lega, 30.12). Come no, però tu ti chiami Figuccia.

Si chiama fuori. “Delrio: ‘Ora serve un governo autorevole’” (La Stampa, 16.1). Quindi lui non entra.

Passerotto non andare via/1. “GRAZIE GRAZIE GRAZIE !!! Mi avete letteralmente travolto con oltre 12.000 like e 3.000 messaggi di apprezzamento e vicinanza sui miei canali social. Sapere che migliaia di lombardi hanno compreso ed apprezzato il mio lavoro in questo lungo periodo mi ha commosso profondamente. Io ho gestito questa situazione pazzesca al meglio delle mie capacità e mi commuove riscontrare che i miei concittadini abbiano riconosciuto lo straordinario sforzo compiuto. Guardo l’orizzonte con stanchezza ma anche la consapevolezza di aver rappresentato una speranza…” (Giulio Gallera, FI, assessore uscente alla Sanità in Lombardia, Facebook, 8.1). Sì: che te ne andassi.

Passerotto non andare via/2. “…E in questo momento non posso che ripetere AVANTI SEMPRE A TESTA ALTA” (Gallera, ibidem). Testa? Quale testa?

Con le pezze Arcuri. “Arcuri chiede di andarci piano con le iniezioni. Il commissario spinge la Lombardia a rallentare il ritmo delle somministrazioni” (Libero, 14.1). Ecco chi è stato: è Arcuri che ha frenato Gallera. Dunque, per favore, richiamatelo subito in servizio. Ché già ci manca.

Parametri. “Adesso il governo riveda i parametri. Per il Cts non eravamo tra le aree critiche” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, Corriere della sera, 17.1). Giusto: apriamo la Lombardia e chiudiamo Fontana.

Compagno Mediaset. “Guardo e riguardo queste persone sfilare. Chi sono? Proletari, mi verrebbe da dire. Poveracci poco istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake news, marionette nelle mani di uno sciagurato li ha usati per il suo potere. È così che si diventa fascisti?” (Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo, a proposito degli assalitori trumpiani di Capitol Hill, Twitter, 7.1). Se la sinistra sei tu, sì.

L’ideona. “Il governo è ai titoli di coda. E non è questione di poltrone. L’esecutivo si nasconde da mesi dietro Arcuri. Era meglio incaricare subito Bertolaso” (Roberto Giachetti, deputato Iv, La Verità, 11.1). Uahahahahahah.

È fatta. “Così la crisi può aiutare Renzi a tentare la scalata alla Nato” (Domani, 11.1). Dove non riuscì il Patto di Varsavia, riuscirà lui.

Bei tempi. “Fake news e torbido spionaggio. Mattarella sotto tiro. Un motivo è da cercare nella scarsa autorevolezza della nostra intelligence di cui Conte ha le deleghe” (Claudia Fusani, Riformista, 12.1). Non ci sono più gli autorevoli Pollari&Pompa di una volta.

Le solite scuse. “La vera svolta sarebbero le elezioni. Ma ogni scusa è buona per evitarle” (Paolo Mieli a La Verità, 16.1). Tipo la Costituzione.

Il titolo della settimana/1. “Briatore: ‘Bravo Matteo! Serve gente competente’” (Giornale, 15.1). Sono soddisfazioni.

Il titolo della settimana/2. “La guerra di Renzi inizia dalla prescrizione” (Il Dubbio, 16.1). Infatti s’è prescritto lui.

Il titolo della settimana/3. “I 100 anni del Pci. Il comunismo nato nel sangue vive nel Pd” (Marcello Veneziani, La Verità, 17.1). Magari.

“Viviamo un nuovo ‘Medioego’ sui social: per questo torno ‘Nomade’ sulla strada”

“Ho l’impressione che stiamo vivendo un nuovo Medioevo. E ‘Medioego’ è ciò che stiamo diventando”. Le parole di Inoki, nome d’arte del rapper Fabiano Ballarin, hanno sempre avuto un certo impatto sulla scena rap italiana. Caposaldo dell’hip hop nostrano, in attività da fine anni 90, con il suo nuovo album Medioego, appunto, il 41enne romano ha deciso di rimettersi in gioco: “Questo disco è una ripartenza, un nuovo inizio”, nel segno di “denunce dei disagi e del sonno globale in cui ci ritroviamo” e di una musica molto ricercata.

“Da quando ero adolescente fino ai trent’anni ho ascoltato solo hip hop – racconta Inoki –. In queste canzoni, invece, mi sono ispirato all’elettronica, alla techno e al reggae. Credo di aver trovato il giusto amalgama musicale”. Un pot-pourri che vanta collaborazioni di spessore, tra cui Tedua, Noemi e Salmo. Proprio il famoso rapper sardo che nel 2012 lo aveva “dissato” (tradotto: una “mancanza di rispetto” fra rapper, ndr) con la canzone Stupido gioco del rap: “Avevo iniziato io, lo ammetto – fa mea culpa Inoki –, ma era un altro periodo. La sua musica all’inizio non mi piaceva, però il suo è un percorso importante”. Un attestato di stima con cui “poi ci siamo riappacificati: mi ha pure confessato che da giovane ascoltava i miei demo”.

Proprio vero che “la musica riesce a riunire”. E le due produzioni targate Salmo hanno partorito Hype, uno sfottò dadaista sull’abuso degli anglicismi nel gergo giovanile, e Underground, “il luogo da dove vengo, il mondo reale”. Una realtà, secondo Inoki, “che nel rap c’è sempre meno, dando così adito alla superficialità e all’artificialità”. Pecche che vengono spesso attribuite alla più giovane generazione di rapper. Eppure, il brano con il 25enne Tedua, Wildpirata, ha suggellato “una vera amicizia”, all’insegna del legame tra vecchia e nuova scuola: “Io rimo le sue parole e lui le mie di Non mi avrete mai. Alle scuole medie ascoltava le mie canzoni. C’è un grande rispetto tra noi”.

