Gli irresponsabili

Più passano le ore, più appare chiaro che dietro l’Innominabile sfasciacarrozze c’era (e c’è) un bel pezzo del Pd, che l’ha usato (e lo usa) come piede di porco per liberarsi di Conte, o almeno per sfregiarlo. Il primo atto della congiura è andato maluccio, con i pifferi di montagna partiti per suonare e finiti suonati. Ma ora è iniziato il secondo. Basta leggere le stomachevoli interviste di Orlando, Marcucci e altri vedovi inconsolabili del rignanese. “Mai dire mai” (oh, sì, dài, rottàmaci ancora che ci piace tanto!), “la fiducia non basta, allargare alle forze europeiste” (cioè a FI), “ci vuole il Conte ter” (così sarà lui a comunicare alla De Micheli che deve sloggiare per far posto a Orlando, e non il Pd che trema alla sola idea), “non moriremo per Conte” (detto da chi, prima di Conte, era morto e sepolto) e altre scemenze. Che, tradotte in italiano, vogliono dire una cosa sola: se martedì il premier salva il governo, poi non lo ferma più nessuno; quindi meglio umiliarlo in Senato, dissuadendo i “responsabili” che fino all’altroieri arrivavano a frotte, convinti di essere indispensabili (e subito) dal “mai più con Renzi” di Zinga. Una linea tetragona come una trottola, solida come un budino e ferma come una gelatina, subito smentita da due o tre delle tribù libiche chiamate “Pd”. La sponda ideale per l’Innominabile che, ormai ridotto alla mendicità, ha tamponato l’emorragia interna col semplice annuncio dell’astensione sul premier che l’altroieri era un “vulnus per la democrazia”, pronto a risedersi al tavolo giallorosa come se nulla fosse.

Così, per non fare un governo coi responsabili, se ne farebbe un altro con gli irresponsabili. Ovviamente senza Conte, che ha detto e ripetuto “mai più con Iv” e, diversamente dagli altri, è uomo di parola. Le tribù pidine che detestano la sua popolarità potrebbero finalmente rimpiazzarlo con un Guerini o altri noti frequentatori di se stessi. E tornare ai loro giochini sadomaso sotto la frusta del pluritraditore. A questo punto non si vede perché Conte dovrebbe consentire a questi doppio e triplogiochisti senza faccia di giocare con la sua. Se oggi la Direzione Pd non uscirà con un no chiaro e definitivo al richiamo della foresta renziano, tanto vale che domani si presenti dimissionario alle Camere. Anziché andare al macello per conto terzi, saluti tutti e torni al suo lavoro (avendo la fortuna di averne uno). Così gli italovivi e gli spingitori di italovivi che ci hanno trascinati in questo disastro potranno mostrarci le loro mirabilie. Quando poi si voterà, la forza dei sondaggi costringerà Conte a fare ciò che non ha mai voluto fare: un’iniziativa politica con i 5Stelle o al loro fianco per non regalare l’Italia agli irresponsabili di destra e di centrosinistra.

Moro (Tommaso) meglio di Machiavelli. Violante analizza gli errori in politica

Creonte, nel suo conflitto con Antigone, è il personaggio principale, ma non l’unico. In un continuo rimando alla storia, Luciano Violante, ex presidente della Camera, figura di rilievo del Pci poi Pds e Ds (meno del Pd), percorre in lungo e largo la politica e il diritto in un manuale originale di etica politica. L’obiettivo è spiegare i tre principali errori della politica: “Aprire un conflitto che non si è capaci di governare, sopravvalutare le proprie capacità, essere arroganti”. Sembra di vedere in azione i protagonisti dell’attuale scontro politico, a cui la lettura del libro farebbe bene, a uno in particolare. Che non è l’oggetto del testo, anche se di Matteo Renzi si ricorda la “sopravvalutazione di se stesso” avvenuta nella partita, per lui mortale, del referendum costituzionale del 2016.

