Tredici anni di reclusione per Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri che secondo le accuse pestarono Stefano Cucchi dopo il suo arresto e per questo sono stati condannati a 12 anni in primo grado. La richiesta in Corte d’Assise d’Appello, a Roma, arriva dal pg Roberto Cavallone che davanti ai giudici ha detto: “Lo hanno massacrato di botte. Quel tipo di reazione non trova alcuna giustificazione”. Chiesta anche la condanna a quattro anni e mezzo per il maresciallo Roberto Mandolini, accusato di falso poiché avrebbe coperto quanto accaduto, e l’assoluzione, perché il fatto non sussiste, di Francesco Tedesco, che denunciò i suoi colleghi e in primo grado venne condannato per falso. “In questa storia abbiamo perso tutti – evidenzia Cavallone –: Stefano, la sua famiglia, lo Stato”. “Oggi è stata un giornata molto emozionante, commovente. Ripenso a Stefano, agli ultimi giorni della sua vita, alla sua sofferenza, alla maniera in cui è stato lasciato solo”, ha detto ieri Ilaria Cucchi.
Quando Il vaccino tocca la religione
Nella società liquida descritta da Bauman la coscienza individuale è sollecitata da più parti e in più momenti, rispetto ad azioni e comportamenti che sono neutrali per la maggioranza, ma possono apparire intollerabili per una minoranza. In un momento in cui il vaccino ci appare come l’unica speranza per debellare la pandemia, si ha la necessità di ottenere la massima adesione alla campagna vaccinale. Purtuttavia, a parte coloro che sono esentati per motivi di salute, sappiamo che non tutti stanno accettando volontariamente tale pratica. Questi soggetti vengono etichettati come “No Vax”, nel significato peggiore del termine (complottisti, gente che attribuisce, senza alcuna base scientifica, effetti collaterali dovuti a vaccinazioni, mai dimostrati). In realtà, in una società multiculturale, ci troviamo anche a dover prendere in considerazione la presenza di religioni diverse. Alcune di queste sono contrarie alle vaccinazioni, viste come il rifiuto dell’intenzione di Dio o inaccettabili per alcuni componenti. Il fenomeno non è nuovo, si è manifestato per la prima volta nel 1798, quando Jenner pubblicò l’utilizzo del vaiolo bovino per immunizzare un bambino. Esperimento allora fortemente contestato che in seguito, com’è noto, ha avuto una conseguenza estremamente positiva sulla sanità globale. Il problema si sposta dal piano sanitario a quello etico e politico.
Anche se l’obbligatorietà delle vaccinazioni è stata più volte sancita dalla Corte costituzionale e compatibile con l’art. 32 della Costituzione (nessuno può esser obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), al quale molti non vaccinisti si sono appellati, resta insoluto il rispetto della religione individuale, non sempre accettato anche se si configura una responsabilità sociale. Il problema ci appare nuovo in una società abituata a considerarsi come cattolica: in realtà, oggi, questa religione è praticata solo dal 60% degli italiani. La strada delle responsabilità sociali contrapposte al credo religioso non è così facile da percorrere e una soluzione – per quanto necessaria – è difficile da suggerire.
*direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano
“Tra due anni chiudono la borsa”
Siccome in tempi di confusione ogni esercizio di pensiero può rivelarsi utile, vorremmo qui prendere sul serio Matteo Renzi. D’altronde, apprestandoci a prendere sul serio Mastella e chissà chi altro, l’alterigia intellettuale pare fuori luogo. Renzi, dicevamo. Nelle sue dichiarazioni di mercoledì, ci sono un paio di frasi che vorremmo sottolineare: “Il Recovery Plan è una grande cosa: da trent’anni l’Europa non ci dava la possibilità di spendere e per trent’anni non spenderemo più. Tra due anni questi chiudono non solo la Borsa, ma proprio la finestra di opportunità”. E ancora: “Quando vi diciamo che il Mes ha meno condizionalità del Recovery vi diciamo la verità”. Concetti che, se non sono del tutto veri, flirtano con la verità: ieri un articolo della newsletter Eurointelligence di Wolfgang Münchau, ad esempio, rivelava – grazie alle minute dell’ultimo board – come il conflitto sotterraneo in seno alla Bce sui piani di acquisto in corso sia pronto a esplodere in futuro. Il cosiddetto “PEPP”, d’altra parte, finisce a marzo 2022, l’anno dopo tornerà probabilmente in vigore il Patto di Stabilità: abbiamo due anni… Se Renzi ha colto il punto, è curioso che l’azione politica di Italia Viva si sia concentrata sull’aumentare la quota di prestiti del Recovery sui progetti aggiuntivi, cioè la parte del piano che ha – come i trasferimenti – condizioni molto forti (obiettivi non tarati sui bisogni italiani, vincoli di spesa, tempistiche strette, possibili ricatti sul bilancio pubblico) e contemporaneamente quasi nessun vantaggio macro-economico che non sia il risparmio, oggi pressoché irrilevante grazie alla Bce, sul costo del debito. Il Recovery Plan com’è oggi, cioè come lo ha voluto Renzi – se si crede che tra due anni l’Europa tornerà all’austerità (“chiuderà la finestra di opportunità”) – è solo un modo per svuotare il bilancio dello Stato di qualunque autonomia di spesa per il prossimo settennato: a prenderlo sul serio, insomma, si dovrebbe dire che Renzi non capisce quel che dice. Solo una cosa ci spinge a usare il condizionale: tanto se, come pensa l’ex premier, tra due anni non avremo il sostegno della Bce e il Patto di Stabilità sarà di nuovo in vigore, saremo fregati comunque, Recovery o meno, Conte o meno, Renzi o meno.
Il “caso Trump” e quello strapotere dei social media
“Il vero leader non è chi usa la parola per piacere o compiacere; chi, adulando, dice al popolo quel che il popolo vuole sentire; chi della massa cavalca le paure per fomentare, con parole d’odio e di violenza, i sentimenti più biechi”
(da La voce delle sirene di Laura Pepe – Laterza, 2020)
Da tiranno mediatico a vittima dei social, il caso di Donald Trump dimostra che il passo può essere breve. Fra la censura e l’oscuramento del presidente uscente su Twitter e altri network privati c’è la stessa differenza che intercorre fra i 74 milioni di elettori (pari al 46,9%) che hanno votato per lui e il migliaio di suoi supporter, estremisti e violenti, che hanno assaltato Capitol Hill, tempio della democrazia americana. E, posto che non si può accettare l’ostracismo a prescindere, preventivo, bisogna distinguere allora fra le responsabilità di Trump, quelle degli ultrà trumpiani e quelle dei social media. Fuori discussione sono le colpe degli assalitori, in parte anche armati. Li abbiamo visti in televisione abbattere le transenne, forzare i blocchi di sicurezza, rompere porte e vetri, invadere il Campidoglio e occupare i seggi o gli uffici dei parlamentari. Gli arresti ne sono la conseguenza. Ma resta da valutare in particolare quanto possa aver influito su di loro l’ultimo discorso di “The Donald”, al limite dell’istigazione virale.
Dopo aver sobillato le folle durante tutta la campagna elettorale e poi a urne aperte, invocando brogli o irregolarità che non sono stati riscontrati da nessun tribunale, il “peggior presidente della storia” – come l’ha definito l’ex governatore repubblicano della California, Arnold Schwarzenegger – ha incitato i “patrioti” a insorgere contro i parlamentari che rappresentano il popolo americano. Tanto da suscitare una presa di distanza anche da parte del suo vice, Mike Pence; diverse critiche fra gli stessi repubblicani; e infine la richiesta dei Democratici di impeachment per “incitamento all’insurrezione”.
Quanto all’aspetto più mediatico della vicenda, si può e si deve discutere sul potere o strapotere dei “giganti del web”, delle piattaforme che governano e amministrano. Ed è evidente che occorrono norme sovranazionali per disciplinare il dibattito pubblico sui social network. Ma non confondiamo la libertà di espressione con l’istigazione alla violenza: ben diverso è il caso del quotidiano Libero, il cui profilo è stato limitato per “attività sospette” probabilmente a causa di un errore tecnico ancora da chiarire.