Accompagnato dalla calda voce di Noemi, poi, Inoki ha dato vita a Ispirazione, che ama definire “una poesia senza tempo”: “L’ho scritta qualche anno fa, appena arrivato in Salento. Immerso nella sua natura, ho avuto uno schiaffo”. Un agrodolce panismo che non ha affatto scalfito le sue rime graffianti: nelle altre canzoni del disco, infatti, Inoki ha fotografato la società del Belpaese, o meglio Abusivoland, nella sua “schiavitù dell’immagine e nel suo uso eccessivo dei mezzi tecnologici e dei social”. Senza comunque togliersi lo sfizio di raccontare di sé e della strada, visto che “ho sempre raccontato me stesso, in tutte le mie sfaccettature. Nomade è di sicuro il mio ritratto”, afferma Fabiano, quasi un personaggio kerouachiano, un nomade che ha sempre cambiato dimora, da Imperia a Milano, passando per Bologna. E poi, la strada, “una dimensione da cui non riesco a staccarmi. Finché non ci sarà qualcuno che ne racconterà i bassifondi come faccio io, continuerò a farmene portavoce”. Intanto, mentre freme dalla voglia di “tornare sui palchi” (Covid permettendo), Inoki si è rituffato nello “stupido gioco”. Da vero Veterano qual è.

Sciascia come Manzoni: troppo cupo per il Nobel

L’unico sommo scrittore italiano che assomiglia più da vicino a Manzoni è Leonardo Sciascia, del quale in questi giorni cade il centenario della nascita. Sciascia, come Céline e Borges, non vinse il premio Nobel. Voi pensate che l’avrebbero dato a Manzoni, con la sua totale disperazione, con la sua invocazione a una “Provvidenza” nella quale non crede? Manzoni, grandissimo nevrotico, a non dir di più, aveva trovato nella “Provvidenza” una precaria fonte di equilibri nella quale credere per sopravvivere giorno per giorno. Ci credeva veramente? Non è possibile. La mia idea è che fosse un ateo fatto e finito il quale, proprio perché la sua psiche non esplodesse, si attaccava disperatamente all’idea di Dio. Infatti, le sole autentiche verità vi si ritrovano in bocca allo scettico e vile Don Abbondio.

Sciascia (come Borges) era ateo senza che ciò rappresentasse per lui una difficoltà. La sua disperazione non era minore da quella di Manzoni; ma era totale, relativa all’uomo e alla vita. Ecco perché non gli hanno dato il Nobel, sovente premio di stolido ottimismo e di fiducia nella fondamentale bontà dell’animo umano che cozza col principio stesso di realtà. Sbagliarono quando lo conferirono a Pirandello, non quando (seppure varcassero l’eccesso del ridicolo) a Dario Fo. I disperati non hanno lì diritto di cittadinanza. Il numero dei cretini è così ampio che Sciascia e Borges sarebbero stati i primi a sbalordire vedendoselo conferire. Certamente Pirandello, per quanto gli convenisse, come Don Abbondio “non sapeva più in che mondo si fosse”. Identifica Manzoni e Sciascia non solo la disperazione, celata nell’uno, non nascosta nell’altro. È il gusto della minuziosa ricerca storica, quanto più possibile precisa, quanto più possibile acribica. Infatti, I promessi sposi (del quale voci autorevolissime ritengono superiore alla “ventisettana” la prima versione, esente da censure d’ogni genere), il più grande romanzo, secondo me, mai scritto, e il più grande romanzo storico insieme con Salammbô di Flaubert, finge di essere una narrazione storica d’epoca adattata allo stile italiano moderno. Di più: la vicenda degli “untori” a un certo punto ne cadde per divenire un libro autonomo. Una delle più alte opere storiche mai scritte, una delle più rivelatrici sull’infamia del cuore umano, sulla sua viltà: nemmeno Dostoevskij ci perviene. Eppure, anche tale sommo testo nacque come una “piccola” ricerca storica della quale non un solo particolare fallasse.

Ebbene, a che cosa in gran parte della sua vita Sciascia si dedicò? Proprio allo stesso genere di ricerca. Non solo di storia siciliana, quella della sua terra: era nato a Racalmuto, presso la Girgenti di Pirandello. Una delle sue memorabili apparsa per la prima volta sul Corriere della Sera fra il 1985 e il 1986 (un tempo c’erano Direttori che non si accontentavano delle firme di Saviano e, fra non molto, Fedez …), intitolata La strega e il capitano, scaturisce da un particolare di Manzoni: quello del capo XXXI, nel quale il Vicario di Provvisione, poi minacciato di morte e quasi ucciso per la mancanza del pane, “faceva un chilo agro e stentato” del po’ che anch’egli era riuscito a mangiare. Non di più. Sciascia incomincia a studiare le carte relative a questo Francesco Melzi. E scopre che costui aveva in casa una serva di nome Caterina Medici, serventegli pure a letto. Il grande protofisico Ludovico Settala, di fronte ai dolori di stomaco del padrone, decretò che solo atto diabolico li generasse. Perquisita la camera (a voler chiamarla così) della serva, nel pagliericcio vennero rinvenuti strumenti d’arte demoniaca. La donna venne interrogata con spaventosi tormenti; alla fine venne arsa in pubblica piazza. Non è questo un capitolo aggiunto da Sciascia ai Promessi sposi?

