“Italia Disperata”: peones in rivolta vs Matteo & Meb

Maria Elena Boschi è sparita dai radar. Dopo lo showdown di Matteo Renzi, tutti ci hanno messo la faccia, tranne lei. Il progetto di far fuori Conte, al momento, sembra fallito. Insieme alle ambizioni personali di riconquistare un posto al sole. Per settimane “Meb” ha accarezzato il sogno di tornare ministro. Ma negli ultimi, convulsi giorni della trattativa si è capito che anche se Iv fosse entrata al governo, non sarebbe toccato a lei: era un boccone troppo amaro per i Cinque Stelle. Una delusione cocente per la ex “Giaguara” che pretese un posto da sottosegretario a Palazzo Chigi nel governo Gentiloni dopo il fallimento del referendum costituzionale e si presentò al giuramento con un sorriso tanto sfavillante, quanto fuori luogo, dopo che il premier con cui aveva condiviso la madre di tutte le battaglie aveva fatto gli scatoloni.

Raccontano che sia stata lei l’unica con la quale Renzi ha condiviso nel dettaglio la sua scelta di rompere, secondo un’antica consuetudine. Quel che è certo è che nulla aveva detto ai gruppi di Italia Viva, con i quali aveva mantenuto dei toni abbastanza low profile. La comunicazione ufficiale è avvenuta solo a cose fatte. Ma un’assemblea di giovedì pomeriggio ha fatto tastare con mano all’ex premier non solo la disperazione dei suoi, ma anche la tentazione di abbandonare la nave. Mauro Marino ed Eugenio Comincini gli hanno rinfacciato il fatto che quando sono entrati in Iv non pensavano di dover mai finire “all’opposizione”. Stesse critiche – di metodo e di merito – anche da Donatella Conzatti che gli ha detto: “Parli male di Conte ma sei come lui” e lo stesso Riccardo Nencini, colui che gli diede il simbolo per fare il gruppo a Palazzo Madama e ora potrebbe toglierglielo, gli ha detto che ha sbagliato ad aprire la crisi.

Renzi ha incassato, poi si è messo a telefonare a uno a uno ai suoi parlamentari. Ha promesso l’astensione in Aula martedì: un modo per cercare di evitare la diaspora, ma nello stesso tempo per provare ancora una volta, in extremis, a complicare la strada del governo Conte in Aula. La sua sfida al premier, ora, è che arrivi a 161 voti (una soglia psicologica, visto che in realtà per la fiducia non serve la maggioranza, ma basta un voto in più), pronto a dire un minuto dopo se i sì sono meno, che esiste un problema politico. Il Pd sta facendo un pressing continuo sui senatori di Iv. Ma per ora, l’unico a dire sì sicuramente sarà Nencini. Attenzionati Marino, Comencini, Nadia Ginetti, la Vono (che però ha smentito) e Annamaria Parente. Il tentativo è quello di riportarli nel Pd, e rendere davvero Iv il passato. Gli incubi si materializzano, uno dopo l’altro: i renziani si vedono finire nel Gruppo Misto, soggetti alla guida della Presidente, Loredana De Petris, che, secondo il Regolamento di Palazzo Madama, decide l’attribuzione delle Commissioni e anche chi fa gli interventi in Aula. Un’immagine umiliante di per sé quella di Renzi nel Misto. E poi, ci sono altre questioni: Alessio De Giorgi, che ancora gestisce almeno parte della comunicazione digitale di Iv, viene pagato grazie a un contratto con il ministero dell’Agricoltura.

Fatto sta che in questi giorni le offerte di disponibilità per un Conte ter si sono moltiplicate. Dalla ormai ex ministra Elena Bonetti al deputato Luciano Nobili, passando per Davide Faraone, capogruppo in Senato, che ieri si è spinto a dire: “Se Conte scioglie i nodi, noi ci siamo”. Ed Ettore Rosato vorrebbe tenere in piedi una trattativa che pareva del tutto tramontata.

È dalla disperazione collettiva e dall’eterna voglia di rilancio che riparte il dialogo del Capo con Matteo Salvini, in realtà mai interrotto. Giovedì Renzi l’ha sentito, chiedendogli di bloccare gli uscenti da Forza Italia e soprattutto far partire la controffensiva della campagna acquisti tra i grillini. Lui, nel frattempo, con l’astensione prova a fare l’ennesimo aggiustamento tattico per evitare la dissoluzione di Iv. E per provare, dopo, a usare quel che gli resta come drappello di disturbo, da proporre di volta in volta al miglior offerente. Quanti diranno di sì, mandando in fumo questo tentativo, lo dirà l’Aula martedì.