Le regole di Twitter sono chiare, nessuno è obbligato a iscriversi e chi lo fa accetta liberamente di condividerle. Al primo punto, il social con il marchio dell’uccellino blu dichiara che “violenza, molestie e altri comportamenti di questo genere scoraggiano le persone dall’esprimersi e portano all’impoverimento della conversazione pubblica globale”. Subito dopo avverte: “Non puoi minacciare di ricorrere alla violenza contro un individuo o un gruppo di persone. Anche l’esaltazione della violenza è un comportamento proibito”. E infine aggiunge: “Non puoi minacciare né promuovere atti di terrorismo o estremismo violento”.
Sono regole che valgono per tutti. Per i comuni mortali e per i capi di Stato o di governo. E pure per i presidenti degli Stati Uniti d’America.
Riprendendo la citazione riprodotta all’inizio, completiamo qui la definizione proposta dall’autrice dello stesso saggio: il vero leader è “chi conquista e poi ricopre il suo ruolo grazie a un’indiscussa autorevolezza e capacità di persuadere; chi, giusto e saggio, sa contraddire, condurre, mettere sulla giusta strada; chi, con la dolcezza della parola, stimola la coesione e allontana le discordie”. Non è certamente il ritratto di Donald Trump.
La sfida a Romeo: intervista in diretta su Tiziano e Consip
Ieri il direttore del quotidiano di Alfredo Romeo ha scritto l’ennesimo articolo a difesa del suo editore, imputato in vari procedimenti penali. Pietro Sansonetti ha provato a mettere una toppa sulla questione dell’incontro di Romeo con Tiziano Renzi, imputato con l’imprenditore nel procedimento ‘Consip’ per traffico di influenze e turbativa d’asta. Dopo aver mentito per due volte a Repubblica nel 2017 e 2019 affermando di non aver mai incontrato Tiziano Renzi, finalmente Romeo aveva ammesso l’incontro, avvenuto nel luglio 2015 a Firenze, rispondendo alle nostre domande.
Come è noto, il Fatto ha deciso di pubblicare quelle risposte di Romeo solo sul sito e non sul quotidiano perché contenevano bugie che richiedevano molte precisazioni da parte nostra, troppo lunghe per gli spazi della carta. Tra le imprecisioni più gravi c’erano quelle, ripetute nel pezzo di ieri da Sansonetti, sui messaggi scambiati tra Luca Palamara e il Gip del procedimento Consip, Gaspare Sturzo. Però non era quello il punto decisivo dell’articolo titolato “Romeo: incontrai Tiziano Renzi. Lo ho negato? Vi spiego perché”. Sansonetti legge il Fatto, scopre le bugie di Romeo nelle interviste a Repubblica e ricostruisce nel pezzo così il suo colloquio con l’editore smemorato: “Sono entrato nel suo ufficio con le fotocopie delle due interviste e gli ho chiesto a brutto muso di spiegarmi la doppia versione. Lui altrettanto a brutto muso mi ha domandato ‘sei mai stato in prigione?’ (…) sono rimasto in cella per 168 giorni a Regina Coeli (…) be’ quando fui intervistato da Repubblica erano passati pochissimi giorni dalla mia liberazione (…) quando mi fecero quell’intervista ero impaurito (…) sapevo che il padre dell’ex premier aveva detto di non avermi mai incontrato e invece io ricordavo di averlo visto una volta per parlare di un convegno (…) Consip non c’entrava niente (…) e però ora Tiziano Renzi diceva di non avermi mai visto: dovevo smentirlo a Repubblica senza neppure sentire l’avvocato, così su due piedi, senza ragione?”. In realtà tra la prima intervista (18 agosto 2017) e la seconda (1 marzo 2019) passa molto tempo.
A voler essere maliziosi viene in mente poi una conversazione intercettata nell’ufficio romano di Romeo in via della Pallacorda nell’estate del 2016. Carlo Russo, l’amico di Tiziano Renzi, che incontrava Romeo nel suo ufficio, in uno di quei colloqui romani dice – secondo la trascrizione dei carabinieri – perché Romeo era per lui un interlocutore affidabile: “Quando ho parlato con Luca, l’ultima volta gli ho detto (…) la cosa a cui tu devi pensare… è che questa persona è stata… 70/80 giorni… (tono di voce bassissimo) e non ha reso dichiarazioni che chiamassero altri soggetti in correità, eh! È stata dove è stata… e non ha fatto pio!”.
