E matteo distrugge l’auditel di rai3

Possiamo chiamarla “la maledizione del 3 per cento”. Esoterismo o no, Matteo Renzi ormai si è talmente abituato alla percentuale dei suoi sondaggi – anche se molti istituti, a dire il vero, danno Iv al 2 – da portarsela dietro pure quando va in televisione. Due sere fa il Nostro ha infatti provveduto a rovinare i dati Auditel di #Cartabianca, la trasmissione di Rai3 in cui era ospite. I numeri parlano chiaro: il programma condotto da Bianca Berlinguer ha avuto, in tutta la serata, una media del 5,6 per cento, purtroppo abbassata dalla mezz’ora in cui è stato ospite il leader di Italia Viva, che in media ha fatto il 4,8 per cento con picchi verso il basso addirittura del 3,19. E pensare che, senza di lui, #Cartabianca sarebbe andato a gonfie vele, come dimostra il 7 per cento sfiorato dalla coppia Gad Lerner-Massimo Cacciari e l’8,86 raggiunto con Massimo Galli e Andrea Crisanti, mentre pure DiMartedì su La7 chiudeva la serata sopra il 7 per cento di media, doppiando – e a tratti triplicando – Renzi. Quel che resta della rottamazione (televisiva).

Eni, la tangente in Nigeria. I pm: ecco perché colpevoli

In 304 pagine, la storia della più grande tangente internazionale mai scoperta in Italia. È quella che secondo la Procura di Milano sarebbe stata pagata da Eni e Shell per ottenere, a condizioni di favore, la concessione per l’immenso campo d’esplorazione petrolifera Opl 245,in Nigeria. A firmarla sono il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, pm nel processo milanese giunto a un passo dalla sentenza. La lunga memoria ricapitola la vicenda e allinea con cura meticolosa interrogatori, dichiarazioni, email, 198 documenti da cui si ricava – secondo i pm – la certezza che il pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari fatto da Eni e Shell nel 2011 su un conto londinese del governo nigeriano è una gigantesca tangente poi transitata sul conto della società Malabu, riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete (che si era autoassegnato la concessione), e infine distribuita a pubblici ufficiali nigeriani, tra cui l’allora presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, il ministro della Giustizia Muhamed Adoke Bello e il ministro per le risorse petrolifere Diezani Alison-Madueke. Imputati di corruzione internazionale sono, tra gli altri, l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il mediatore Luigi Bisignani.

L’affare era quasi fatto – racconta la memoria – quando nel febbraio 2011 il mediatore “Bisignani, faccendiere pluricondannato per corruzione, balzava di nuovo agli onori delle cronache per un’inchiesta della Procura di Napoli su un gruppo organizzato che la stampa denominò P4”. L’affare nigeriano fa capolino in alcune intercettazioni telefoniche. “In questo contesto va letta l’improvvisa prudenza che si impadronisce dei vertici Eni e arriva addirittura, in atti interni, a rinnegare la fattibilità dell’operazione”. In realtà, viene solo cambiato lo schema dell’affare, escluso Bisignani e “messo il preservativo”, come racconta The Economist in un articolo dal “titolo pittoresco” (“Safe sex in Nigeria”) “che descriveva il ruolo del governo come puro ‘dispositivo di protezione’ per evitare alle due società petrolifere rapporti diretti con un ex ministro del petrolio già condannato per riciclaggio”.

Ammette Descalzi: “Bisignani ai miei occhi rappresentava Scaroni. Volevo in qualche modo compiacerlo”. Questa “affermazione, di desolante crudezza, certifica (auto-certifica) la sudditanza dell’allora n.2 di Eni (ora n.1) a un pluripregiudicato per corruzione che, per sua ammissione, sperava di ottenere un guadagno dall’affare Opl 245”.

