Alt ai voli dal Brasile. “La paura: la variante neutralizza i vaccini”

Per la variante britannica scoperta nel Regno Unito un mese fa, i modelli statistici attuali suggeriscono che gli anticorpi generati dai vaccini dovrebbero continuare a neutralizzare il virus. Ma per quella sudafricana e due varianti brasiliane — una delle quali preoccupa — appena scoperte, gli anticorpi generati dai vaccini potrebbero non riconoscerle, per questo ora c’è paura”, spiega Duccio Cavalieri, biologo evoluzionista dei microrganismi all’Università di Firenze. E anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha annunciato il blocco dei voli in partenza dal Brasile e vieta l’ingresso in Italia di chi negli ultimi 14 giorni vi è transitato, come Uk e Francia. “Ci sono mutazioni in molti punti della spike (la proteina che il virus usa per invadere le cellule umane, ndr). Ma le mutazioni, spiega Cavalieri, riguardano anche altre parti del virus. “La variante brasiliana, presenta una mutazione anche di un gene che sarebbe responsabile di una maggiore abbondanza del virus nell’aria”, aggiunge. Il Consorzio britannico Cog-Uk ha analizzato oltre 150mila sequenze di campioni di virus di pazienti britannici positivi (contro i 960 dell’Italia, in fondo alla classifica con l’Arabia Saudita): la variante britannica contiene una mutazione della variante brasiliana allarmante. Il Cog-Uk spiega che la stessa, presente anche nella variante sudafricana, è legata ad una minore risposta anticorpale dell’organismo umano. Anche la risposta immunitaria indotta dai vaccini potrebbe essere meno efficace. “Ogni vaccino non genera un solo tipo di anticorpo. La variante inglese riduceva il riconoscimento solo di alcuni. Per quella brasiliana e sudafricana potrebbe essere diverso: ci sono mutazioni in molti più punti della spike”.

Il sequenziamento è una delle armi per combattere la pandemia. Se non si fa, come in Italia, anche i test diagnostici tarati sulle sequenze del virus dei primi mesi della pandemia non rilevano le nuove varianti. In quelle zone d’Italia dove l’incidenza dei contagi è superiore alla media, potrebbero nascondersi nuove varianti. “In Veneto, Friuli e Slovenia continuano ad avere un’incidenza elevatissima, nonostante, in Slovenia, ci sia stato un lookdown totale”, spiega Michele Morgante, ordinario di Genetica all’Università di Udine accademico dei Lincei, dirige l’Istituto di Genomica Applicata. Lo scorso aprile aveva segnalato al ministero della Salute, della ricerca, all’Istituto superiore di Sanità (Iss) la necessità di attivare una rete di tutti i laboratori per il sequenziamento presenti in Italia per studiare l’evoluzione del virus. Nessuno ha risposto. Il Friuli, spiega Morgante, ha deciso di analizzare solo 10 campioni di tutte le sequenze del virus da pazienti positivi il cui risultato del test faceva pensare alla possibilità che avessero contratto la variante inglese. “Da soli 10 campioni hanno stabilito che la variante non era presente sul nostro territorio. È ridicolo”. Anche Duccio Cavalieri spiega al Fatto che “già a marzo sostenevo che il virus stava mutando sulla base di articoli scientifici internazionali pubblicati già allora. Scrissi una lettera al ministro dell’Università, Gaetano Manfredi, segnalando l’importanza di costituire una rete nazionale per il sequenziamento e finanziarla. Abbiamo in Italia moltissimi sequenziatori, a Firenze uno dei 4 più potenti presenti in Europa. Manfredi rispose che avrebbe girato la lettera a Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità. Nessuna risposta. Nel giugno scorso, il gruppo di Cavalieri ha presentato il progetto di sequenziamento dei ceppi presenti in Toscana. Il progetto è stato stilato tra gli ultimi posti e non è stato finanziato. Dopo la scoperta della variante inglese, la Regione Toscana li ha ripescati, chiedendo ora di fornire un servizio, cioè sequenziare il genoma di 3mila campioni di virus dai pazienti positivi di varie aree.

Strani evasori: la Figc non paga l’Imu a Coverciano da dieci anni

Coverciano è la casa della Nazionale, il luogo simbolo del calcio italiano: il Mundial ’82 e la Coppa del 2006, Bearzot e Vicini, Baggio, Totti e Gigi Riva, tutte le imprese più grandi degli azzurri sono iniziate qui. Ma è anche un centro all’avanguardia – 8 ettari di terreno, 6 campi da calcio, 2 da tennis, palestra e piscina, auditorium e museo, hotel e ristorante – dove si fa di tutto. L’attività sportiva, l’eccellenza del pallone italiano, ma pure quella commerciale: corsi di formazione a pagamento, pubblicità, eventi. Su questo gioiellino, da oltre dieci anni la FederCalcio non paga l’Imu: deve un milione di euro al Comune di Firenze. Lo ha scoperto Report: il servizio di Giulia Presutti andrà in onda domani alle 21.20 su Rai3.

Quello che riguarda Coverciano è un contenzioso che va avanti da anni o forse solo il tentativo del pallone di reclamare un altro privilegio: non versare quanto dovuto per il suo immobile. E che immobile. “Il suo valore storico è inestimabile”, spiega Gabriele Gravina, n.1 della Federazione. Sarà forse per questo che di pagare prosaicamente le imposte la Federazione non ne vuole sapere. È dal 2007 che il Comune notifica inutilmente avvisi e accertamenti per la quota di Imu, che nelle ultime annualità contestate ammonta a circa 120 mila euro.