Comunque la nostra risposta è che questa storia non dovrebbe riguardare solo Lillo e Sansonetti, il Fatto e Il Riformista. Il caso Consip ha coinvolto i massimi livelli delle istituzioni. Se ne parliamo dopo quattro anni non è perché vogliamo fare i pm o i gip, come scrive Sansonetti. Auguriamo a Romeo di dimostrare la sua innocenza in tribunale e di ottenere il risarcimento per la lunga detenzione patita. Intanto, però, ci interessa capire come sono andate le cose, perché facciamo i giornalisti. Possiamo lanciare allora una sfida all’editore: una bella intervista sui suoi rapporti con Tiziano Renzi, con la Consip e anche con i magistrati, se vorrà. Un’intervista però non scritta, come piace a lui, ma videoripresa e trasmessa integralmente: un’ora di diretta senza tagli. Si potrebbe fare qui al Fatto ovviamente. Se però Romeo non si fida, a noi va bene anche una sede terza. Se Repubblica, il quotidiano che ha pubblicato le sue precedenti versioni, fosse interessato, noi siamo a disposizione. E Romeo?
Per superare il renzismo serve un Pd di sinistra
“Siamo seri: chi ha perso le elezioni non può andare al governo. Non può passare il messaggio che il 4 marzo è stato uno scherzo. Sette italiani su dieci hanno votato per Salvini e Di Maio, lo facciano loro il governo se ne sono capaci”. Con queste parole, la sera di domenica 29 aprile 2018, Matteo Renzi andò in tv da Fabio Fazio e pose il veto alle trattative in corso fra il M5S e il Pd per formare una maggioranza tra quelli che erano pur sempre i due partiti più votati dagli elettori. Ricordiamocelo: nel 2018 la Lega, pur crescendo impetuosamente, arrivò solo terza col 17,4%. Fu quel veto renziano a spalancarle l’accesso al governo, inaugurando la nefasta stagione della destra che l’avrebbe portata a raddoppiare i voti e a diventare partito di maggioranza relativa.
Ancora ieri, con la consueta disinvoltura, Renzi ha scritto nella sua enews: “Italia Viva è nata per togliere i pieni poteri a Salvini”. Falso anche questo. La scissione del Pd fu programmata freddamente dopo la nascita del governo Conte bis, nel settembre 2019. E l’attuale alleanza fra M5S, Pd e LeU venne proposta da varie personalità fra cui Prodi, Landini, Franceschini, Bersani, Bettini; non certo dal solo Renzi. Non sono dati di fatto marginali quelli sopra elencati. Spiegano l’esasperazione, ma anche un certo moto di sollievo, provati di fronte all’ennesimo voltafaccia con cui Renzi ha cercato di porre fine alla coalizione giallorossa. Tirato per i capelli, il gruppo dirigente del Pd ha perso la pazienza, emettendo un giudizio che si spera definitivo sul suo ex segretario: inaffidabilità grave, tale da arrecare danno al Paese. Vedremo fino a che punto saprà trarne le conseguenze.
Sì, perché è come se questo partito dalla natura composita, evanescente nel suo radicamento sociale, ma sempre bene inserito nelle istituzioni, nelle amministrazioni locali e nell’establishment, posto di fronte a questa provocazione sia stato costretto finalmente a definire il suo profilo strategico. Ciò che vale, è ovvio, anche per il M5S, sollecitato da Beppe Grillo a proseguire nella sua trasformazione in forza progressista ed europeista.
