Il bizzarro ricorso del prete per salvare il calcetto in oratorio

In piena zona rossa, nel dicembre 2020, ragazzini muniti di mascherina giocano a calcetto nel campo di un oratorio di Chivasso. I vigili urbani vi si recano per irrogare sanzione amministrativa anti-Covid. Il parroco impugna davanti al prefetto la sanzione con argomenti fondati anche sull’asserita violazione dei Patti Lateranensi.

In un momento così triste per la comunità nazionale è giocoforza non lasciarsi scappare il divertissement giuridico scaturito dal ricorso del prevosto piemontese. L’art. 5, c. 2 della legge n. 121/1985 prevede che: “Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica”. La questione rilevante è se la disposizione appena trascritta è stata fondatamente invocata dal parroco per conseguire l’annullamento della sanzione. Una prima risposta è stata offerta in un’intervista al Corriere della Sera dal professor Alfonso Celotto. Il noto costituzionalista ritiene che, trattandosi di oratorio e non già di edificio aperto al culto, le doglianze del parroco sullo specifico punto non colgono nel segno. L’interpretazione proposta dall’affermato docente è sicuramente lineare, ma non cancella qualche dubbio insinuato dalla lettura del successivo comma 3 del medesimo articolo. In quel precetto, infatti, si raccorda la nozione di edificio di culto con le pertinenti opere parrocchiali. Queste ultime, non meglio definite, sono soprattutto realizzate in immobili o attraverso questi ultimi. L’oratorio rientra, di sicuro, tra le pertinenti opere parrocchiali e, sotto questo profilo, può essere annoverato tra le specifiche estensioni dell’edificio di culto.

Conferma sicura a questa esegesi è data dall’art. 2 della legge n. 206/2003 che ha espressamente qualificato gli oratori come pertinenze degli edifici di culto. Secondo granitici assiomi, la relazione pertinenziale tra cosa principale (edificio di culto) e accessoria (oratorio) impone di considerare la loro intrinseca unità in senso funzionale con l’effetto di sottoporre entrambe al medesimo regime giuridico. Ciò deriva dalla natura oggettiva del rapporto, non incidibile in mancanza di diversa disposizione, non presente peraltro nel nostro caso. Va poi vagliata la consistenza del collegamento pertinenziale alla luce della nozione di edificio aperto al culto. La più burocratica delle interpretazioni condurrebbe a isolarne l’aspetto più appariscente, cioè quello rituale e liturgico, nel senso di luogo destinato esclusivamente allo svolgimento di funzioni sacre.

Per la religione cattolica l’edificio di culto è, prima di tutto, la casa del Signore che vi abita sotto specie eucaristica. Il significato primigenio di culto è coltivazione, ovviamente dei rapporti con la divinità. Il culto, tuttavia, non si riduce al momento liturgico, che ne costituisce la grande sintesi, ma si dipana nell’intero percorso della vita di laici e religiosi. Per questo, una partita a calcetto giocata dopo una catechesi e prima di un rientro a casa non sfugge alla nozione ampia di momento di attività di culto, quale coltivazione, con fatti e atti concreti della vita del credente, della propria fede e del modo ordinario per viverla. Per i più giovani l’oratorio è il luogo nel quale si unisce il momento educativo con quello di crescita della fede. È lo specifico immobile dedicato a quelle esperienze a fungere da ponte ideale con le attività più propriamente rituali. Ciò dimostra la dicatio ad cultum, seppure in via evolutiva, di quegli spazi. Quanto alla correttezza delle norme invocate, il sacerdote si riferisce alla violazione dell’art. 9 del concordato, norma dei Patti Lateranensi del 1929 (abrogata e sostituita dall’art. 5 L. 121/85 su richiamato). È auspicabile, per quel presbitero, un aggiornamento sui vigenti Patti, stipulati nel 1984.

