Il frugale Rutte cade proprio sul bonus

Chissà se in Olanda conoscono la dantesca legge del contrappasso. A ogni modo, questo è proprio il caso perfetto: il premier Mark Rutte, leader dei Paesi frugali che quest’estate si opponeva all’idea di dare soldi a fondo perduto all’Italia nel Recovery Fund e fiero oppositore di bonus e “assistenzialismo”, si è dimesso proprio per uno scandalo riguardante il “bonus figlio” introdotto nel 2012 dall’esecutivo. Da quel momento sono partite accuse infondate di frode rivolte dai funzionari del fisco a circa 20mila famiglie, costrette a fare debiti per restituire i soldi ricevuti. Qualche cittadino olandese ha dovuto addirittura vendere o lasciare la casa, chi ha dovuto contrarre dei mutui, altri si sono ritrovati vicini al fallimento su pressione del fisco olandese. Un mese fa, grazie al rapporto parlamentare “Ingiustizia senza precedenti”, è emerso che questo è stato “un processo di massa” nei confronti di 20mila famiglie con “violazioni dello stato di diritto”. Rutte si è scusato promettendo che il governo risarcirà gli olandesi frodati, ma alcuni hanno già presentato azioni legali contro l’esecutivo. Nel frattempo, su pressione dei partiti di maggioranza, il premier ha rassegnato le dimissioni.

Il “patto” a luci rosse del prof: “Un premio in cambio di sacrifici”

Sms del 29 maggio 2019: “Ti conviene fare un patto segreto con il prof… ahahah”. Intercettazione ambientale del 1º luglio 2019: “Ti va bene come patto?”. Telefonata dell’8 luglio 2019: “Io le ho proposto un patto”. Telefonata del 15 maggio 2019: “…questo possiamo mantenerlo come patto?”. Email dell’8 ottobre 2019: “Vuole fare un patto segreto?”.

Il prof che parla e messaggia è Angelo Scala, 52 anni, docente di Diritto processuale civile presso la facoltà di Giurisprudenza della Federico II di Napoli e in passato difensore di Maradona davanti al Fisco. Il 2 marzo si discuterà in udienza preliminare una richiesta di rinvio a giudizio: Scala è accusato di aver chiesto, e in qualche caso cercato di estorcere, la promessa di favori sessuali in cambio del superamento degli esami. Ne avrebbero beneficiato 10 studenti e 11 studentesse, 5 invece le studentesse che non avrebbero aderito alle proposte, in altri 17 casi si contesta solo l’esame truccato. Possibile così tanti episodi nel silenzio dell’ambiente universitario circostante? La domanda va letta anche alla luce di una circostanza che il Fatto è in grado di rivelare: il 17 maggio 2018, un ex studente provò ad avvertire i vertici dell’Ateneo che il professore Scala “insidia studenti e studentesse con sms e mail provocatorie”. Ma della sua mail, inviata all’indirizzo rettore@unina.it (all’epoca il Rettore era Gaetano Manfredi, ora ministro del Miur) gli inquirenti della Guardia di Finanza scrivono che “non si ha, allo stato, contezza della corretta ricezione”. Ovvero: non si sa se fu portata dal Rettore oppure cancellata perché, in una mail di un’ora dopo, l’ex studente pregava “di non tenere conto della mail precedente, dettata da un momento di mia poca lucidità, legato a un rancore che provo nei confronti del professore Scala, sto seguendo anche un percorso di psicoterapia”. Contattato dal Fatto, il ministro Manfredi spiega come andarono le cose: “La mail istituzionale, come avveniva per prassi, fu letta dalla segreteria che rispose per verificare l’attendibilità, chiedendo chiarimenti e informazioni più dettagliate su quanto denunciato. L’ex studente rispose scrivendo di non tenere conto della mail precedente e quindi non fu dato seguito alla segnalazione”. Manfredi ha poi precisato che ha appreso di queste mail solo dopo l’inchiesta.

E torniamo alla parola “patto”, che ricorre frequentemente nelle intercettazioni di Scala allegate agli atti delle indagini coordinate dai pm di Napoli Francesco Raffaele ed Henry John Woodcock. “Patto” è la parola chiave dei contatti tra il professore e i suoi allievi. Accompagnata da inviti all’obbedienza e alla riservatezza. E con accenni a “punizioni corporali” in caso di dissenso. Conversazioni che – sottolinea la Finanza – hanno “consentito di delineare un consolidato modus operandi (…) attraverso più o meno sottili forme di pressione psicologica”. Qualcosa che può ricordare il modo di comportarsi del professor Francesco Bellomo verso le studentesse dei suoi corsi di preparazione giuridica per il concorso in magistratura. Ma senza imporre tacchi alti o dress code.