Costruttori, “centro” giallorosa Ma Conte: “Non fondo partiti”

La mossa del “partito” ha spezzato i nervi di quelli che finora erano allineatissimi. Così Giuseppe Conte ha dovuto chiarire, spiegare, mettere i puntini sulle i. Che lui “non è Mario Monti”, che il suo nome a capo di una lista alle prossime elezioni “non ci sarà”. Prende le distanze, almeno sulla carta: “L’operazione Costruttori” non ha nulla di personale, insiste. Piuttosto, può diventare la gamba centrista della coalizione giallorosa che tutti giurano dovrà nascere dalle ceneri del “mare di casini” in cui li ha lasciati Matteo Renzi.

Eppure, tra “i casini” con cui è cominciato questo 2021, le ambizioni del presidente del Consiglio sono tutto tranne che una variabile da sottovalutare. I Cinque Stelle – incredibilmente compatti nelle ore più drammatiche della crisi – sono di nuovo una maionese impazzita. In cui più di qualcuno tuona: “Se Conte, sostenuto dai ministri più vicini a lui (tradotto: Stefano Patuanelli, Alfonso Bonafede, Riccardo Fraccaro) pensa di potersi prendere la libertà di svuotare il Movimento, allora ognuno si sentirà legittimato ad andare per la sua strada”. È una minaccia che giovedì sera è arrivata dritta dall’assemblea dei gruppi parlamentari Cinque Stelle. Dove ci sono 8 deputati e 5 senatori (tra cui Mattia Crucioli e Laura Granato, da tempo critici con l’esecutivo) che hanno posto condizioni per il sì al governo, al punto da far perdere le staffe al reggente Vito Crimi: “Questo cosa vuol dire, che non voterete il governo se non saranno soddisfatte tutte le richieste? Vuol dire che i responsabili anziché 15 devono essere 20? Cosa dovrò dire alle altre forze politiche?”.

Ha ragione a essere preoccupato, Crimi. Perché al di fuori di Palazzo Chigi – dove si dichiarano sicuri che i responsabili ci sono, e in abbondanza – nei corridoi del Parlamento si respira molta meno serenità.

Non basta il segnale che è arrivato ieri da Palazzo Madama: nel gruppo misto il “capo” degli Italiani all’Estero, Ricardo Merlo, ha fondato la componente di chiara ispirazione contiana “Italia 23”. Finora sono 5, ha aderito anche l’ex 5Stelle Maurizio Buccarella, convinto che si debba “dare una chance a quei parlamentari che vogliono continuare a costruire con Conte un’Italia nuova, moderna, che guardi al futuro”. Ma il futuro appare assai incerto, anzi – per dirla con un senatore M5S – è “scritto sulle sabbie mobili”. Troppe le incognite e soprattutto, notano, troppo poca l’esperienza di chi sta guidando l’operazione a Palazzo Chigi, dove il premier e i suoi fedelissimi sono impegnati nella ricerca dei responsabili. Per dire: ci sono alcuni parlamentari che per varie ragioni non stanno frequentando i palazzi in queste settimane, ma nessuno si è premurato di chiamarli, dando per scontato che saranno presenti all’appello di lunedì e martedì. Oppure, si citano gli esempi di due voti dati per sicuri, come quelli dell’ammiraglio Gregorio De Falco e di Saverio De Bonis: “Ma li conoscono? Ma lo sanno che quelli sarebbero capaci di chiedere un ministero?”. È un modo come un altro per spiegare che si sta trattando con personaggi piuttosto instabili, dal punto di vista delle garanzie che possono offrire.

Il dubbio, insomma, è che chi sta tenendo il pallottoliere non abbia fatto bene i conti con la totale assenza di scrupoli che gira da quelle parti. Dunque, va bene il sì dei due socialisti guidati da Riccardo Nencini, va bene il lavorìo di Paola Binetti che sta provando a convincere Lorenzo Cesa a portare i tre senatori dell’Udc sulla riva di Conte, assodato che qualche renziano non seguirà il suicidio dell’ex rottamatore e fermi restando i 5 neo iscritti a Italia 23, restano comunque troppe variabili aperte per dire che la fiducia al Senato arriverà senza intoppi.