 

Da B. statista alla giustizia: quel che resta di “Repubblica”

Repubblica compie 45 anni e li festeggia con diverse iniziative. È giusto. Ma è opportuno porsi una domanda sulla sua identità: hanno qualcosa in comune la testata diretta da Scalfari e Mauro, con quella odierna di Molinari-Elkann? Rispondo confrontando fatti e testi su alcuni temi: la posizione del giornale (e della proprietà) sulla magistratura; il centrodestra; gli inciuci di Palazzo; la cultura; l’autonomia della direzione; il potere economico; la cronaca. 1. Sulla magistratura, Repubblica ha avuto il cambiamento più radicale: è noto il grande sostegno all’inizio degli anni Novanta ai magistrati di Mani Pulite; il Fondatore andò a Milano per intervistarli: “Di incontri importanti ne ho avuti… ma questo riesce a emozionarmi” (Scalfari, “Con i cinque di Mani Pulite”, 26.01.93); oggi è cambiato tutto: sulla Trattativa Stato-mafia, il caso Consip, eccetera, il giornale ha perso di vista la sua storia, e i magistrati sono diventati oggetto di sospetto, quando non osteggiati (cfr. la posizione su Woodcock; sulle intercettazioni Mancino-Napolitano). 2. Il voltafaccia su B. e il centrodestra: il quotidiano è passato da una condanna documentata da cento articoli e dalle “10 domande” di D’Avanzo, al Caimano come Statista. 3. La svolta su inciuci di Palazzo e corsari che taglieggiano i governi: ricordate le stoccate contro Craxi-Ghino di tacco che ricattava il Paese? (cfr. Scalfari, “Tutto il male che hanno fatto”, 11.02.93). Bene. Misuratele con gli amoreggiamenti odierni con mister 2 per cento che ricatta e pone condizioni: Repubblica oggi coccola il bullo di Rignano e ne giustifica gli atti, quando non li suggerisce. Insomma, ieri certi politici venivano ostracizzati (Scalfari, “Per amore di Dio andatevene”, 26.02.93), oggi vengono vezzeggiati con continue interviste e giudizi lusinghieri: “Il senatore fiorentino sa sentire il vento e ha capito che gli europei temono un governo debole in Italia” (S. Folli, “Il fascino del palcoscenico”, 9.01.21). 4. Repubblica è cambiata nelle pagine culturali, perché non ha più l’anima di un tempo e ha perso i grandi intellettuali, da Umberto Eco a Italo Calvino: di quest’ultimo cfr. “Apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti” (Repubblica, 15.03.1980). Non sorvolate sulla parola “onestà”: oggi questo termine è deriso, l’idea di giustizia è variabile, grandi firme lasciano il giornale, e chi è rimasto pensa di andar via. 5. È che la proprietà non rispetta l’autonomia della direzione: il padrone tiene in pugno la testata, e i direttori cadono come birilli: in quarant’anni ce ne sono stati due; in cinque anni, ricorda Valentini, già tre. 6. Repubblica non scalfisce il potere economico-finanziario: ieri criticava la “razza padrona”, e anche l’avvocato Agnelli venne contestato sul quotidiano, oltre che sull’Espresso (Scalfari, “L’avvocato di panna montata”, 28.07.74); oggi i potenti trovano protezione sul giornale (basti citare i Benetton e la triste vicenda del ponte Morandi). 7. Se muta l’anima di un giornale, cambia tutto, anche l’approccio alla cronaca: dove sono le inchieste? Quelle alla Giorgio Bocca, che dai fatti risaliva alle cause; oggi la narrazione è piatta: il solito commento moralistico, una dose un tanto al chilo d’indignazione, una spruzzata di psicoanalisi lacaniana. Intendiamoci, a Largo Fochetti hanno il diritto di festeggiare il 45° anniversario, che cade oggi. Dovrebbero chiedersi quanto ci sia ancora della sete di giustizia e verità di un tempo; e quanto la crisi di governo di queste ore dipenda (anche) dall’enorme spazio che il giornale ha sempre dato a Renzi: ci si lamenta della crisi in piena pandemia, e si sostiene il politico che l’ha determinata. C’è contraddizione più evidente? Se Repubblica non supera le sue ambiguità, la festa è solo un’operazione di facciata che, attraverso la memoria del passato, nasconde gli inciuci del presente. Comunque, auguri.