Ma gli esempi del volumetto sono davvero tanti e si dipanano in una sequenza che affronta la gestione dei conflitti, avendo cura di non esasperarli, la sopravvalutazione di se stessi (altro esempio recente, Matteo Salvini nel 2019), “la gabbia dell’ira”. Nel capitolo sul “saper dirigere” si volge lo sguardo all’epoca in cui i partiti curavano “la formazione politica”, erano comunità e costruivano cultura politica gran parte della quale “si è dispersa dal 1989 al 1994”. E in questi trent’anni in cui si è affermata la cultura dell’“anticasta” le èlite, piuttosto che esercitare una funzione di direzione, si sono rifugiate nella nostalgia, in una superiorità aristocratica e nel “politicamente corretto”. Errori su errori, anche questi. Violante offre almeno infine uno spunto interessante: nella diffusa esaltazione di Machiavelli e delle sue lezioni, ricorda che la politica della persuasione di Tommaso Moro è superiore a quella basata sul comando del fiorentino, per quanto a volte questa possa portare a dei successi. Ed è bene che “il politico sappia ricorrere al comando con parsimonia e sia invece generoso nel ricorso della persuasione”. Consigliato a chi sapete voi.

Insegna Creonte, Luciano Violante, Pagine: 160, Prezzo: 12, Editore: Il Mulino

 

Oltre la Memoria, “Un’autrice e basta”

“Non mi considero una scrittrice della Shoah visto che appartengo a coloro che sono vissuti in quel periodo e si sono salvati”. Lia Levi, 90 primavere il prossimo 9 novembre, in effetti non ha mai indagato l’orrore dei campi di concentramento. O meglio, lo ha indagato isolando nelle sue storie il prima con il travaglio morale e i tentativi di fuga e il dopo con gli incubi della memoria e la vita quotidiana dei sopravvissuti.

La sua produzione (una cinquantina di titoli tra romanzi per adulti e letteratura per l’infanzia) sconta un’approssimazione che, dentro la retorica pur nobilissima del Giorno della Memoria, spesso la relega a mera testimonianza. Lia Levi è anzitutto una scrittrice. Non licenzia le sue pagine sul filo di un premeditato engagement perché a dominarla è la passione per la fabula. In altre parole: è la realtà reinventata dalla letteratura la sua unica bussola. I temi che affronta certo coincidono con uno dei frangenti più drammatici della nostra storia nazionale ma la vocazione è sempre romanzesca ed è quella semmai che assume valore documentale.

In libreria, fresco di stampa per e/o, si aggiunge Ognuno accanto alla sua notte. Come in un ideale mosaico suddiviso in pezzi da incastrare, l’autrice ritorna alla Roma fascista funestata dalle leggi razziali e mette in scena tra gli altri un conflitto generazionale sulle responsabilità dei padri ebrei di non aver fiutato e magari sventato il pericolo. L’ossessione dell’autrice si rinnova anche con Il giorno della memoria raccontato ai miei nipoti, testo dedicato ai lettori più piccoli che esce per la storica collana Il battello a vapore di Piemme. Nel suo Questa sera è già domani, che gli studenti dello Strega Giovani hanno premiato nel 2018, si legge: “Per un ebreo la memoria è uno strumento più forte e lancinante che in ogni altra persona”. Ecco, la memoria spiega allo stesso tempo biografia umana e letteraria.

Lia Levi nasce a Pisa nel 1931 da una famiglia piemontese di origine ebraica. Vive all’età di sette anni l’infamia della discriminazione razziale. Dopo l’8 settembre 1943 riesce a salvarsi dalle deportazioni nascondendosi con le sue sorelle in un collegio romano di suore. Alla fine della guerra è la madre a redimerla da ogni pregiudizio: “Lia, tu non sei una bambina ebrea. Sei una bambina e basta”. Non a caso il debutto della scrittrice, nel 1994, si intitola Una bambina e basta. Il libro è oggi un classico, tra i più adottati nelle scuole. Del resto il timbro stilistico dell’autrice è consacrato alla semplicità: concetti brevi, parole chiare. “La semplicità è una complessità risolta” ama dire Levi citando lo scultore Brancusi. Una bambina e basta è uno dei primi testi ad affrontare il trauma che le persecuzioni ebbero sui bambini ebrei in Italia, anche tra coloro che non furono deportati nei lager, costretti a lasciare le loro case e a vivere nascosti nel terrore, spesso separati dai genitori. “A Torino frequentavo una scuola pubblica. Un giorno mia madre mi disse che non potevo più andarci. Non mi spiegò le ragioni ma nell’atmosfera di artificiosa normalità che celava ciò che stava accadendo, io percepivo l’angoscia. Così ho conosciuto il mondo”.