Il modus operandi di Scala contemplava l’uso del lei ai primi approcci, nell’ambito di “un atteggiamento improntato a grande cautela”. Se si apre una breccia “inizia – scrive la Finanza – a effettuare apprezzamenti e avance, con allusioni alla sfera sessuale, salvo poi eventualmente ritrattare, celandosi dietro lo scherzo, qualora dovesse rilevare una qualche ritrosia”.

Sulle tecniche di Bellomo si sono versati fiumi di inchiostro. La vicenda di Scala è rimasta confinata in poche pagine di quotidiani locali, nel maggio in cui si usciva dal lockdown, con la notifica dell’ordinanza del Gip che lo ha sospeso dalla cattedra universitaria (si è poi dimesso).

Assistito dall’avvocato Claudio Botti, il docente si è difeso davanti ai pm ricordando che nessuno studente lo aveva denunciato. E lamentando in un paio di interviste l’eccessiva invasività di intercettazioni disposte nei suoi confronti in un momento in cui non era indagato: le sue utenze erano sotto controllo nell’ambito di una inchiesta su una procedura fallimentare al Tribunale di Nocera nella quale Scala ricopriva un ruolo professionale (vicenda nella quale Scala risulta estraneo). Così è stato possibile registrare i video delle telecamere nascoste nella stanza 30 del settimo piano della Federico II, e acquisire chat, sms ed email a luci rosse.

Agli atti, però, ci sono anche le storie di chi ha detto no al ‘patto’. E non è riuscito a superare l’esame. D., 23 anni, è una di loro. È stata sentita due volte, il 15 settembre e il 15 ottobre scorso. I contatti con Scala avvennero dopo una prima bocciatura, ed ebbero un andamento fluttuante. Un appuntamento saltò per un lutto della ragazza e lui le scrisse “non si preoccupi, obbedienza e riservatezza e io potrò aiutarla”. “Rimasi stranita e diffidente – ha detto la ragazza agli inquirenti –. Gli risposi che lo ringraziavo, ma che speravo di riuscire a passare l’esame da sola. Rifiutai l’aiuto e mi bocciò. Il prof. mi disse che avevo avuto un blocco mentale e mi fissò un appuntamento in Dipartimento. Non mi fidai, mi presentai con un’amica. All’uscita il prof. mi scrisse che non c’era bisogno della scorta. Perché era così buono con me? Forse perché ero troppo carina. Era contraddittorio. Di persona voleva aiutarmi anche in modo professionale, invece tramite messaggi o mail usava espressioni che si prestavano a doppi sensi. Sono rimasta traumatizzata”. Alla studentessa G., 27 anni, Scala scrisse più volte associando “il patto segreto” alle “punizioni corporali” e “a un premio in cambio di un sacrificio”. Valga per tutte la mail del 27 ottobre 2019: “Quando è in zona se le va di essere punita mi mandi un sms”.

Sentita il 7 ottobre scorso, G. ha detto: “Il riferimento alle punizioni corporali mi fece sorridere, pensavo che non facesse sul serio. E non l’ho mai contattato su quel numero”.

Furbastri&bonus, verdetto in arrivo: l’Inps rivuole i soldi

La data ufficiale non c’è ancora, ma il caso degli onorevoli furbetti del bonus Covid potrebbe risolversi, in un senso o nell’altro, entro la fine del mese. Nel giro di un paio di settimane – a meno di rinvii dell’ultimo minuto – il Garante della privacy dovrebbe infatti chiudere l’istruttoria sull’Inps e sul suo presidente Pasquale Tridico, chiarendo se l’ente previdenziale abbia raccolto i dati personali dei politici coinvolti in modo illegittimo o se invece si sia mosso dentro il perimetro della legge. Nel secondo caso, Tridico avrebbe allora un indiretto via libera per rendere pubblici non solo i nomi dei parlamentari che hanno chiesto il bonus da 600 euro destinato alle partite Iva (tre di loro – i leghisti Andrea Dara e Elena Murelli e l’ex M5S Marco Rizzone – lo hanno ottenuto, altri due, ignoti, no), ma anche delle decine di consiglieri regionali che ne hanno beneficiato. Tutti eletti a pubbliche cariche con stipendi superiori ai 10 mila euro al mese, mai intaccati durante l’emergenza coronavirus.

La mossa di Inps. Nell’attesa del verdetto, però, l’Inps si è già mosso nei confronti dei furbetti. In queste ore l’istituto sta infatti avviando le pratiche per il recupero dei 600 euro che i deputati avrebbero ricevuto – ritiene Inps – indebitamente. In altre parole: i parlamentari non avevano diritto al bonus, che era stato erogato perché, come ha spiegato Tridico in Commissione Lavoro alla Camera a Ferragosto, “erano momenti convulsi, con i cittadini che assalivano i negozi, e l’Inps ha dovuto rispondere in modo efficace in 15 giorni predisponendo una misura che non esisteva”. La priorità era garantire gli aiuti, anche ritardando i controlli più capillari come nel caso dei deputati.