Una felice sintonia sembra caratterizzare le prime reazioni dei maggiori esponenti Pd, dal segretario Zingaretti al capodelegazione Franceschini: no a qualsiasi ipotesi di unità nazionale comprendente i partiti della destra sovranista; riconfermata la fiducia a Conte che si è comportato bene alla guida del governo, dissipando i sospetti originati dal suo disinvolto cambio di casacca; e in definitiva rilanciare un’alleanza di centrosinistra plurale col M5S, senza la quale non sarebbe pensabile competere con la destra. Fin qui tutto bene. Purché l’affannoso (e, riconosciamolo, imbarazzante) reclutamento di parlamentari disposti a garantire una solida maggioranza al governo Conte, non fornisca il pretesto per rinviare le necessarie scelte strategiche. Dice Zingaretti: “Dobbiamo evitare le elezioni e proteggere la legislatura”. La situazione in cui versa il Paese è tale che non possiamo dargli torto. Ma la paura della destra e dei danni che un suo governo provocherebbe non deve impedire che si faccia un passo in più. Delineare con chiarezza – quale che sia la legge elettorale con cui prima o poi si voterà – se la coalizione giallorossa sarà alla base dell’offerta programmatica con cui il Pd affronterà il giudizio dei cittadini. Sia nelle elezioni politiche, sia nelle grandi città. Personalmente sono convinto che già oggi, soprattutto dopo gli esiti della Brexit e dopo la sconfitta di Trump, una coalizione europeista guidata da Conte sarebbe in grado di competere ad armi pari con la destra sovranista guidata da Salvini. Può darsi che mi sbagli, ma resta il fatto che, senza fare subito chiarezza in merito, non si va da nessuna parte.
Sciogliere questo nodo aiuterebbe il Pd ad affrontare nel contempo il suo cruciale dilemma esistenziale: vuole, può essere qualcosa d’altro che non solo un partito di sistema? La vocazione governativa del Pd che già lo ha portato a recidere i legami con la base sociale delle origini, le classi subalterne, lo destina inevitabilmente a configurarsi espressione organica dell’establishment? Cito a casaccio episodi simbolici, ma significativi: il passaggio diretto dell’ex ministro Padoan da deputato a presidente dell’Unicredit; l’eccesso di zelo con cui la ministra De Micheli si è premurata di sollecitare ai vertici del Viminale l’accelerazione delle pratiche di cittadinanza per un calciatore della Juventus. Nessun moralismo, ma si tratta di segnali che l’opinione pubblica percepisce come naturale consuetudine, internità all’humus dei poteri forti. Il Pd necessiterebbe di riallacciare ben altri legami dalla parte degli sfruttati e dei soggetti più fragili. Indicare con chiarezza la prospettiva e la fisionomia di un nuovo centrosinistra è la premessa ineludibile per lasciarsi alle spalle la stagione del renzismo.
Da una mamma “Mio figlio è malato oncologico: fate presto con i vaccini”
Gentile redazione, gentile dottor Travaglio, sono una lettrice del vostro quotidiano e madre di un ragazzo di vent’anni a cui a marzo 2020 hanno diagnosticato un tumore ematologico.
Da oltre dieci mesi siamo in isolamento nella nostra casa, affrontando le terapie e allo stesso tempo cercando di proteggere mio figlio da un contagio con il Covid-19, che per lui sarebbe molto pericoloso.
Ora che con il vaccino all’orizzonte vediamo uno spiraglio di luce, ci stiamo chiedendo come mai nel piano vaccinale descritto dal governo non siano stati ancora nominati come prioritari i malati oncologici.
La Confederazione Foce (degli Oncologi, Cardiologi ed Ematologi) ha richiesto al governo l’inserimento dei malati oncologici, ematologici e cardiologici come classe prioritaria nella campagna di vaccinazione, ma a oggi non ha ancora ricevuto una risposta concreta.
Vi chiedo se è possibile da parte vostra sensibilizzare l’opinione pubblica verso questo problema, attraverso il vostro quotidiano o in occasione delle partecipazioni del direttore Travaglio a programmi televisivi.
Grazie, un cordiale saluto.
Mail box
Un Paese che dimentica troppo facilmente
In Italia, oltre al Covid-19, è presente il “virus della dimenticanza”, quindi fa bene il Fatto nel ricordare quei politici e affini che hanno avvisi di garanzia, processi prossimi, venturi o in corso; anche se sono conscio che agli italiani probabilmente interessa di più sapere come andrà a finire Inter-Juve.
Maurizio Bolzoni
Il problema oggi è la pandemia, non Renzi
Nell’attacco alle Torri Gemelle sono morte circa 2.800 persone. Causa Covid, negli ultimi 9 giorni negli Usa sono morte una media di 3.344 persone al giorno, con un picco martedì di 4.200 morti (The Washington Post)! L’elefante si chiama Covid, ma in Italia si parla soprattutto della pulce Renzi?