 

Renzi, il perdente maximo contro cui vaccinarci

Era l’idea, anzi il sogno, di Denis Verdini, peraltro riconsultato sotto Natale durante l’orario di visita in qualità di oracolo e grande stratega: il Partito della Nazione. Il brevetto era talmente geniale che passò subito di mano a colui che meglio poteva concretizzarlo. “Il Pd deve essere un partito che vince e che, avendo una vocazione maggioritaria, sia in grado di contenere realtà diverse!”, proclamò Matteo Renzi durante una direzione trionfale del Pd nel 2014. “Reichlin lo ha chiamato il Partito della Nazione” si vantò “deve contenere realtà diverse, da Gennaro Migliore ad Andrea Romano” (per dire l’ambizione che lo animava): era l’epoca che seguiva al 40,8% alle Europee che lo avevano proiettato nei cieli dell’ebbrezza e dell’autoincoronazione. (Nel 2016, Alfredo Reichlin attribuirà a Renzi il “tradimento” di quella idea a favore di una concezione “trasformista di un partito senza storia e senza ideologia che prende i voti dove li trova”).

Era la pastorizzazione del patto del Nazareno, l’Eden dei moderati (“accozzaglia” erano invece gli oppositori della sua bislacca riforma: Rodotà, Zagrebelsky, il Fatto, D’Alema, De Mita, etc.), con lui Sindaco d’Italia (altra perla della sloganistica di allora) a capo di una legione di politici rivitalizzati dalla comparsa del Napoleone a cavallo di una Smart, capaci di superare le vecchie e stantie distinzioni tra destra e sinistra, uniti soltanto dalla acquiescenza al carisma seduttivo del leader. Il quale peraltro invitava la minoranza del Pd, stranamente riottosa, ad andare alla Leopolda a rendergli omaggio nella celebrazione del grande omogeneizzato nazionale.

Gli elettori li aveva praticamente in tasca: i comitati per il Sì sarebbero stati “centri di propulsione per far entrare forze fresche”; il premio di maggioranza dell’Italicum sarebbe andato a questo grande listone nazionale (sinistramente risonante).

Sappiamo come è andata a finire. Renzi, in coro con la firmataria della riforma costituzionale, minacciò di ritirarsi dalla politica se avesse vinto il No, gli italiani lo presero in parola e lo mandarono a casa, lui e tutta la sua paccottiglia post-ideologica, salvo poi vederlo ricomparire qualche mese dopo perché, andava dicendo, la gente lo fermava sugli skilift pregandolo di tornare in sella, infatti l’anno dopo dal Pd transumarono 6 milioni di voti e sotto la sua salvifica guida il partito sprofondò al 18%.

Ma, come dice il Nostro, il tempo è galantuomo. Una speciale alchimia ricombinatoria ha fatto sì che egli riuscisse oggi, nel pieno di una pandemia che ha fatto 80 mila morti, a ricompattare la Nazione sotto l’insegna del suo nome.

Un sondaggio Ipsos per DiMartedì rileva che il 73% degli intervistati pensa che con la manfrina della crisi Renzi stia perseguendo i suoi interessi; solo il 13%, probabilmente una ridotta di padroncini di Confindustria e di alieni mischiatisi ai terrestri al fine di sterminarli, pensa che lo faccia per il bene del Paese. Altri sondaggi lo danno ultimo nella classifica di gradimento personale col 10%, mentre il suo partito di statisti è dato al 2,8%, sotto il partito di Calenda.

Gli italiani (e non solo: all’estero lo chiamano “il disturbatore d’Italia”) hanno capito in massa l’assurdità di una situazione in cui un leader ridotto in tale stato decide che il presidente del Consiglio in carica si deve dimettere e il governo cadere a favore di un altro composto da figure a lui gradite, e che nel momento in cui si dovrebbe parlare solo di vaccini si dia ascolto alle fantasie di rivalsa di un soggetto in chiaro deficit di attenzione che ogni giorno ne inventa una per ricattare il governo.

Un giorno è la task force; un giorno il Recovery; il giorno dopo gli emendamenti; poi il Mes; poi che non facciamo 200 mila vaccini al giorno (ce ne arrivano 490 mila a settimana); poi il Ponte sullo Stretto (perché “la nostra è una battaglia di idee”); poi che al governo manca l’anima; poi che Conte appoggia Trump e lo Sciamano; poi la liturgia democratica. A un certo punto è parso che Conte volesse dare delle poltrone a Iv che non le voleva. Ieri (507 morti), in una conferenza stampa surreale, si è capito che il problema principale sono le dirette Facebook e le storie Instagram di Conte (lo batte anche in quelle), per cui le due ministre (mute) e il sottosegretario Scalfarotto (invisibile, 1,6% in Puglia) sono stati fatti dimettere, secondo i capriccetti del capo. “Andrò all’opposizione”, aveva detto il perdente maximo nel pomeriggio (il che vuol dire fare esattamente le stesse cose che fa dall’agosto 2019): adesso cosa farà?