Non era chiaro in partenza se essere parlamentare impedisse di ricevere il bonus e, anzi, in un primo momento sembrava che non ci fossero pregiudiziali. La materia è controversa e riguarda la natura della cassa previdenziale della Camera, quella a cui sono iscritti i deputati e che garantisce quel che resta del vecchio vitalizio, ovvero una pensione per chi supera i 4 anni e 6 mesi di legislatura. Dopo qualche mese di indagine, l’Inps ha ricevuto rassicurazioni legali per considerare quella cassa equiparabile a un ente previdenziale “concorrente” rispetto allo stesso Inps, circostanza che precluderebbe ai parlamentari l’accesso al bonus.

L’istruttoria. Tutto ciò, però, non aiuta l’istituto di Pasquale Tridico nell’indagine condotta dal Garante. Il fatto che i parlamentari non avessero diritto ai 600 euro, come sostiene l’ente, dimostra di certo la necessità dei controlli incrociati sui richiedenti, con l’obiettivo di scovare se fossero iscritti ad altre casse previdenziali. Ma occorre anche che quella verifica fosse svolta senza raccogliere dati personali in maniera impropria, per esempio eccedendo rispetto alle informazioni che sarebbero sufficienti o collezionandone a priori, senza sapere se saranno davvero utili per i successivi controlli.

Il perdono della politica. Di questo si sta occupando il Garante, ormai nel silenzio generale della politica: i leghisti Dara e Murelli sono stati reintegrati a pieno nella Lega, dopo una prima sospensione decisa nel bel mezzo dello sdegno mediatico, mentre Rizzone è fresco di adesione al Centro democratico di Bruno Tabacci, pronto a una nuova vita parlamentare.

La Commissione Lavoro di Montecitorio, che si era impegnata a convocare il Garante della privacy, sul tema è ferma da mesi in attesa che si chiuda l’istruttoria nei confronti dell’Inps. E così ai furbetti ancora ignoti, che da tempo hanno capito l’aria che tira e hanno smesso di autodenunciarsi, basta incrociare le dita e sperare che la questione si impantani per sempre.

Sanità, moda, lusso pure. Le fondazioni con la cassa Covid

Chiusi negozi e fermati i reparti, a batter cassa sono le fondazioni. Di ogni genere, scopo e natura. Vere e presunte, meritorie o meno che siano. In cima alla lista svettano il Monte Tabor di Don Verzé, in liquidazione da 10 anni, e quella di Mario Mantovani, il ras della sanità lombarda arrestato nel 2015 e da allora al centro di indagini e processi. C’è poi un pezzo d’industria e di finanza che non produce, ci sono banche e campioni nazionali della moda come Trussardi, Buccellati, Furla. L’ultimo lusso? Poter scaricare sulle spalle dello Stato – in piena emergenza Covid – i costi delle loro filantropiche iniziative. Lo fanno attingendo alla cassa integrazione in deroga che era principalmente destinata ai dipendenti di piccole aziende e attività esclusi da quella ordinaria.

Dovevano essere bar, ristoranti, lavanderie che hanno sospeso o ridotto l’attività per la pandemia. Degli indennizzi beneficiano però anche onlus e imprese sociali: alcune delle quali – si scopre ora – hanno sede nei più prestigiosi palazzi del centro di Milano, in via Durini o nell’ex Palazzo Ricordi di via Berchet, tra il Duomo e la Galleria. E tuttavia, si sono messe pure loro in lista per chiedere gli ammortizzatori Covid, insieme agli esercenti di poche pretese che chiedono giusto di non fallire.

Così fan tutti: Lega, Pd, Rifondazione…

Un’inchiesta del Fatto Quotidiano nei giorni scorsi ha rivelato come anche i partiti politici abbiano contribuito a disperdere queste risorse. Avviate a marzo col Cura Italia, sono state prorogate di volta in volta dai dl Rilancio, Agosto e Ristori e di altre 12 settimane con l’ultima manovra. Le risorse però non bastano mai perché tanti, forse troppi si mettono in fila. Tra i beneficiari, ad esempio, è saltato fuori quel Matteo Salvini che bollava gli aiuti del governo come “mance” e ora si fa i selfie coi ristoratori che sfidano i divieti. Magari sapessero che la Lega di Salvini se li è presi al volo: 360 ore di cassa richieste il 14 maggio e autorizzate con delibera della Regione (che amministra) nel giro di 30 giorni. Mancava il dato più corposo, quello del Lazio: il Pd ha fatto richiesta per 148 dipendenti, poi c’è Rifondazione e Sinistra Italiana. Insomma, la sinistra s’è finalmente messa d’accordo: tutti in fila per la cassa Covid. Ma torniamo a bomba: le fondazioni