Nel nuovo schema (“Safe Sex”), il versamento viene fatto su un conto del governo nigeriano. Ma gli accordi corruttivi, già stretti, saranno rispettati. Il mediatore nigeriano di quegli accordi è Emeka Obi. “È evidente che è stata proprio l’iniziativa descritta da Descalzi a consentire a Obi di essere coinvolto nei negoziati”. Descalzi ha con lui 188 contatti, lo incontra alla cena con Etete all’Hotel Principe di Savoia di Milano, discute con lui le questioni poi trattate nell’incontro notturno con Etete nel 2010 all’Hotel Four Season di Milano.

Descalzi sa che il presidente Goodluck Jonathan non stava “tutelando gli interessi della parte pubblica, ma quelli privati di Dan Etete”. S’impegna a “tenere Obi dentro l’affare”. E proprio “uno dei colloqui avuti con Obi rivela con certezza la conoscenza di Descalzi della destinazione dei soldi a pubblici ufficiali nigeriani”: in un incontro tra Obi e Descalzi all’Eni di San Donato il 4 novembre 2010, Descalzi domanda: “Quanto prenderà il principale azionista di Malabu (50%)?”. Spiegano i pm: “Può essere interpretata soltanto in un modo, come una domanda sulla percentuale di corrispettivo che resterà in tasca a Etete. Logico corollario è che altri, diversi da Etete, prenderanno il resto”. Descalzi ha poi “discusso con Brinded” (il manager di Shell) “l’aspettativa dei politici nigeriani, e segnatamente del presidente”. Dunque, “in considerazione delle estese ammissioni dell’imputato, si ritiene provato al di là di ogni dubbio che Descalzi fosse informato del carattere illecito dell’operazione e di versamenti agli sponsor politici nigeriani contigui a Dan Etete”.

“Shalabayeva, nostri poliziotti servirono la dittatura kazaka”

In 256 pagine viene descritto uno scenario da “notte della Repubblica”. Una “notte” durata le 60 ore intercorse tra la perquisizione avvenuta nel maggio 2013, nell’abitazione romana di Muhtar Ablyazov (arrestato in Francia tre mesi fa) e l’espulsione, o meglio il “sequestro” e la “deportazione”, secondo la sentenza, di sua moglie Alma Shalabyeva. Per il reato di sequestro di persona sono state condannate dal tribunale di Perugia – collegio presieduto da Giuseppe Narducci – il capo dell’ufficio immigrazione dell’epoca, Maurizio Improta, e l’uomo che catturò il capo dei capi Bernardo Provenzano, Renato Cortese, in quel momento capo della Squadra mobile di Roma. Per il reato di sequestro di persona sono stati entrambi condannati a 5 anni di reclusione insieme con 4 altri imputati. Le motivazioni della sentenza sono durissime – in alcuni passaggi si accenna alla violazione dei diritti umani – e denunciano sin dall’inizio un importante fallimento investigativo: perché – o meglio: per ordine di chi – gli imputati avrebbero sequestrato Shalabayeva?

La sentenza spiega che né le indagini né il dibattimento hanno “permesso di acquisire elementi concreti in grado di fornire una risposta” alla seguente domanda: “Vi fu un intervento al più alto livello politico istituzionale dello Stato italiano che indirizzò l’operato della Polizia per conseguire la deportazione” di Shalabayeva e della figlia e “compiacere la Repubblica del Kazakhstan (…) governata dal dittatore Nazarbayev?”. La domanda – che non è da poco – resta quindi inevasa e, con essa, non trova risposta un interrogativo essenziale: se non hanno ricevuto ordini dall’alto, perché 6 funzionari avrebbero sequestrato Shalabayeva? I difensori di Cortese – Franco Coppi ed Ester Molinaro – annunciano il ricorso in appello e si dicono “sbalorditi dinanzi ad affermazioni che non hanno aggancio con la realtà dei fatti” e lontane “dalle stesse risultanze dibattimentali. La signora era una donna clandestina e si trovava in Italia con documenti falsi”.

