Scilipoti è lui

Il renzismo ormai è estinto su tutto il territorio nazionale (e perfino sui suoi social: decine di migliaia di commenti, tutti di insulti e sberleffi, neppure un parente a riequilibrare). Per non parlare di quello internazionale (“Demolition man” è la definizione più amichevole). Ma sopravvive come se nulla fosse tra i giornalisti e i telecommentatori italioti. Che si dividono in cinque categorie. 1) Quelli che “R. ha rovesciato il governo che aveva inventato e di cui faceva parte, dunque è colpa di Conte che deve andare a casa”. 2) Quelli che “R. ha tradito per l’ennesima volta i suoi alleati, quindi va invitato a fare un nuovo governo e Conte vada a casa per non disturbarlo”. 3) Quelli che “R. sul merito ha ragione, ma forse ha sbagliato qualcosa nei tempi e nei modi, dunque Conte deve andare a casa”. 4) Quelli che “un governo non può reggersi sui responsabili alla Scilipoti&Mastella, ergo Conte deve andare a casa”.

Per le prime 3 specie non c’è logica che tenga: al cuore non si comanda. La 4 dimentica che fu proprio R. a governare con transfughi e responsabili (Ncd e verdiniani) e poi a fondare un partito col 100% di similScilipoti&Mastella e ora rovescia il Conte-2 come Mastella il Prodi-2, senz’alcuno scandalo tra le vergini violate che ora strillano all’ipotesi di rimpiazzarlo con “ex” di altri partiti (soprattutto il suo). Poi ci sono quelli che, ansiosi di liberarsi dell’unico premier che non si fila i loro padroni, menano scandalo perché non s’è ancora dimesso. Purtroppo ignorano la Costituzione (art. 94): “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere. Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e votata per appello nominale”. Che non pare sostituibile con conferenze stampa, interviste, tweet, post, storie o lettere di dimissioni. Quindi a oggi la crisi è tutta mediatica: nessuno l’ha formalizzata e giuridicamente non esiste. Nella Prima Repubblica i premier bypassavano il Parlamento e si dimettevano al Quirinale per averne il reincarico. Una furbata rotta solo da Prodi (due volte) e ora da Conte (due volte), che lunedì sarà alla Camera e poi al Senato per “parlamentarizzare” la crisi annunciata. Senz’averne alcun obbligo, visto che né Iv né le destre hanno presentato mozioni di sfiducia. Del resto le mozioni devono essere “motivate” e, se le destre hanno i loro motivi, sfuggono quelli dell’Innominabile. A meno di non credere davvero che Conte è un “vulnus per la democrazia”, “abusa dei social” e “spettacolarizza la liberazione dei pescatori” (giuro: ha detto così, lui). In attesa di lunedì, si annuncia l’addio a Iv di Nencini, padrone del marchio, che lo spedirebbe nel gruppo misto. Se tutto va bene, per vederlo sparire pure dal Parlamento, non dobbiamo neppure attendere le elezioni.

“Per il Covid ho rischiato di perdere la voce. E la parte in un film su Rai1”

Aottobre, l’incubo. “Di notte ero assalita da mille paure. La mente ronzava. Mi chiedevo continuamente: passerà?”. La domanda delle domande se l’era posta anche Tecla. “Avevo preso il Covid. Una settimana senza un filo di voce. Non riuscivo a parlare, figuriamoci recitare o cantare. Sono guarita dopo un mese, ma ancora oggi provo spossatezza. E mi rendo conto di quale gioia sia respirare a pieni polmoni”. Quarantena affrontata con la madre e un fratello. “Avevo contagiato entrambi, e loro soffrono di asma. Mio padre era rimasto a Piombino, noi a Roma, in una casa messa a disposizione dalla produzione del film tv su Nada, per il quale ero stata scelta in estate”.

Il decorso della malattia è stata una corsa contro il tempo. “Sono risultata negativa all’ultimo tampone utile, poi sarei stata sostituita nel ruolo di protagonista. Era un venerdì, il lavoro sul set sarebbe partito il lunedì successivo”. Tecla Insolia, al terzo giro da attrice dopo Vite in fuga e L’allieva, interpreta Nada adolescente in La bambina che non sapeva cantare (dall’autobiografia della rock rebel di Gabbro Il mio cuore umano) su Rai1 in primavera. “Nada piccolina è Giulietta Rebeggiani. Io sono nella seconda parte della storia, che arriva fino alla vigilia del Sanremo ’69, quello di Ma che freddo fa. Non tento di imitare la voce di Nada, né mi hanno truccata per somigliarle. Sarò lei restando me stessa”.

Tecla Insolia, 17 anni compiuti nelle scorse ore, curriculum artistico già corposo e una maturità sorprendente. Attrice e in primo luogo cantante: vinse la scorsa edizione di Sanremo Young. Poi alla finale della gara dei Giovani lasciò il passo sul filo di lana a Leo Gassmann. “Appena Amadeus ebbe annunciato il verdetto provai sollievo. Ero sopraffatta da stati d’animo contrastanti. Arrivare prima anche lì sarebbe stato forse troppo. Però quando suonò la sveglia il mattino dopo pensai: accidenti, sarebbe stato bellissimo vincere!”.