La Federazione si considera esente: è un’associazione privata, che però svolge un’importante funzione pubblica, promuove il movimento. A Coverciano si fa solo sport, niente fini di lucro, quindi niente Imu. C’è un problema, però. Il centro non è di proprietà della Figc, che lo utilizza, ma di FederCalcio srl, la sua società di servizi. Ma, soprattutto, a Coverciano non si fa solo attività sportiva, ma anche commerciale. Così la pensano i giudici, che dopo un primo parere favorevole datato al 2014, hanno sempre dato torto alla Federazione. Le sentenze di condanna al pagamento non si contano più: tre in primo grado, due in appello, si attende la Cassazione. Anche il Catasto ha bocciato la richiesta di una diversa classificazione, fra quelle senza fini di lucro. Nell’ultimo dispositivo, la Commissione tributaria è stata dura: “È evidente che i requisiti per l’esenzione non ricorrono, ed è noto e non contestato che nel suddetto centro sono esercitate numerose attività commerciali”.

L’elenco del resto è lungo: dalle pubblicità degli sponsor, che fanno a gara per associare il loro brand a Coverciano, ai corsi di formazione per allenatori, tecnici e dirigenti, con tanto di prezzario (fino a 8mila euro per la categoria Uefa) e offerta di mezza pensione, come nei migliori hotel. Ci sono persino una società che cura l’ospitalità e un sito internet che offre ai privati il centro per i convegni, con l’extra di organizzare una partitella aziendale sui mitici campi di Coverciano. Impagabile. O meglio, loro pagano, e finisce nel bilancio federale, oltre 170 milioni di fatturato (40 di contributi pubblici). L’Imu nelle casse del Comune invece non è ancora arrivata.

Ma Coverciano non è un caso isolato. La FederCalcio in passato ci ha provato un po’ in tutta Italia e le è già andata male. Ancona, Monza, Milano, persino la storica sede romana di via Allegri è stata oggetto di contenzioso: tra questo palazzo e quello di via Po, si erano accumulati arretrati per 650mila euro. Poi nel 2012 la Cassazione ha dato ragione al Campidoglio e da allora la FederCalcio versa regolarmente. Però non si arrende su Coverciano.

La giurisprudenza pare segnata, il bilancio piange (nel 2019 le consulenze legali sono aumentate di altri 40mila euro), per non parlare degli accantonamenti e del danno d’immagine per la nazionale “morosa”. Dopo che Report ha scoperto la notizia, la Federazione ha provato a chiudere la partita col Comune ma nemmeno stavolta si è trovato l’accordo. “Al momento non siamo tenuti a pagare, e quindi non paghiamo”, conclude il presidente Gravina, che ha ereditato il problema dai suoi predecessori. Il pallone italiano ragiona così, da sempre.

In attesa della Ue, la Web tax slitta di un mese (per adesso)

Proprio in mezzo al comunicato ufficiale, diffuso ieri, del Consiglio dei ministri riunitosi nella tarda serata di giovedì ci sono poche righe che si riferiscono a una grande questione: non solo alla fine il governo ha deciso – in attesa di sistemare la questione nel decreto Ristori della prossima settimana – per un mini-rinvio delle cartelle esattoriali al 31 gennaio, ma previsto anche “in sede di prima applicazione, il rinvio del termine per i versamenti relativi all’imposta sui servizi digitali per il 2020 dal 16 febbraio al 16 marzo 2021 e il rinvio del termine per la presentazione della relativa dichiarazione dal 31 marzo 2021 al 30 aprile 2021”.

Tradotto: la cosiddetta Web tax slitta di un mese. Per ora. Visto che la Commissione Ue presenterà entro giugno una sua proposta, è probabile che anche quest’anno se ne parlerà l’anno prossimo.

La faccenda è complessa, anche negli aspetti tecnici, ma ha soprattutto a che fare con la posizione statunitense sul tema, che è semplicissima: gli Usa sono contrari perché quella tassa colpirebbe soprattutto le mega-imprese del Web a stelle e strisce, da Google e Amazon in giù.

Giusto il 6 gennaio, come abbiamo già scritto, l’Office of the United States Trade Representative (UsTR), che risponde direttamente alla Casa Bianca, ha depositato un rapporto su un’indagine iniziata a giugno. Il titolo Report on Italy’s Digital Services Tax, cioè Rapporto sulla tassa italiana sui servizi digitali, e vi si sostiene che la nostra versione della Web tax “discrimina le società statunitensi, è in contrasto con i principi fiscali internazionali e ostacola o limita il commercio Usa”. L’Italia – insieme alla Francia e a tutte le altre nazioni che hanno osato provare a tassare Bigh tech – rischia dazi sui suoi prodotti.