Secondo il Tribunale di Perugia “durante tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale” e “alcuni rappresentanti della Repubblica italiana (…) accantonarono il giuramento prestato alla Costituzione e servirono gli interessi (…) della dittatura kazaka”.

“Con tempi da record mondiale” Shalabyeva e sua figlia “salivano a bordo di un aereo messo a disposizione dalle autorità kazake” e “dall’inizio della vicenda al suo termine trascorsero appena 60 ore”. 60 ore vagliate dalla sentenza minuto per minuto, con un’attenzione meticolosa, al punto che, leggendola, quasi si perde la cognizione della frenesia di quei momenti. Frenesia che pure deve aver inciso nella raccolta di informazioni e nelle decisioni prese dagli imputati. Il Tribunale non ha dubbi sull’“asservimento completo dei pubblici ufficiali italiani agli interessi kazaki”. Grave anche l’accusa di “registrazioni occultate o distrutte” che hanno sottratto all’indagine e al processo “documenti che avrebbero permesso di smascherare immediatamente il piano criminoso ai danni di Shalabayeva”. Ma “non sussistono elementi di prova” per addebitare questa condotta agli imputati anche se la “responsabilità ricade certamente su appartenenti alla polizia di Stato che si sono occupati della vicenda”. La perquisizione nell’appartamento di Shalabayeva fu “caratterizzata da macroscopiche illegalità e arbitrarietà”. “S’è trattato di azioni concertate perché l’una, quella prettamente investigativo-giudiziaria, ha sorretto l’altra, quella amministrativa (relativa all’espulsione, ndr) e viceversa”.

Caso Palamara, toghe nei guai: Csm indaga su 100 chat

A un anno e otto mesi dallo scandalo delle nomine, il “caso Palamara”, il Csm ha votato in plenum le prime pratiche nate dalla montagna di chat tra l’ex consigliere Luca Palamara, radiato dalla magistratura (contro la sentenza disciplinare pende il suo ricorso in Cassazione) e decine e decine di toghe. A maggioranza (11 contrari, 5 favorevoli e 7 astenuti) il plenum, dopo ore di dibattito, ha respinto la richiesta di archiviazione avanzata da una parte della Prima commissione per le chat tra Palamara e il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, ex consigliere Csm ed ex segretario di Magistratura Indipendente, la corrente del deputato renziano Cosimo Ferri. Dunque, la maggioranza del plenum si è espressa perché la Prima apra una pratica per contestare al magistrato l’ex articolo 2, ovvero l’incompatibilità ambientale per alcune conversazioni, in particolare quando si parla della nomina del procuratore di Roma e Racanelli conviene con Palamara che debba essere eletto il Pg di Firenze Marcello Viola. Contro l’archiviazione le toghe di Area, a partire dalla presidente della Prima Elisabetta Chinaglia e quelle di Autonomia e Indipendenza; l’indipendente Nino Di Matteo, i laici Fulvio Gigliotti (M5s) e Stefano Cavanna (Lega).