La canzone, allora, era 8 marzo: a ripensarla oggi, una data beffarda. “La giornata dedicata alle donne: ma nel 2020 è stata la vigilia della proclamazione dello stato d’emergenza”, riflette Tecla. Che ora riprende il cammino: sabato sarà ospite ad Amici, mentre domani uscirà il suo nuovo singolo, lontano anni luce dai copia-incolla trap o pop di troppi coetanei. Il titolo, impegnativo, è L’urlo di Munch: “Quel grido esce dal silenzio del quadro. Per me, adesso, è l’inquietudine di una ragazza costretta a vivere in una società dove dominano i falsi valori della superficialità e dell’indifferenza, e in cui diamo per scontato che ciascuno sappia ciò che voglia fare o quel che è sensato esprimere. Nessuno pensa alla malinconia che può coltivare un giovane. Soprattutto in un periodo come questo”. Tecla va ancora a scuola: “Io non sono una che si ferma a chiacchierare a ricreazione, ma per tanti miei compagni l’interruzione della socialità è devastante. Degli effetti sulla psiche ce ne renderemo conto solo tra decenni. Persino io, che sono introversa, a pandemia finita andrò in giro a conversare con tutti gli sconosciuti che incontrerò”.

La Torah: il virus dà i numeri. I pericoli della massificazione

Inizio questo articolo con un mea culpa: anch’io, come tanti, mi sono trovato, alle ore 18 di tutti i giorni della prima emergenza Covid, aggrappato all’unica boa suscettibile di salvarmi, i numeri. Dei contagiati e dei morti. Solo quando questi numeri hanno cominciato a segnare un’inversione di tendenza, ho trovato la forza di andare a ricercare nell’Antica Saggezza, non una formula risolutiva magico-mistica, ma una modalità di pensiero che mi consentisse di affrontare l’attualità dell’epidemia.

La prima domanda da farsimi sembra sia: perché l’invasione dei numeri? Rispondere a questo interrogativo mi avrebbe anche aiutato a rapportarmi con l’epidemia. A questo proposito, la Torah – quella parte della Bibbia abusivamente chiamata Vecchio Testamento – ci narra del pericolo della conta sia degli uomini sia degli animali, considerando qualsiasi censimento, ovvero l’affidarsi ai numeri, come una manifestazione di potenza e aggregazione. L’esibizione quantitativa porta alla massificazione e avrebbe come reazione il malocchio, che la Torah assimila all’epidemia. Se vogliamo attualizzare questo pensiero, vengono in mente schiere di massificazioni che invadono i nostri spazi, da quello economico a quello politico, sociale, giuridico, religioso e culturale. Per non parlare dei mass media. Difficile, a questo punto, non rendersi conto di come siamo costantemente aggrediti da una conta planetaria, già di per sé una piaga, che chiamerei “numerite”. Non a caso, tutti sanno che la Cina ha superato il fatidico miliardo, diventando, in funzione del suo numero di abitanti, una potenza produttrice e un mercato potenziale. L’inizio della pandemia proprio in Cina conferma, se non altro simbolicamente, l’adeguatezza del nostro approccio.

L’Antica Saggezza non è certamente in grado di proporre qualche molecola nuova o qualche miracoloso vaccino. In realtà, suggerisce lo sviluppo di una forte intenzionalità morale. Un censimento quindi, che abbia come finalità la giustizia sociale. La Torah narra infatti di un censimento di monete, anzi di mezze monete, non di persone. Si tratta di una moneta dal valore scientemente spezzato, mezzo siclo, versato da ogni singolo e la cui somma servirà all’integrazione della “vedova, dell’orfano, dello straniero, del bisognoso”. Sento già la risata ironica di coloro che chiedono: chi accetterà di pagare? Così svolto, il censimento avrebbe come obiettivo il riscatto della persona. Riassumendo, la massificazione non può che condizionare negativamente il delicato, vulnerabile rapporto che sviluppiamo con il nostro ambiente, con la terra, la nostra patria, come cantavano gli anarchici di una volta. Sia l’etimologia della parola ebraica per significare epidemia, a seguito di un censimento selvaggio, sia la narrazione fanno capire che l’epidemia non può essere considerata come una punizione divina, bensì come la ribellione dell’ambiente. Quindi ne siamo direttamente responsabili.

Insieme a questi numeri, abbiamo avuto il sinistro privilegio di accogliere quotidianamente una nuova espressione aritmetica: il rapporto percentuale tra la mortalità e l’età avanzata dei pazienti. Se il rispetto e la cura degli anziani sono un obiettivo dell’educazione religiosa e civica e del nostro Occidente, la strage degli anziani che si è verificata nella prima ondata ha dimostrato, ad minima, la debolezza pedagogica di questo insegnamento. Il disastro è stato giustificato incolpando ampiamente le carenze strutturali del nostro sistema sanitario, per cui oltre a parcheggiare ammalati nelle case di riposo, provocando morti a catena, ci si è anche trovati nella necessità di operare delle scelte disumane: chi deve morire e chi può vivere, con il parametro dell’età. Di nuovo, la numerite.