Come si è arrivati a questo punto? Di Web tax si parla da molti anni e non serve molto a capire perché: le grandi aziende digitali, che spesso non hanno organizzazioni stabili nei vari Paesi, intermediano però servizi (pubblicità, turismo, commercio, etc.) che hanno dimensione fisica nei vari territori: a questi non corrisponde però un’adeguata tassazione, nel senso che Google e soci – ancor più e meglio delle multinazionali tradizionali – decidono dove più gli conviene farsi tassare, risparmiando così decine di miliardi. L’Italia ha deciso allora nel 2018 di istituire una tassa specifica: il 3% su alcuni servizi digitali per aziende che abbiano un fatturato superiore ai 750 milioni di euro nel mondo e con ricavi da servizi digitali non inferiori a 5,5 milioni in Italia: in sostanza, grandi aziende. Le attese di gettito sono di circa 700 milioni l’anno, una frazione del giro d’affari reale.

I primi adempimenti dovevano partire il 16 febbraio e per ora sono slittati di un mese: tra i motivi, dicono gli addetti ai lavori, oltre alle pressioni Usa, c’è anche la difficile se non impossibile applicazione di quella legge al mondo reale e persino una possibile penalizzazione delle (pochissime) aziende italiane che ricadrebbero nel suo perimetro.

Ristori e deficit: il Mef “minaccia” i giallorosa

Nell’accademia e sui media c’è una gran corsa a dire che il mondo è cambiato, i parametri di prima – tipo l’austerità per capirci – non vanno più bene: ammesso e non concesso che questo sia vero, nel senso che quella roba era dannosa anche prima, non pare che questo fervore riformatore, diciamo così, si sia trasmesso alle cancellerie o alle istituzioni comunitarie. Non sembra almeno a stare al dibattito in corso all’interno dei governi europei in generale e a quello italiano in particolare.

Sempre più spesso, in queste ultime settimane, il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha ricordato ai colleghi che s’è fatta ora di governare tenendo da conto i vincoli europei, per quanto essi siano ancora sospesi. Sullo scostamento di bilancio necessario al prossimo decreto Ristori, il quinto della serie e il primo a impattare i conti del 2021, s’è dovuto piegare: il Tesoro spingeva per chiedere al Parlamento un’autorizzazione fino a 24 miliardi, ma alla fine la cifra è stata significativamente più alta, 32 miliardi.

Questi soldi, sia detto a scanso di equivoci, rischiano persino di non bastare dato che le chiusure connesse all’epidemia di Covid non accennano a finire, anzi: se si vuole salvare più imprese e posti di lavoro possibili – per non arrivare al dopo ridotti a un cumulo di macerie – bisogna spendere. E qui le diverse visioni sul livello di deficit si trasferiscono direttamente al prossimo decreto (il centrodestra, sia detto en passant, ha deciso ieri che lo voterà senza neanche vederlo).

I punti del contendere più rilevanti al momento sono tre: il fisco, il blocco dei licenziamenti, i ristori in senso stretto. Partiamo da questi ultimi: Gualtieri vorrebbe ridurne l’entità rimborsando di fatto alle imprese chiuse solo i costi vivi , non procedere invece in base al calo del fatturato. Una scelta che farebbe andare fuori di testa, più di quanto non lo sia già, il mondo della ristorazione e del turismo: “Ormai è a rischio l’intero comparto, in cui operano 1,3 milioni di addetti. Occorre dare subito una prospettiva. Chiudiamo il 2020 con 40 miliardi di minor fatturato. A fronte di un danno di questa portata, abbiamo ricevuto ristori per quasi 2,5 miliardi”, mette le mani avanti la Fipe-Confcommercio.

Il blocco dei licenziamenti, al momento previsto fino a fine marzo, è un’altra delle misure che andranno chiarite: la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo spinge per una ulteriore proroga, che ovviamente comporta un’estensione della “Cassa integrazione Covid” di pari durata. Anche qui il Tesoro sta tentando di ridurre la platea e mettere paletti che riducano il “tiraggio” della Cig. Un’ondata di licenziamenti, in ogni caso, non sarebbe senza effetti sulla finanza pubblica: aumenterebbero esponenzialmente i beneficiari di assegni di disoccupazione e degli altri strumenti di sostegno al reddito.

Altra questione calda, come detto, è quella fiscale: finora si è scelto di prorogare alcune scadenze e bloccare l’invio delle cartelle. Nel prossimo decreto Ristori dovrebbe trovare spazio proprio la (quarta) rottamazione delle cartelle di minore entità e una nuova definizione agevolata di quelle in essere. Oltre alla durata di queste misure, bisognerà decidere cosa fare delle imposte sospese: si inizia a pagare e basta o vengono in tutto o in parte cancellate?

Il governo – ammesso sia ancora in piedi ovviamente – dovrà decidere su questi e altri punti controversi, ma (giova ripeterlo) non è in questo momento che il ministero dell’Economia farà le barricate sui conti pubblici. Il clima però è già cambiato e, per spiegare come, useremo un articolo apparso ieri sul Corriere della Sera, a firma del vicedirettore Federico Fubini, che racconta come Gualtieri si stia muovendo in questo periodo: “Gualtieri capisce di essere fra due fuochi: garante in Europa per una maggioranza propensa a spendere per mascherare le proprie crepe; garante in Italia per regole e logiche europee che lui stesso non vuole smantellare. Da Bruxelles si segue lo spettacolo con una convinzione crescente: l’Italia sarà costretta a stare in riga, perché il Recovery Fund prevede vincoli che in Europa si intende applicare in modo stringente”. Tradotto. Il ministro, che alle istituzioni europee deve tutta la sua carriera, fa sapere a mezzo stampa che tra poco la ricreazione è finita: la Ue, per non bloccare gli assegni, pretenderà la sua libbra di carne in riforme e avanzi primari. Tutto già visto, ma niente che possa essere affrontato da una maggioranza raccogliticcia.