È preoccupato anche il Pd, che pure considera il rapporto con Matteo Renzi chiuso una volta per tutte – ieri le parole di Nicola Zingaretti che escludevano “vendette” hanno fatto intendere un ripensamento, smentito in maniera secca dal Nazareno –, ma considera ancora “difficile” il prosieguo dell’esperienza di governo. E già ricomincia ad avanzare dubbi e perplessità sul “patto di legislatura”, a cominciare dalla famigerata governance del Recovery plan: “Per noi, se non si cambia, c’è solo il voto”, minacciano. Mettici poi Clemente Mastella, il primo auto-proclamato responsabile, che alza la posta con la consueta franchezza: “Nessuno faccia scherzi. Non siamo i polli di Renzi. Attenti cari Conte e Zingaretti, lunedì potreste avere sorprese. Noi siamo responsabili, ma non fessi. Il figliuol prodigo ritorna. Nessun vitello grasso. Alcuni di noi sono a dieta”.

Ci sono ancora 48 ore di tempo per chiudere l’operazione senza lasciare feriti (escluso Renzi). “L’embrione” della “gamba di centro” che Conte ha in testa è ancora tutto da costruire. “Bisogna dargli un’anima – avvertono dal Pd – e bisogna dargli posti”.

Chi è senza peccato

Prima ovvietà: nessuno fa niente per niente. Quindi, “responsabili”, “disponibili” o “costruttori” che siano, i parlamentari che passano dall’opposizione alla maggioranza (o viceversa, ma è più raro) restano dei voltagabbana che vogliono salvare la poltrona, se non conquistarne altre. A meno che non siano stati eletti in un partito di maggioranza e l’abbiano mollato strada facendo, come i 48 di Iv e molti ex M5S (nel qual caso sarebbe un atto di coerenza). Poi ci sono quelli che si fanno pagare, tipo De Gregorio o quell’anonimo senatore di centrosinistra che B. disse disposto a passare a destra se l’amico Saccà avesse scritturato una sua protetta a Raifiction. Seconda ovvietà: i giallorosa cercano una dozzina di senatori per rimpiazzare i renziani; intanto le quattro destre (Salvini, Meloni, B. e l’Innominabile) tentano di trattenere tutti i propri e di acquisire qualche giallorosa. Terza ovvietà: salvo pochi big, nessuno vuole le elezioni anticipate perché nessuno è certo di essere rieletto. Per fortuna i parlamentari sono stati tagliati da 945 a 600, altrimenti ora i posti da chiedere o da offrire sarebbero 345 in più.

Conte non ha né i soldi né le tv di B. E nemmeno posti da garantire, a parte i tre strapuntini liberati da Iv. Tutti dicono che farà un partito per far rieleggere chi passa con lui. Ma è una balla. Oltre alla prosecuzione della legislatura, offre un progetto politico: nell’immediato, una buona (si spera) gestione del Recovery, della lotta al Covid e delle vaccinazioni; in prospettiva, un centrosinistra formato, oltreché da M5S, Pd e LeU, da una forza di centro il cui embrione sono i “costruttori”, per intercettare i voti in fuga da Iv e FI, anziché regalarli a Lega e FdI. Altri, vedi gli sms del leghista Borghi ad alcuni 5Stelle, promettono posti e poi tuonano contro inesistenti “mercati delle vacche” altrui. Del resto, senza voltagabbana, in questa legislatura figlia di una legge elettorale proporzionale, non sarebbe nato alcun governo e saremmo tornati a votare all’infinito. Solo il M5S aveva promesso che avrebbe governato con chi ci stava (esclusa FI). Invece Lega e Pd avevano giurato “mai col M5S” e poi ci hanno governato entrambi. Oggi le alternative sono soltanto quattro: 1) governo Conte2bis con alcuni “costruttori” (ex M5S ed ex Iv, dunque non-voltagabbana, e voltagabbana centristi); 2) governo di Tizio o Caio con M5S, Pd, LeU e Iv, di nuovo ricattato dallo Scilipoti di Rignano; 3) governo tecnico o istituzionale o di larghe intese con tutti voltagabbana (pezzi di tutti i partiti); 4) elezioni in piena pandemia e poi B., Salvini e Meloni a gestire Recovery, Covid e Quirinale. Quindi, ultima ovvietà: il Conte2bis con i costruttori e senza Iv è la soluzione peggiore, escluse tutte le altre.

Obiettivo: tornare a livelli di vendita pre-Covid. Virus permettendo

Secondo gli analisti, nel 2020, si sono vendute tra i 15 e i 20 milioni di auto in meno rispetto all’anno precedente, nel mondo. Un numero che poteva essere ben peggiore, se non ci fosse stata la spinta del mercato cinese, ripresosi prima degli altri dagli effetti del Covid.