Analizzando la debolezza pedagogica, appare evidente che la causa risieda nella mancanza di una motivazione chiara e sufficiente per suscitare il comportamento etico, in questo frangente. E di nuovo, eccomi a consultare l’Antica Saggezza. Innanzitutto, osservo che essa fa perdere l’amortalità all’uomo, con la sua uscita dall’Eden. Da quel momento, la perennità del pensiero e delle opere umane verrà garantita dalla trasmissione intergenerazionale. La narrazione riassume in un solo verso questo processo e i doveri nei confronti dell’età avanzata. “Al cospetto della vecchiaia, ti alzerai, i volti dell’anziano magnificherai”. Tutto il resto è commento lungo due e più millenni. La vecchiaia è intesa come gli anni accumulati ed è il risultato di una presa di coscienza, quando per l’appunto, il primo patriarca Abramo scopre la vecchiaia. Suo figlio Isacco, già grande, lo chiama “padre” per la prima volta e Abramo, rispondendo “figlio mio”, invecchia, assumendo di colpo tutti i segni fisici della vecchiaia. Prima, dice la tradizione, si assomigliavano come due gocce d’acqua. Abramo assume l’invecchiamento sentendo suo figlio chiamarlo “padre” e lo risparmierà, perché vede in lui il garante della perennità del suo pensiero e delle sue azioni, per mezzo della trasmissione. Il recupero di quell’amortalità originaria. L’eternità del Dio degli ebrei si fonda sulla trasmissione memoriale di generazione umana in generazione umana; allo stesso modo, Enea portando Anchise, suo padre, sulle spalle, salva il genitore e la storia di Troia. Memoria e tradizione.

Infine, a causa di questa epidemia, o forse grazie a essa, è riemerso un vecchio nemico delle nostre società: la povertà dignitosa, nascosta. Dice l’Antica Saggezza: “Se aprirai il pugno… ti accorgerai che non manca e mai mancherà il povero nelle tue città”. Interpretava questi versi il filosofo Lévinas dicendo: “Imparerai a riconoscere la povertà e così potrai stanarla”. Per la tradizione ebraica, la dimensione messianica è intrinseca all’uomo. In questo senso, la pandemia è portatrice di una pressante sollecitazione etica.

Lady Letizia avrà cura di te con i miracoli del guru offshore

Siamo in buone mani. Quelle di Letizia Moratti, che da assessore alla Sanità della Regione Lombardia deve ora farci dimenticare gli errori del suo predecessore, Giulio Gallera. E quelle di Mario Azzoni, il pranoterapeuta di fiducia dell’ex sindaco di Milano, che con le sue mani guarisce schiere di pazienti.

Per i santoni ha sempre avuto una gran passione, lady Moratti, a cominciare da Vincenzo Muccioli, il fondatore della comunità di San Patrignano: anche se non ne parla più volentieri, come dimostrato dal fatto che ha di fatto rifiutato di essere intervistata per il docufilm Netflix SanPa. Azzoni, amico di vecchia data, è il guru che l’ha consolata la sera più nera della sua vita politica, quel lunedì 16 maggio 2011 in cui fu sonoramente sconfitta da Giuliano Pisapia e dovette lasciare Palazzo Marino. Ora torna sulla scena pubblica, entrando da vicepresidente a Palazzo Lombardia con l’incarico di occuparsi della salute dei lombardi: ma come farà a coniugare medicina e rigore scientifico con le sue passioni New Age e il suo amore per la “Biopsicotronica”? È la disciplina inventata da Azzoni, ex pollivendolo di Lecco diventato ricchissimo curando con l’imposizione delle mani la lunga fila di postulanti che si presentano ogni giorno nelle due sedi dell’Istituto di Biopsicotronica a Milano e a Como.

Lo raccontarono sul Fatto, nel 2011, Vittorio Malagutti e Thomas Mackinson, che rivelarono anche le casseforti estere di Azzoni, guru offshore con società svizzere o addirittura basate nelle remotissime Marshall Islands, paradiso fiscale nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. In Italia, il mago ha conquistato un grande seguito e la fama di riuscire a diagnosticare un tumore solo guardando il paziente, o fare una diagnosi esaminando semplicemente i suoi indumenti.

I “miracoli” di Azzoni come guaritore (si racconta che abbia fatto camminare un uomo paralizzato alle gambe) non si sono ripetuti in politica: la sua lista “Giovani per l’Expo! Insieme a Letizia” al primo turno delle elezioni per il sindaco nel 2011 racimolò soltanto lo 0,2 per cento, benché avesse speso per la campagna elettorale la bellezza di 970 mila euro (il triplo del Pd). Eppure Azzoni era il consigliere ascoltatissimo dell’allora sindaco di Milano, consultato prima di ogni decisione delicata, nonché presidente di “Casa Letizia”, associazione che si proponeva come “punto d’ascolto” e “spazio civico” per i cittadini, con sede a Milano presso il comitato elettorale di Letizia Moratti. La “Biopsicotronica” di cui Azzoni è l’iniziatore crede che “la malattia indichi mancanza di coordinamento del corpo, dell’anima e della mente. Il segmento del cosmico, che è la ‘personalità’ dell’anima individuale, ha una forma precisa alla quale il corpo dovrebbe conformarsi. L’anima infatti ha una sua personalità. La mente, la coscienza e la volontà devono contribuire a rendere il corpo un tempio armonioso. Bisogna avere la forza e il coraggio di cambiare la nostra vita e riaggiustare tutte le abitudini fisiche e mentali che generano attrito. Le richieste sincere per renderci migliori sono vitali. Noi otteniamo dal cosmico ciò che domandiamo con sincerità”. Chissà che risposte darà ora “il cosmico” alle domande, certamente sincere, del neoassessore che sarà alle prese con i vaccini e con la riforma del “modello Maroni” della Sanità lombarda, messa a dura prova dalla pandemia.

