Germania, vaccini in ritardo: “L’Italia fa meglio di noi”

Il ministro della Salute tedesco Jens Spahn si è difeso ieri nel Bundestag dalle critiche di un’inizio di campagna vaccinale fallimentare e di una dotazione di vaccini insufficiente. La Germania non è la prima della classe come i suoi cittadini si aspettano, sostengono da giorni i quotidiani del gruppo editoriale Axel Springer – Bild e Die Welt – e i socialdemocratici. Già questo è motivo di onta. In un pezzo dal titolo: “Perché l’Italia supera la Germania nelle vaccinazioni” Die Welt analizzava i motivi del successo italiano. “L’Italia ha superato le sue stesse aspettative” – scriveva il quotidiano – arrivando a vaccinare anziché le previste 65.000 persone al giorno “addirittura oltre 73.000” in un giorno. “Un record in Ue”. A leggere però tra le righe si tratta di una sottile e indiretta critica al governo di Berlino. Il sottotesto, a pensar male, è: se perfino l’Italia ci supera, la campagna vaccinale tedesca è stata davvero scarsa.

In realtà la situazione tedesca così disastrosa non è: in due settimane e mezzo i vaccinati sono stati oltre 750.000 vaccini, sicuramente meno dell’Italia in rapporto alla popolazione ma non paragonabile al collasso di altri paesi. Poco più della metà dei vaccinati è personale sanitario (366.000) e poco meno della metà anziani nelle case di cura e di riposo (285.000). Ma la capacità vaccinale varia molto da regione a regione: il primato è del Meclemburgo Pomerania (18,1 vaccinati su 1000 abitanti), l’ultima è la Turingia (6,1). Non abbastanza per un’opinione pubblica – scaldata dai motori appena accesi della campagna elettorale – che pretende che tutto funzioni bene e in fretta, come se un’epidemia fosse uno dei tanti eventi nel catalogo del buon amministratore. Davanti al Bundestag il ministro Spahn ha ammesso i suoi errori: la vaccinazione è andata un po’ a rilento ma la Germania offrirà a tutti la possibilità di ricevere il vaccino entro l’Estate. Il problema non è nella quantità delle dosi ordinate (oltre 140 milioni) ma nelle “insufficienti capacità produttive”, è tornato a ripetere un’ennesima volta. Altra nota dolente sono i call-center, responsabili di gestire le prenotazioni dei vaccini in alcuni Laender. Sono sottodimensionati rispetto alle richieste e sono lentissimi. Sui giornali si rincorrono le storie di attese di 7 ore e oltre. La necessità di potenziarli è sotto gli occhi di tutti. Dopo le ammissioni il ministro è passato al contrattacco: “il governo federale ha accettato di procurarsi vaccini diversi e ne ha disposto il finanziamento. La gestione dell’organizzazione spetta ai Laender” ha detto. Anche la cancelliera Merkel, in un’indiscrezione filtrata dalla riunione del martedì del gruppo Cdu-Csu, si era detta insoddisfatta della gestione “lacunosa” da parte dei Laender, soprattutto nel far rispettare l’obbligo di test nelle case di riposo e di cura. E così è sceso in campo anche l’esercito, che secondo la ministra della difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, metterà a disposizione 10.000 soldati per i test nelle Rsa.

Il ministro ha poi dovuto difendere la scelta di aver privilegiato gli ordinativi Ue: “Andare da soli sarebbe stato l’approccio sbagliato” perché “non dobbiamo solo invocare l’Europa nei discorsi della domenica, ma sostenere le parole con i fatti”. Per concludere con po’ di universalismo illuminista di sapore kantiano.

 

“Epidemia in crescita” Regioni, spostamenti vietati fino al 5 marzo

Analizzando i dati di novembre, quando furono introdotte (dal 6) le tre fasce di rischio colorate, gli epidemiologi dell’Istituto superiore di sanità e della Fondazione Kessler hanno calcolato che nelle Regioni gialle il tasso di riproduzione di SarsCov2 Rt è sceso mediamente del 18% in circa tre settimane, in quelle arancioni del 34% e in quelle rosse del 45%. Sono le conclusioni di uno studio in corso di revisione, disponibile dall’11 gennaio su www.medrxiv.org (“Effectiveness of regional restrictions in reducing Sars-CoV-2 transmission during the the second wave of Covid-19, Italy”), firmato tra gli altri dal presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, da Stefano Merler, da Patrizio Pezzotti e da Flavia Riccardo. Un altro studio, realizzato da un gruppo di lavoro dell’Associazione italiana di epidemiologia (Aie), è meno incoraggiante sulle zone arancioni. Vede infatti “un declino significativo e omogeneo dell’incidenza” solo nelle Regioni rosse con “una riduzione di 4-5 volte” in quattro settimane; quelle arancioni “hanno mostrato un comportamento disomogeneo” e comunque “una riduzione meno marcata (di circa 2-3 volte)”; tra le gialle “il Lazio ha avuto un declino paragonabile a quello delle regioni in arancione mentre il Veneto non ha mai osservato un declino”.