Vi è poi la furente e raziocinante passione civili di Sciascia, che trascorre identica dal Pci ai Radicali all’indipendenza assoluta, attraversando, con coraggio da assoluto indipendente, l’“affaire Moro”: sul quale aveva ragione e sul quale ci ha lasciato un testo mirabile. E i romanzi? E i racconti? E le pagine critiche? E i testi teatrali? Se potessi dipingerne un ritratto di qualche pagina, lo tenterei. Chiudiamola con il dire che si tratta di uno di quei grandi Italiani verso il quale noi, e le generazioni a venire, resteremo in perpetuo debito.

“Sono miope e anarchico: ho sempre avuto più gioie dalle donne che dall’Inter”

Quando i decibel non erano ancora alti e il mare d’inverno era solo un film in bianco e nero visto alla tv, “da ragazzo mi salvavo dalle botte grazie agli occhiali da vista: davanti alla mia miopia, gli altri recedevano. Ma la mia l’ho sempre detta, non mi sono mai nascosto”. Enrico Ruggeri è ancora così.

A sessanta e passa anni ha sbugiardato la teoria del “da giovani si è incendiari, da grandi pompieri”: lui ha trovato la terza via, il suo passo, costante e meticoloso, refrattario a facili suggestioni, magari impulsivo, però vero, come quando scrive la sua biografia e racconta della Milano anni Ottanta sotto la “neve” (“pippavano tutti”); o dà una pacca sulla spalla a Morandi per spiegargli che negli anni Settanta ha indirettamente finanziato i suoi curatori fallimentari (“Con le vendite dei suoi dischi, la Rca ha puntato su artisti come Venditti o De Gregori”); oppure con il lancio del suo nuovo brano dedicato al dramma vissuto da Chico Forti (“Per anni in Italia se lo sono filato poco, forse perché bello e ricco”). Nel frattempo, però, trova il tempo per un tweet (“Fermiamo tutto per un solo positivo ogni 400 persone”) e scatena l’inferno: “L’articolo su di me pubblicato dal vostro sito mi ha massacrato”.

Lei si lancia, i suoi colleghi sono più attenti.

Non è questione di cervelli accesi, ma dei social.

Cioè?

L’artista teme le reazioni; oggi se gli domandi “per quale squadra tieni?”, la risposta si articolerà in una matriosca: “Sono della Juve, ma anche dell’Inter, simpatizzo per il Napoli e le romane giocano bene. Amo la Nazionale”.

Terrorizzati.

Dopo il mio tweet non avete idee di quanti colleghi mi hanno chiamato: “Bene, bravo”. Ho il record delle felicitazioni segrete; (ci pensa) ha presente la vecchietta di Mezzogiorno e mezzo di fuoco?

Sì.

Quando va dallo sceriffo e gli sussurra: “Scusi se l’ho chiamata negro”. E prima di salutarlo: “Naturalmente non dirà a nessuno che le ho rivolto la parola”. Mi sento come lo sceriffo nero.

È negazionista?

Mi hanno tacciato di fascismo.

Dovrebbe essere abituato.

Be’, sì.

Ma…

Il fascista è nemico delle libertà, quindi sarebbe stato più giusto tacciarmi di anarchia o darmi del cazzaro.

Test: il Ventennio ha prodotto qualcosa di buono?

(Ride) Bastardo!

Risposta?

Non mi faccio fregare come Fusto Leali (cacciato dal Grande Fratello dopo commenti sul duce).


Ha sostenuto che gli artisti hanno meno appeal di un tempo.

Torniamo al discorso di prima: se hai il timore delle tue idee, se ti nascondi, tentenni, diventi il re del cerchiobottismo, è normale perdere peso specifico. Diventi uno capace solo di galleggiare; (ci pensa) ma oggi è il tripudio alla mediocrità.

Tranchant.

Sa qual è l’unico social fallito? Myspace. Per entrarci era necessario saper suonare, altrimenti ti sentivi a disagio; mentre con Facebook vale tutto, siamo apparentemente uguali, si dà conforto alla mediocrità con libertà di aggressione.

Ci resta male quando la insultano?

Be’, insomma; in generale, quando scrivo qualcosa, ho cinquemila complimenti e dieci attacchi; ma quando ho visto seimila insulti sul vostro sito ho provato una sensazione diversa, che non sono ancora in grado di decifrare.

La mascherina la mette?

Certo! Spesso sono stato considerato generoso, e non ho la barca o l’aereo privato, il mio lusso era offrire grandi cene agli amici: oggi offro tamponi, una volta alla settimana arriva una signora in studio e ci controlla tutti.

Poco tempo fa ha celebrato un numero: 3.500 volte sul palco.

In questi primi sessant’anni ritenevo la mia vita un intervallo tra un live e l’altro: lì sto a mio agio; il concerto in pantofole su Facebook una volta l’ho definito come un film porno al posto del sesso, oggi penso pure peggio.

Quindi…

Come vedere un film porno con le mani legate dietro la schiena; mi spiego: se c’è Bruce Springsteen, chitarra e voce, che canta pezzi di Bob Dylan, allora lo capisco; ma assistere a Ruggeri che si cimenta con le solite canzoni, lo trovo assurdo.

Sul palco esiste uno stile “alla Ruggeri”.

E pensare che da ragazzo mi volevano picchiare.

Chi?

Le femministe. Per loro trattavo l’asta del microfono come un’esibizione fallica; ho rischiato le botte.

E le ha mai prese?

Sono sempre arrivato al limite; già da ragazzo indossavo i Ray-Ban: al tempo era simbolo della destra, ma in realtà imitavo Lou Reed. La mia fortuna era la miopia: più volte avvicinato, minacciato per gli occhiali da sole, all’ultimo li toglievo e si accorgevano delle lenti graduate.