Azzoni (che ha appena incassato 10 mila euro di aiuti Covid di Stato) intanto spiega al Fatto che negli ultimi tempi ha allentato i contatti con Letizia Moratti: “I nostri rapporti si sono diradati, ma siamo amici da tanto tempo, ci siamo sentiti quando è stato male e poi è mancato il marito, Gian Marco Moratti, lo andavo a trovare, eravamo amici. Ma ora non ho né tempo né voglia di occuparmi di politica, perché è una brutta bestia che non mi interessa più”. La condanna di Letizia Moratti per danno erariale prodotto quand’era sindaco di Milano e l’inchiesta in corso per operazioni realizzate come presidente di Ubi Banca, compreso il sospettato contrabbando di petrolio dell’Isis, non le hanno impedito il ritorno sulla scena politica. “Non posso che augurarle buon lavoro”, conclude il suo guru. “Ma chi gliel’ha fatto fare… Si è assunta un impegno gravoso. Però è una donna con tante risorse, qualche soluzione la troverà”.

Il “villaggio” bengalese nella foresta bosniaca: “Primo, non morire”

Il migrante quando sceglie la rotta balcanica sa che non è via la più costosa, né la più pericolosa. Per percorrerla però ci vuole molta resistenza. Il viaggio dura in media un anno e un inverno al gelo è obbligatorio. “Vogliamo solo non morire di freddo, poi ce ne andremo”. Nurul Arman, 23 anni, è accovacciato davanti a un cerchione d’auto usato come braciere. Vive in una capanna, ce sono una dozzina su un terreno scosceso in mezzo al bosco.

Gli abitanti sono tutti bengalesi, una cinquantina. “Non avevo mai visto la neve. In Bangladesh piove, ma questa è pioggia fredda”. Masud Sazzad viene da Cox Bazar, l’estremo sud del Paese, al confine con il Myanmar. “Lì abbiamo tanti rifugiati rohingya, ma vivono in campi migliori di questo”. Il peso della neve preme sui pezzi di legno e i teli di plastica che questi uomini chiamano casa. “Ho tentato di attraversare il confine sei volte. Mi hanno sempre preso. La polizia croata mi ha picchiato e rubato tutto”. Shahin Issk parla nascosto sotto un’impermeabile di plastica gialla. È quasi irriconoscibile dalla sua foto profilo su Facebook: giacca e camicia bianca, seduto dietro a una scrivania. “Sono un ingegnere meccanico, ma non sono scappato per quello. Ero parte del sindacato e del partito d’opposizione. Mi hanno tolto il lavoro, minacciato. Sono dovuto andare via”. Lo scorso fine settimana ha nevicato abbondantemente, sono stati i momenti più caldi. Il termometro è bloccato sotto lo zero. Il confine tra Bosnia e Croazia è una grande foresta montana. Nascosti tra pini e neve vivono quasi mille uomini in attesa che passi l’inverno. Sono divisi in tanti piccoli accampamenti invisibili, come quello dei bengalesi. Si sono sistemati un po’ meglio centinaia di ragazzi che hanno occupato edifici abbandonati ai limiti delle urbanizzazioni. Hanno un tetto, ma nessun servizio. Per scaldarsi e cucinare accendono fuochi di legno e plastica. Il fumo nero riempie gli stanzoni senza finestre. Murat ha 17 anni e questo è il suo terzo inverno in viaggio. Oggi dorme sul pavimento di un cantiere abbandonato a Bihac: “La polizia mi ha fermato dieci giorni fa. Mi hanno fatto immergere nell’acqua gelida. Sono stato malato per giorni”. Tra loro non ci sono donne e bambini, le condizioni sono estreme. Le famiglie bloccate in Bosnia sono poche unità e vivono in due campi gestiti dall’Oim (Organizzazione Internazionale delle Migrazioni) in città.

A 30 chilometri di curve, sul costone innevato di una montagna, c’è il campo di Lipa. Sono oltre mille, uomini soli, principalmente afghani e pachistani. Nel dicembre del 2019 venne sgomberato il campo di Vucjak. L’Unione europea fece un grosso assegno al governo bosniaco, sempre con la mediazione dell’Oim, perché l’Europa non ha diritto di intervenire in un Paese non membro. Venne allestito il campo di Lipa. Come per Vucjak, si scelse una radura nei boschi. Ma nei milioni di euro stanziati da Bruxelles non c’erano fondi per acqua corrente, fogne ed elettricità. La legna per scaldarsi non si raccoglieva più nella foresta, la fornivano le autorità. La notte della vigilia di Natale il campo ha preso fuoco. Altri fondi Ue all’Oim e da sabato c’è un nuovo campo accanto ai resti di quello bruciato. Come da prassi, acqua, fogne ed elettricità non sono state ritenute necessarie. “Per andare in città dobbiamo fare quattro ore a piedi e qui non distribuiscono pasti caldi. Solo pane con una scatoletta di tonno e uno yogurt”. Coperta sulle spalle e pantofole in plastica, Averjan è in coda sotto la neve per ricevere del cibo. Non ce ne sarà per tutti. Viene dal Pakistan, dove ha lasciato tre figli, e ha già tentato di attraversare il confine oltre dieci volte. “Mi hanno picchiato e rubato tutto. Sono arrivato fino a Trieste, ma mi hanno riportato qui”. Non è arrabbiato né agitato mentre ne parla. “Prima era più semplice, più veloce. Taxi e bus non ci fanno più salire. Dobbiamo fare tutto a piedi. Abbiamo solo il Gps”. La migrazione attraverso i Balcani è diventata una lunga marcia tra i boschi, sempre cercando di nascondersi dalla polizia. Con la neve e il fango che diventa ghiaccio, muoversi sembra persino più pericoloso che restare immobili. Averjan pensa solo a ripartire: “Dobbiamo andare via, però non possiamo farlo con questo tempo. Non abbiamo soldi e non sappiamo a chi chiedere aiuto”. Resterà così, cercando di dormire tutto l’inverno.