Rsa e non solo: I casi Mantovani e Tabor

Nell’elenco dei beneficiari ci sono centri diurni per disabili, onlus come “bambini senza sbarre”, storiche fondazioni come la Lega Italiana per la lotta contro l’Aids, quella contro la sindrome di Asperger, l’autismo e così via. Ma attenzione. Tra migliaia di nomi così, ne spuntano altri. C’è ad esempio la “Fondazione Mantovani”, cuore dell’impero di Rsa dell’ex senatore di Forza Italia, già assessore alla sanità lombarda ed ex numero due al Pirellone. Due anni fa, Mantovani fu condannato a cinque anni e mezzo di reclusione per corruzione, concussione e turbativa d’asta. Sotto la lente dei pm milanesi sono finite poi proprio le onlus raccolte sotto l’omonima fondazione per un presunto ‘drenaggio’ dalle loro casse di 1,3 milioni attraverso il versamento di affitti, ritenuti fittizi, per un appartamento a Milano e una villa settecentesca nell’hinterland. Una lunga storia giudiziaria, dunque. Breve è stato, invece, il tempo d’attesa per la cassa Covid: per autorizzare la richiesta, Regione Lombardia ha impiegato solo una settimana. E dunque: 307 ore di cassa Covid per i dipendenti della Fondazione Mantovani Onlus.

Il nome da cerchiare in rosso però è “Fondazione Monte Tabor”, l’architrave dell’impero costruito da Don Verzé in via delle Olgettine. Da lì uscì il San Raffaele, ma anche molto altro: 1,5 miliardi di debiti. Un’inchiesta dei pm milanesi portò a galla gli investimenti “non-core” che acuirono il dissesto: un albergo in Sardegna, piantagioni in Brasile, una società di elisoccorso in Nuova Zelanda per gestire il jet privato. Dieci anni fa il gigantesco crac finanziario scomodò il Vaticano e portò al passaggio del San Raffaele al Gruppo Rotelli. Poi un concordato che costò ingenti danni ai creditori, l’inchiesta sui fondi neri, il suicidio del direttore finanziario e braccio destro del don, Mario Cal. Ebbene, tra i beneficiari d’indennizzo Covid la rediviva fondazione Monte Tabor torna più volte per totali 8.602 euro di indennizzo. Della lunga storia di cui sopra un solo indizio: “In liquidaz. e in conc. prev”.

Gli enti di ubi, trussardi, furla e Marcegaglia

Cambiamo settore. Confindustria non perde occasione di rammentare quante produzioni abbiano chiuso e quante, restando aperte, hanno salvato il Paese. Sacrosanto che gli imprenditori chiedano ammortizzatori per i propri dipendenti. Lo ha fatto anche Marcegaglia. Non parliamo del gruppo dell’acciaio da 5,5 miliardi di fatturato che di Confindustria ha espresso anche un presidente, ma della onlus di famiglia. La Fondazione Marcegaglia, nata nel 2010, ha avuto 800 ore di cassa Covid che altre imprese, magari, si sognano. Negli elenchi figurano fondazioni bancarie (la cattolica Ubi Banca San Paolo di Brescia, ad esempio) e blasonatissimi nomi della moda e dell’alta gioielleria. A febbraio 2019 la famiglia Trussardi, per dire, ha ceduto il controllo della storica maison da 150 milioni di fatturato. A maggio 2020, la fondazione filantropica che porta quel nome bussa allo Stato per 455 ore di cassa Covid. Lo stesso vale per Furla (500 milioni di fatturato, l’ex palazzo Ricordi a Milano) e per la famiglia Buccellati, maison di alta gioielleria milanese. La sua fondazione ha la sede in via Durini 20, dietro al Duomo. L’azienda italiana, passata l’anno scorso alla multinazionale del lusso Richemont, ha appena aperto una nuova boutique. Non a Milano ma a Chengdu, in Cina.

Welfare più universale, ma sui costi si dovrà trattare con Confindustria&C.

Il blocco dei licenziamenti non è la sola partita campale che attende le parti sociali. La pandemia ha reso evidenti le falle del sistema di ammortizzatori sociali ridisegnato nel 2015 con il Jobs Act. Ora il governo vuole riformarlo e la trattativa con le associazioni datoriali – non solo la Confindustria di Carlo Bonomi – sarà serrata, specie sui costi. Perché le nuove tutele potrebbero comportare una crescita delle aliquote contributive, e alle imprese non piacerà.