Mai uno schiaffone.

Sono uno molto calmo.

Sempre.

Dopo un atterraggio di fortuna, con l’aereo pieno di fumo, sono stato l’ultimo a uscire, poco prima del comandante, con gli altri passeggeri che si accalcavano verso i portelloni e si ferivano.

Niente la agita.

Interiormente, ma fuori non do mai questa sensazione.

Neanche Sanremo.

Lo stress del Festival è un luogo comune che piace essere raccontato dagli artisti. Quel palco è un passaggio televisivo importantissimo, che risparmia mesi di promozione e per questo sono andato e ho costruito parte della mia carriera.

Però…

Mi emoziono di più se ho mille persone a teatro, la gente pagato un biglietto, è uscita di casa, ha parcheggiato, ha aspettato… A Sanremo il pubblico non è lì solo per te.

Ha dichiarato: “Non vado mai in vacanza”.

È cambiare la routine per qualcosa di divertente: a me piace la mia quotidianità, tra musica, radio e la scrittura di un libro.

Nella sua autobiografia non mancano racconti duri. Veri. Anche crudi. I suoi figli l’hanno letta?

Ho tre figli; a quello di trent’anni ho solo detto: “Ecco, quando hai tempo dagli un occhio: dentro ci sono un po’ di cose che non ti ho mai raccontato”. In realtà ho aspettato che morissero i miei parenti: se mia madre fosse ancora viva, quella bio non sarebbe mai uscita.

I due figli più piccoli?

Hanno dieci e quindici anni; io a 15 avevo già letto cento libri, oggi non li affrontano neanche se gli spari.

Cosa la emozionava da quindicenne?

Ho iniziato con Salgari, poi tutti i classici come I ragazzi della via Pal; anzi, sono proprio andato in via Pal, ma non c’è nulla, una via normale, una schifezza; poi verso i 17 anni ho scoperto autori come Fante e Bukowski, scrittori che assecondano la tua incazzatura.

Autori cari alla sinistra.

Però sul tram mi hanno insultato perché avevo in mano un disco di Bowie: “Dove vai con quel frocio fascista?”; in realtà quello di Bowie, Lou Reed o Roxy Music era un atteggiamento gay friendly.

Anche lei?

No, ero abbastanza… non gliel’ammollavo, però assillavo le donne, si vedeva la mia propensione: prima di diventare famoso, vivevo le classiche difficoltà degli adolescenti.

La fama aiuta.

È lo spartiacque.

Più utile per i soldi o per le donne?

Allora per le donne; in realtà ero già appagato della mia piccola fama scolastica, quando ero individuato come quello che canta e suona.

Quando ha capito il valore della sua voce?

Con il tempo, all’inizio mi sono lanciato solo perché avevo una faccia come il culo più spiccata di altri; poi ho iniziato a capire; qualche mese fa, entro in autogrill, bardato, occhiali scuri, la mascherina, chiedo il caffè e il barista: “Lei è Ruggeri!”. E indossavo pure il cappellino, altrimenti la pelata mi rende ancor più riconoscibile.

Ha sofferto l’assenza di capelli?

Quando inizi a perderli non è la migliore delle notizie, ma dopo un annetto mi sono abituato, e la fortuna è stata l’arrivo di Ronaldo. Ronaldo quello vero (è fervente interista, ndr) che ha sdoganato i pelati del mondo, prima c’era solo Yul Brynner.

Come mai Chico Forti.

Quando vedo un’ingiustizia impazzisco, e nel suo dramma ho trovato l’apoteosi del lassismo, dell’imprecisione, delle indagini a cazzo di cane, come direbbe Pannofino; (pausa) secondo me i suoi guai nascono quando decide di girare il documentario sulla morte di Versace.

Ci sono voluti molti anni.

L’Italia si è sempre mossa con il freno a mano, forse perché era figo, bello, coi soldi e nella narrazione appariva meno vittima.

Da quanto segue la vicenda?

Da sempre; (ci pensa) ho la fortuna di avere uno studio in cui creare, registrare; magari un giorno uscirò con un album, anche se pubblicare qualcosa sfiora il ridicolo, visto il mercato.

Quante canzoni ha nel cassetto?

Tantissime brutte, ma non sono capace di lavorare sui brani: dopo che l’ho scritta, la chiudo lì.

Ha la fila di interpreti che le chiedono pezzi?

Un tempo di più, oggi non sarei in grado di seguire le mode, non riuscirei a realizzare un brano per nuovi artisti come i Boomdabash.

C’è un errore che si ripete: alcuni attribuiscono a Fossati Il mare d’inverno.

In un tweet, la Wind, scrisse: “Curiosità: Il mare d’inverno è di Pino Daniele e Fiorella Mannoia”. A quel punto ho risposto: “E Wind prende benissimo”.

Cosa ne pensa dell’“Auto-Tune”, il sistema che aggiusta l’intonazione?

Lo utilizzano pure al Festival.

Lo trova osceno?

Certo… oramai nell’80 per cento dei concerti si usano le sequenze, che in realtà sono nastri pre-registrati: è come andare al ristorante e mangiare pesce congelato spacciato per fresco.

Un suo complesso?

Da ragazzino gli occhiali. Poi sono diventati un vantaggio.

Come andava a scuola?

Alle elementari un fenomeno, alle medie ho scoperto altri interessi; (cambia leggermente tono) nel giudizio della maturità hanno scritto: “Il candidato ha difficoltà a esprimersi, non ha dimestichezza con la lingua italiana”. Ogni tanto lo pubblico come forma di rivincita.

Tra uno scudetto dell’Inter e una fenomenale notte d’amore?