Su bilancio, lavoro e sanità Sanders può fare a meno del Gop

È già al lavoro Bernie Sanders. Il senatore indipendente del Vermont noto per le sue posizioni ritenute “socialiste progressiste” e invise finora alla cosiddetta ala moderata del Partito Democratico, è stato nominato dalla Amministrazione Biden nuovo presidente della Commissione Bilancio del Senato. Sanders, non appena designato a questo ruolo cruciale, ha dichiarato di essere pronto a diventare il più “aggressivo” possibile con le tattiche di bilancio per aiutare i Democratici e il presidente eletto a mettere in atto la loro vasta agenda. Grazie alla conquista della maggioranza in Senato da parte dei Democratici, Bernie Sanders avrà la possibilità di sovrintendere al bilancio e al lavoro di spesa con maggiori speranze di ottenere ciò che ritiene necessario per la nazione. Il più dirimente dei suoi poteri è la gestione delle procedure di riconciliazione del bilancio che la maggioranza può utilizzare per eludere l’ostruzionismo e approvare le leggi senza un solo voto repubblicano. Si tratta di uno strumento che può indirizzare miliardi di dollari e rimodellare una serie di politiche sociali, il tutto eludendo il temuto ostruzionismo.

Le priorità del senatore sono la lotta alla pandemia e alla sanità disfunzionale assieme alla mitigazione, per intanto, della catastrofe economica affrontata da milioni di americani che hanno perso il lavoro, la casa e persino la capacità di acquistare il cibo per la famiglia a causa del virus. L’anziano ma battagliero Sanders, diventato negli anni l’idolo dei giovani progressisti, si è impegnato a considerare anche un pacchetto di riconciliazione separato incentrato sull’energia ecosostenibile.

“È necessario non solo creare milioni di posti di lavoro ma anche imporre un aumento degli stipendi che ora sono così inadeguati da impedire alle persone di andare dal dottore per una semplice visita. Per quanto riguarda la sanità in generale, tutti sanno che io mi sono sempre battuto affinché diventi pubblica e gratuita, oltre che di qualità, a cui possa accedere qualsiasi cittadino, dal più ricco al più povero”, ha spiegato Sanders. Si tratta di una partita molto difficile da vincere. Ci riuscì, ma solo parzialmente, il presidente Barack Obama: la riconciliazione usata dal Congresso, allora a maggioranza repubblicana, a favore della lobby delle assicurazioni mediche svuotò molti capitoli della riforma diventata nota come Obamacare, anche se non riuscirono ad abrogarla.

Il neo presidente della Commissione, spiegando come intende gestire la riconciliazione, ha ricordato l’esempio negativo dei legislatori repubblicani che sia nell’era Bush sia durante la presidenza Trump l’hanno usata per accordare enormi agevolazioni fiscali alle grandi società.

“Lavoreremo con i miei colleghi alla Camera per capire come possiamo elaborare il disegno di legge di riconciliazione più aggressivo per affrontare le sofferenze delle famiglie lavoratrici americane”, ha sottolineato Sanders che dovrà affrontare anche la vexata quaestio dei tagli alle spese per la Difesa. Sanders, in qualità di senatore, aveva già lottato duramente per ridurre la spesa della Difesa del 10 per cento. Se si considera il budget intero di questo comparto ipertrofico non è una percentuale enorme. Ma ciò che Sanders vuole combattere è la corruzione in questo settore: “Il Pentagono è l’unica grande agenzia governativa a non essere stata in grado di intraprendere un audit trasparente e indipendente. E credo che nessuno abbia dubbi sul fatto che ci siano enormi sprechi e superamenti dei costi nel bilancio militare” .

Troppi suprematisti in divisa: l’allarme ignorato dei federali

L’insediamento di Joe Biden il 20 gennaio metterà a dura prova il Pentagono, il cui obiettivo ufficiale è garantire la sicurezza in una Washington minacciata dai supporter del presidente uscente Donald Trump, gli stessi che hanno messo a ferro e fuoco il Congresso il 6 gennaio. E per questo la Difesa ha mobilitato 15 mila uomini della Guardia Nazionale. Tuttavia la missione del Pentagono è molto più delicata e prevede che bilanci le minacce dei trumpiani con le infiltrazioni degli stessi nelle forze dell’ordine per evitare il danno peggiore: il caos totale nel giorno del giuramento del 46° presidente Usa. Da una parte l’Intelligence, che suggerisce un potenziale altissimo di rivolta armata e attacchi ai governi statali in tutto il Paese, dall’altra il timore che nella medicina stia la malattia.