Sono dati importanti. Dalla prossima settimana, come confermato ieri alla Camera e al Senato dal ministro della Salute Roberto Speranza, le zone arancioni saranno introdotte in automatico – se lo schema del nuovo Dpcm sarà mantenuto e supererà oggi l’esame delle Regioni – quando la “cabina di regia” dichiara il rischio “alto”, anche se Rt non arriva a 1; da 1,25 c’è il rosso. Non solo, la bozza del Dpcm prevede il divieto di spostamenti tra le regioni fino al 5 marzo, salvo le consuete necessità. Oltre alle cinque già arancioni (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Calabria e Sicilia), alcune delle quali (Lombardia ma anche Sicilia) potrebbero finire in rosso, altre hanno dati allarmanti: Piemonte, Lazio, Liguria e Marche nell’ultimo monitoraggio erano già a rischio “alto”; Puglia, Molise, Umbria e Sardegna avevano anche Rt uguale o sopra 1. Contagi alti anche in Friuli-Venezia Giulia e a Bolzano.

Speranza ieri ha illustrato la situazione in Europa, gli oltre 60 mila contagi giornalieri dei giorni scorsi in Gran Bretagna dove ieri c’è stato un altro spaventoso record di morti (1.564 per un totale che raggiunge i 100 mila mentre noi siamo a 80 mila), la Germania che pure ha contato per giorni oltre 1.000 morti ogni 24 ore e starà in lockdown fino a febbraio, la Svezia che ha contagi in proporzione paragonabili a quelli del Regno Unito e potrebbe decidere restrizioni inimmaginabili prima del clamoroso “abbiamo fallito” del re Carlo XVI Gustavo. “Non facciamoci portare fuori pista dalla circostanza che attualmente abbiamo un numero di casi leggermente più basso rispetto ad alcuni grandi Paesi europei”, ha detto ancora Speranza.

Ieri i numeri erano meno preoccupanti di altri giorni. I nuovi contagi notificati sono stati 15.774 con 175.429 tamponi, tanti rispetto agli ultimi giorni. L’indice di positività ridiscende a 8,99% e sulle sole persone testate per la prima volta (69.626) è al 22,6%, pure questo in discesa. I morti sono stati 507, meno di martedì (616). Gli ospedali preoccupano, specie in caso di aumento delle infezioni contratte nei giorni di festa, per quanto ieri siano scesi i pazienti ricoverati (-187 nei reparti ordinari, -57 nelle terapie intensive con 165 nuovi accessi): le rianimazioni sono al 31%, un punto sopra la soglia del 30% superata in 11 Regioni. Come ha spiegato Speranza, dopo settimane di calo, c’è “un peggioramento generale: aumentano Rt (tornato a 1,03 dopo sei settimane sopra 1, ndr), incidenza, tasso di occupazione delle terapie intensive e i focolai di origini sconosciute”. Il governo si appresta a varare lo stato d’emergenza fino al 30 aprile, la proroga del coprifuoco dalle 22 e dello stop ai movimenti interregionali, aggiunge il divieto di asporto dai bar dopo le 18 (sempre possibili le consegne a domicilio) per evitare assembramenti. “La nottata non è ancora passata – ha detto il ministro della Salute – dovremo continuare a convivere con una forte circolazione del virus sino a quando le vaccinazioni non avranno effetto”. Accadrà dopo l’arrivo dei vaccini AstraZeneca e Johnson & Johnson, attesi tra febbraio e marzo. Le vaccinazioni proseguono a ritmo sostenuto, oltre 50 mila al giorno: ieri hanno superato quota 800 mila.

Bonus ristoranti: il flop della misura targata Bellanova

Come colpo di coda da ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova ha tentato di mettere una pezza a un pasticcio creato negli ultimi mesi. Siamo al 14 gennaio, ma i ristoratori italiani non hanno ancora visto un solo centesimo dei bonus per l’acquisto di prodotti agricoli locali promessi in piena estate con il decreto Agosto. Ecco perché ieri pomeriggio, poco prima che Matteo Renzi annunciasse le sue dimissioni, l’esponente di Italia Viva ha provato a levare le castagne dal fuoco con un impegno: i primi pagamenti – ha detto Bellanova – arriveranno alla fine del mese.