E il 2021? L’auspicio è quello, quantomeno, di tornare ai livelli pre-pandemia. Non è un caso che le previsioni degli addetti ai lavori accreditino il nuovo anno di una crescita commerciale compresa tra l’8 e il 10%, il che consentirebbe di recuperare quanto lasciato per strada. O meglio invenduto nei mega parcheggi, soprattutto quelli del Vecchio continente: solo in Italia, ad esempio, sono ben 535 mila le auto che mancano all’appello.

Affinché gli auspici si trasformino in realtà, nondimeno, bisogna vincere un paio di sfide: la (maggiore) diffusione delle auto elettriche e, soprattutto, i lockdown. Una nuova e dura ondata di contagi, con relative chiusure, manderebbe infatti all’aria le previsioni: solo in Europa, tanto per rimanere dalle nostre parti, costerebbe circa 300 mila immatricolazioni. E non si tratta di ipotesi remote, visto che Paesi come Germania o Gran Bretagna hanno già provveduto a fermare diverse attività commerciali, tra cui i concessionari.

Riassumendo, dunque, il 2021 dell’auto è legato all’efficacia delle campagne vaccinali e alla capacità dei vari governi di tenere sotto controllo le curve dei contagi, sperando in una maggiore diffusione dell’elettrone. Anno nuovo, storia vecchia.

In Cina l’auto (elettrica) corre lontano

La Cina dell’auto è stata la prima a riprendersi dall’emergenza sanitaria. Già ad aprile, in pieno lockdown nei paesi europei, grazie al sostegno governativo alla domanda il mercato dava i primi segnali positivi dopo un primo trimestre segnato da chiusure e cali significativi causa Covid-19.

Così, grazie anche a un dicembre particolarmente fecondo (2,83 milioni di auto vendute, +6,4%), il paese della Grande Muraglia ha limitato i danni chiudendo il 2020 con 25,31 milioni di immatricolazioni: solo l’1,9% in meno rispetto al 2019.

Anche produzione ed esportazioni hanno sostanzialmente tenuto. Le prime sono diminuite del 2%, fermandosi a 25,23 milioni di pezzi, mentre le seconde del 2,9%, con 760 mila automobili che hanno preso la via dei mercati esteri contro le 995.000 dello scorso anno.

Più consistenti le perdite nelle esportazioni di veicoli commerciali: -21,4%, per un totale di 235.000 unità.

In netta controtendenza, invece, le alimentazioni alternative. Nello specifico i veicoli elettrificati, che sempre grazie a una politica di sostegno (attualmente in fase di revisione) del governo cinese alla mobilità eco-friendly hanno visto aumentare le loro vendite di quasi l’11%: in totale 1,37 milioni di automobili.

Pure in virtù della spinta di dicembre, quando le loro immatricolazioni sono cresciute di ben il 49,5%, arrivando a 248 mila.

Una “lunga marcia” frutto anche del piano pro-auto elettrica messo a punto dal governo nel 2029, studiato per mettere in condizione l’industria automobilistica nazionale di essere in prima linea nella competizione sul mercato internazionale. Con l’obiettivo di diventare il principale esportatore a livello internazionale ma anche il paese con il più alto tasso di vendite di veicoli a batteria.

La strategia prevede un arco di tempo di 15 anni per fare questo, a cominciare da un primo step nel 2025, quando un quinto delle vendite riguarderanno proprio questo tipo di veicoli.

Anche grazie al trasporto pubblico: entro il 2035, infatti, tutti i mezzi dedicati avranno powertrain elettrici.

Porsche, con Taycan presenta il suo futuro. E sfida la rivale Tesla

Non capita spesso di vedere la réclame di una Porsche in Tv. Ai nostalgici del Carosello non sarà sfuggita quella dedicata alla Taycan, che passa con una relativa frequenza, giustificata dal fatto che si tratta della prima elettrica della Porsche. Ed è destinata ad aprire un capitolo inedito nella storia del costruttore tedesco.

Nonostante la rivoluzione tecnica, il vestito è tradizionale, da coupé a quattro porte e quattro posti, e dissimula egregiamente i quasi cinque metri di lunghezza. Dentro, la fuga nel futuro è ancora più netta, comprovata dalla pressoché totale assenza di pulsanti fisici: gli unici sopravvissuti ai vari touchscreen, da cui si controllano il sistema infotelematico e le principali funzioni, sono quelli su volante e portiere.

I classici sette indicatori circolari tipici della strumentazione Porsche sono diventati digitali e multifunzionali. A richiesta, persino il passeggero anteriore può avere un suo display, mimetizzato in plancia quando spento. Ergonomia e finitura sono di livello e non potrebbe essere altrimenti, visti i listini (il prezzo dell’auto in prova parte da 194 mila euro).