Gli stessi funzionari della Difesa hanno riconosciuto, infatti, l’esistenza di una preoccupante corrente ideologica di destra nelle forze dell’ordine e un funzionario ha rivelato al Washington Post che i militari stanno cercando di affrontare la questione prima dei preparativi per il 20 gennaio. Ma la paura, ha confessato, è di non essere in grado di controllare tutti i membri della Guardia Nazionale coinvolti in affiliazioni estremiste. Delle infiltrazioni l’Fbi è al corrente dal 2006, come attesta il rapporto di quell’anno dell’agenzia stessa. Nazionalisti bianchi e skinheads infiltrati nella polizia per bloccare le indagini sui colleghi coinvolti in condotte razziali e reclutare altri suprematisti. In 15 anni quasi niente è cambiato e a ogni periodico scandalo sulle forze dell’ordine, il rapporto si è arricchito idealmente di nuovi numeri: dalla California al Texas, all’Illinois, all’Ohio al Massachusetts di George Floyd.

Nel testo, l’Fbi identifica gli estremisti e mette in guardia dal loro “accesso ad aree riservate e vulnerabili al sabotaggio”, oltre che a “funzionari eletti o persone che gli infiltrati vedono come “potenziali bersagli di violenza”. Tra loro, avverte, “è diffusa la pratica di ghost skins” che usano per “mimetizzarsi nella società e promuovere segretamente le cause della supremazia bianca”. È da questo rapporto che emersero nel 2014 gli appartenenti al Ku Klux Klan in Florida, il secondo episodio del genere scoperto tra gli appartenenti alle forze dell’ordine prima ancora che arrivassero i social media a rendere più facile smascherarli. Eppure né l’Fbi, né le forze dell’ordine statali e locali hanno implementato sistemi per controllare il personale, compito lasciato alle Ong come Southern Poverty Law Center, che tiene traccia del numero crescente dei gruppi di odio negli Usa. Secondo il Primo emendamento poi è legale per i lavoratori dell’amministrazione pubblica aderire a uno qualunque dei gruppi di odio descritti nel rapporto, anche se stando al memorandum dell’Fbi il governo può limitare l’opportunità di lavoro nel caso in cui l’appartenenza a tali gruppi interferisca con i loro doveri. Con Trump, poi, i Black Lives Matter e una nuova ondata di protesta contro la polizia, il tema è tornato delicato, soprattutto dato il sostegno richiesto alla Guardia Nazionale, un corpo composto dai riservisti, più permeabili agli estremisti, gli stessi presenti tra gli assalitori di Capitol Hill. “Un processo di gestione molto rischioso e delicato”, ha spiegato in un’intervista il segretario dell’esercito, Ryan McCarthy, soprattutto per la “minaccia che i membri della Guardia a Washington portino le loro armi da fuoco”, gli hanno fatto eco altri funzionari della Difesa. Proprio per questo, martedì McCarthy avrebbe incontrato alti funzionari dell’Fbi – che intanto ha aperto inchieste a carico di almeno 170 persone identificate fra i sostenitori di Trump – e dei Servizi segreti per mettere a punto il piano per il 20, mentre la Guardia prende parte alle prove di sicurezza. Per finire, lo Stato Maggiore della Difesa ha pubblicamente definito la rivolta del 6 “un assalto diretto al Congresso, il Campidoglio e il nostro processo costituzionale”, affermando di “sostenere e difendere la Costituzione” contro cui “qualsiasi atto va contro le nostre tradizioni, valori e giuramento”, e ricordando che Biden è il 46° loro comandante in capo.

Tagliola impeachment atto primo: ma Trump vuol concedersi la grazia

Mentre la Camera s’appresta a trasmettere al Senato il capo d’accusa del suo secondo impeachment – incitamento all’insurrezione –, Donald Trump discute “con crescente intensità” coi suoi legali e consiglieri la possibilità di concedersi la grazia e di graziare i suoi figli: l’idea, riferisce la Cnn, “lo affascina e lo ossessiona”, fin dall’inizio della presidenza. Ma i pareri sono discordi. E il magnate incontra resistenze pure fra i figli che, da qualche giorno, gli stanno dando dei dispiaceri: il maggiore, Donald Jr, non vuole la grazia; e Ivanka vuole andare all’insediamento di Joe Biden il 20 gennaio, mentre il padre non ci sarà. Ivanka vuole salvaguardarsi un futuro in politica; Donald le dice che “sarebbe la decisione più sbagliata della tua vita”.

L’auto perdono: Nixon rinunciò

Si tratta di un terreno inesplorato. Ci aveva pensato nel 1974, all’epilogo dello scandalo Watergate, Richard Nixon, ma avuto parere contrario dal Dipartimento della Giustizia, vi rinunciò: negoziò la grazia dal suo successore Gerald Ford, prima di dimettersi. All’inizio, Trump aveva pensato a qualcosa di simile per sé: sospendersi da presidente, magari usando il 25° emendamento, e farsi sostituire dal suo vice Mike Pence il tempo di essere graziato; e poi riprendersi i poteri. Ma i rapporti tra Trump e Pence si sono guastati: il ‘vice’ ha anteposto la propria coscienza, o più probabilmente le proprie residue ambizioni di carriera. Se Trump si concederà la grazia spetterà al segretario alla Giustizia dell’Amministrazione Biden, Merrick Garland, un giurista molto stimato – Barack Obama l’aveva designato alla Corte Suprema, dopo il decesso di Antonin Scalia, ma i Repubblicani non vollero mai discuterne la nomina – vagliarne la legittimità.