Difficile che basti a liberare il dicastero da una cattiva eredità, né a rasserenare gli animi di quegli esercenti che già da domani sono pronti a riaprire i locali sfidando le restrizioni del governo. Ad aspettare i soldi sono i quasi 47 mila che hanno presentato la domanda. Sulla carta, la misura avrebbe un doppio scopo: aiutare sia i titolari di ristoranti e agriturismi sia gli stessi produttori agricoli. Il ristoratore acquista materie prime italiane per un massimo di 10 mila euro e presenta la fattura (anche non quietanzata) al ministero dell’Agricoltura per chiedere un iniziale rimborso del 90%; il restante 10% arriva dopo la dimostrazione dell’effettivo pagamento. Bellanova l’aveva presentata con grande aspettativa, anche in virtù di ben 600 milioni di euro stanziati. Oggi l’ormai ex ministra assicura di aver impegnato 350 milioni, ma il problema è che questi fondi sono ancora tutti lì, non si sono mossi nonostante il settore sia tornato in grande sofferenza già dall’inizio di novembre, con la nuova forma di lockdown.

La macchina del bonus è stata messa in moto da Bellanova con un tempismo non proprio funzionale: previsto dal decreto approvato il 14 agosto, quindi subito in vigore, il provvedimento attuativo del ministero dell’Agricoltura è arrivato solo il 27 ottobre. Pochi giorni dopo è stato introdotto il sistema delle zone rosse, arancioni e gialle, con il coprifuoco alle dieci di sera, chiusure di bar e ristoranti imposte alle 18, aperture concesse solo a pranzo e solo nelle Regioni considerate meno a rischio. Le regole pratiche per ottenere il sostegno sono arrivate quando non servivano più, vista la fermata forzata di buona parte delle attività di ristorazione. E infatti già il 27 novembre, Bellanova ha dovuto far sì che i soldi inutilizzati per il numero insufficiente di domande fossero reinvestiti per la stessa misura nel 2021. “Risorse preziose – diceva la ministra in quell’occasione – che hanno come obiettivo la messa in sicurezza di un’intera filiera”.

Il 15 dicembre è scaduto il termine (già prorogato) per le domande. Ragionando con i produttori, si fa fatica a vederne i risultati. “Dopo la chiusura – spiega Dino Scanavino, presidente della Cia-Agricoltori italiani – si è drasticamente ridotto il volume di prodotto che da agricoltori e cooperative va alla ristorazione. Questo ha vanificato le buone intenzioni. Il nostro vantaggio doveva essere indiretto, ma non lo abbiamo visto. Lo avremmo avuto se l’incentivo ad acquistare in Italia fosse scattato quando i ristoranti erano aperti”. Secondo la Cia, a questo punto sarebbe meglio dirottare i fondi a favore delle imprese di trasformazione dei prodotti agricoli.

I dati diffusi ieri da Bellanova, inoltre, non sono ancora elaborati con cura. Quel che è certo è che le domande arrivate via web sono 31 mila per un ammontare di 221 milioni di euro. Quindi, presumendo la stessa media anche per le 16 mila raccolte attraverso gli uffici postali, si può immaginare che le richieste arrivino a 345 milioni. Ma ancora non è chiaro quante di queste verranno accolte.

Ci sono due provvedimenti sui quali Bellanova, in questi 15 mesi da ministra, ha puntato molto sul piano dell’immagine. Uno era il bonus ristorazione, l’altro la sanatoria dei lavoratori in nero. E anche su quest’ultimo il risultato è stato ben lontano dalle aspettative: doveva servire a regolarizzare i braccianti e a fornire manodopera nei campi, ma ha finito per aiutare solo colf e badanti. Su 208 mila richieste, solo 31 mila erano state presentate dalle imprese agricole. La maggior parte degli “invisibili” è rimasta tale.

Il Recovery c’è, la “rIivoluzione” ancora no

La notizia più importante è che il Recovery plan esiste. Anzi, per utilizzare il suo vero nome, il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza. Non era scontato. E non perché, come tanta stampa ama ripetere, è stato scritto “con il favore delle tenebre”. La discussione è stata invece abbastanza aperta e, infatti, le misure previste non sono così sorprendenti. Il Piano, del resto, deve replicare le linee guida europee che dicono Digitale, Ecologia e Coesione sociale. Su questo, il compito è stato fatto.