Cambiacasacca: Calenda è un po’ più Mastella del Mastella doc

Altro che politica, altro che pandemia: il duello sui massimi sistemi tra Carlo Calenda e Clemente Mastella pare scritto per la pagina Facebook “Io, professione mitomane”.

Lo apre il twittatore Calenda, che racconta un succoso retroscena sul dominus di Ceppaloni: “Anche io ho avuto l’onore di una telefonata del simpatico Clemente. Una roba tipo tu appoggi Conte e il Pd appoggia te a Roma. Scarsa capacità di valutare il carattere degli uomini. O quanto meno il mio #costruttori del nulla”.

Calenda ci tiene a far sapere di essere molto corteggiato dagli intrallazzoni al soldo del premier, ma lui mica è in vendita. La decisione di pubblicare questo ignobile tentativo di abbordaggio è sofferta, ma necessaria: “Ho riflettuto un giorno sul rendere pubblica una telefonata privata. E tuttavia considero questa offerta un insulto personale e un dato politico rilevante per capire il quadro di degrado in cui versiamo. Ps. non ho motivo di pensare che il Pd fosse a conoscenza di quanto detto”. Curioso: se il Pd non c’entra nulla – e in effetti il Pd smentisce con un certo ribrezzo – l’offerta quale sarebbe? Cosa c’è di rilevante, se non un allegro scambio di vedute tra due trasformisti con l’ego pronunciato? Calenda e Mastella sono della stessa pasta: hanno usato partiti e coalizioni come taxi, purché li portassero dove dovevano andare.

Dopo i tweet calendiani, Mastella replica con grazia: “Sei una persona di uno squallore umano incredibile. Ti ho telefonato per chiederti cosa facevi e mi hai detto che eri contro Renzi. Allora sei per il Pd? No, mi hai risposto: ‘il Pd mi dovrà scegliere per forza come candidato’”. Aggiunge un aneddoto: “Sei rimasto quello che conoscevo all’epoca del Cis di Nola, il referente per le segnalazioni. Ruolo modesto, perché sei moralmente modesto”. Il wannabe sindaco di Roma dirigeva il Centro ingrosso sviluppo campano, ambientazione splendida per questo duello politico un tanto al chilo.

Più tardi Mastella annuncia il ritiro: “Rinuncio, non vedo responsabili. Mi hanno attaccato sul personale”. Calenda esulta: “Dire le cose come stanno determina effetti positivi”. Un altro trionfo su Twitter per il Batman dei Parioli.

Al Senato si può governare anche senza “quota 161”

Qualcuno la chiama “soglia psicologica”, qualcun altro una semplice convenzione di prammatica politica (e quirinalizia). Il dibattito di queste ore – quelle della caccia ai “costruttori” che dovrebbero salvare il governo Conte II – è incentrato su un numero: 161. Matteo Renzi dice che senza quei voti al Senato il premier “non ha i numeri”. Una parte della maggioranza – i vertici Pd – e il Quirinale hanno fatto sapere al premier che superare lo scoglio dei 161 voti a Palazzo Madama sarebbe meglio per dare più forza all’esecutivo. Ma i costituzionalisti concordano sul fatto che la “soglia 161” sia puramente convenzionale, fatta risalire ai tempi di Giorgio Napolitano al Quirinale durante l’instabile governo Prodi II, e che per ottenere la fiducia non serva la maggioranza assoluta dei voti.

Secondo l’articolo 94 della Costituzione, infatti, la fiducia ai governi non richiede un voto rafforzato: basta che i “sì” superino i “no”. Non solo: in base al nuovo regolamento del Senato del 2017, le astensioni a Palazzo Madama non sono più equivalenti a un voto contrario ma vengono conteggiate come tali. Così martedì mattina al Senato, per incassare la fiducia, a Conte servirà che i favorevoli superino i contrari, quindi potrebbero bastare anche molti meno voti di 161. La probabile astensione di Italia Viva renderebbe sicura questa prospettiva. “Se un premier non va mai sotto in aula e non si è già dimesso, il Quirinale non può dirgli niente” spiega il costituzionalista e deputato dem Stefano Ceccanti.

La scelta di non inserire alcuna maggioranza rafforzata nel voto di fiducia fu molto dibattuta dall’Assemblea costituente. Il progetto originario della Carta prevedeva la maggioranza assoluta (a Camere riunite) ma il primo a porre obiezioni fu il liberale Aldo Bozzi il 24 ottobre 1947 il liberale: “Questa maggioranza assoluta è per noi eccessiva. Noi proponiamo di sopprimerla” disse. A lui si affiancò il grande giurista democristiano Costantino Mortati che intervenne proprio sul dibattito odierno: “Con la fiducia a maggioranza assoluta, nel risolvere una crisi, si renderebbe più debole la compagine del ministero – disse Mortati – perché dovendo contare su un maggior numero di consensi, sarebbe costretto ad includere nel suo seno elementi di maggiore eterogeneità e, quindi, perdere di compattezza”. Alla fine fu lasciata la maggioranza semplice per il voto di fiducia.