Smaltita la sbornia da cristalli liquidi, non resta che accendere il motore, che si avvia con un assordante… silenzio. Scordatevi il conturbante rombo e le solleticanti vibrazioni di un tradizionale 6 cilindri boxer. Niente di tutto questo sopravvive nella Taycan. Il che non è poi un male se si apprezza la discrezione e si usa l’auto nel traffico: fluidità di marcia, capacità di assorbimento delle sospensioni pneumatiche e il taciturno sistema propulsivo trasformano la vettura in una sorta di tappeto volante.

Ma la vera magia, la Porsche Taycan Turbo S, con batteria da 96 kWh (ricaricabile dal 5% all’80% in 22 minuti tramite colonnine a 270 kW), la fa sul guidato veloce: presente la storiella de “la struttura alare del calabrone, in relazione al suo peso, non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”? Bene, con la Taycan turbo S è la stessa cosa: in teoria, il peso di oltre 2,3 tonnellate e la stazza large dovrebbero renderla impacciata su strada. Invece, fra le curve l’auto diventa una lama tanto è precisa di avantreno, agile nel misto e reattiva a ogni input impartito al telaio.

Ciò risulta da una sofisticata combinazione di baricentro basso (la batteria sono installate sotto al pavimento dell’auto), sterzo preciso, assetto fermo, asse posteriore sterzante e quattro ruote motrici. Mentre l’effetto fionda è garantito dal powertrain elettrico da 761 Cv, buoni per bruciare lo “0-100” in 2,8 secondi ed erogati con istantanea brutalità. Difetti? Scarsa capacità di carico e autonomia limitata a 450 km, che se si insiste più del dovuto sull’acceleratore, diventano irraggiungibili. Il derby con Tesla è appena iniziato.

Vela o non vela, è coppa. La sfida più antica del mondo

Non solcano il mare. Lo sorvolano: dispiegando ali, sottili come gambe di fenicottero. Quelle dei gabbiani fendono l’aria. Quelle dei monoscafi “ad alta prestazione” che partecipano all’America’s Cup 2021, il più antico trofeo del mondo compie 170 anni ed è iniziato ieri notte, rigano appena le acque del rettangolo di regata. Le barche mantengono l’equilibrio su due appendici asimmetriche (le cosiddette foils, cioè ali) comandate da una avanzatissima centralina digitale e movimentate da energia idraulica. Per graduarne l’impiego occorrono muscoli e una sofisticata trasmissione elettronica di dati. Nonché la sincronia perfetta dell’equipaggio. Così le carene guizzano in aria e in relativa sicurezza, rimanendo sospese sopra le onde. Strambate e stralli sono dettati non soltanto dall’intuito e dall’esperienza degli skipper, ma dalle conferme istantanee dell’intelligenza artificiale. Il livello di innovazione è rivoluzionario. Un’accelerazione che ha dell’incredibile: il 6 settembre 2012 il Team New Zealand mise in acqua il primo catamarano volante. Otto anni e quattro mesi dopo, si è configurata e definita la classe AC 75 piedi, monoscafi volanti lunghi quasi 23 metri, larghi cinque e con fondamentali messe a punto delle strutture e delle catenerie.

Il risultato è strabiliante: le imbarcazioni che si contenderanno la 36esima America’s Cup sono capaci di raggiungere e gestire in regata i 50 nodi in regime di poppa, oltre 92 chilometri orari. Nelle uscite di allenamento, sono stati superati i cento all’ora; gli sponsor hanno investito budget cospicui (oltre 100 milioni di euro per team). Queste barche, infatti, garantiscono spettacolo con dirette tv coinvolgenti – notturne, poiché si regata ad Auckland, in Nuova Zelanda. Un reality della vela, in collegamento istantaneo dalle tolde delle imbarcazioni. Potremo captare il sibilo delle rande, sotto la spinta del vento. O ascoltare gli ordini perentori e indiscutibili del Trimmer Randa, che controlla le vele più importanti ed è l’unico elemento dell’equipaggio che si può spostare da un lato all’altro. Per regolamento, in questa edizione dell’America Cup gli equipaggi sono formati da undici persone: cinque disposti sul lato destro, sei sul sinistro. C’è un limite anche nel peso complessivo dell’equipaggio, comprese le attrezzature personali di sicurezza: dai 960 ai 990 chili.