La ferita resta aperta nella vita adulta e si riacutizza alla metà degli Anni 90 quando l’autrice abbandona la carriera giornalistica per dedicarsi alla narrativa nell’infelice condizione di rendere testimonianza delle leggi razziali del 1938 in un clima a suo dire teso alla minimizzazione. Nel 1967 aveva fondato il mensile di informazione e cultura ebraica Shalom, diretto per trent’anni con la missione di spiegare le ragioni dello Stato di Israele. La rivista, tra l’altro, fu tra le prime a dare spazio ai grandi scrittori ebrei: Roth, Singer, Yehoshua.

Nel suo appartamento che affaccia su una delle più belle piazze di Trastevere a Roma, Lia Levi – che usa l’Ipad ma scrive i suoi testi rigorosamente a mano – è una donna che sfida la sua veneranda età attraversando instancabile la penisola con le sue sneaker bianche e casacche floreali. Un’esistenza intera consacrata a tessere un filo capace di passare dalla grande storia alla storia che si fa piccola, che entra nella coscienza delle persone, nei corridoi delle case, e che da lì torna a farsi grande, in un circolo continuo.

Roma bagnata dal sangue dei rei: “Er Fiocina” uccide pedofili e stupratori

Il Male, con la maiuscola, è davvero irreversibile? È il classico domandone destinato a rimanere senza risposta, a meno che non si voglia fare un infinito dibattito filosofico e teologico. Nel frattempo c’è spesso qualcuno che vuole risolvere la questione a modo suo, per niente fiducioso della giustizia terrena o divina. È l’epica tragica del giustiziere, acclamata dalla pancia del populismo bue, una sorta di Salvineide formato noir. Ed è partendo da questo assunto che Roberto Cimpanelli, produttore e regista cinematografico di successo, ha costruito il suo thriller d’esordio La pazienza del diavolo, in uscita in questi giorni. Un romanzo infernale non solo per il titolo.

A Roma, infatti, c’è un serial killer con maschera bianca, trench e treccia grigia che sbuca dal cappellino, che infiocina con un fucile da sub pedofili e maschi violenti che l’hanno fatto franca. Una carneficina. Uno dopo l’altro vengono ammazzati uomini spregevoli, portatori malati d’orrore che hanno mietuto vittime tra bimbi e donne. Er Fiocina sembra imprendibile, ma una traccia c’è. Tutti i suoi omicidi riguardano casi di due poliziotti, Ermanno D’Amore e Walter Canzio. Il primo, protagonista del romanzo, ha lasciato la divisa. Si è messo a fare il libraio e coltiva il sesso compulsivo: unico rimedio per combattere i demoni di un’altra storia finita male. Quella di due bimbe squartate anni addietro. La soluzione era a portata di mano, ma D’Amore non era convinto. Di qui un incubo senza soste, interrotto solo da scopate quotidiane, e la rottura con l’amico Walter. Ma i due si ritrovano a causa di Er Fiocina e con loro c’è anche il vecchio commissario Brugliasco. Il ritmo è incalzante e ogni pagina è una sorpresa o quasi, un vero ottovolante del Male.

La pazienza del diavolo – Roberto Cimpanelli, Pagine: 440, Prezzo: 18, Editore: Marsilio

Un amore di Petra: indagini, mariti e mamma Callas

Sigillata nella stanza di un monastero della Galizia per una settimana, via dalla frenesia, Petra Delicado scrive la sua autobiografia su quaderni scolastici a righe. “Ero venuta per riposare, per dimenticare un presente pieno di attività, di gente, di problemi da risolvere” confessa l’ispettrice di polizia nata dalla penna della 69enne spagnola Alicia Giménez-Bartlett, e invece si trova in preda a un’inaspettata febbre memorialistica.