Così nella storia repubblicana ci sono stati ben 12 precedenti di governi che non sono partiti con la maggioranza assoluta, cosiddetti “di minoranza”. Due di Alcide De Gasperi (il IV 1947-1948 e il VII 1951-1953), due di Amintore Fanfani (II 1958-1959 e IV 1962-1963), due di Giovanni Leone (I e II del 1963 e 1968), il governo Andreotti III (1976-1978), Cossiga I (1979-1980), Ciampi (1993-1994), Berlusconi I (1994), Dini (1995-1996) e D’Alema II (1999-2000). I “governi di minoranza” spesso hanno fatto da apripista a nuove fasi politiche: il “centrosinistra organico” con il coinvolgimento del Psi all’inizio degli anni Sessanta, la solidarietà nazionale Dc-Pci negli anni del terrorismo (dal 1976 in avanti) e il Pentapartito degli Ottanta. Oggi in Europa ci sono altri due governi di minoranza: quello spagnolo del socialista Pedro Sanchez in piedi da oltre un anno (167 voti di fiducia contro 165), grazie all’astensione di 18 indipendentisti catalani e quello svedese del socialdemocratico Stefan Löfven che due anni fa ha ottenuto la fiducia con 115 sì su 349 deputati e 77 astensioni di centristi, verdi, liberali.

Ma il governo Conte, in caso di fiducia di minoranza, avrebbe comunque un problema politico. Sia perché i voti sullo scostamento di bilancio richiedono la maggioranza assoluta (ma Iv ha annunciato che dirà sì), sia perché nei prossimi mesi dovrà affrontare grandi sfide come il Recovery Fund che richiedono una maggioranza compatta. “È così – conclude Ceccanti – ma primum vivere: come diceva il sindacalista Pierre Carniti sono sempre preferibili le brutte vittorie che le belle sconfitte”.

I voltagabbana sono già 150 in tre anni

La categoria politica del trasformismo fu teorizzata per la prima volta da Agostino Depretis nel discorso di Stradella dell’8 ottobre 1882, ma a spiegare il fenomeno ci pensò Giulio Andreotti con una delle sue folgoranti battute. L’allora presidente del Consiglio della Dc, che riuscì a formare ben sette governi alternando le maggioranze a seconda della convenienza politica, a chi lo accusava delle sue spregiudicate manovre (la strategia dei due forni, Psi o liberali), rispose paragonando la carriera politica a una sala cinematografica: “Chi entra in sala deve sistemarsi nel primo posto libero che trova; poi appena fa meno buio, o tra il primo e secondo tempo, potrà spostarsi verso una poltrona migliore, da cui vedere meglio”. E così è stato, da sempre, nella storia dell’Italia unitaria.

Oggi, con la crisi del governo Conte II aperta da Matteo Renzi, il “trasformismo” è tornato alla ribalta: per sostituire i voti dei renziani in uscita, Pd e M5S stanno cercando una dozzina di senatori per tenere in piedi la maggioranza. Quelli che dal 2010 in poi – quando Antonio Razzi, Domenico Scilipoti e Sergio De Gregorio salvarono il governo Berlusconi – sono stati chiamati “responsabili”, oggi, con un gioco lessicale utile a nobilitarli, sono i “costruttori” guidati da vecchie volpi della politica (soprattutto democristiana) come Bruno Tabacci a Clemente Mastella. E così, mentre proseguono le trattative dicibili e indicibili, infuriano le polemiche sui “trasformisti” tanto odiati dal M5S della prima ora, sulle “maggioranze raccogliticce”, piovono accuse di “scilipotismo” nei confronti dei giallorosa , si scomoda la manzoniana “accozzaglia” e rispuntano come funghi i video di Beppe Grillo che irride Mastella e di Vito Crimi e Luigi Di Maio che proponevano il vincolo di mandato per i “traditori del popolo”. Epperò in pochi notano che tutte le ultime legislature sono state contagiate dal virus dei cambi di casacca. Ma (quasi) nessuno ha mai detto niente.

Quota 150. Ieri il numero tondo è stato raggiunto: con il passaggio dei deputati Vito De Filippo da Iv a Pd e dell’ex M5S Antonio Zennaro dal Misto alla Lega, secondo i dati di Openpolis, in questa legislatura i cambi di gruppo parlamentare sono arrivati a quota 150 per un totale di 136 parlamentari passati dalla forza politica con cui erano stati eletti a una diversa, spesso opposta. Di questi, 29 sono avvenuti durante il governo Conte I (Lega-M5S) mentre i restanti 121 durante il Conte II (Pd-M5S- LeU-Iv). E se un alto numero di cambi di casacca era stato favorito dal passaggio da una maggioranza all’altra, nemmeno il Covid ha fermato i voltagabbana: solo nel 2020 i transfughi sono stati 57 (18 deputati e 39 senatori). Una media di 5 al mese.

