In piena zona rossa, nel dicembre 2020, ragazzini muniti di mascherina giocano a calcetto nel campo di un oratorio di Chivasso. I vigili urbani vi si recano per irrogare sanzione amministrativa anti-Covid. Il parroco impugna davanti al prefetto la sanzione con argomenti fondati anche sull’asserita violazione dei Patti Lateranensi.
In un momento così triste per la comunità nazionale è giocoforza non lasciarsi scappare il divertissement giuridico scaturito dal ricorso del prevosto piemontese. L’art. 5, c. 2 della legge n. 121/1985 prevede che: “Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica”. La questione rilevante è se la disposizione appena trascritta è stata fondatamente invocata dal parroco per conseguire l’annullamento della sanzione. Una prima risposta è stata offerta in un’intervista al Corriere della Sera dal professor Alfonso Celotto. Il noto costituzionalista ritiene che, trattandosi di oratorio e non già di edificio aperto al culto, le doglianze del parroco sullo specifico punto non colgono nel segno. L’interpretazione proposta dall’affermato docente è sicuramente lineare, ma non cancella qualche dubbio insinuato dalla lettura del successivo comma 3 del medesimo articolo. In quel precetto, infatti, si raccorda la nozione di edificio di culto con le pertinenti opere parrocchiali. Queste ultime, non meglio definite, sono soprattutto realizzate in immobili o attraverso questi ultimi. L’oratorio rientra, di sicuro, tra le pertinenti opere parrocchiali e, sotto questo profilo, può essere annoverato tra le specifiche estensioni dell’edificio di culto.
Conferma sicura a questa esegesi è data dall’art. 2 della legge n. 206/2003 che ha espressamente qualificato gli oratori come pertinenze degli edifici di culto. Secondo granitici assiomi, la relazione pertinenziale tra cosa principale (edificio di culto) e accessoria (oratorio) impone di considerare la loro intrinseca unità in senso funzionale con l’effetto di sottoporre entrambe al medesimo regime giuridico. Ciò deriva dalla natura oggettiva del rapporto, non incidibile in mancanza di diversa disposizione, non presente peraltro nel nostro caso. Va poi vagliata la consistenza del collegamento pertinenziale alla luce della nozione di edificio aperto al culto. La più burocratica delle interpretazioni condurrebbe a isolarne l’aspetto più appariscente, cioè quello rituale e liturgico, nel senso di luogo destinato esclusivamente allo svolgimento di funzioni sacre.
Per la religione cattolica l’edificio di culto è, prima di tutto, la casa del Signore che vi abita sotto specie eucaristica. Il significato primigenio di culto è coltivazione, ovviamente dei rapporti con la divinità. Il culto, tuttavia, non si riduce al momento liturgico, che ne costituisce la grande sintesi, ma si dipana nell’intero percorso della vita di laici e religiosi. Per questo, una partita a calcetto giocata dopo una catechesi e prima di un rientro a casa non sfugge alla nozione ampia di momento di attività di culto, quale coltivazione, con fatti e atti concreti della vita del credente, della propria fede e del modo ordinario per viverla. Per i più giovani l’oratorio è il luogo nel quale si unisce il momento educativo con quello di crescita della fede. È lo specifico immobile dedicato a quelle esperienze a fungere da ponte ideale con le attività più propriamente rituali. Ciò dimostra la dicatio ad cultum, seppure in via evolutiva, di quegli spazi. Quanto alla correttezza delle norme invocate, il sacerdote si riferisce alla violazione dell’art. 9 del concordato, norma dei Patti Lateranensi del 1929 (abrogata e sostituita dall’art. 5 L. 121/85 su richiamato). È auspicabile, per quel presbitero, un aggiornamento sui vigenti Patti, stipulati nel 1984.