Ma è vela? La polemica è scoppiata fin dal primo momento in cui ha fatto irruzione il concetto progettuale delle ali. E il popolo velista si è diviso: chi approva la mutazione, considerandola adeguata al progresso e allo sviluppo tecnologico, e chi la considera una profanazione, l’avere cioè snaturato l’essenza sportiva, in cui barca e mare fanno parte dello stesso elemento. L’imbarcazione, dicono, non è un idrovolante. Resta il fatto che queste barche estreme sono elitarie, ed esclusive più che in passato. Tant’è che a disputarsi il posto di sfidante, contro il detentore dell’America’s Cup, sono solo tre: la più quotata, per ora, è quella statunitense del New York Yacht Club; segue Luna Rossa Prada Pirelli per il Circolo della Vela Sicilia, il cui armatore è Patrizio Bertelli, amministratore delegato di Prada. Terzo monoscafo, l’Ineos Team United Kingdom del Royal Yacht Squadron, il cui equipaggio è guidato da Sir Ben Ainslie, il marinaio più vincente della storia olimpica: “Siamo in pochi ma forti”, dice Max Sirena, il formidabile skipper di Luna Rossa, alla sua settima America’s Cup (ne ha vinte già due: con Oracle Bmw Racing e con l’Emirates Team New Zealand).

A decidere chi sfiderà i neozelandesi provvede la Prada Cup, un tempo Louis Vuitton Cup. Una prima fase di duelli distribuiti in quattro Round Robin, ossia regate alternative uno contro uno, chi accumula più punti passa in finale, mentre il secondo e il terzo si affronteranno in semifinale: vince chi conquista per primo 4 punti. Dal 13 al 22 febbraio, la finale della Prada Cup promuove il challenger, ossia lo sfidante ufficiale: per riuscirci dovrà raggiungere 7 vittorie. Il tutto nel Golfo di Hauraki.

Dunque, una lunga anticamera per avere l’onore di contendere agli All Blacks della vela la mitica “Auld Mug” in palio dal 1851. Gli italiani, con il Moro di Venezia, furono i primi non anglosassoni a riuscire nell’impresa, nel 1992. Persero 4-1 ma l’evento ci esaltò. Ricordammo d’essere un popolo di santi, poeti e, appunto, navigatori. Pure Luna Rossa, in passato, ha cercato l’impresa, sfiorandola. Un merito riconosciuto dagli avversari: il protocollo d’intesa che stabilisce gli aggiornamenti delle regole, Luna Rossa le ha concordate con i neozelandesi, che hanno tutelato i loro interessi. Come l’obbligo che almeno il 20 per cento degli equipaggi siano della stessa nazionalità del Paese sfidante. E che gli stranieri assoldati abbiano trascorso 380 giorni di residenza nel Paese che li ha ingaggiati, durante la fase di sviluppo e di prove che precedono le regate (un dubbio: il 20 per cento di undici marinai, quanto fa?).

Lasciare big tech rimanendo connessi: il caso di Signal&C.

Trump viene bannato dai social network, WhatsApp cambia in tutto il mondo i termini sui dati creando più di una incertezza, in generale crolla la fiducia (o l’incoscienza) degli utenti nei confronti di big tech. Risultato: una migrazione di massa dal sistema di messaggistica più diffuso al mondo alla galassia di canali meno conosciuti, più sicuri, nel migliore dei casi anche open source.

La storia della tecnologia è costellata di realtà basate su non profit, trasparenza e apertura al contributo e all’analisi di tutti gli sviluppatori che ne abbiano voglia: da Mozzilla a Linux alla stessa Wikipedia. Oggi, a questa lista, si aggiungono anche le applicazioni di messaggistica istantanea. Martedì, per dire, Telegram ha dichiarato di aver aggiunto più di 25 milioni di utenti in soli tre giorni. Grazie all’improvviso cambiamento di privacy policy di WhatsApp (che ha comunicato una implementazione dei metadati che condivide con la casa madre Facebook) ora il social nato dall’idea del russo Pavel Durov (padre anche del social network Vkontakte da cui ricava il principale sostentamento) ha raggiunto quota 500 milioni di download. Il “piccolo” Signal è arrivato a quasi 1,3 milioni di utenti lunedì. Prima, procedeva al ritmo di 50mila download al giorno secondo le stime dei siti specializzati. “Abbiamo già registrato picchi di download in passato – ha detto Durov – Ma questa volta è diverso”. C’è un cambiamento in atto e potrebbe essere irreversibile. Il 94% dei 25 milioni di nuovi utenti di Telegram, così come la maggior parte dei nuovi utenti di Signal, non arriva dagli Usa. Segno che Trump c’entra davvero poco.