È probabile che la questione arrivi alla Corte Suprema, che Trump ha imbottito di giudici di destra – tre di sua nomina –, ma che di recente gli ha voltato le spalle in diverse occasioni. Politico vaglia le diverse opzioni: il giudizio vedrebbe contrapporsi i ‘testualisti’, cioè i giudici che stanno alla lettera della Costituzione, dove non c’è scritto che il presidente non può ‘auto-graziarsi’, e gli “originalisti”, che guardano alle intenzioni dei Padri costituenti; ed è impossibile prevederne l’esito. In ogni caso, l’ ‘auto-grazia’ non potrà riguardare l’impeachment e varrà solo per i reati federali. Quindi le cause in corso contro Trump e le sue strutture societarie, specie a New York, resteranno tutte in piedi.

La spaccatura fra i repubblicani

Ieri il rinvio a giudizio del presidente per il secondo impeachment ha visto diversi deputati repubblicani favorevoli, fra cui Liz Cheney, del Wyoming, figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney e ‘numero tre’ nella gerarchia repubblicana alla Camera, che accusa il presidente d’aver “acceso il fiammifero” della sommossa. Kevin McCarthy, il leader dei deputati repubblicani, ammette le responsabilità del presidente, ma s’oppone all’impeachment.

Un processo in Senato non prima del 19

Il Senato non tornerà a riunirsi prima del 19: il processo, dunque, se si farà, si farà quando Trump non sarà più presidente. I difensori legali del magnate affermano che il Senato non ha competenze per tenere un processo di impeachment verso un privato cittadino, che Trump diventerebbe solo 24 ore dopo l’inizio del processo. Ma la Costituzione autorizza il Senato a comminare una condanna anche a chi non è più presidente in carica. E una eventuale decisione di questo tipo renderebbe impossibile un ritorno alla candidatura nel 2024 del tycoon a capo delle sue truppe, convinte dai suoi messaggi che l’elezione del democratico Biden è il più grande furto della storia americana.

Chiesa, la riformanasce nella crisi

Se c’è una parola che dice in sintesi la situazione globale che il mondo sta sperimentando, questa è “crisi”. Nel suo discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, papa Francesco l’ha evocata ben 46 volte. “Questo Natale – ha affermato – è il Natale della pandemia, della crisi sanitaria, della crisi economica-sociale e persino ecclesiale che ha colpito ciecamente il mondo intero. La crisi ha smesso di essere un luogo comune dei discorsi e dell’establishment intellettuale per diventare una realtà condivisa da tutti”.

Già, perché “crisi” sembrava essere fino a poco fa la parola chiave dei discorsi di élite capaci di articolare la critica colta della condizione attuale. La crisi richiamava spesso la sua specificazione “esistenziale” che, invece di renderla concreta, la proiettava nell’indefinita astrazione. Nel 2020 questa crisi ha certamente perso ogni carattere astratto e ha preso il volto del lockdown, del conteggio dei morti, dell’economia a picco. Il 27 marzo, in piena pandemia, il Pontefice ha pregato in una piazza San Pietro deserta e così ha raccolto simbolicamente tutta la crisi del mondo, rivelandola in un luogo destinato a essere invece simbolo di presenza e di unità.

Nel suo discorso alla Curia, Francesco ha voluto mettere in evidenza il significato e l’importanza dell’essere in crisi. Ha riconosciuto innanzitutto che “la crisi è un fenomeno che investe tutti e tutto. È presente ovunque e in ogni periodo della storia, coinvolge le ideologie, la politica, l’economia, la tecnica, l’ecologia, la religione”. Dunque, è una esperienza umana fondamentale ed è “una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale”. Non la si può evitare, e i suoi effetti sono sempre “un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare”.

Già si comprende come la crisi sia un motore dell’azione e delle scelte, anche perché destabilizza e prepara nuovi equilibri. Richiede – come ricorda la radice etimologica del verbo greco krinō, dal quale deriva la parola italiana – quel tipico lavoro di setaccio che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura.

La crisi in questo senso compie la storia, la quale non prende forma se non attraversa tempi di crisi, appunto. Francesco ricorda la Bibbia, che è popolata di “personaggi in crisi”, i quali però proprio attraverso di essa compiono la storia della salvezza: Abramo, Mosè, Elia, Giovanni Battista, Paolo di Tarso e lo stesso Gesù, in particolare durante le tentazioni e poi nell’ “indescrivibile crisi nel Getsemani: solitudine, paura, angoscia, il tradimento di Giuda e l’abbandono degli Apostoli”, fino alla “crisi estrema sulla croce”.

Francesco ha una visione evangelicamente dialettica della storia: è come se dicesse che se non c’è crisi non c’è vita. In questo senso la crisi evoca la speranza. Da qui il suo messaggio: in tempi di crisi occorre essere realisti, e “una lettura della realtà senza speranza non si può chiamare realistica. La speranza dà alle nostre analisi ciò che tante volte i nostri sguardi miopi sono incapaci di percepire”.