Il piano è affidato dal ministro del Lavoro Nunzia Catalfo a una commissione di esperti, che ha scritto una prima bozza in autunno e si è riunita più volte già da inizio 2021. Se n’è parlato ieri con i sindacati, ma nel merito si entrerà dal 25 gennaio con nuovi incontri. Il lascito del Jobs Act renziano, è un modello che non ha sanato la frattura tra garantiti e non: c’è la cassa integrazione, riservata ai settori autorizzati, chi non ce l’ha usa i fondi bilaterali, chi non ha neanche questi va sul Fondo di integrazione salariale (Fis); per le imprese sotto i 15 dipendenti c’è poco o nulla. Come disoccupazione ci sono la Naspi per i dipendenti e la Discoll per i collaboratori. Autonomi non pervenuti. La miriade di interventi tampone resasi necessaria con la pandemia dimostra che una parte significativa degli occupati era esclusa da ogni forma di protezione. Da marzo quelli emergenziali – cassa “in deroga” e bonus vari – hanno toccato quasi 10 milioni di persone per una spesa di 14 miliardi.

La bozza della riforma, da tradurre in legge delega, crea un sistema più universale e generoso. Primo punto: abolizione della cassa integrazione “in deroga”. Quella “ordinaria” e “straordinaria” diventeranno per tutte le imprese a prescindere dal settore e dalle dimensioni. Da rivedere gli importi: oggi coprono l’80% della retribuzione, con massimali che saranno alzati per evitare perdite di reddito troppo grandi. Nasceranno anche i minimi, perché oggi – specie con per chi è part time – il crollo dovuto alla “cassa” spesso porta i guadagni sotto l’assegno sociale (che potrebbe essere usato per calibrare la soglia per i minimi). La durata resterebbe a 24 mesi, elevabili a 30.

Quanto alle tutele per chi perde il lavoro, sarebbe estesa l’indennità di disoccupazione Naspi a gran parte dei collaboratori (superando la Dis-Coll). Oggi il sussidio richiede almeno 13 settimane lavorative e dura la metà del periodo di lavoro. Esempio: se si viene licenziati dopo due anni di servizio, l’assegno copre un anno. Per i co.co.co., tuttavia, massimo sei mesi a prescindere dalla carriera pregressa. L’obiettivo ora è parificare il trattamento per tutti e prevedere una durata pari all’intero periodo lavorato (quindi non più alla metà) e comunque con un minimo di sei mesi. Si discute ancora sull’estensione e soprattutto sull’ipotesi di rimuovere il meccanismo che prevede una graduale riduzione (almeno per un periodo transitorio) e spesso spinge nella povertà chi già aveva bassi stipendi. Ma la vera rivoluzione sarebbe per gli autonomi. L’idea è una sorta di Cig per quelle partite iva che subiscano un calo del fatturato di oltre un terzo rispetto alla media dei tre anni precedenti. In caso di reddito inferiore a 35 mila euro – da affiancare a un valore massimo di Isee – un’indennità parametrata rispetto alla percentuale della perdita di guadagni, forse al 50%. In caso di perdita totale del lavoro, l’ipotesi è un sussidio di disoccupazione Inps sempre parametrato ai precedenti guadagni.

Il sistema sarebbe allargato di molto rispetto a quello disegnato dal Jobs act. La riforma corregge quei difetti e vuole introdurre un welfare decisamente più universale. Ma ha un costo. Il grosso è sull’estensione per la Naspi-Discoll, che nell’ipotesi più ricca (e pessimistica), può valere nel 2022 una decina di miliardi 8qualche centinaio di milioni per la Cig). Dove prenderli? La riforma mantiene il carattere “assicurativo”: sono cioè le imprese e i lavoratori a pagare con aliquote differenziate (quali e con quali differenze si vedrà) i fondi necessari. Un’ipotesi è che nei primi tre anni sia in tutto o in parte a carico della fiscalità generale. Se il pubblico dovrà poi farlo in maniera strutturale sarà la vera discussione dei prossimi mesi e gli attriti sono assicurati.

Blocco dei licenziamenti verso la proroga (con la Cig gratuita)

Al termine di una giornata in cui la ministra del Lavoro ha incontrato i sindacati e le imprese, in cassaforte c’è la certezza di altre 18 settimane di cassa integrazione per Covid. L’effetto quasi scontato sarà una nuova proroga del divieto di licenziamenti economici, che altrimenti scadrebbe il 31 marzo e ancora nel pieno dell’emergenza sanitaria. C’è però ancora un rischio: che l’ammortizzatore sociale, e conseguentemente il blocco, diventi selettivo, quindi non destinato a tutte le aziende, ma solo a quelle dei settori più colpiti dalla pandemia. L’industria, che oltre ad aver retto meglio può già contare sulla cassa ordinaria, potrebbe restarne fuori.