Ma non c’è solo il caso Racanelli. Secondo Alessio Lanzi, il vicepresidente della Prima commissione, sono “un centinaio le pratiche pendenti” al Csm. Attenzione, non sono, almeno a oggi, un centinaio i magistrati su cui la Prima sta “indagando”, ma sono un centinaio le chat scremate dai consiglieri della Prima che hanno fatto un lavoro complicatissimo per individuare quelle rilevanti tra le decine di migliaia di conversazioni. Secondo quanto ci risulta, per ora sono una decina i magistrati già sotto procedimento per incompatibilità ambientale e/o funzionale. Invece, sono già una quarantina i magistrati per i quali la Prima ha aperto una pre-istruttoria, per valutare cioè se contestare l’ex articolo 2 o se chiedere un’archiviazione. Ma, come accaduto ieri, anche nel caso di proposta di archiviazione, la Prima ha deciso, per “trasparenza”, di motivarla ampiamente. Non sfugge che non tutte le archiviazioni sono uguali. Ce ne possono essere di “vestite”, cioè un magistrato se la cava perché non ci sono gli estremi per chiedere il suo trasferimento, in punto di norma, ma ciò non toglie che ha avuto un comportamento deontologicamente scorretto, pertanto, potrebbe comunque avere conseguenze sulla sua carriera. Infatti una delibera di archiviazione ben motivata può essere valutata, per esempio, dalla Quinta commissione competente per le nomine dei vertici giudiziari e per le riconferme o dalla Quarta a cui spetta proporre le valutazioni di professionalità. È il caso di Alberto Liguori, procuratore di Terni ed ex consigliere del Csm, di MI. Tre anni fa il procuratore, toga calabrese, insiste con Palamara perché venga ribaltato il voto della Commissione per il presidente di una sezione del tribunale di Cosenza. Essendo ormai a Terni e non più in Calabria, per Liguori non c’erano i presupposti del trasferimento per incompatibilità ambientale ma “quella condotta – scandisce il relatore Di Matteo – ha rilevanza sotto il profilo deontologico. Mi riferisco all’articolo 10 del codice che io non voglio dimenticare, è su quello che si sono innestate tante metastasi nel nostro corpo”. Approvata, ma con contenuti diversi, anche l’archiviazione per Alessandra Camassa, presidente del tribunale di Marsala che ha un unico messaggio con Palamara per di più a nomina avvenuta di un collega ritenuto “bravissimo”. Intanto al Csm è approdata la richiesta del procuratore di Perugia Raffaele Cantone di apertura di una pratica a tutela dei pm che accusano Palamara di corruzione e rivelazione di segreto, dopo un articolo del Riformista dal titolo “Troppi pm legati a Palamara, la Procura insabbiò le chat”.

Proprio ieri Palamara è stato interrogato a Perugia sull’esposto dell’ex pm di Roma Stefano Fava contro l’ex procuratore Giuseppe Pignatone. “Ho ribadito la mia estraneità alla pubblicazione dell’esposto sul Fatto e La Verità”.

Morandi, l’effetto del “modello Genova”: gli extra-costi ora lievitano di 100 milioni

Da oltre due anni sembra essere diventata la panacea a tutti i mali: il “modello Genova” – inteso da chi ne parla sostanzialmente come l’aggiramento del codice degli appalti e l’affidamento della realizzazione delle opere a un commissario straordinario – viene indicato da tanti come una soluzione per sbloccare l’economia e i cantieri. È un ritornello ripetuto da una fetta cospicua di mondo imprenditoriale e da sponsor politici bipartisan. Ma rischia di costare caro. Soprattutto se a pagare è il pubblico. A Genova, città pilota del modello, succede infatti che i costi del Ponte San Giorgio, costruito a tempo record dopo il crollo del Morandi, sono lievitati di 102 milioni di euro, ovvero il 51% del preventivo iniziale. E adesso a battere cassa sono i costruttori: We Build (Salini Impregilo) e Fincantieri. Ma come è potuto accadere? E, soprattutto, chi pagherà?

In teoria dovrebbe aprire il portafogli Autostrade per l’Italia, a cui il decreto Genova aveva tolto la gestione della ricostruzione, lasciando però il compito di saldare il conto (uno dei particolari che rende il contesto del tutto eccezionale). E proprio questo nodo – chi paga e quanto – è stato oggetto di un procedimento davanti al Tar e corre in parallelo con la partita più importante, e cioè il rinnovo della concessione. La svolta è arrivata nei giorni scorsi, quando il consorzio che raduna le società che hanno partecipato ai cantieri ha presentato un lungo elenco di extra-costi. Spese non preventivate derivate, così sostengono i privati, in parte da imprevisti e in parte da scelte prese dal commissario straordinario, il sindaco di Genova, Marco Bucci. Una parte importante delle spese aggiuntive riguarda il rispetto dei tempi serrati nonostante le norme anti Covid. Altra voce impattante (una ventina di milioni di euro) riguarda il trasporto via mare dei conci, che inizialmente dovevano essere portati al cantiere con trasporti eccezionali (soluzione resa impossibile dal rifacimento della strada interessata). Nei terreni sono stati trovati idrocarburi esausti, sono emerse criticità durante la lavorazione delle fondamenta, e, infine, solo la demolizione è costata 6 milioni in più. Adesso la controversia passa in forma bonaria a un collegio composto da un membro dell’avvocatura dello Stato, un rappresentante del Rina (soggetto certificatore) e uno delle imprese. Una sorta di lodo arbitrario che tenterà di evitare un contenzioso. Senza dimenticare l’ulteriore problema: convincere Aspi a pagare.