Forse è finito il tempo della convivenza con questo virus ed è ora di pensare al vaccino per liberarsene definitivamente. Dopo anni di tentativi falliti, Renzi è finalmente riuscito a unire l’Italia nel disprezzo unanime per la sua persona. È un Partito della Nazione anche questo.

 

Politica da incubo e telegiornalite: è ora di disintossicarsi

Chiedo gentilmente una interpretazione dei sogni attuale da parte di due esperti, Antonio Padellaro e Marco Travaglio, in quanto quella freudiana la trovo datata e inapplicabile alla situazione italiana. Da un mese circa sono preda di sogni: durante il mio sonno già precario sono preda di incubi che evidentemente risentono di “telegiornalite” e anche interviste da strada di eminenti politici quali Bellenews, Boschi fioriti, Rosati tramonti e come nei Promessi sposi, l’Innominato.

Capirete che vado in confusione e non riesco a capire il senso di alcune affermazioni quali: “Abbiamo le valigie pronte, siamo al capolinea, dimissioni e ultimatum”. A me ricordano i versi di una vecchia canzone popolare che cominciava con i versi “Partirò, farò partenza, lascerò questi occhi belli, che per me son stati quelli che mi ha fatto innamorar…”, chiara allusione alle poltrone romane. Ma una parola più di tutte mi angustia e credo che Antonio e Marco sapranno darmi una risposta: “Elezioni”.

Chiedo data a complicazione della pandemia e la macchinosità dei regolamenti per votare, grazie anche a delle leggi tipo il Rosatellum, poi bocciata dalla Corte costituzionale.

Come si potrebbe votare in Italia, intendo fisicamente, avendo ancora in mente che per vaccinare 2.000 medici e infermieri con una semplice iniezione si sono viste code chilometriche durate ore? Come si può far votare in due giorni 40 milioni di italiani senza che la metà poi si ritrovi positiva? L’attesa dei risultati, infine, porterebbe a scene e tempi che farebbero impallidire le elezioni americane, non parliamo dei brogli… Cari sognatori sapreste aiutarmi?

Franco Novembrini

 

Caro Franco, quando i sogni sono agitati, in genere, si prendono delle precauzioni. Le suggerisco, quindi, di moderare l’assunzione di tg e talk: max un paio al giorno e possibilmente dopo i pasti, per non rovinarsi l’appetito. Il secondo rimedio consiste, prima di chiudere gli occhi, nel sostituire le consuete pecorelle propiziatrici del sonno con una specie di filastrocca che recita: “Le dimissioni si danno e non si annunciano; e quando si annunciano poi non si danno”. Quanto alle elezioni minacciate, si rassicuri: i protagonisti di questa messinscena, come quei tipi della barzelletta, fanno la faccia feroce, ma non sono scemi. Un caro saluto.

Antonio Padellaro

Mail Box

Nel mio caso, i “ristori” ci sono stati eccome

Sono stanca di sentire e vedere in tutte le trasmissioni le critiche al governo per il mancato sostegno a imprese e lavoratori, promessi e mai arrivati. Non è vero. Mio figlio gestisce un’attività turistica. Uno stabilimento balneare con bar e ristorante: a luglio ha ricevuto 3.300€euro, a novembre 6.050 a fondo perduto e 25.000€di prestito a costo zero rimborsabile fra 2 anni a tasso basso. In più, a lui e ai suoi dipendenti, tre bonifici pari a 3.025 euro come sostegno per i lavoratori stagionali. Più di così mi sembra che non si potesse fare.

Gabriella D.C.

 

Dire che una vetta è “sacra” è un errore

Caro Travaglio, sul Fatto Quotidiano è stata pubblicata una lettera favorevole alla proposta avanzata da un eccellente membro del consiglio direttivo del Parco del Gran Paradiso, intesa a rendere sacra e non raggiungibile la vetta del Gran Paradiso. L’idea potrebbe sembrare nobile, anche se nella cultura europea, per quanto si risalga nel passato, non esistono esempi di simili tabù, come invece accade in Oriente. Temo che consacrare ora una vetta, vietandone l’accesso, oltre a essere palesemente impraticabile, avrebbe un sapore artificioso, al limite del ridicolo… La sacralità delle montagne giace al fondo di ciascuno di noi e non proviene dagli dèi o da chi si autoproclama un loro avatar. Una sacralità imposta “per decreto” dall’alto, difficilmente si radicherebbe nel cuore dei frequentatori delle montagne e potrebbe invece stimolare irridenti propositi trasgressivi, perfino in un vecchio come me.