Non sono Rocco Siffredi, ma ho più notti fenomenali che scudetti nerazzurri.

La moglie di Faletti l’ha ringraziata: “Enrico mi ha spiegato che esistono tre categorie di successo: pubblico, critica e tempo”.

C’è un cantante che all’inizio era di nicchia, e quando lo incontravo mi spiegava: “La critica è con me, il pubblico non capisce nulla”; di colpo inizia a vendere una barca di dischi, e lo rivedo: “I critici sono dei cazzari, chi decide è la gente”.

Quindi…

Conta il tempo.

Com’è il suo ego?

Se ho deciso di andare sul palco e cantare è evidentemente sviluppato, ma ci sto attento, perché è una malattia, per questo cerco di circondarmi di persone che non mi danno ragione a tutti i costi.

Lei sul palco si rivede?

Poco.

Si piace?

No, trovo sempre qualche difetto, ma è parte dell’ego.

Ha scritto brani importanti, non le scoccia venir spesso ricordato per Si può dare di più?

Un po’ sì; l’anno prima avevo vinto il premio della critica con Rien ne va plus, in quel momento ero super coccolato e la stampa, soprattutto romana, continuava a scrivere “Ruggeri grande autore, ma a cantare insomma”. Allora mi sono girate le palle e quando è partita l’idea di Si può dare di più ho accettato, a patto di cantare la nota più alta del brano.

Che grinta.

Lì Morandi mi offrì una lezione di vita: nel brano c’è una frase, “perché la guerra, la carestia…”, e io ero contrario, mentre Gianni subito: “La canto io, perché ci credo”. Aveva ragione.

Lei a Morandi ha spiegato: “Hai finanziato i tuoi curatori fallimentari”.

È la verità: con i soldi di Morandi e della Pavone, la Rca pagava i primi fallimenti di Venditti e De Gregori, che poi sono diventati successi.

Chi è lei?

Un curioso un po’ bastian contrario. Alla fine un combattente.

Il gelsomino appassito sogna Ben Ali

A 10 anni dalla “Rivoluzione dei Gelsomini” i tunisini sono stufi della classe politica e rimpiangono il dittatore cacciato

Sono trascorsi dieci anni dalla fuga di Zine El Abidine Ben Ali dopo la rivolta di massa iniziata il mese precedente, ma in Tunisia pochi hanno festeggiato e non per le misure anti-Covid, che proibiscono assembramenti e celebrazioni. Più della metà dei tunisini, il 59%, ritiene infatti che il Paese stesse meglio sotto la dittatura del presidente deposto. L’inverno dello scontento tunisino è una realtà che emerge non solo da un sondaggio della società Emrhod Consulting – condotto per il sito Business News e la tv privata Attessia –, ma anche dall’emorragia di autorevoli professionisti e giovani senza arte né parte che hanno lasciato il Paese in questi anni. I medici, gli infermieri, gli ingegneri, gli informatici se ne sono andati a bordo di comodi aerei e con visti regolari, gli altri via barcone o via terra per raggiungere l’Isis in Siria e Iraq. Non è bastato dunque sostituire un dittatore con una democrazia farcita di islamisti, con un Parlamento estremamente frammentato (a causa della nuova legge elettorale), con una magistratura percorsa da faide intestine, con una Costituzione “da premio Nobel” che però ha lasciato dietro di sé molti vacuum e ambiguità. L’84% degli intervistati ritiene che l’élite politica e i governi succedutisi dal 2011 a oggi siano gli unici responsabili della catastrofica situazione attuale nel Paese.

“La Tunisia è ingovernabile soprattutto perché non ci sono più funzionari pubblici in grado di far funzionare la macchina statale. Con la rivoluzione sono stati esclusi con un colpo di spugna tutti coloro che avevano avuto a che fare con la vecchia amministrazione, senza distinguere tra capaci e incapaci, corrotti e onesti”, ha scritto sul più autorevole settimanale indipendente Réalités, il noto editorialista, docente e avvocato Sami Mahbouli. L’intellettuale formatosi alla Sorbonne, spiega al Fatto che l’altro enorme problema è stato lo sdoganamento politico degli islamisti, cioè la Fratellanza Musulmana e i Salafiti: “Il loro peso è diventato con il passare degli anni sempre più influente e nonostante non siano formalmente la forza dominante, di fatto lo sono. Il punto è che gli islamisti non condividono i valori di una repubblica laica e democratica: il loro vero obiettivo è imporre la sharia (legge coranica)”.

La corruzione, tra i motivi principali della Rivoluzione dei Gelsomini intanto è rimasta una piaga aperta che continua a danneggiare la macro e la microeconomia del Paese. “La corruzione e il contrabbando prosperano sotto gli occhi di tutti, nonostante alcuni arresti che sono stati più uno spettacolo che la dimostrazione di una guerra seria e decisa contro questi flagelli”, denuncia Mahbouli.

Armin, cioè herr Merkel. Cdu vuol dire continuità

“Mio padre era minatore e ogni giorno ad Alsdorf scendeva 1000 metri sotto terra”: si presenta così Armin Laschet, il nuovo presidente del partito cristiano-democratico tedesco, eletto al congresso di ieri con 521 voti su 991. “Mio padre ha sempre detto – prosegue il deputato di Acquisgrana – quando sei sotto terra non importa da dove viene il tuo collega, la religione che pratica, la faccia che ha: quello che conta è se puoi fidarti di lui”. Ruota intorno alla parola “fiducia” il discorso di presentazione del delfino di Angela Merkel ai delegati collegati online. Nella Cdu da quando aveva 18 anni, si presenta come uomo ‘del fare’ più che ‘del dire’, uno a cui si può credere perché la credibilità se l’è conquistata sul campo. Espressioni come “‘Si dovrebbe’, ‘si potrebbe’, ‘sarebbe necessario’ non sono fare politica”, ha detto a chi chiedeva un cambio di corso della Cdu– “politica è sapere usare ‘gli attrezzi da lavoro’ della politica” prosegue, raccontando di quando ha chiuso insieme alla cancelliera Merkel l’accordo federale per l’uscita dall’energia a carbone e il giorno dopo è andato a spiegare quella scelta in una fabbrica del suo Land, dicendo a imprenditori e minatori che avrebbe chiuso.