La Camilleri iberica, così l’han definita i media, concede al suo personaggio più caro, cuore di un ciclo poliziesco di enorme successo (in Italia sono undici i volumi pubblicati da Sellerio con Petra protagonista, quasi due milioni le copie vendute e per Sky è uscita una miniserie con Paola Cortellesi), la chance di mettersi a nudo firmando un memoir. Una scelta nient’affatto comune. “Forse avrei fatto meglio a prendermi una pausa anche da me stessa”, si dice l’eterna quarantenne che non invecchia mai, un po’ come Poirot, già pensionato nel 1920 ma attivo fino al 1970, ma poiché fuggir da se stessi non si può, visitare il passato diventa strategia per sciogliere nodi e aprire finestre.

L’opera, godibile e scanzonata ma non superficiale, attraversa la vita di Petra, nel cui nome ossimorico risiede l’indole, tanto solida, forte, volitiva quanto sensibile e vulnerabile, dall’infanzia a scuola dalle suore (proprio lei, figlia di anticlericali e senza fede sin da bambina) fino all’università, dall’avvocatura al concorso per diventare poliziotta, dal primo impiego in un centro documentazione (essere donna, per di più colta, non sempre aiuta) fino all’agognato ruolo d’ispettore a Barcellona. La polpa, però, sono i sentimenti, gli affetti, le relazioni, per lei materia da sempre incandescente.

Terza di tre femmine, nata in una famiglia di antifranchisti, cresce convinta che la madre, ingombrante e severa ma “grandiosa, un mix tra Anna Magnani, Irene Papas e Maria Callas”, da cui eredita una sana vena femminista, non l’amasse incondizionatamente ma “nonostante”. Nonostante fosse nata quando lei era già attempata, a distanza di dieci anni dalla sorella di mezzo, scombussolando piani di libertà e abitudini consolidate. Petra diffiderà così degli amori assoluti e allo stesso tempo, essendo una contraddizione vivente, ricevere amore costante le sembrerà “un fenomeno connaturato col mio stare al mondo”. L’amore coinciderà spesso, per lei, con una dimensione di tormento, smarrimento, avvelenamento. “L’amore dissolveva gli elementi costitutivi della mia persona e mi trasformava in un essere amorfo, malleabile, subalterno”. Irritante il primo marito Hugo, avvocato carrierista arido ed egoriferito, che ne spegne ogni entusiasmo; bisognoso più di una madre che di una compagna il secondo, il giovane oste Pepe. La solidità di coppia, che origina dall’indipendenza, giungerà solo con l’architetto Marcus.

E il rapporto col viceispettore Fermín Garzón, con cui Petra forma una diade (im)perfetta, giocata sul pungente e ironico scontro tra sessi e simbolicamente rappresentativa dei due volti della Spagna democratica, urbana, progressista, ribelle quella di Petra, rurale, conservatrice e tradizionalista quella di Fermín? Anima le ultime pagine, quelle più sentite perché riservate a un legame che alla passione ha preferito la complicità amicale.

Autobiografia di Petra Delicado – Alicia Giménez Bartlett, Pagine: 464, Prezzo: 15, Editore: Sellerio

“Dawson’s Creek”, dopo 23 anni torna il teen drama con Katie Holmes

A riguardare oggi la prima scena di Dawson’s Creek, con Joey e Dawson che discutono dei loro “genitali” come fossero una coppia di trentenni, sembra incredibile… Eppure è proprio così: la serie inizialmente fu criticata perché si parlava troppo di sesso (ovviamente se ne parlava e basta). Era il 1998 e nel frattempo è passata parecchia acqua sotto i ponti del teen drama. Grazie ai bulli di Tredici, agli assassini di Elite, ai drogati di Euphoria abbiamo scoperto che l’adolescenza non è poi così bella. Certo: anche i ragazzi di Dawson’s Creek avevano i loro problemi. Erano confusi e incasinati, alcuni avevano famiglie difficili alle spalle. La serie, poi, fu tra le prime ad affrontare temi tabù come l’omosessualità e il disturbo mentale. Ma quell’adolescenza era carica di sogni e speranze, un periodo in cui tutto era ancora possibile. Questa, invece, è un incubo: come dice chiaro e tondo Leah in The Wilds, l’ultimo teen drama in ordine di tempo, “il vero inferno è essere una teenager”.