Carlo Alberto Pinelli, pres. Mountain Wilderness Int.

 

Le planate del renzismo in un’icona (a destra)

Buonasera a tutta la redazione e complimenti per il quotidiano. Sono un vecchio abbonato e volevo farvi partecipi dell’immagine di un atlante per bambini del 1941 la cui copertina richeggia questioni molto attuali. Se possibile fatelo vedere a Natangelo; secondo me l’immagine esalterà, ancor più, se possibile, il suo genio. L’immagine è tratta dall’“Atlante artistico” del professor De Agostini, editrice Italgeo (Milano, via Petrella, 6).

Giancarlo Satragno

 

Eurispes si confronta con il nostro Dalla Chiesa

In merito all’articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano in data 11 gennaio, a firma del prof. Nando dalla Chiesa, l’Istituto prende atto con soddisfazione di aver stimolato l’attenzione di autorevoli testimoni e protagonisti della vita civile come l’On. Dalla Chiesa, al quale vanno riconosciuti impegno e competenza sull’inquinamento mafioso che affligge il nostro Paese. Tuttavia, per amore di verità, e nella certezza di rendere un servizio allo stesso On. Dalla Chiesa, le cui opinioni sull’Indice sono, come egli stesso dichiara, basate su una lettura fatta da altri in sua vece, ci sentiamo in dovere di precisare che l’Ipco (indice di permeabilità dei territori alla criminalità organizzata) esprime una valutazione che non considera la presenza effettiva delle cosche mafiose, ma misura la debolezza dei territori alla potenziale infiltrazione. L’indice ha natura composita ed emerge dall’integrazione di 19 indicatori composti da 163 variabili elementari: ciascuna variabile è ricavata da fonti statistiche ufficiali e, quindi, per definizione affidabili. All’accademico sarà certamente chiaro che la scienza è metodo e, in quanto tale, esprime risultati sempre soggetti ad ulteriori verifiche. Ringrazio il professore per il contributo critico che ci stimola a migliorare, ove possibile, la nostra metodologia al fine di poter meglio contribuire alla causa che, comunque, ci accomuna all’On. Dalla Chiesa.

Gian Maria Farra Presidente Eurispes

Ringrazio il prof. Farra per i riconoscimenti professionali, che ricambio volentieri. Il tema è però troppo delicato per esimermi da una puntualizzazione. Pur avendo letto sulla stampa i risultati dell’indagine Eurispes, non so quali siano i 19 indicatori scientifici adottati per ottenerli, né come tali indicatori siano stati costruiti, pesati e integrati tra loro. Conosco però, e non sono il solo, le realtà di Monza-Brianza e di Como. E benché “presenza effettiva” non significhi “permeabilità potenziale”, è indubbio che se dei fenomeni criminali penetrano abbondantemente dall’esterno in un determinato contesto, ciò significa che quel contesto si è dimostrato altamente permeabile. Purtroppo o per fortuna la scienza non può contraddire i fatti. Quanto ai metodi di queste tipologie di ricerca spero vi sia occasione di discuterne nelle sedi specializzate più idonee anche con il prof. Farra.

Nando dalla Chiesa

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, nel sommario dell’articolo di Piercamillo Davigo su “La prescrizione unica al mondo”, abbiamo scritto “strage di Livorno”, ovviamente intendendo “Viareggio”. Ce ne scusiamo con l’autore e con i lettori.