Claudio Trevisan
Non approvo la scelta del giudice di Lamezia
Apprendo da un comunicato Usigrai che il Tribunale di Lamezia Terme ha deciso di lasciare le telecamere fuori dall’aula bunker in cui si stava svolgendo il processo Rinascita-Scott, istruito dal procuratore Gratteri. Ritengo che sia una decisione che lede il diritto dei cittadini ad essere informati puntualmente su una vicenda di fondamentale importanza e che vede coinvolti malavita, colletti bianchi e politici.
Carla Ricci
Dire la verità non può essere querelabile
Leggo il vostro giornale da poco tempo… ne sono diventato dipendente. Penso che se non fosse vero quello che leggo, voi non avreste qualche querela, ne sareste sommersi. Se fossi uno dei personaggi così spesso presenti negli articoli, se leggessi balle vi riempirei di querele fino a ottenere la giusta soddisfazione. Ma forse non sono balle. Così vi beccate la querela della Meb, offesa perché definita “transfuga”, definizione che lei utilizza per altri che forse stanno pensando a non esserlo più.
Marco
Cosa pensate di Donald cacciato da Twitter & C.?
Stimo molto Marco Travaglio e per questo sono rimasta colpita della sua reazione al silenziamento di Trump da parte di Twitter, Facebook, Parler. 1. L’autorizzazione a mentire e/o dire mezze verità ingannevoli e dannose non è libertà di opinione, la menzogna autorizzata (specie queste supermenzogne) è la prima trappola del pensiero, dunque è il contrario della libertà di opinione: non la potenzia, anzi la mortifica. 2. In un regime di comunicazione democratizzata, un comunicatore con 88 followers rappresenta un rischio, e deve essere considerato con attenzione, specie se parla in modo così schiettamente “politico” come parla Trump. 3. Se Trump è stato libero di usare il suo enorme potere e i suoi soldi per farsi ascoltare, non si vede perché Zuckerberg e compagni non siano liberi di usare il loro potere per farlo star zitto. D’altra parte, se vuole ha tutti i mezzi per comprarsi un social media personale.
Franca D’Agostini
DIRITTO DI REPLICA
Che i social pongano problemi politici ed etici monumentali non è cosa nuova. Piazze virtuali pubbliche, ma in mano a privati, capaci di condizionare come nessun’altra la discussione, il flusso d’informazioni e quindi il dibattito pubblico e quello politico; attori che operano in condizioni di quasi monopolio globale, soggetti a regolamentazioni debolissime o inesistenti. Ma che il problema non sia un presidente che usando i social ha di fatto incitato a un’insurrezione, che ha provocato quel che ha provocato, ma sia un social che in virtù di ciò gli sospende l’account, è assurdo. Abbiate il senso della misura! Ci manca poco che usiate gli stessi termini dei fan di Trump o di Fox News: “censura”, “dittatura della sinistra”, …
Matteo M.
Cari Franca e Matteo, non sono d’accordo. Si può, anzi si deve bloccare un post che inciti alla violenza, o faccia apologia di reato, o comunque violi il codice penale o altre leggi. Ma non si può silenziare preventivamente nessuno. Tantomeno se a farlo non è un tribunale o un’autorità indipendente, ma un imprenditore privato.
M. Trav.
In merito all’articolo pubblicato a firma di Gianni Barbacetto dal titolo “Eni, la tangente in Nigeria. I pm: ecco perché colpevoli”, teniamo a ribadire come nel corso dell’istruttoria non sia emerso alcun elemento probatorio a supporto dell’accusa di corruzione internazionale e delle teorie suggestive avanzate dai pubblici ministeri. Come sostenuto in aula sino ad ora dalle difese in modo unanime (e in attesa dell’arringa difensiva di Eni prevista il 20 gennaio) e come del resto si evince dal resoconto che Barbacetto svolge nel suo articolo, l’intera impalcatura accusatoria è basata esclusivamente su deduzioni e suggestioni (che tali restano) e non presenta alcun elemento in grado di dimostrare concretamente l’esistenza di un accordo corruttivo. E la ragione è che, semplicemente, l’accordo corruttivo non c’è mai stato. Così come è il caso di notare e ricordare su alcuni punti specifici riesumati nell’articolo che Emeka Obi non è mai stato un mediatore di Eni ma di Malabu, che già nel 2013 un tribunale inglese ha accertato che lavorasse per Malabu (che infatti ha dovuto remunerato non certo Eni), che nessuna relazione economica è mai intercorsa tra Eni e altri “presunti” mediatori.