Sia Telegram che Signal sono già note e utilizzate: la prima è famosa per la sua capacità di raccogliere e creare gruppi di utenti che, senza condividere i loro numeri di telefono, possono interagire in pubblico e in privato. Per quanto riguarda la “crittografia” e la sicurezza, Telegram è molto simile a WhatsApp, a meno che non si selezioni l’opzione di “chat segreta”. In quel caso i contenuti dei messaggi non sono salvati neanche temporaneamente nel cloud dell’azienda. Come WhatsApp, anche Telegram conserva i metadati in forma non cifrata: sui server di entrambe le app resta impresso con chi, per quanto tempo e da dove è stata avviata la comunicazione. Metadati, assicura però l’azienda, che non sono condivisi o utilizzati per profitti (e cancellati dopo un anno). Signal, invece, prevede la condivisione delle informazioni solo da mittente a destinatario, senza alcuna intermediazione e non colleziona metadati. Nessuna delle due è quotata in Borsa ed entrambe sono gratuite.

Aneddoto divertente: lunedì il patron di Tesla, Elon Musk, ha twittato “use Signal” per dare il suo supporto alla app che non è quotata e si basa su una non profit creata da un ex fondatore di WhatsApp: in pochissimo, Signal Advanced ha visto lievitare le proprie quotazioni da 60 centesimi di dollari a 70,85 in una sola sessione. Solo che si tratta di un’azienda specializzata nella cura del corpo, che non ha nulla a che fare con la app di messaggistica…

È stata una buona settimana anche per altre due applicazioni segnalate come ottime alternative: la prima, Session, prevede addirittura una frase segreta per proteggere l’accesso, mentre Threema ha i suoi server in Svizzera (patria dell’anonimato, dove ha sede anche Wire, destinata alle aziende) e funziona però a pagamento, condizione che la rende auto-sostenibile. A contribuire alla fuga da WhatsApp, a ogni modo, c’è stata pure la bufala secondo cui improvvisamente Facebook potesse leggere i contenuti delle chat. Una fake news che però ha rivelato il vero problema di Whatsapp: gran parte degli utenti non capisce come vengono gestiti i propri dati.

Ieri, il garante dell Privacy italiano ha segnalato all’Edpb, il board che riunisce le Autorità europee, la poca chiarezza di WhatsApp nei nuovi termini: “Il Garante ritiene che dai termini di servizio e dalla nuova informativa non sia possibile, per gli utenti evincere quali siano le modifiche introdotte, né comprendere chiaramente quali trattamenti di dati saranno in concreto effettuati dal servizio di messaggistica dopo l’8 febbraio”. Informazioni, sostiene il Garante, che non permettono agli utenti “la manifestazione di una volontà libera e consapevole”. Il Garante, si legge nella nota, “si riserva comunque di intervenire, in via d’urgenza, per tutelare gli utenti italiani e far rispettare la disciplina in materia di protezione dei dati personali”. Come? Bloccando l’applicazione in Italia, se fosse necessario.

Pesca, la ministra fa il presepe e si perde 1 milione al giorno

Il ministro britannico della Pesca, la conservatrice Victoria Prentis, ha ammesso di non aver letto il testo dell’accordo commerciale fra il Regno Unito e l’Unione europea che regola il settore di cui è responsabile, perché “ero troppo occupata a organizzare il presepe vivente” della sua circoscrizione elettorale, Banbury, nel North Oxfordshire. In effetti un tweet del 24 dicembre la vede sorridente fra i suoi elettori vestiti da pecore e pastori, con sullo sfondo una chiesa di campagna.

È stata lei stessa a rivelarlo, quando le è stato chiesto come pensa di affrontare il disastro che si è abbattuto sul settore della pesca pochi giorni dopo la firma dell’accordo, con le flotte british che perdono un milione di sterline al giorno in pesce invenduto a causa delle complicazioni e lungaggini burocratiche associate alla scelta britannica di uscire dal mercato unico europeo e un terzo dei pescherecci scozzesi che nemmeno lasciano i porti. La sua soluzione: “Esportiamo in Unione europea il 70% di quanto peschiamo e abbiamo l’ambizione di continuare così, ma sono certa che in futuro vorremo mangiare quote maggiori del nostro pesce”. Il ragionamento non ha convinto né i pescatori inferociti, che nell’attesa saranno – ha promesso Boris Johnson – compensati con iniezioni di denaro dei contribuenti, né il pubblico, che invoca le sue dimissioni. È il battito delle ali della farfalla: in Scozia, dove la pesca è un settore fondamentale, il consenso per i conservatori, già precario, è precipitato di 5 punti da dicembre. Voti che potrebbero andare ad allargare le file della causa indipendentista e creare al governo un problema politico, non risolvibile con sovvenzioni pubbliche.