Fq

La libertà d’espressione non c’entra nulla con l’istigazione ai reati

L’alt-right nostrana, già benedetta da Bannon, è insorta sui social contro il ban dei social a Trump, e parla di censura invocando la libertà di espressione. Giorgia Meloni: “Voltaire reinterpretato dalla sinistra dei giorni nostri: ‘Non sono d’accordo con quello che dici e combatterò fino a farti sparire perché tu non possa dirlo’”. Guido Crosetto: “Il direttore di un quotidiano giustizialista dice che Twitter ha fatto bene a bloccare Trump. È il tassello che mancava per darmi la certezza che contestare questa decisione è una battaglia di democrazia e libertà”. Daniela Santanchè: “Se l’attuale presidente degli Stati Uniti viene censurato, e quindi quasi zittito, cosa credi succederà a te il giorno che non la pensi come loro? La guerra al pensiero unico è una priorità di tutti gli uomini liberi”. Matteo Salvini: “Sono contro censure e bavagli. La LIBERTÀ viene prima di tutto”. Il giochetto è quello di cui si serve da sempre la propaganda razzista: strumentalizzare le libertà democratiche per il proprio proselitismo tossico; e in questi anni è stato agevolato da una politica delle piattaforme social, quella del pesce in barile, ben riassunta dal mantra “Non siamo i guardiani della verità” con cui Zuckerberg, Ceo di Facebook, ancora nel maggio scorso bacchettava, sulla trumpiana Fox News, la decisione di Twitter di segnalare che un tweet di Trump diceva il falso. Faceva comodo agli affari permettere il massimo del traffico, rifiutando la responsabilità sociale di un controllo dei contenuti veicolati. Tale irresponsabilità è tuttora permessa dal comma 230 del Communications Decency Act (1996), secondo cui, negli Usa, nessuna piattaforma può essere considerata responsabile come un editore per i contenuti postati dagli utenti. La Commissione europea, tuttavia, lodò la decisione di Twitter di moderare i contenuti falsi, perché pericolosi. E Biden ha promesso che, contro le fake news e l’hate speech, matrici di danni e morti, revocherà il comma 230. È incredibile dover puntualizzare, come se il precedente nefasto di Goebbels non avesse insegnato nulla, che le idee violente e razziste non sono semplici “idee”; che le fake news non sono semplici fake news; che libertà di espressione non significa libertà di reato; e che la democrazia deve difendersi da chi vuole cancellarla. Le piattaforme, aziende private, hanno una policy contro i contenuti pericolosi (per esempio l’incitamento alla violenza, il razzismo, la pedopornografia), ma la facevano rispettare di rado, e con colpevole ritardo, cosa che permise per esempio agli ultranazionalisti di Myanmar di diffondere fake news e hate speech via Facebook allo scopo di fomentare le violenze di massa contro i musulmani Rohingya. Due anni fa, un’inchiesta del New York Times rivelò che Facebook, una volta emerse le sue responsabilità nella propaganda virale di odio contro minoranze vulnerabili, cercò addirittura di screditare i propri critici assoldando un’azienda di Pr che li bollasse come agenti di Soros. Con l’assalto al Congresso Usa dei fanatici di QAnon, sobillati anche via social da Trump, ogni alibi interessato è caduto. “Crediamo che continuare a consentire al presidente di usare il nostro servizio in questo periodo sia semplicemente troppo pericoloso”, ha scritto l’altro giorno Zuckerberg, annunciando la sospensione dell’account Facebook di Trump. A ottobre, l’Fbi aveva affermato di considerare QAnon una possibile minaccia terroristica. Lunedì scorso, Twitter ha sospeso oltre 70 mila account “utilizzati per condividere su larga scala contenuti pericolosi collegati a QAnon” e “dedicati principalmente alla diffusione di teorie cospirazioniste”.

(1. Continua)

 

Fine del patto con gli italiani: è liberi tutti

Non occorrono i sondaggi (l’ultimo su La Stampa di ieri) per sapere che di fronte al pantano che da settimane, se non da mesi, sta inghiottendo il governo, la stragrande maggioranza degli italiani prova “rabbia, preoccupazione e sconcerto”. Ciò che è peggio, a questi sentimenti si accompagna il progressivo allentarsi di quel contratto sociale tra le istituzioni e i cittadini tacitamente sottoscritto, quasi un anno fa, nei giorni del primo lockdown. Di fronte all’espandersi incontrollato del contagio si accettavano (accettavamo) in sostanza tutte le misure di contenimento ritenute necessarie, a cominciare dalla forte limitazione delle libertà personali. In cambio, ci si affidava (ci affidavamo) al senso di responsabilità del governo, e alle competenze del Comitato tecnico scientifico, come un esercito in guerra che sotto il fuoco del nemico si attiene alle disposizioni del comandante in capo e ai sacrifici richiesti.