“Non sono l’uomo della perfetta messa in scena, ma sono Armin Laschet e a questo potete credere”. Il governatore del Nordreno-Westfalia ha una lunga storia politica alle spalle, sempre tra le fila della Cdu: deputato al Bundestag dal 1994 al 1998, eurodeputato a Bruxelles dal 1999 al 2005 e poi impegnato nella politica locale fino a diventare ministro-presidente del suo Land. “La Cdu non ha bisogno di un one man show, ma di un Ceo”, ha detto riferendosi al suo antagonista Friedrich Merz. Laschet rivendica la continuità con la politica di Angela Merkel, non come ripiego o una mancanza di fantasia ma perché è stata una strategia vincente. “All’inizio degli anni Duemila la Germania era descritta come ‘il malato d’Europa’” dice Laschet. “Quando Angela Merkel è andata al governo il Paese contava più di 5 milioni di disoccupati” ma “oggi nessuno ci definirebbe più così” e “abbiamo bisogno della continuità dei successi”. Il candidato cattolico eredita comunque un partito spaccato. Come al precedente congresso di due anni fa ad Amburgo, che incoronò presidente Annegret Kramp-Karrenbauer, anche stavolta Laschet ha strappato una maggioranza limitata. Le cicatrici ereditate dalle scelte di Merkel sulla politica di accoglienza dei migranti continuano a gettare ombra sul presente. Ieri Akk, nel suo discorso di addio, è tornata a giustificare le strategie che l’hanno portata a riconquistare la fiducia del partito gemello, la bavarese Csu, a prezzo di contestare le scelte di Merkel del 2015 sui migranti. Già allora questo le costò il definitivo raffreddamento dei rapporti con la cancelliera. Laschet sui migranti, nel 2015 come oggi, non è mai tornato indietro: “Dobbiamo sapere integrare e tenere insieme, questo è il lavoro difficile” ha detto “polarizzare è facile, lo sanno fare tutti”. E sulla Ue le sue idee sono chiare: “La Germania è la Ue sono forti solo quando l’Italia e il sud dell’Europa è forte”.

Con le elezioni di ieri la domanda sulla cancelleria è più aperta che mai. Sarà lui il candidato, o il vicepresidente e ministro Jens Spahn, o ancora il governatore della Baviera Markus Soeder? Decisive saranno le elezioni di marzo in Baden-Wuerttemberg e in Renania Palatinato. Se la Cdu sarà forte, la candidatura potrebbe rimanere nelle sue mani, altrimenti dovrà cedere lo scettro alla Csu di Soeder. Per ora sceglie di rimanere nell’ombra di Merkel. Il più grande atto di riconoscenza che un partito possa fare al suo leader uscente.

Inauguration Day: si temono contro-proteste a sinistra

Domenica ad alta tensione a Washington: c’è il timore di proteste e incidenti, in vista dell’Inauguration Day, mercoledì 20 gennaio. L’Fbi monitora online piani e iniziative di gruppi d’estrema destra ‘trumpiani’ e il Pentagono schiera 25 mila effettivi della Guardia Nazionale, più dei 20 mila previsti. Stravolti – pure causa pandemia – i tradizionali festeggiamenti: anche il ballo dell’insediamento sarà virtuale. Oltre alle proteste dei ‘trumpiani’, si temono reazioni di estremisti di sinistra: in Florida, è stato arrestato un uomo che sui social promuoveva una contro-manifestazione armata alla marcia pro-Trump annunciata nel weekend sulla Florida Statehouse, a Tallahassee. Daniel Baker, un ex militare, stava reclutando proseliti e aveva pubblicato un video in cui si mostrava con numerose armi. Secret Service e Fbi parlano di ‘Zero Fail Mission’: tutte le strade intorno al Federal Triangle sono chiuse, decine i posti di blocco e i check-point. Mercoledì 20, Trump non sarà a Washington. La sua assenza potrebbe ‘depotenziare’ le proteste, ma i suoi programmi per quel giorno sono più volte cambiati: c’era l’idea di lasciare Washington già il 19 per una terra straniera – la Scozia, dove, però, non l’hanno voluto –; o di tenere un comizio in Florida in contemporanea al giuramento di Biden, per annunciare la candidatura a Usa 2024 – ora in forse causa impeachment, che comporterebbe l’interdizione dai pubblici uffici–. Il piano ora è che il Marine One, l’elicottero presidenziale, porti il 20 mattina, per l’ultima volta, Trump, accompagnato da Melania, alla base di Andrew, dove ci sarà ad attenderlo l’AirForceOne, con cui raggiungerà la Florida e la sua residenza di Mar-a-Lago, a West Palm Beach. Sulla pista della base, sarà organizzata una cerimonia di addio con il tappeto rosso, la banda militare e 21 salve di cannone. Alcuni membri dello staff della Casa Bianca seguiranno i Trump in Florida e continueranno a lavorare per l’ex presidente e la sua famiglia. Al giuramento di Biden, dovrebbe invece assistere Mike Pence, la cui presenza darà una parvenza di correttezza istituzionale alla transizione fra le due Amministrazioni. Intanto, la magistratura di New York continua a lavorare sugli affari dei Trump. Al centro dell’attenzione, stavolta, Seven Springs, una proprietà del magnate vicino a New York, acquistata nel 2007 per 7,5 milioni di dollari e iscritta a bilancio nel 2012 per un valore di 300 milioni, il valore sarebbe stato gonfiato per ottenere finanziamenti e altri benefici finanziari.