Intanto, sempre per ragioni logistico-burocratiche, nei supermercati dell’Irlanda del Nord si svuotano gli scaffali.

E ieri il capo negoziatore Ue Michel Barnier ha chiarito al Financial Times che sì, alcuni dei ritardi si risolveranno quando gli esportatori avranno preso confidenza con i nuovi adempimenti; ma altri, più strutturali, sono la polpetta avvelenata della Brexit.

In tre per il dopo Merkel. Ma la Cdu teme l’outsider

Il Parteitag della Cdu in apertura oggi si concluderà domani con la nomina di un nuovo presidente dei conservatori. Mai come stavolta però un candidato ha scaldato così poco la platea degli elettori, della Cdu e non solo. E questa è la vera novità e il vero pericolo per il partito. Per la prima volta in 15 anni, infatti, i cristiano-democratici affronteranno il voto federale del 26 settembre senza poter contare sul nome di Angela Merkel.

Con un candidato debole la consuetudine di affidare la corsa alla cancelleria al nuovo presidente potrebbe essere accantonata. La scelta potrebbe cadere allora su un quarto nome scelto in accordo con il partito gemello della Csu bavarese in marzo.

Per ora i tre candidati in lizza cercano di uscire “dall’ombra di Merkel”. In testa ai sondaggi c’è Friedrich Merz, eterno rivale della Cancelliera. Il giurista porta in dote un richiamo alla Cdu delle origini e una strizzatina d’occhio all’elettorato più conservatore. Merz punta a recuperare i voti migrati dalla Cdu al partito di destra AfD durante l’era Merklel. Per farlo, usa le stesse parole chiave del partito di destra: la lotta contro le “élite di Berlino”, contro il “paternalismo” in politica. Al tempo stesso Merz, forte della sua esperienza di avvocato dei grandi gruppi della finanza, si pone come il candidato che rappresenta al meglio gli interessi dell’economia. Consapevole di un’inevitabile coalizione con i verdi, Merz punta a imprimere una svolta green all’economia di mercato. La sua vittoria sarebbe una frenata alla svolta europeista della Cancelliera e a una maggiore integrazione europea. Euro-deputato dal 1989 al 1994, vorrebbe che la Ue tornasse Europa delle nazioni, con una centralità dei governi “sotto il tetto della casa comune europea”, ha detto, inconsapevole del vocabolario vintage. Ancora la scorsa primavera Merz dubitava della compatibilità ai recovery bonds e dei programmi della Bce con i trattati Ue.

Armin Laschet è l’opzione della continuità con la politica di Merkel. Ministro-presidente cattolico del Land più popoloso della Germania, il Nordreno-Westfalia, è l’unico dei tre candidati con un incarico di governo di lungo corso. “Porto con me l’esperienza di governo di un grande Land” ha detto in un’intervista, e in dote ha l’appoggio della Cancelleria, il sostegno della presidente ad interim del partito, Annegret Kramp-Karrenbauer, il sostegno del ministro-presidente dell’Assia, Volker Bouffier, e dei quadri intermedi dei Laender. “L’uomo dell’establishment”: lo ha definito Faz. Questo potrebbe fare di lui un candidato appetibile per i 1001 delegati chiamati al voto, mentre nei sondaggi resta fanalino di coda. In tandem con lui, come vice, si presenta il ministro della Salute Jens Spahn. Fino a poco tempo fa il suo nome svettava nei sondaggi. Per molti è considerato il candidato-cancelliere di riserva della Cdu. Spahn nega, ma il colpo di scena potrebbe arrivare in primavera.

La terza via è Norbert Roettgen, il candidato in rimonta nei sondaggi. Deputato dal 1994 è stato ministro dell’Ambiente per tre anni, fino alle divergenze con Merkel e le dimissioni. Dal 2014 presiede la commissione Esteri del Bundestag, ma prima della sua candidatura era sconosciuto ai più. Si presenta come l’innovatore del partito, per una Cdu “più femminile, più giovane, più digitale”.

Il non-candidato che raccoglie il favore maggiore nei sondaggi come aspirante alla cancelleria è il governatore della Baviera e numero uno della Csu Markus Soeder. Un politico che ha fatto dell’attivismo nella pandemia il suo marchio. Di lui si riparlerà in marzo, dopo le elezioni regionali.