Un patto che ha funzionato fino a quando l’autorità e la credibilità del vertice decisionale non hanno cominciato a essere progressivamente logorate e messe in discussione. E ciò non tanto per l’azione di contrasto dell’avversario (nel nostro caso l’opposizione deambulante della destra sovranista) bensì a causa delle manovre corrosive interne. Se non addirittura per l’azione di sabotaggio di una quinta colonna interessata esclusivamente a bombardare il quartier generale per poi occuparlo e sostituirlo.

È abbastanza chiaro che, constatata la debolezza dei generali, e sentendosi abbandonato al proprio destino l’esercito dei soldati semplici si senta sempre più tentato dal rompete le righe. Che, in piena pandemia, significherebbe riprendersi giorno dopo giorno quella libertà d’azione, quell’adesso facciamo come ci pare di cui abbiamo già avuto un assaggio la scorsa estate, con le conseguenze che sappiamo. Ci sembra di sentirli quei tanti italiani arrabbiati, preoccupati e sconcertati davanti a una crisi di governo pretestuosa, incomprensibile, dominata dall’ego di un signore del 3%; coloro che devono fare i conti con ordinanze, divieti e regioni multicolori, con le centinaia di morti al giorno, con il portafoglio vuoto. Dire: liberi loro di farsi i fatti loro, liberi noi di farci i fatti nostri, e dunque liberi tutti.

Al buio. La gente è disorientata e ha paura di una crisi adesso

Secondo le prime analisi a caldo che l’istituto Demopolis ha avviato, la stragrande maggioranza degli italiani non sembra aver compreso le ragioni dell’apertura della crisi politica da parte di Renzi in un frangente delicato come quello attuale, caratterizzato da un aggravamento dell’emergenza sanitaria ed economica da Covid. C’è un forte disorientamento su questo. Vedremo se avrà effetti anche sulla popolarità dei leader, ma nell’ultimo periodo il gradimento di Conte sembrava essere stabile su valori comunque molto alti. Con una particolarità: Conte è diventato molto divisivo, essendo apprezzato da oltre l’80% tra gli elettori di Pd e M5S e solo dal 5% tra quelli di Lega e FdI. E al momento la crisi non ha portato alcun beneficio a Italia Viva, che continuiamo a registrare tra il 2,5 e il 3%.

Confusione. Gli italiani non hanno capito quale fosse lo scopo di Iv

Dalle rilevazioni di Tecnè, vediamo che il 63 per cento degli italiani non vuole le elezioni adesso. Non sono tutti soddisfatti di questo governo, ma hanno paura della pandemia e delle conseguenze economiche del Covid. Se ci si imbarca in una campagna elettorale adesso, si teme che queste due priorità passino in secondo piano. Ma in questo momento anche solo cambiare il premier sarebbe visto come un rischio: sappiamo bene come una crisi comporti mesi di trattative, a maggior ragione per forze politiche come Pd e M5S che non sono alleati storici. Le persone non vogliono vedere perdite di tempo da parte della politica. E poi c’è l’elemento Matteo Renzi: è come se ormai gli italiani lo abbiano imparato a conoscere e l’ex rottamatore abbia perso credibilità perché non si capisce mai fino in fondo quale sia il suo scopo.

Gradimento Possibile polarizzazione dei consensi, ma il voto è lontano

La singolarità di questa crisi è che Movimento 5 Stelle e Pd, benché abbiano insieme circa il 35% dei consensi, siano apparsi marginali. Essenzialmente gli italiani hanno percepito la crisi come una partita tra due leader: da una parte Conte, un leader senza partito, e dall’altra Renzi, leader di un partito molto piccolo. Questa crisi potrebbe creare un effetto di polarizzazione nella popolarità di Renzi – che per la verità è bassissima da tempo – e quella del premier, finendo per schiacciare un po’ Pd e M5S. Va anche detto però che eventuali effetti nella popolarità dei leader non necessariamente avranno una ricaduta pratica nell’immediato, perché non credo che si arrivi a elezioni in tempi rapidi. D’altra parte l’obiettivo di Renzi era un altro, perché credo abbia giocato la partita della crisi solo per ottenere una diversa centralità all’interno di questa legislatura, che fosse con questo governo o con un altro.