Spagna: Corinna come Diana. Da Love story a spy story

Un elefante in Botswana, amore, potere, denaro e segreti. Servizi segreti. La love story più sgangherata tra quelle reali, quella conclusasi dieci anni fa tra l’ormai re emerito di Spagna, Juan Carlos I di Borbone e l’imprenditrice tedesca Corinna Larsen riappare tra i fascicoli più inquietanti della storia recente del Paese. “Ho vissuto un momento agghiacciante. Ho temuto per me e per mio figlio. Dopo l’avvertimento di Félix Sanz Roldán, al rientro nella mia casa in Svizzera, ho trovato un libro sulla morte di Lady Diana e poi ho ricevuto una telefonata criptica in cui si parlava di tunnel”.

A testimoniare in videoconferenza da Londra davanti al tribunale di Madrid è la “principessa Larsen”, titolo posticcio che le è costato la perdita di più di un’amicizia. Félix Sanz Roldán, invece, di titolo all’epoca dei fatti, nel 2012 aveva quello di capo dei servizi segreti spagnoli sotto il governo di José Luis Rodríguez Zapatero. La versione dell’ex amante dell’allora sovrano ha scagionato dall’accusa di diffamazione il commissario della polizia José Manuel Villarejo. Anche lui ormai ex, in carcere dal 2017 per crimini che intrecciano altri noti fascicoli spagnoli, nella fattispecie incolpato dal capo dei servizi di averlo screditato in tv raccontando la storia delle minacce alla Larsen. Nessuna invenzione, ha chiarito la donna, “riferii io del pedinamento di Sanz Roldán a Villarejo perché ero spaventata”. Accusa decaduta e tutto sistemato. Si fa per ridere. Corinna, che in un’intervista alla Bbc ha rivelato di essere stata sul punto di diventare regina di Spagna – ché Juan Carlos era sul punto di chiedere la mano al padre, se non fosse sopraggiunta un’altra amante e poi la storia dell’elefante in Botswana – era convinta di finire come Lady D. La mente, come denunciato già alla polizia londinese a marzo 2019, sarebbe stato il suo ex amante. L’emerito, ora in fuga ad Abu Dhabi, avrebbe incaricato il capo degli 007 di metterla dell’avviso che qualunque segreto avesse intenzione di spifferare, non avrebbe visto la luce in fondo al tunnel. Un racconto che poi Villarejo, che giura di essere stato ingaggiato dai servizi per carpire alla donna documenti sensibili, ha deciso di riversare nell’intervista al noto programma tv Salvados del giornalista Jordi Evole, giusto per aggiungere un po’ di patina morbosa alla vicenda. Dal canto suo, Sanz Roldán in tribunale si è contraddetto, prima appellandosi al segreto professionale, salvo poi scartare l’ipotesi che la sua visita a Londra alla signora Larsen, diventata pubblica, fosse una missione del Cni, servizio interno con divieto di missioni all’estero. Che si sia trattato di una visita di cortesia? La possibilità che fosse una minaccia di Juan Carlos alla tanta amata amante per mano di Sanz Roldán non è peregrina. Certo il re emerito, subissato dagli scandali, avrebbe avuto tutto l’interesse a volersi assicurare il silenzio della Larsen, detentrice di segreti ben più scottanti della sua presenza a corte. In ballo c’è la donazione di 64 milioni alla donna da parte dell’allora sovrano di Spagna su cui indaga la Svizzera per accertare se si tratti di denaro proveniente da una mazzetta ricevuta da Juan Carlos da un amico che si aggiudicò per sua intercessione l’appalto del treno della Mecca. Ci sono poi le carte di credito usate dal re emerito e altri membri della famiglia reale legate a fondi offshore. Il re Caronte che ha traghettato la Spagna dalla dittatura alla democrazia, per quelle ha sborsato solo 678mila euro all’agenzia delle entrate per scongiurare l’arresto in un viaggio natalizio a Madrid, poi rimandato per ordine del figlio regnante in accordo col premier Sanchez.

In gioco c’era la fragile monarchia spagnola a cui, a parte la difesa d’ufficio dei socialisti, restano fedelissimi ormai solo i neofranchisti di Vox e i generali che hanno servito il caudillo. Intanto sorgono altre piste su Juan Carlos, come quella che porta a un imprenditore messicano legato alla società di petrolio Repsol e che sarebbe tra i finanziatori dei conti offshore. E si scopre che, non solo gli spagnoli pagano la scorta del re emerito ad Abu Dhabi, ma anche tre assistenti personali. Sanchez e Felipe VI hanno promesso la riforma della corona: il figlio su cui ricadono le disgrazie del padre riempie l’agenda della principessina bionda, Leonor, per far dimenticare l’altra bionda, Corinna. La quale, ogni volta che apre bocca, butta giù un pezzo di Spagna.