A 23 anni dall’uscita negli Stati Uniti Dawson’s Creek è tornata: tutte e sei le stagioni, 128 episodi in totale, da ieri sono disponibili su Netflix. Un’occasione imperdibile per riscoprire il bravo ragazzo Dawson, la romantica Joey, il ribelle Pacey e la disinibita Jen, i quattro protagonisti di quello che è stato il teen drama dei primi anni Duemila (dopo Beverly Hills 90210 e prima di The O.C.).

E per rivivere il triangolo amoroso che salvò la serie, perché dopo l’addio del creatore Kevin Williamson gli ascolti erano in picchiata e ci voleva un’idea. Ci sbilanciamo in una facile scommessa: Dawson’s Creek impiegherà pochissimo a scalare la classifica dei titoli più visti sulla piattaforma. Più interessante, invece, capire chi la guarderà a parte gli adolescenti di allora. Rimane onestamente difficile pensare che i teenager di oggi, cresciuti con serie crude come The End Of The ****ing World o irriverenti come Sex Education, s’appassionino ai verbosi voli pindarici di Dawson & Co. A meno che non si tratti di prendere in giro lo zio trentenne…

 

Adam McKay dirige le star Leonardo DiCaprio e Meryl Streep

GIà REGISTA dei notevoli La grande scommessa e Vice, l’americano Adam McKay ha diretto per Netflix la commedia surreale Don’t look up coinvolgendo star come Jennifer Lawrence, Leonardo DiCaprio, Meryl Streep, Cate Blanchett, Jonah Hill, Matthew Perry e Timothée Chalamet. Nella storia tragicomica, in bilico tra disaster movie e satira politica, due astronomi incapaci intraprendono una sorta di tour mediatico per mettere in guardia l’umanità da un incombente asteroide destinato a distruggere la Terra.

Lo sceneggiatore Stefano Sardo ha debuttato nella regia con Una relazione, un film da lui sceneggiato con Valentina Gaia e interpretato da Guido Caprino, Elena Radonicich oltre che, tra gli altri, Thony, Libero De Rienzo, Francesca Chillemi e Tommaso Ragno. Tommaso e Alice, un musicista e un’attrice senza successo, vivono insieme a Roma da 15 anni senza figli. Quando i loro amici vengono invitati a cena per un annuncio immaginano che la notizia riguardi l’imminente matrimonio della coppia, ma scopriranno invece che i due hanno deciso di lasciarsi, senza rompere, restando amici in modo naturale.

Luigi Lo Cascio e Alessandro Borghi recitano da una settimana nel film Delta diretto da Michele Vannucci (Il più grande sogno), autore anche del copione con Massimo Gaudioso, Fabio Natale e Anita Otto. Realizzato da Groenlandia, Kino Produzioni e Rai Cinema con il sostegno di Emilia-Romagna Film Commission, racconta uno scontro tra bracconieri e pescatori sul delta del Po. Osso (Lo Cascio) vuole difendere il fiume dalla pesca indiscriminata della famiglia Florian, al cui fianco c’è Florian (Borghi) che in quelle terre è nato. I due si affronteranno tra le nebbie travolti da violenza cieca e sete di vendetta scoprendo la propria vera natura in un duello che non prevede eroi.

“Baghdad Central”, nulla è come appare

Ci sono serie tv che vivono dell’atmosfera che riescono a creare. The Night Of per esempio: pochi ricorderanno con precisione la trama, ma chi l’ha guardata non ha dimenticato il personaggio dell’avvocato John Stone (John Turturro) e la cupezza della New York notturna raccontata nella miniserie. Una cosa simile accade con Baghdad Central, due episodi alla settimana dal 18 gennaio su Sky Atlantic e Now Tv. La storia, un poliziotto impegnato nella ricerca della figlia scomparsa, non è particolarmente originale. Ma il luogo e il momento storico in cui è ambientata, insieme alla forza del protagonista, la rendono speciale.