Nutriamo un grande fiducia nel lavoro del Tribunale e confidiamo che potrà accertare quanto prima, e finalmente, la verità dei fatti, vale a dire che si è trattato di un’operazione complessa, svolta su un asset gravato da diverse pendenze storiche che occorreva risolvere, condotta e conclusa direttamente nella sua fase contrattuale con un governo sovrano e concepita per valorizzare al meglio il potenziale del blocco, a vantaggio del paese e del suo sviluppo economico e realizzata nel pieno e puntuale rispetto delle procedure di Eni e delle migliori prassi internazionali. Come emerso dal dibattimento e ricordato dalle difese, non una goccia di petrolio è stata mai estratta nella realtà e il soggetto danneggiato risulta essere Eni.
Erika Mandraffino Direttore comunicazione Eni
Da non perdere: Colombo, il novantenne Angela e il renegade Don Matteo
E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:
Canale 5, 21.20: La vita è bella, film drammatico. Roberto Benigni interpreta un cameriere ebreo che viene internato col figlioletto in un campo di sterminio. Per far sopportare al figlio la mostruosità del lager, Roberto gli racconta chi è davvero il produttore del film, Harvey Weinstein.
Rete 4, 21.20: Renegade – Un osso troppo duro, film azione. Renegade, cioè Don Matteo, cioè Terence Hill, cioè Mario Girotti, se ne va in giro spensierato per l’America sul suo ronzino, osservando tutto con i suoi occhi chiari, del colore indefinito dell’acqua dove si sono lavati i pennelli. I guai cominciano quando il regista insiste per farlo recitare. È l’inizio di un incubo.
Rai 1, 10.15: La Santa Messa, documentario. Rivediamo i momenti più emozionanti delle messe che hanno fatto la storia del cattolicesimo mondiale.
Top Crime, 21.10: Il ritorno di Colombo, telefilm. La dottoressa Joan Allenby torna all’improvviso da un viaggio e sorprende il fidanzato con un’altra. Il giorno dopo, l’uomo viene trovato morto. Indovinate chi è stato (Spoiler: non Colombo).
Rete 4, 6.20: Casa Vianello, sitcom. Sandra scambia un campione di urina di Raimondo per succo d’arancia. Rideremmo, se non fossero entrambi morti.
Rai 1, 21.25. Superquark, documentario. Piero Angela, a 91 anni, ha perso del tutto i freni inibitori, a giudicare da come introduce il primo filmato, dedicato alla vita di Madre Teresa di Calcutta: “L’aspetto fisico esercita un’influenza decisiva sul modo di sentire e di comportarsi. Certe donne si danno alla malavita perché hanno una faccia da troia”.
Rai Premium, 18.50: Via Panisperna, film commedia, ambientato nell’Istituto di fisica di via Panisperna a Roma negli anni Trenta. Enrico Fermi, interpretato da Alvaro Vitali, è continuamente distratto dall’elettrodinamica dei corpi in movimento delle sue studentesse. Una sera ne invita tre nel suo studio a fare equazioni a lume di candela, ma è costretto a rendersi conto, quando l’opportunità si presenta, di non avere né l’energia né la massa.
Rai 3, 21.45: Fuori era primavera, documentario di Gabriele Salvatores sulla vita degli italiani durante il lockdown. Era meglio il lockdown.
Sky Cinema Action, 21.00: Charlie’s Angels, film azione. Le Charlie’s Angels vengono catturate da agenti segreti iraniani, e torturate con T-shirt bagnate che si stringono lentamente sulle loro poppe.
Rai 3, 13.15: Passato e presente, documentario. L’agronomo francese Antoine Parmentier risolse la carestia del 1769 proponendo al Re Luigi XVI di diffondere nel Paese la coltura di patate. Ammesso nella prestigiosa Académie des sciences, è sepolto al cimitero di Père-Lachaise sotto alcune pianticelle di patate. È la sua onorificenza più grande, quel tumulo con contorno di patate. Paolo Mieli ne parla con Mauro Canali.