La situazione è delicata: secondo la Banca d’Italia, la moratoria ha evitato 600 mila licenziamenti. Dal lato sindacale, se ne ipotizzano addirittura un milione e mezzo entro fine 2021 se dovesse venir meno. Ieri Nunzia Catalfo non ha sciolto la riserva sulla proroga e sulle modalità, ma le parti torneranno a riunirsi nel giro di pochi giorni, prima cioè che arrivi il nuovo decreto Ristori. Sarà quello il provvedimento che “ospiterà” le nuove disposizioni in tema di protezione dei posti di lavoro dallo tsunami causato dal Covid. Durante l’incontro, Catalfo ha parlato della possibilità di “differenziare in parte” l’utilizzo delle 18 settimane di cassa integrazione. Come detto, però, la traduzione pratica di queste ipotesi ancora non esiste. “Noi abbiamo chiesto che le settimane di cassa integrazione non siano differenziate per settori e che siano accompagnate dalla proroga generalizzata del blocco dei licenziamenti”, ha spiegato la segretaria Cgil Tania Scacchetti. Il ministero sta facendo una serie di stime. La partita è connessa al nodo delle risorse.

Il governo ha chiesto un nuovo scostamento di 32 miliardi di deficit. Un prolungamento del regime attuale, che vieta alle aziende di licenziare per giustificato motivo oggettivo salvo le cessazioni, i fallimenti e i cambi appalto, è sostenibile solo assicurando che la Cig sia gratuita.

Sempre nel decreto Ristori potrebbe poi già entrare un piccolo tassello della riforma complessiva e strutturale degli ammortizzatori sociali. Si tratterebbe di una leggera revisione della solidarietà difensiva, quel meccanismo che permette alle imprese di salvaguardare i posti di lavoro riducendo l’orario dei dipendenti. Oggi è avvertita come poco conveniente sia per i datori sia per gli stessi lavoratori. Secondo i sindacati sarebbe uno strumento in più contro l’ecatombe occupazionale che ci aspetta, quindi non è da escludere che già il prossimo decreto possa contenere norme che rendano più appetibile il contratto di solidarietà. Inoltre, sono attesi nuovi allungamenti dei sussidi di disoccupazione in scadenza, la Naspi e la Discoll. “Rispetto alle categorie penalizzate dall’emergenza – ha spiegato la segretaria Uil Ivana Veronese – ci sono ancora scoperture da sanare, come i venditori porta a porta e i somministrati che non lavorano nel turismo. Abbiamo consegnato una lettera e ci aspettiamo risposte”.

 

La balla del Recovery plan “migliorato grazie a Renzi”

Tra le scorie del renzismo e dei suoi adepti, una che rischia di rimanere incollata al dibattito pubblico dice che grazie a Italia Viva il piano per il Next Generation Eu sia stato scritto finalmente come si deve. Lo affermava con estrema sicumera Corrado Formigli nel corso di Piazza Pulita su La7, generosamente supportato dal giurista Sabino Cassese e dall’ex direttore di Repubblica, Mario Calabresi. “Ora che Renzi è uscito dal governo, ci saranno le competenze per scrivere un piano come si deve?”, chiedeva il brillante conduttore ai suoi ospiti pronti a ondeggiare il capo sconsolato.

Immaginiamo che degli inetti come Roberto Gualtieri o Enzo Amendola siano disperati per aver perduto il supporto di menti brillanti come Teresa Bellanova o Ivan Scalfarotto. Come faranno a produrre un testo in grado di passare l’esame europeo? Come hanno fatto finora. Nel giorno in cui il Recovery plan arriva alle Camere, smontiamo alcune fantasiose ricostruzioni.

Il Piano è stato scritto “con il favore delle tenebre”, redatto in gran segreto e recapitato ai ministri “alle 2 di notte”.

Abbiamo già ripercorso sul Fatto le tante riunioni preparatorie tenutesi a partire dallo scorso agosto, evidenziando come la scrittura del Piano fosse abbastanza nota a tutti tranne che ai renziani. Il 15 ottobre si è tenuto addirittura un dibattito parlamentare con approvazione delle linee guida e diffusi ringraziamenti al lavoro svolto dal ministri Amendola. Renzi, probabilmente, era distratto.

Le varie bozze circolate sono la prova di una totale impreparazione.

Tra le bozze iniziali e quella finale la differenza è che l’ultima è finalmente redatta organicamente mentre le altre erano, appunto, delle bozze. Il ruolo di Italia Viva, poi, è stato puramente emendativo e si è sommato a quello di Pd e M5S che pure hanno avanzato le loro proposte e le loro richieste.

La Cabina di Regia era un guaio, ma ora chi decide?

La cabina di regia era incardinata su tre ministeri, ma ora il professor Cassese si dice soddisfatto che non ci sia più. Subito dopo, però, lamenta l’assenza di una… cabina di regia. Nel mezzo di una crisi di governo provocata proprio per quello, ci si stupisce che il problema non sia risolto.

“Senza i renziani come farà il governo a scrivere un progetto valido per il Recovery”?