’Ndrangheta, via al maxi-processo a Lamezia Gratteri: “Segnale a chi in Calabria denuncia”

L’elicottero si vede appena si imbocca la Statale 18 che collega l’aeroporto con la zona industriale. Dalle 6 di mattina non ha mai smesso di sorvolare sulla nuova aula bunker dove ieri è iniziato il maxi-processo “Rinascita-Scott” contro la ’ndrangheta vibonese: politici, mafiosi, imprenditori, professionisti e massoni. Per la Dda di Catanzaro erano tutti al servizio della cosca Mancuso. Più ci si avvicina alla zona e più si percepisce che in Calabria quella di ieri non è stata una giornata come le altre. Pattuglie di forze dell’ordine a ogni angolo, c’è anche l’esercito all’ingresso del capannone trasformato nella nuova aula bunker. Fino all’estate scorsa era un call center. Da dicembre è la scommessa vinta del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: “L’essere riusciti a celebrare qui il processo vuol dire che i calabresi non sono il popolo delle incompiute. Questa è un’aula bunker che può ospitare fino a mille persone a distanza. Era importante che il processo si celebrasse dove si sono commessi i reati. Senza alibi per nessuno, la gente deve capire che si può fidare di noi e che noi possiamo dare delle risposte”.

Era dai tempi di “Olimpia”, l’altro maxi celebrato negli anni Novanta a Reggio Calabria, che non c’erano questi numeri in un’aula di tribunale. Oltre 330 gli imputati alla sbarra. Gli avvocati, invece, sono molti di più. Dopo la retata del 2019 e le udienze preliminari tenute a Roma, l’inchiesta del procuratore Gratteri e dei suoi pm torna in Calabria. Il colpo d’occhio, entrando in aula, è spaventoso. Non fosse altro per gli oltre 3mila metri quadrati che ricordano l’aula bunker del maxi-processo di Palermo.

È stata, però, una “falsa partenza”. Nei giorni scorsi, su proposta della Procura, la Corte d’Appello ha disposto la ricusazione della presidente del collegio Tiziana Macrì nello stralcio che vede imputato l’ex parlamentare di Forza Italia, Giancarlo Pittelli, accusato di concorso esterno. Nel troncone principale, la presidente Macrì si è astenuta assieme ai due giudici a latere: “Io sono venuta – ha detto – per dovere d’ufficio”. Astensione tardiva secondo Gratteri che ha anticipato il deposito di un verbale del pentito Gaetano Cannatà, secondo cui la strategia degli imputati è quella di allungare i tempi del processo e puntare alla scadenza dei termini di custodia cautelare. Si ritorna in aula il 19 dicembre quando il nuovo Tribunale dovrà riunire tutto in un solo processo “Rinascita”.