M5S svuotato. Questa legislatura, va detto, risente fortemente dell’alto numero di deputati e senatori – inizialmente 51 – che hanno cambiato gruppo nel settembre 2019 dopo la scissione di Matteo Renzi dal Pd e la formazione di Italia Viva. Escludendo la diaspora renziana, chi ha beneficiato di più dei cambi di casacca sono il Gruppo Misto diventato il quinto in Parlamento guadagnando 45 membri da inizio legislatura (29 alla Camera e 16 al Senato) e la Lega con un saldo attivo di 9 parlamentari (5 a Montecitorio e 4 a Palazzo Madama). Chi invece ne ha persi di più sono il Pd (-35) ma soprattutto il M5S (-55, di cui solo 33 nel 2020). La maggior parte di essi non ha lasciato autonomamente il gruppo ma è stato espulso per aver violato le regole interne del M5S: è il caso del deputato genovese Marco Rizzone che aveva chiesto il “bonus Iva” o del senatore Mario Michele Giarrusso per le mancate restituzioni. Alcuni di questi voti, oggi, sarebbero molto utili al Senato per il governo Conte. Ma i 5 Stelle in questa legislatura hanno raggiunto un altro record negativo: in ogni gruppo dell’arco parlamentare, escludendo le minoranze linguistiche, oggi si trova un transfugo del M5S. Si va da Paolo Lattanzio e Michele Nitti entrati nel Pd a Ugo Grassi e Alessandra Riccardi nella Lega, passando per Paola Nugnes e Rita Di Lorenzo in LeU. Ma qualcuno ha aderito anche ad Azione (le deputate Flora Frate e Nunzio Angiola), Italia Viva (Gelsomina Vono), Fratelli d’Italia (Davide Galantino), il Maie (Antonio Tasso e Andrea Cecconi) e Forza Italia (Matteo Dall’Osso).

Transfughi renziani. Oggi Renzi grida allo scandalo del governo “Conte-Mastella”, ma i primi “Scilipoti” sono proprio i 30 deputati e 18 senatori di Iv perché eletti nel 2018 sotto le insegne del Pd. Dei 17 senatori renziani (il diciottesimo, Riccardo Nencini, è del Psi), 14 sono stati eletti con i dem. Vincenzo Carbone e Donatella Conzatti invece vengono da FI, mentre Vono è arrivata dal M5S. Alla Camera, invece, IV ha portato via 24 deputati al Pd e 6 agli altri partiti: qualcuno viene dal centrodestra, come Francesco Scoma e Davide Bendinelli (FI) o Gabriele Toccafondi (Alternativa Popolare, ex partito di Angelino Alfano), mentre due arrivano da LeU,Michela Rostan e Giuseppina Occhionero. Infine c’è Catello Vitiello: cacciato dal M5S prima del voto del 2018 perché si scoprì “massone in sonno”, Vitiello è rimasto folgorato sulla via di Rignano dopo un anno e mezzo passato nel Misto.

I re dei trasformisti. Oltre a Vitiello e Rostan (passata dal Pd a LeU proprio perché critica con Renzi, quindi entrata in Iv), nella legislatura in corso c’è anche chi non si è accontentato di cambiare gruppo una volta sola ma ha deciso di raddoppiare. I deputati Nicola Carè e Vito De Filippo sono tornati all’ovile passando dal Pd a IV e ritorno. Sono tornati a rispettare la volontà dei propri elettori. Campioni dei cambi di casacca invece sono Lattanzio, passato dal M5S al Misto e dopo cinque mesi nel Pd per il mancato sostegno dei grillini a Michele Emiliano in Puglia, ed Enrico Costa, pasdaran iper-garantista eletto nel 2018 con “Noi con l’Italia” (centrodestra), poi tornato in FI e quindi in “Azione” di Carlo Calenda.

Cinque cambi al mese. La legislatura attuale è ancora lontana, come numero di transfughi, dalla scorsa (2013-2018) quando i cambi di casacca sono stati 569 per un totale di 348 parlamentari. Uno su tre con una media di quasi 10 passaggi di gruppo al mese. La media dei transfughi dell’attuale legislatura – 5 cambi ogni 30 giorni – è la seconda più alta negli ultimi vent’anni: sopra la XIV (2001-2006) che ne aveva 1,35 al mese e alla XVIII (2008- 2013) con 4 passaggi ogni 30 giorni.

I renziani hanno più titoli su giornali e tv che elettori

C’è modo e modo di raccontare la crisi di governo. Uno di questi, che pare essere quello privilegiato dai grandi editori, è quello di offrire un microfono a Matteo Renzi e ai suoi. Il Fatto ha raccontato come dal 5 dicembre, giorno delle prime minacce di Italia Viva, i giornali nazionali abbiano pubblicato oltre 70 interviste a esponenti renziani, replicando gli avvisi di sfratto a Giuseppe Conte. Chi ritiene che la crisi sia stata allora un’occasione per ritrovare centralità – anche mediatica – per Renzi, può trovare nuovi argomenti anche dall’analisi di Mediamonitor.it sviluppata col software Cedat85, che testimonia come la presenza su stampa e tv di Renzi abbia surclassato quella di ogni altro politico.