E questo perché? Perché “Dio continua a far crescere i semi del suo Regno in mezzo a noi”. Allora chi guarda alla crisi senza farlo alla luce del Vangelo “si limita a fare l’autopsia di un cadavere”. Il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, e il Vangelo stesso mette in crisi. Perciò, “davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento”, a ben vedere si comprende “che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio”.

Francesco distingue nettamente la crisi dal conflitto distruttivo. Questo è un tema forte della visione del Pontefice. Il conflitto, infatti, “crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle parti”. La logica del conflitto cerca sempre una frattura tra parti opposte. Per esempio, la Chiesa, letta con le categorie di conflitto, genera divisioni tra “destra” e “sinistra”, “progressisti” e “tradizionalisti”. In tal modo frammenta e polarizza. Il conflitto irrigidisce e alla fine porta a imporre “una logica uniforme e uniformante, così lontana dalla ricchezza e pluralità che lo Spirito ha donato alla sua Chiesa”.

Francesco definisce la Chiesa come un “Corpo perennemente in crisi”, dove la novità “germoglia dal vecchio e lo rende sempre fecondo” senza contrapporsi a esso.

Il Papa, quindi, auspica la crisi in un passaggio molto importante del suo discorso: “Difendendoci dalla crisi, noi ostacoliamo l’opera della Grazia di Dio che vuole manifestarsi in noi e attraverso di noi. Perciò, se un certo realismo ci mostra la nostra storia recente solo come la somma di tentativi non sempre riusciti, di scandali, di cadute, di peccati, di contraddizioni, di cortocircuiti nella testimonianza, non dobbiamo spaventarci, e neppure dobbiamo negare l’evidenza di tutto quello che in noi e nelle nostre comunità è intaccato dalla morte e ha bisogno di conversione. Tutto ciò che di male, di contraddittorio, di debole e di fragile si manifesta apertamente ci ricorda con ancora maggior forza la necessità di morire a un modo di essere, di ragionare e di agire che non rispecchia il Vangelo. Solo morendo a una certa mentalità riusciremo anche a fare spazio alla novità che lo Spirito suscita costantemente nel cuore della Chiesa”.

La “riforma”, quindi, non risponde alla logica del conflitto, ma a quella della crisi, che implica un superamento, un passo avanti: “Si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova Costituzione apostolica. La riforma della Chiesa è un’altra cosa”, ed è frutto della Grazia. La crisi non si risolve mettendo toppe nuove su vestiti vecchi. Dunque, bisogna vivere la crisi come un tempo di grazia: è movimento, e fa parte di un cammino. Il conflitto, invece, è un girovagare senza scopo: è rimanere nel labirinto, sprecando energie. Il Pontefice, parlando di se stesso, ha concluso così il suo discorso alla Curia: “Per favore, pregate sempre per me perché io abbia il coraggio di rimanere in crisi”.

Non sarà “crisi”, dunque, la parola chiave per intendere la vita e la riforma della Chiesa che ci attende nel 2021? Non sarà necessaria l’accoglienza spirituale della crisi, senza timori né tentativi di camuffamento, per conferire alla Chiesa – universale e locale – il movimento giusto per essere sempre più evangelica?

Per chi suona la notifica?

E adesso ovviamente, a norma Trilussa, “ce faranno un ber discorso su la Pace e sur Lavoro”. Era quotato a zero e infatti sul New York Times ci ha pensato subito Lloyd Blankfein, ex numero 1 dell’istituto benefico noto come Goldman Sachs: “Trump stava offrendo quello che volevamo così ci siamo messi una molletta sul naso. Non ignoravamo il tipo di rischi che stavamo correndo. Li abbiamo repressi”. Segue paragone che testimonia la profondità dell’accorata autocritica: “Pensiamo ai plutocrati della Germania dei primi anni 30 a cui piaceva il fatto che Hitler si stesse riarmando e industrializzando, spendendo soldi e facendoli uscire dalla recessione e guidando l’economia attraverso il suo stimolo alla spesa in materiale bellico. Non voglio andare troppo lontano con questo paragone, ma solo per mostrare cosa penso”. Ma per carità, caro Lloyd, sono cose che capitano: tutto è perdonato e un saluto anche ai signori Krupp e Benz. Tolta la molletta dal naso, lorsignori sono passati direttamente al manganello virtuale della damnatio memoriae: bando totale sui social per Donald Trump e sfessati random, chiusura di Parler dove il puzzone e altri seguaci volevano continuare a dirsi le loro cazzate. Sono il signor Amazon e i signori Google – che oggi peraltro sono anche una banca quasi quanto Goldman Sachs – che decidono non solo cosa fare nei loro imperi digitali costruiti grazie all’elusione fiscale e al fischiettare ostentato delle Autorità Antitrust di mezzo mondo, ma anche quanta libertà di parola ci possiamo permettere al di fuori: e questo continuando, se del caso, a dare una mano a comprimerla, quella libertà, in Cina, Russia e dovunque ne vedano la convenienza. Prima Trump stava offrendo a lorsignori quel che volevano e ora, seduti su una montagna di denaro e potere accumulata in un sistema disfunzionale, hanno cambiato cavallo, ma senza smettere di fare prediche: affidare la cura e il tono del dibattito pubblico a questi psicopatici non pare una buona idea. Quando bannano il puzzone non chiederti per chi suona la notifica, suona sempre “pe quer popolo cojone risparmiato dar cannone”. Nessuno si senta offeso: è sempre Trilussa, anche se pare Blankfein.