Baghdad, 2003. Deposto Saddam Hussein, nella Capitale irachena regna il caos. Al di fuori della Green Zone, l’area controllata dall’esercito Usa, è il far west: quartieri in mano a gruppi di adolescenti, giri di prostituzione che coinvolgono ragazze locali e funzionari americani, persone che spariscono da un giorno all’altro e riappaiono senza vita. Né chi è rimasto fedele al vecchio regime, né chi ha scelto di collaborare con gli americani può dirsi tranquillo. E il confine fra patrioti e terroristi è diventato talmente sfumato da risultare inesistente: “Chi siamo? Cos’è successo?” si chiede il faccendiere Hamed, “una volta eravamo tutti iracheni ma ora…”.

In tutta questa confusione Muhsin al-Khafaji, un ex ispettore della polizia di Baghdad, si ritrova a dover cercare sua figlia Sawsan, scomparsa dopo aver lavorato come traduttrice per gli americani. Nessuno sembra poterlo aiutare. Non la figlia minore Mrouj, malata di reni; non lo zio Nidal con cui la ragazza ha vissuto negli ultimi mesi; non l’affascinante e misteriosa professoressa Zubeida Rashid. Lei qualcosa sa, ma non vuole o non può parlare: “Le donne nell’Iraq di oggi hanno l’abitudine di scomparire” dice.

Muhsin è solo e non è nemmeno fortunato. Nei primi due episodi gliene capitano di tutti i colori: viene catturato e torturato dagli americani; i giovani che controllano il suo quartiere provano a sbatterlo fuori di casa; sopravvive per miracolo a una sparatoria per strada. Finirà per essere reclutato da Frank Temple, un ex poliziotto di Scotland Yard che ha in odio gli americani e cerca di metter loro i bastoni fra le ruote. Ma davvero Temple è quello che dice di essere? E cosa c’entrano con lui le ragazze scomparse?

Tratti dall’omonimo romanzo di Elliott Colla, i sei episodi di Baghdad Central sono stati scritti da Stephen Butchard (House of Saddam e The Last Kingdom). Nel ruolo del protagonista c’è Waleed Zuaiter, americano figlio di palestinesi, già visto nel film L’uomo che fissa le capre, in Altered Carbon e The Spy. Un altro volto noto del cast è Corey Stoll, il deputato democratico Peter Russo in House of Cards, qui nei panni del capitano dell’esercito Usa John Parodi.

Le serie che negli ultimi due decenni hanno raccontato il conflitto iracheno e le sue conseguenze, Homeland per esempio, l’hanno fatto dal punto di vista americano. La forza di Baghdad Central è assumere la prospettiva degli iracheni e descrivere le loro difficoltà, le loro paure, la loro confusione. Pur essendo una serie britannica, il giudizio sugli occidentali non è certo tenero: e questo vale sia per gli americani che per gli inglesi.

L’impressione che si ricava guardando la serie è che a Baghdad, in quel periodo, non esistessero bianco e nero, buoni e cattivi. Tutti i personaggi sono ambigui e moralmente discutibili.

In questo filone s’inserisce perfettamente anche il protagonista. Presentato come un buon padre di famiglia, Muhsin al-Khafaji si trasformerà nel Perry Mason dell’ultima serie Hbo: un detective malconcio e doppiogiochista, con un passato oscuro e la spiccata tendenza ad affogare i dispiaceri nell’alcool. Muhsin pare disposto a tutto pur di salvare le figlie e forse inglesi e americani l’hanno sottovalutato. Se provocato, il pupazzo che pensano di poter usare a loro piacimento potrebbe diventare molto, molto pericoloso.