Top Crime, 15.35: Chicago P.D., telefilm. L’agente Erin Lindsay, una prostituta diventata poliziotto, adesca delinquenti con l’aiuto del suo capo, un ex pappone diventato poliziotto che la picchia se alla fine della giornata non ha fatto abbastanza arresti.
Rete 4, 21.20: Quarta Repubblica, attualità con Nicola Porro. La legge sull’istruzione obbligatoria ha strappato al benefico analfabetismo giornalisti che cento anni fa sarebbero riusciti facchini eccellenti.
Italia 1, 1.30: Star Trek The Next Generation, telefilm (6^ st., ep. 25). “Emorroidi dallo spazio profondo”.
Non tutti i trasformisti sono come scilipoti: Leggete John F. Kennedy
Se fossi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel chiedere al Parlamento di rinnovare la fiducia al governo, limiterei allo stretto indispensabile i riferimenti alle mattane di Matteo Renzi. Eviterei, nei limiti del possibile, di accendere altre micce polemiche, perché tanto nell’arte di scottarsi le dita (e molto altro ancora) il piromane di Rignano è imbattibile. Senza contare che a sfancularsi ci ha già pensato da solo, ed essere ignorato lo fa impazzire. Poi, scinderei, naturalmente, le responsabilità dei senatori e deputati di Italia Viva da quelle di Demolition Man, e troverei il modo, non formale, di ringraziare le ex ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti per il fattivo contributo dato all’azione dell’esecutivo in tempi così difficili. E senza ipocrisie, mi rivolgerei ai parlamentari di Iv ribadendo la necessità di un loro sì, sul quale, Renzi o non Renzi, ricostruire con il mio governo un rapporto solido per il resto della legislatura. Fin qui tutto abbastanza scontato, così come lo sarebbe il cuore del discorso: la drammatica emergenza che da un anno affligge il Paese sfibrandolo, e la minaccia di una pandemia “fuori controllo” (Istituto Superiore di Sanità) da governare quasi ora dopo ora e senza colpevoli vuoti di potere.
A questo punto viene il difficile, ovvero la richiesta di aiuto ai cosiddetti Responsabili (riverniciati per l’occasione Costruttori): soprattutto senatori che dall’opposizione dovrebbero trasmigrare nella maggioranza (affinché non diventi ex maggioranza). Non so Conte, ma se penso a queste “risorse” subito mi appare la figura non specchiata del senatore Sergio De Gregorio, quello “acquistato” da Silvio Berlusconi per danneggiare il governo di Romano Prodi. Oppure mi si appalesa la premiata coppia Razzi&Scilipoti, anch’essi folgorati sulla via di Arcore, divenuti ormai un classico del trasformismo. Fermo restando che i senatori non si comprano, e meno che mai quelli stile De Gregorio, provo disagio al concetto stesso di transumanza parlamentare. Ma nello stesso tempo mi chiedo se, nel caso presente, il fine (evitare una crisi disastrosa temuta dalla larga maggioranza dei cittadini) non giustifichi i mezzi (o se vogliamo i mezzucci). Alla ricerca di una qualche buona ragione, mi è venuto in soccorso John F. Kennedy (gli alibi me li so scegliere bene) che nel celebre Ritratti del coraggio, a proposito dell’“arrendevolezza al compromesso” e del “senso delle cose possibili” in politica, scrive: “Non dovremmo avere troppa fretta nel condannare ogni compromesso quale esempio di cattiva moralità. Infatti la politica e l’attività legislativa non sono questioni di inflessibili princìpi o di ideali irraggiungibili. La politica, come ha acutamente osservato John Morley, ‘è un campo in cui l’azione è una perpetua mancanza del meglio, e dove la scelta costantemente si effettua tra due errori’”. Però, sulla tecnica del compromesso, John Kennedy ha scritto qualcos’altro che non si può tralasciare: “Il problema vero consiste, dunque, come arrivare al compromesso, e con chi. Infatti, è purtroppo facile arrivare a concessioni non necessarie, non suggerite dal desiderio di risolvere legittimamente i conflitti, ma soltanto dalla speranza di andare avanti”. E dunque “a che prezzo” imbarcare i Costruttori? Cosa offrire loro? Una prospettiva politica, o cosa? Fortunatamente, però, il premier non sono io e attendo fiducioso che questo dilemma sappia risolverlo lui.