Il rapporto di Mediamonitor scandaglia oltre 1.500 fonti tra giornali, siti, radio, tv e blog ed è in grado di registrare il numero di citazioni – menzioni e interviste – per ciascun politico. I numeri dimostrano un dominio di Matteo Renzi iniziato in dicembre ed esploso questa settimana, quando ha staccato Conte: 1.087 citazioni contro le 641 del premier su radio e tv, 5.595 su tutti i media contro 3.796. Dietro di loro vola anche la ministra dimissionaria Teresa Bellanova, al terzo posto tra tutti i politici con 2.141 citazioni, davanti persino al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (1.813 menzioni). Di ministra in ministra, guadagna ampio spazio anche Elena Bonetti, quinta con 1.513 citazioni. Parliamo dunque dei giorni più caldi della crisi, con rilevazioni che vanno da lunedì a venerdì della settimana appena trascorsa. A dimostrazione di quanto siano stati marginali i partiti di maggioranza nel racconto della crisi, ci sono i dati sui principali esponenti di Pd e M5S. Nicola Zingaretti è solo settimo tra i politici (poco più di 1.400 menzioni), superato pure dal sempreverde Matteo Salvini, sesto e amatissimo dalle televisioni anche quando la Lega non dovrebbe essere il fulcro dell’agenda mediatica, tanto è vero che in tv l’ex ministro è terzo per citazioni da lunedì. Tornando al totale, il poco peso mediatico dei Cinque Stelle è testimoniato dall’ottavo posto di Luigi Di Maio (1.200 menzioni), con il capo politico Vito Crimi che è addirittura diciassettesimo e il ministro Alfonso Bonafede 23esimo, dietro pure all’ex presidente della Corte costituzionale Marta Cartabia, da qualcuno indicata come possibile futuro premier.

Come detto, i dati dell’ultima settimana fanno rima con la tendenza di tutto il mese, quando Italia Viva ha iniziato a dominare giornali e tv. Il rapporto Mediamonitor sul periodo 12 dicembre-11 gennaio, quindi appena prima dello strappo definitivo, registra 9.138 menzioni per Matteo Renzi, a fronte delle 8.754 che riguardano il presidente del Consiglio. Non a caso, tra i temi più menzionati sugli organi di informazione ci sono “Recovery Plan”, citato 10.438 volte e oggetto di aspre critiche da parte del leader di Iv, poi “rimpasto” (7.440 volte) e infine il “Mes” (6.630), a lungo sbandierato da Renzi come rimedio ai pochi vaccini (quando la campagna doveva ancora iniziare), alle carenze del piano pandemico e persino alla voragine nel parcheggio dell’Ospedale del Mare, a Napoli. Il tutto col placet dei principali media.

Dimissioni, rimpasto e altre pretese: la lunga lista dei dem

Sono due le fasi della crisi secondo il Pd, come spiegherà oggi il segretario, Nicola Zingaretti, durante la direzione. La prima, superare il voto di fiducia domani alla Camera e martedì in Senato. La seconda, dare una forma politica all’operazione. Che significa patto di legislatura, agenda delle riforme, miglioramento dell’azione di governo. Tutte cose che passano per dimissioni di Giuseppe Conte, reincarico, rimpasto.

La mossa di Matteo Renzi di astenersi ha complicato nuovamente il quadro. Si è fermata l’operazione di svuotamento del gruppo di Iv che stavano portando avanti i dem. Raccontano che Riccardo Nencini e Annamaria Parente, i due presidenti di Commissione sulla via del Nazareno, quando hanno capito che avrebbero dovuto lasciare il loro incarico, hanno iniziato a ripensarci. “Riusciamo a prenderne 5 o 6, ma dopo la fiducia”, spiegano i dem di Palazzo Madama. Offerte insufficienti? “Per ora, se si spostano lo fanno sulla base delle loro convinzioni”. Che non bastano.

Il pallottoliere del Nazareno ieri si fermava a 150-152 “sì”. Abbastanza per tenere in vita il governo, ma troppo pochi per poter governare. Così si è ricominciato a parlare dell’ipotesi di appoggio esterno dell’ex premier. Per ora ci sono le barricate tra i big del Pd: né Nicola Zingaretti, né Dario Franceschini, né Andrea Orlando, in primis, sono disposti a prendere in considerazione l’ipotesi. “Con l’apertura della crisi da parte di Iv si stanno determinando condizioni sempre più difficili per garantire un governo adeguato al Paese”, avvertiva una nota del Pd ieri sera. Dunque, “in aula, ciascuno si prenda le sue responsabilità”. Un tentativo di chiudere a Renzi, ma di aprire ai suoi. Andrea Marcucci, però, capogruppo in Senato, sta esplicitamente lavorando per ricucire con il fu Rottamatore. Altri, come Graziano Delrio, capogruppo alla Camera, soppesano i rischi di non farlo. Non secondari i numeri con i quali effettivamente passerà Conte.

Comunque vada martedì, un minuto dopo si apre una nuova partita. Dal Nazareno spiegano che non c’è bisogno che tutto si risolva subito. Ma che serve un governo politico forte. Non è ancora il momento di discutere di posti, ma di certo il Pd punta a un ruolo forte nella gestione del Recovery Fund (la governance è rimasta fuori dalla riscrittura del piano), magari attraverso un sottosegretario a Palazzo Chigi (che dovrebbe essere lo stesso Orlando). E poi, il partito resta convinto che Conte debba lasciare la delega ai Servizi. In fondo, il ridimensionamento del premier era il motivo per cui Renzi era stato mandato avanti.

Ieri Paolo Gentiloni, Commissario agli Affari europei ha avvertito: “L’indicazione per tutti i paesi è quella di mantenere una politica di bilancio espansiva e di supporto all’economia”, ma bisogna evitare il rischio “che un Paese come l’Italia possa avere una spesa pubblica senza limiti”. Un avvertimento. Che va insieme a un altro: “Ovviamente la Commissione si augura di avere un interlocutore stabile”. Ed è proprio questo il punto su cui si riflette al Nazareno: se Conte non riuscirà a dare una forma convincente alla sua operazione, il governo che esce dalla fiducia del Parlamento si trasformerà in un esecutivo elettorale, per portare il paese al voto prima dell’estate. Perché per Zingaretti non ci sono altre opzioni. In un clima così teso e incerto, le ipotesi di altri scenari avanzano. E se Renzi continua a lavorare per un altro premier, nel Pd c’è chi pensa che trovi ancora sponda nei Cinque Stelle. Così come tra i dem l’idea non è esclusa da tutti. Mentre c’è chi è convinto che il vero obiettivo del segretario sia il voto.