Baghdad Central Sky Atlantic e Now Tv

One Night in Miami con Cassius Clay sul ring della vita

All’ultima Mostra di Venezia è approdato in extremis, e senza trovare il Concorso che avrebbe meritato. Ma se il Lido parte ancora una volta in pole position ai 93esimi Oscar in programma il prossimo 25 aprile, non lo deve al solo Nomadland, il molto sopravvalutato Leone d’Oro di Chloé Zhao, bensì a One Night in Miami, sapido passaggio dietro la macchina da presa dell’attrice Regina King, già migliore non protagonista agli Academy Awards 2019 per Se la strada potesse parlare. Entrambe verranno presumibilmente candidate per la regia, categoria pervicacemente refrattaria al gentil sesso: l’apripista fu Lina Wertmüller nel 1977 con Pasqualino Settebellezze, poi Jane Campion, Sofia Coppola, Kathryn Bigelow e Greta Gerwig, e basta.

Afroamericana e donna, King per trasformare le nomination più ambite, Best Picture e Best Director, ha lo Zeitgeist dalla sua parte, e anche il cinema: adattando la pièce di Kemp Powers, condensa la Storia in un motel, firmando un dramma da camera identitario all’epoca del Black Lives Matter. Back in the days, è il 25 febbraio 1964, Cassius Clay (Eli Goree) non è ancora Muhammad Ali, ha appena sconfitto Sonny Liston al Miami Beach Convention Center, ma i festeggiamenti saranno morigerati per volontà del suo amico Malcolm X (Kingsley Ben-Adir, bravo), inteso a fare del pugile il testimonial dell’Islam: partecipano alla serata anche il cantante Sam Cooke (Leslie Odom Jr., bravo anche lui) e la stella del football, e poi del cinema, Jim Brown (Aldis Hodge). Quattro campioni nei rispettivi ambiti, quattro modi diversi di intendere e agire la causa afroamericana: King li mette tutti sul ring, l’uno contro l’altro, i pensieri a confliggersi, i pugni, per lo più, in tasca. Ne viene un focus sull’attività politica, l’impegno culturale, la professione religiosa, più uno generale, sul dirsi neri, come e perché: la regista dialettizza, sonda e affonda, mantenendo eleganza, discrezione e, sì, femminilità.

L’approccio è sinuoso, avvolgente, l’universo maschile dominato con moderazione e assertività, ma il precipitato radicale: i bianchi, con annessi discriminatori e connessi coercitivi, sono quasi in fuoricampo, il quadro, ovvero il quadrato, è per i dissidi, le contraddizioni e l’autoanalisi dei neri. Ci sono risonanze evidenti con Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolf, dal dramma di August Wilson, proprio in termini di (ri)costruzione dell’identità afroamericana, e da dove vengono questi film se non dall’operato ideologico dell’ultimo Spike Lee? Prima il nero che volle “farsi” bianco e Ku Klux Klan a uso Fbi in BlacKkKlansman, poi l’escalation fratricida, e post-imperialistica a scapito dei Viet, di Da 5 Bloods. È Lee che ha traghettato il cinema afroamericano dal conflittuale “noi contro loro (i bianchi)” al maieutico “noi contro noi” attuale, e Regina potrebbe finalizzare da King degli Oscar: noi ci scommettiamo. One Night in Miami è su Prime Video, vedetelo.

 

Dante 700: Il bestiario. L’anniversario più pazzo

Convegni e giornate di studi, certo. Libri: novità e ristampe. Letture pubbliche, ovviamente. Con la mente che non può non andare alla crociata televisiva e di piazza di Roberto Benigni. Per l’anniversario dei 700 anni dalla morte di Dante Alighieri la lista delle iniziative è vertiginosa, da Nord a Sud, ma non tutti gli eventi sono solenni come si crede.

Passerelle all’Inferno. Tra le serissime iniziative in calendario a Firenze (lectura Dantis e mostra virtuale agli Uffizi, i vari appuntamenti dell’accademia della Crusca…) chi si aspettava, per esempio, una fashion night con sfilata della “collezione dantesca” di un noto brand del lusso? Succederà tra aprile e luglio (sulla moda ai tempi di Dante si è tenuto un ciclo di conferenze a Ravenna: si può rivedere online).

Nell’estate fiorentina la voce di Francesco Pannofino accompagnerà un video mapping proiettato sulla facciata del Museo Casa di Dante, con scene della Commedia. Per non parlare del flash mob di Piazza Santa Croce: i passanti si potranno unire alla compagnia di danzatori del Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e ballare una coreografia ispirata al Paradiso.