La domanda è davvero ridicola, ma comunque, mettendo a confronto le tabelle sui 52 progetti elencati il 23 dicembre scorso, prima dell’intervento delle teste d’uovo di Renzi (quali poi?) e quelli dell’ultima bozza, ci si accorge che le modifiche sono davvero minime. La maggior parte delle voci ha la stessa denominazione e quasi sempre gli stessi importi. A essere modificato è sicuramente il capitolo Turismo e Cultura, passato da 3,1 miliardi della primissima bozza agli 8 miliardi attuali. Così come è aumentata la dotazione per la Salute, da 9 a 18 miliardi grazie soprattutto allo spostamento di una parte della voce Digitalizzazione (che infatti è diminuita di circa 3,5 miliardi). Si tenga conto che per tenere insieme tutte le esigenze, il governo ha aggiunto ai fondi del Next Generation anche quelli del React Eu e i Fondi europei di Programmazione del bilancio 2021-2026, in questo modo mischiando un po’ le carte.

Renzi ha notevolmente migliorato il Piano europeo.

Renzi ha fatto ridurre la voce Rivoluzione verde e transizione ecologica da 74,3 a 66,59 miliardi dove a pagare sono le partite sull’Efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati. Ha fatto incrementare la voce Alta velocità ferroviaria di circa 5 miliardi e la voce Istruzione e ricerca con 6 miliardi in più per il Diritto allo studio e 3 miliardi in più alla voce Dalla ricerca all’impresa. Renzi non ha migliorato il Piano, ci ha messo quello che gli interessava di più.

Il Recovery Plan è una delle prove che Conte ha voluto accentrare tutti i poteri.

Sulla cabina di regia abbiamo detto. Dal 4 settembre 2019 a oggi, Conte si è recato alla Camera e al Senato, per comunicazioni e informative o per il question time ben 37 volte, 2,5 al mese. I Dpcm, che costituiscono la prova fumante dei pieni poteri, sono stati emanati in una situazione del tutto inedita di emergenza, e comunque i governi Renzi e Gentiloni ne hanno emanati di più. Ci sono tanti punti su cui si può criticare e attaccare il governo Conte, basta scegliere quelli veri.

La Lega apre il suk: Borghi scrive ai 5S e offre “buoni ruoli”

La sfacciataggine non è certo mai mancata alla Lega. Se in queste ore in Parlamento domina il tatticismo, dal Carroccio si sbilanciano invece con dichiarazioni e promesse tutt’altro che caute, nel tentativo di scongiurare la formazione di un gruppo di responsabili che sostenga il governo. E così dai big del partito partono continui messaggi a deputati e senatori del Movimento 5 Stelle. Con un solo obiettivo: portare a casa almeno quattro o cinque nuovi parlamentari e indebolire così la maggioranza, anche giurando di aver pronte poltrone da mettere a disposizione per i transfughi.

Trattative senza troppi fronzoli, se è vero che diversi eletti del Movimento hanno girato il testo della proposta a un esponente di peso dei 5Stelle, che ci conferma come “siano in atto delle grosse manovre” da parte della destra. Meglio: “Una vera azione di reclutamento per portare persone da loro”. E non si tratta di pourparler nei corridoi dei Palazzi, chiacchiere che si perdono tra un caffè e l’altro nella buvette del Senato, ma di messaggi espliciti affidati, tra gli altri, alla capacità persuasiva dell’onorevole Claudio Borghi: “Riflettici bene, questa potrebbe essere l’ultima possibilità”, scrive il deputato no euro a un grillino.

Il problema è che le lusinghe non si limitano all’astratto, ma arrivano a immaginare “buon ruoli” (sic) per chi accetterà di cambiare partito, restituendo l’idea di una campagna acquisti degna del calciomercato estivo. Un posto in Parlamento o in qualche Regione, la nomina in qualche azienda partecipata. Le occasioni per accontentare eventuali nuovi ingressi non mancano, almeno nella partita a poker imbastita dai leghisti in queste ore.

I 5Stelle sottolineano come deputati e senatori stiano rispedendo al mittente le proposte con un secco No, ma la Lega, della cui sfacciataggine si è detto, è sicura del contrario: “Stiamo trattando il passaggio di alcuni senatori dal gruppo del Movimento 5 Stelle alla Lega”, ha ammesso Gianmarco Centinaio ad Affaritaliani. Senza specificare, ça va sans dire, la natura delle trattative.

D’altra parte però anche lo stesso Matteo Salvini non ha mai nascosto le sue mire sui 5Stelle, promettendo “porte aperte se qualcuno bussa”. Linfa per le ambizioni dei leghisti, che arrivano a ipotizzare “anche cinque o dieci nuovi arrivi”.

Si vedrà. Dando un’occhiata ai passaggi di gruppo di questa legislatura, si capisce però come la Lega abbia sempre pescato in maniera mirata dai 5Stelle, rinforzando le proprie truppe nelle stanze più delicate del potere parlamentare. Non a caso, l’ultima arrivata dal Movimento è stata Alessandra Riccardi, che l’estate scorsa ha abbracciato il leghismo dopo essersi resa utile alla causa da componente della Giunta per le elezioni del Senato, dove ha votato contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini per il caso Open Arms.