Intanto tra i deputati di Iv uno è tornato nei dem: il lucano Vito De Filippo. Era prevista per ieri pomeriggio la riunione dei gruppi renziani. Ma il leader l’ha rimandata a stasera: aspetta la direzione Pd per capire se ci sono margini per ricucire.

Conte, ora la caccia si complica. Sospetti dei 5Stelle sul solito Pd

I conti non tornano, perlomeno se si punta a quota 161 voti: e non è neppure strano, se te la devi vedere con maturi democristiani e con parlamentari che nel Gruppo misto nuotano come pesci nel mare. Così Giuseppe Conte insiste. Passa il sabato al telefono per chiedere e consultare, e fa di conto in vista del voto di fiducia di martedì in Senato, la vera prova dei numeri. Sa che a Palazzo Madama la maggioranza assoluta non la prenderà, e che il conto è fermo attorno ai 154 sì. Casomai si può fare alla Camera, domani. “Ma a oggi non siamo sicuri neanche di quella, ci manca qualche voto per arrivare a 316 sì”, dicono voci dal Movimento. Nervosi e già quasi esausti, i Cinque Stelle sospettano: nel dettaglio del Pd, “perché i dem avevano promesso di riprendersi un po’ di renziani e invece si sono fermati, perché vogliono fregare Conte”. Cioè riaverlo salvo, ma non rafforzato dalla conta.

Così è anche se non vi pare, dentro i giallorosa che cercano di sopravvivere e a cui Matteo Renzi ha complicato i piani, annunciando l’astensione di Italia Viva nelle votazioni di domani e martedì alle Camere. Lo ha fatto per compattare i suoi, certo, ma anche “per tenersi le mani libere e vedere che succede” riassume un big del M5S. Così in ansia da dirlo: “Qui finisce che Iv rientrerà in gioco a breve”. Previsione azzardata, almeno per ora. Ma che fa rima con le parole a Tgcom24 di un professionista come Clemente Mastella: “Più che i Responsabili, all’orizzonte vedo un Conte ter con dentro Iv”.

Nell’attesa sono certe le preoccupazioni del Movimento, dove ieri il reggente Vito Crimi e il capo delegazione Alfonso Bonafede hanno riunito i direttivi delle Camere pe ribadire l’addio a Renzi e il sostegno al premier. Ma il punto resta quello, i grillini sono convinti che i dem stiano tirando indietro la gamba per tenere Conte sotto quei 161 voti che vorrebbero dire maggioranza assoluta e quindi un segnale di solidità politica. Meglio una maggioranza semplice e magari un po’ risicata, per convincere poi il premier a fare ciò che ha sempre rifiutato: ovvero a dimettersi per costruire un Conte ter con una squadra di governo molto diversa. Ciò che si augura l’ex 5Stelle Saverio De Bonis, ora utilissimo membro del Maie: “Se Conte prende la fiducia ci sarà una crisi lampo e il presidente dovrà riformulare la squadra di governo”. Cioè ricompensare chi va ricompensato. E comunque se la strada si è fatta di nuovo in salita lo si deve innanzitutto all’Udc, che da giorni tratta con due forni, e che ieri pare averne chiuso uno: “Non ci prestiamo a giochi di palazzo e stiamo nel centrodestra”. Almeno tre voti che se ne vanno. Ma perché? Fonti trasversali raccontano che Lorenzo Cesa avrebbe chiesto l’impegno formale per un ministero ai suoi e soprattutto le dimissioni di Conte prima di martedì, per un immediato Conte ter. Ma gli emissari del premier avrebbero risposto picche. Ricostruzione che da Palazzo Chigi, va detto, smentiscono. Però di sicuro l’Udc serviva, anche per attirare altri voti, da Forza Italia.

Così il flop della trattativa con gli ex dc ha congelato certi sorrisi a Chigi. Da dove ripetono che con Renzi non si potrà mai ricucire. E soprattutto, che Conte di dimettersi non vuole saperne, né ora né a medio termine. Ma senza maggioranza assoluta, come si fa? “Ci arriveremo più avanti”, dicono. Prima bisogna blindare il voto di fiducia. Così non può stupire che la Lega, nonostante la smentita di Matteo Salvini (“Non cerchiamo nessuno”), continui a contattare grillini.

Dal M5S narrano di emissari di Giancarlo Giorgetti che lanciano battute. Mentre ieri alla Camera, l’ex 5Stelle Antonio Zennaro è passato proprio al Carroccio. Scaramucce a margine della battaglia, difficile. Lo conferma Luigi Di Maio, che fa trapelare di essere contrario a “compromessi di bassa cucina” e invoca “un ambizioso progetto politico che porti l’Italia fuori dalla crisi”. Altrimenti “l’unica strada sarebbe il voto”.

Un ultimo appello ai Responsabili, con un occhio anche a FI. Dove qualcuno che ascolta c’è, ma chissà se potrà muoversi.