BOMBE DAL PURGATORIO. Agli amanti del Purgatorio è consigliata la visita a Prato. Qui, infatti, l’artista Leone Contini riprodurrà il monte dell’iconografia dantesca con un’installazione fatta di legno e macerie, ispirata alle colline artificiali spiraliformi costruite in molte città europee con i detriti dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il progetto fa parte dei cinque selezionati dalla sezione dedicata a Dante del bando Cantica21, di Mibact e Farnesina. Tra i vincitori c’è anche il leporello gigante di Marta Roberti, in agenda a Roma. Un “bestiario” di otto tavole racchiuse in un libro a fisarmonica di ferro e carta carbone, dove si rappresentano gli animali allegorici della Commedia.

CINEMA MUTO E QR CODE. L’omega della parabola dantesca è a Ravenna. Qui il Poeta ha concluso i suoi giorni, tra il 13 e 14 settembre del 1321, e qui fioccano vivaci celebrazioni, con tanti eventi in corso già dall’autunno. Per dirne uno, a fine settembre è stato tirato fuori dagli archivi il primo film mai realizzato sulla Commedia, datato 1911 e muto, sonorizzato dal vivo per l’occasione dal duo indie degli OvO. C’è anche chi ha deciso di ripercorrere letteralmente le orme di Dante, camminando a piedi da Firenze. Un’epopea figurativa sarà invece quella organizzata al Mar (da marzo) sull’influenza dantesca nella cultura di massa, dal fumetto alla pubblicità. E in attesa della settecentesima Cerimonia dell’olio (in cui si rimbocca il combustibile per la lampada votiva sulla tomba di Dante), il centro storico della città sarà illuminato da sedici endecasillabi luminosi al neon bianco, con annesso QR code per ascoltare via smartphone i canti da cui sono tratti.

COMMEDIA A ROTOLI. L’anno dantesco avrà il suo record. Se vi siete mai chiesti qual è la versione della Divina commedia più grande del mondo, la risposta è Rubedo e misura quasi 400 metri quadrati. È un disegno in bianco e nero delle principali figure del Poema, realizzato su rotolo di carta di 97×4 metri dall’artista torinese Enrico Mazzone. Ogni cantica si sviluppa per più di 30 metri di illustrazioni fatte a mano e a pancia in giù, con la tecnica della matita puntinata. “Per me è stato un percorso introspettivo non da poco”, spiega Mazzone, che lavora al disegno da quasi cinque anni e ha cominciato in Finlandia, dopo essersi trasferito nella cittadina di Rauma. Da dove gli è venuta l’idea? “Visitando una cartiera”, racconta. Da questa estate il suo atelier si è trasferito a Ravenna, grazie al sostegno dei mecenati Beatrice Bassi e Leonardo Spadoni (e il supporto di Vittorio Sgarbi), ma Rubedo è destinata a essere esposta nella città d’origine dell’artista, Torino, dopo un’imponente opera di digitalizzazione. La stessa Torino che ospiterà una “maratona” di 15 ore di lecturae Dantis, con cento volontari che leggeranno ognuno un canto, accompagnati da musicisti dal vivo.

PODCAST DEGLI ORRORI. Per chi non ci avesse ancora pensato, ecco il “jukebox” dantesco. È parte del calendario di Verona ed è composto da 21 podcast di un quarto d’ora a tema Commedia. Le voci sono, tra gli altri, di Isabella Ragonese, Lino Guanciale, Filippo Nigro, Vinicio Marchioni, Leo Gullotta, e il tappeto sonoro è curato da Giulio Ragno Favero (del Teatro degli orrori) e dal regista Fabrizio Arcuri.

L’ASSO NELLA MANICA. Tra le iniziative della Regione Marche c’è anche il caso di un gioco da tavolo (in uscita in primavera) ambientato nei cerchi dell’Inferno. Si intitola Comedia-Inferno e si gioca con le carte. Facile immaginare che avrà almeno due sequel.