Senza dimenticare che proprio dalla stessa Giunta – nella quale la Lega ha strappato ai 5Stelle anche Francesco Urraro – passano atti e votazioni fondamentali, come quella sul sequestro del computer del leghista Armando Siri di fine 2019.

Tutta benzina per la nuova controffensiva leghista di queste ore condotta da Borghi, Centinaio e colleghi, benedetta peraltro dall’insolito alleato Matteo Renzi: “È più facile che Salvini ne rubi altri tre al Movimento che il contrario”, ha detto qualche giorno fa per esorcizzare l’arrivo dei Responsabili. L’altro Matteo deve averne tratto ispirazione.

Gli “Scilipoti” di Italia Viva: tutti eletti con Pd, FI o gli odiati 5S

In questi giorni, molti renziani si dilettano in lezioni di purismo politico, evocando i responsabili di berlusconiana memoria e puntando il dito sui “transfughi” pronti a sostenere Giuseppe Conte in Senato. Peccato che la stessa Italia Viva sia formata interamente da “transfughi”, essendosi formata nel settembre 2019 dopo la scissione dal Pd.

Dei 17 senatori iscritti al partito renziano (il diciottesimo del gruppo, Riccardo Nencini, fa parte del Psi), 14 sono stati eletti grazie al simbolo dei democratici, con il quale sono entrati in Parlamento nel 2018: oltre allo stesso Matteo Renzi, ci sono Teresa Bellanova, Francesco Bonifazi, Eugenio Comincini, Giuseppe Cucca, Davide Faraone, Laura Garavini, Nadia Ginetti, Leonardo Grimani, Ernesto Magorno, Mauro Maria Marino, Annamaria Parente, Daniela Sbrollini e Valeria Sudano. Vengono invece da Forza Italia Vincenzo Carbone e Donatella Conzatti, mentre dagli odiati 5Stelle Matteo Renzi ha reclutato Gelsomina Vono.

Molto simile è stata la pesca alla Camera, dove Italia Viva ha scippato 24 deputati al Pd – sarebbero 25, ma Nicola Carè ha fatto retromarcia dopo qualche mese – e 6 alle altre forze politiche. Anche qui qualcuno viene dal centrodestra, come Francesco Scoma e Davide Bendinelli (Forza Italia) o Gabriele Toccafondi (Alternativa Popolare, gli eredi di Angelino Alfano, che però alle ultime elezioni era già diventato di sinistra), ma ci sono anche due ex LeU come Michela Rostan (che se ne andò dal Pd proprio perché in contrasto con Renzi) e Giuseppina Occhionero. Infine c’è Catello Vitiello(nella foto sopra): cacciato dai 5Stelle ancor prima delle elezioni perché si scoprì essere massone, Vitiello è stato folgorato sulla via del renzismo dopo un anno e mezzo passato nel Gruppo Misto, dove aveva dato vita alla componente “10 Volte meglio”.

“Se Giorgetti avesse le palle ora farebbe il ministro con Giuseppi”

“Se Giorgetti avesse le palle, fateglielo sapere, prende venti parlamentari va al gruppo misto e garantisce la maggioranza”.

E poi Leoni?

Poi si fa dare il ministero delle Riforme e attua le autonomie. Questo vuol dire fare politica.

Giuseppe Leoni è uno dei fondatori della Lega con Umberto Bossi e Roberto Maroni. Oggi è presidente dell’Aero Club d’Italia.

Perché Giorgetti non lo fa?

Perché “el parla no”. Lo conosco bene è un democristiano: lui cerca di galleggiare e siccome ha bisogno di rimanere in quel mondo lì fa finta di litigare, però non litiga. È il suo carattere. L’ho portato io in politica, è una brava persona ed è l’unico che sarebbe in grado di ricoprire la carica di ministro.

Ma?

Ma è un ignavo.

In compenso parla Salvini.

Salvini non è la Lega. Con il suo sovranismo rappresenta un incesto. È un padre putativo: ha preso della roba che non è sua e ha fatto dei pasticci. Salvini ha scambiato il federalismo per il fascismo ma sono due cose diverse. Oggi mancano i partigiani, così l’unico che parla senza dire niente è Salvini proprio lui che la parola “autonomia” non la pronuncia nemmeno più.

Un leghista come lei che parla di partigiani?

Servono partigiani armati di coraggio e responsabilità. La nostra democrazia è falsa perché le poltrone del potere le distribuisce il segretario di partito. Se tu non servi il segretario lui ti toglie la cadrega da sotto il sedere. E dopo, a 50 anni, cosa fai?

Quindi?

Quindi tutti zitti e pecoroni.

Zitti anche sui 49 milioni scomparsi della Lega?

Secondo me i magistrati sanno già dove sono finiti. Aspettano solo le prossime elezioni e questo Salvini lo sa bene.