Ecco la sostituzione. Adesso Giove riesce a “giurare su Giove”

Nella puntata precedente abbiamo visto come, a volte, l’attore della commedia antica si rivolgesse direttamente al pubblico (in gergo, rompeva la “quarta parete”, il diaframma invisibile che separa il palcoscenico dalla platea), commentando con battute l’ingresso degli ultimi arrivati, o qualche tratto degli spettatori, anche insultandoli; oppure esprimendo giudizi sull’azione in corso con divertenti “a parte”. Questo modo è onnipresente nella comicità contemporanea, dai monologhi degli stand-up comedian alla sit-com Fleabag: lo consideriamo così moderno che sbalordisce ritrovarlo, ancora freschissimo, in testi di duemila anni fa. I comici greci e latini usavano tecniche comiche non diverse dalle nostre; e poiché è la tecnica a far scattare la risata, aveva ragione Borges, quando sosteneva che la pluralità dei poeti ha scarsa importanza: “Spesso mi accorgo di non fare altro che citare qualcosa che ho letto tempo addietro. Il che equivale a una riscoperta. Forse sarebbe meglio che i poeti non avessero nome” (Borges, 1967). La comicità, però, non è solo tecnica: ridurla a questo è farne una politica. Forti di tali consapevolezze, proseguiamo la nostra ricognizione della comicità antica.

ARGOMENTI QUASI-LOGICI

LE INCOMPATIBILITA’

La soluzione inaspettata. LISISTRATA: E se non ti danno la mano, prendili per l’uccello. (Lys., 1119)

La concessione impossibile. PEGNIO: La mia ombra a casa sta già ricevendo le frustate. (Per., 298)

Un uomo si lamenta con un commerciante: lo schiavo che gli ha venduto è morto. IL COMMERCIANTE: Con me non l’ha mai fatto. (Ierocle, V sec. d.C.)

L’iperbole. Vuoi sapere quant’è sottile il tuo culo? Ci puoi inculare, Sabello, col tuo culo. (Epigr., III, 98)

L’ironia. DEMEA: Ecco, se vuoi qualcosa di ben fatto, affidala a questo qui! (Adel., 371-72)

IDENTIFICAZIONI E SOSTITUZIONI

L’identificazione. I Lerii sono cattivi. Non uno sì e l’altro no, ma tutti, tranne Procle: ma anche Procle è un Lerio. (Focilide, VI sec. a.C.)

L’analisi superflua. DORIONE: No, però prima che arrivasse quel giorno là, è arrivato questo giorno qui. (Pho., 525)

La reciprocità. Perché non ti mando i miei libretti, Pontiliaco? Affinché tu, Pontiliaco, non mi mandi i tuoi. (Epigr., VII, 3)

Vuoi sposare Prisco: non mi stupisco, Paola, la sai lunga. Ma Prisco non ti vuole sposare: anche lui la sa lunga. (Epigr., IX, 10)

Il dio Mercurio, scambiato per Sosia, apostrofa Anfitrione come questi di solito fa col servo, dicendogli: “Che hai da guardarmi, imbecille?” (Amph., 1028)

FILEMAZIA: Per Castore, non avevo mai fatto un bagno freddo così delizioso, né mi sono mai sentita così pulita, Scafa mia. SCAFA: Ti va tutto bene, come il raccolto di quest’anno che è abbondante. FILEMAZIA: Che c’entra il raccolto col mio bagno? SCAFA: Non più che il tuo bagno col raccolto. (Most., 157-161)

PSEUDOLO: Adesso ci facciamo una bella bevuta. SCIMMIA: Ti seguo. Ma perché non inviti anche gli spettatori? PSEUDOLO: Loro non mi invitano mai, accidenti, e io non invito loro. (Pseu., 1327-1333)

L’autoriferimento. GETA: Come ciascuno dei due somiglia a se stesso!

(Pho., 501)

In questo dialogo fra il giovane Carino e il vecchio Demifone, entrambi alzano la posta fingendo di non essere i diretti interessati:

DEMIFONE: C’è già un vecchio che m’ha dato l’incarico di compragliela. CARINO: A me un giovanotto ha chiesto di comprargli una ragazza proprio come lei, papà… DEMIFONE: Mi sta facendo un altro segno: aggiungo sei mine. CARINO: Il mio ne aggiunge sette…. CARINO: Ma porca miseria, il giovanotto a cui voglio venderla stravede per lei. DEMIFONE: Ma porca miseria, il vecchio stravede per lei molto di più, se vuoi saperlo. (Merc., 426-445)

È possibile inoltre l’autoriferimento doppio, come quando Giove, nei panni di Anfitrione, fa un giuramento ad Alcmena, ma augurando la maledizione di se stesso (Giove) sul vero Anfitrione:

GIOVE: Se vengo meno al giuramento, allora, o sommo Giove, rovescia la tua collera eterna su Anfitrione. (Amph., 933-934)

La transitività. PALESTRIONE: Vai. E torna presto. LURCHIONE: Fammi un piacere. Se distribuiscono frustate mentre sono via, prendile tu, le mie. (Mil., 864-866)

I PESI E LE MISURE

Il paragone squalificante. DEMENETO: Se necessario, preferirei bere lo scarico di una nave piuttosto che baciare mia moglie. (Asin., 894-895)

SICONE: Era come versarlo sulla sabbia. (Dys., 949), scrive Menandro per dire della rapidità con cui i commensali tracannavano il vino.

CORO: È come cuocere un sasso. (Sfe., 280)

Hai come amiche tutte le donne vecchie. In questo modo, Fabulla, sei bella e giovane. (Epigr., VIII, 79)

Tu ti rimpinzi di grasse e dorate cosce di tortora, a me viene servita una gazza morta nella gabbia. (Epigr., III, 60)

STROBILO: La pomice è meno arida di quel vecchio. (Aul., 297)

MILFIDIPPA: È mai esistito essere umano più degno di essere un dio?

PALESTRIONE: Di certo in lui non c’è nulla di umano. Credo che un avvoltoio sia più umano di lui. (Mil., 1043-1044)

Sei più lussurioso di un eunuco. (Remmio, I sec. d.C.)

(39. Continua)