Inter, 3 anni a Bosa capo ultrà neo-nazi “Agì da mafioso”

Referente dell’ultradestra neonazi milanese, tra i capi della curva nord dell’Inter, settore Irriducibili, con ottimi contatti nel milieu mafioso. Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, arrestato nel gennaio 2020 in un’inchiesta del Gico, ieri è stato condannato a 3 anni e 6 mesi per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso. La Finanza spiega i rapporti di Bosa con il clan Pompeo. Bosa, referente degli HammerSkin vicino al movimento politico Lealtà Azione, per conto di un imprenditore, anche lui vicino ai clan, ha tentato un’estorsione utilizzando queste frasi: “Non ti picchio qua solo per rispetto di Alessandro, voglio i soldi”. Alessandro Magnozzi è l’imprenditore che spiegava: “Lavoriamo con tutte le famiglie mafiose”. Bosa emerge poi in un’indagine sugli affari degli ultrà interisti. Dopo l’arresto e con lo stadio ancora pieno, in curva si presentano i Pompeo per discutere la sua posizione. Il discorso conferma le ipotesi del Gico. Bosa, spiegano gli emissari del clan, è sì uno dei capi della curva, ma è anche legato a loro.

Leonardo, trovato il libro mastro delle tangenti

Prima la confessione messa a verbale da uno degli indagati, poi la scoperta del libro mastro delle tangenti con cui, secondo la Procura di Milano, la società Trans Part srl a partire dal 2015 e fino ad almeno il 2018 per ottenere appalti pagava dieci funzionari (oggi indagati) del colosso italiano Leonardo Spa. L’inchiesta coordinata dal pm Gaetano Ruta e dalla Guardia di finanza riserva un altro colpo di scena. Messo a fuoco il prezzo delle tangenti e i flussi di denaro con l’iscrizione di Google per la legge 231, ora l’inchiesta (14 indagati) entra nel vivo della corruzione tra privati. Tutto avveniva all’oscuro dei vertici di Leonardo, tanto che la società non è coinvolta. Il libro mastro è stato trovato durante la perquisizione. Valore degli appalti, percentuali da pagare, era tutto annotato. La mazzetta veniva calcolata in base allo sconto ottenuto per l’appalto o l’affidamento. Tutto avveniva fuori dagli uffici, anche ai tavolini degli autogrill. Qui o c’era il passaggio di denaro oppure il funzionario di Leonardo, per l’accusa, indicava quale ribasso attuare.

Attenzione a come facciamo i tamponi

Malgrado le misure di contenimento adottate per limitare l’espandersi dell’infezione da SarsCoV2, con i sacrifici che sappiamo, non si riesce ad abbattere significativamente il numero dei positivi e dei decessi. Sembra che si sia raggiunto un limite insormontabile. Non è una condizione esclusivamente italiana. Tutta l’Europa, e non solo, è nella stessa condizione. È quindi legittimo, oltre che necessario, interrogarsi per cercare di comprendere perché, dopo i sensibili cali ottenuti dopo ogni periodo di inasprimento delle misure di contenimento, oggi non sia più così. Ogni esperto addurrà delle motivazioni condizionate dal proprio punto di vista specialistico. I sociologi fanno appello a un certo rilassamento o rifiuto di alcune misure, attribuibili alla pandemic fatigue (stanchezza da pandemia). Alcuni si appellano a varianti del virus (inglese e Sud-africana) che però, al momento, non sembra circolino molto in Italia. Non è peraltro dimostrato che la maggiore circolazione del virus sia legata a tale variante. Avanzo anch’io un’ipotesi che non ha la pretesa di essere certa. Mi riferisco all’uso, sempre più diffuso dei test antigenici rapidi. Soprattutto i primi proposti in commercio hanno mostrato di avere una sensibilità inferiore al test molecolare, fino al 30%. Sia chiaro, hanno la loro valida applicazione, ma bisogna essere molto attenti ad attenersi agli usi consigliati.

Viene tutto ben espresso in uno studio pubblicato da ricercatori dell’Université Catholique de Louvain, Belgio. L’utilizzo è valido nei soggetti con alta quantità di virus e cioè casi presintomatici o precoci sintomatici. Non vanno utilizzati come screening di massa (lo raccomanda anche l’Oms). Il pericolo è che si possa avere un numero considerevole di falsi negativi che, certamente, diventano vettori di virus nella popolazione. Sarebbe interessante se si valutasse l’eventuale correlazione tra il numero di test rapidi utilizzati, il tipo di soggetti testati e l’andamento della positività nelle diverse regioni. Forse ci aiuterebbe a capire quanta responsabilità un uso non appropriato.

*Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Test rapidi e tasso positivi: i numeri in ordine sparso

Tutte ancora una volta in ordine sparso. In questo caso nel calcolo dell’indice di positività, vale a dire il rapporto tra nuovi contagi e numero di test effettuati. È la risposta delle Regioni alla circolare con la quale il ministero della Salute, l’8 gennaio, ha aperto le porte ai test antigenici rapidi per la diagnosi di positività al Covid-19: soprattutto a quelli di ultima generazione, però, con un alto tasso di sensibilità e di specificità, anche se i molecolari restano il gold standard. Ora c’è chi mette nel computo finale, ogni giorno, sia i molecolari – che assicurano una minima percentuale di falsi negativi: oscilla tra il 3 e il 4% – sia i rapidi, che hanno una affidabilità decisamente minore. Lo fa il Veneto, che dopo essere stata la regione più colpita dalla seconda ondata epidemica, anche ieri ha visto scendere la quota dei nuovi contagi (1.884). Lo fa il Piemonte: 1.064 nuovi casi, pari al 5,8% degli oltre 18 mila test eseguiti, dei quali quasi 10 mila rapidi. Al contrario, l’Emilia-Romagna, che ieri di nuovi positivi ne ha contati 1.178, pari al 7,4% del totale dei test, conteggia solo i molecolari e su questi calcola l’indice. Proprio come fanno la Campania e la Puglia. E come fa anche la Toscana, che scorpora i numeri su tamponi e test rapidi, ma l’indice di positività lo individua tenendo in considerazione solo i molecolari.

Un guazzabuglio. La circolare ha sì aperto le porta agli antigenici, ma non l’ha spalancata. Discriminando tra quelli di prima e seconda generazione – che “dovrebbero essere in grado di individuare un caso altamente contagioso” – e quelli di terza – che hanno una sensibilità e una specificità maggiore “e sembrano mostrare risultati sovrapponibili” a quelli dei tamponi molecolari –. E anche se il ministero della Salute ha anticipato che i dati sui test rapidi verranno rendicontati a parte, per ora tanti numeri non tornano: perché chi include gli antigenici, alla fine li ha ben diversi da quelli ministeriali. Poi c’è il caso Piemonte, dove i dati non quadrano anche su altri fronti. Qui, come denunciato dal sindacato dei medici dirigenti Anaao Assomed, la percentuale dei ricoverati per Covid sul totale dei positivi è superiore al 19%: praticamente uno su cinque è in ospedale, contro una media nazionale del 4,5%. “O in Piemonte il virus è meno contagioso ma più aggressivo oppure è evidente che il tracciamento non sta funzionando e siamo di fronte a una sottostima del numero dei contagiati asintomatici o paucisintomatici: ne abbiamo persi migliaia che non sono stati sottoposti al test, né molecolare né antigenico”, dice Chiara Rivetti, segretaria regionale di Anaao.

Quindi, secondo il sindacato, in Piemonte ci potrebbero essere 40 mila positivi non individuati. Conclusione che la Regione guidata da Alberto Cirio respinge affidandosi a una relazione di un gruppo di epidemiologi dell’unità di crisi regionale. “Non stiamo affatto occultando positivi e non c’è nessun allarme – rispondono dallo staff di Cirio –. E sul piano metodologico non funziona il confronto con altre regioni o con una media nazionale perché l’epidemia ha avuto un andamento diverso nei vari territori. Al contrario abbiamo avviato un progetto nelle scuole, che coinvolge il personale e gli studenti delle seconde e terze medie, e tra gli over 65: a prescindere da sintomi o contatti con positivi hanno diritto a effettuare il tampone”.