La scossa verde è forse la vera grande novità anche se, guardando al saldo tra interventi innovativi e interventi che erano stati già finanziati non è quello con lo sprint maggiore. Il saldo finale conta infatti 65,7 miliardi di progetti in essere e 144,2 di nuovi progetti e tra questi brillano di più la “transizione energetica e la mobilità”, “l’Alta velocità”, il “Turismo e cultura” chiesti a gran voce da Matteo Renzi, la “Ricerca e l’impresa”, voci del comparto Salute come la “Telemedecina”, il “Diritto allo Studio”, i trasferimenti “al settore produttivo” che farà felice Confindustria.

L’impatto economico del piano prevede una crescita del Pil del 3%, ma solo nel 2026. Fino al 2023 non si arriverà oltre l’1,5. Che non è poca cosa, ma resta la sensazione che manchi una scossa complessiva e che l’Italia dopo il Recovery plan sarà davvero diversa da quella attuale. Eppure nell’introduzione e nello spirito del piano si parla di “Rinascimento economico europeo” e dell’auspicio per un “cambiamento radicale delle politiche fiscali”. Ecco, servirebbe uno scatto in più in quella direzione perché qualsiasi cittadino e cittadina possa dire che, una volta avviato il piano e i suoi progetti, la propria vita è cambiata davvero in meglio.

L’intero piano approvato dal governo vale 310 miliardi, tenendo conto anche di quasi 80 miliardi del normale bilancio europeo settennale (2021-2027): il Recovery Plan vero e proprio vale invece circa 223 miliardi tra prestiti e trasferimenti, dei quali 144,2 miliardi finanzieranno nuovi progetti, mentre altri 65,7 andranno a programmi già previsti. Il piano è diviso per sei macro-aree: un breve riassunto per punti.

Salvatore Cannavò

 

1 Dal cloud unico a 5G e banda larga

La digitalizzazione è uno dei due assi portanti del piano europeo. Nel Pnrr – insieme a innovazione, competitività e cultura – totalizza oltre 46 miliardi (35 per progetti “aggiuntivi”), in calo rispetto alle prime bozze. Il grosso è fatto dai sussidi alle imprese per il rinnovo dei beni strumentali (la “transizione 4.0”, ben 15 miliardi, destinati, manco a dirlo, anche all’Editoria). Nel piano compaiono anche i progetti per la banda ultralarga (in vista della rete unica sotto l’egida di Tim-Cdp, mai citata però) e per il 5G, passati da 3,5 a 4,2 miliardi. Altri 1,2 miliardi serviranno poi a creare il cloud nazionale della P.A., verso cui far migrare i dati delle amministrazioni oggi sparsi in data center poco affidabili, anche se non è chiaro chi lo gestirà e come verrà scelto (in campo ci sono solo colossi esteri, da Amazon a Microsoft). Sempre in questo ambito, 1,3 miliardi serviranno a rendere “interoperabili” i dati. Dopo lo scontro con Renzi, il comparto turismo e cultura è passato da 3 a quasi 8 miliardi, ma il livello di dettaglio dei progetti è assente.

2 La svolta “green” poco rivoluzionaria

Pur essendo il centro della strategia europea, gli investimenti green hanno perso fondi rispetto alla prima versione del Recovery Plan: da 74,3 a 68,9 miliardi, diminuzione che ha colpito anche il superbonus del 110% per le ristrutturazioni edilizie (18,5 miliardi, scadenza a fine 2022, altri 10 miliardi vanno invece all’edilizia pubblica). In questo capitolo c’è un po’ di tutto: economia circolare e agricoltura “verde” (6,3 miliardi); stimolo alle energie rinnovabili (soprattutto l’idrogeno, anche se non è chiaro se davvero green o da fonti fossili, citato anche come combustibile per l’Ilva di Taranto); 7 miliardi e mezzo per rinnovare il parco mezzi del trasporto pubblico; un piano nazionale ciclovie e interventi per la mobilità sostenibile. L’idea, non meglio specificata, è di creare una filiera industriale green italiana, ma non è chiaro come recuperare il ritardo da Paesi già pronti. Altri fondi sono destinati alla “risorsa acqua”: dai cantieri contro il dissesto idrogeologico (3,6 miliardi) all’efficientamento della rete idrica.

3 Tav e non solo: soldi alle grandi opere

Sul capitolo si è compiuto un vero miracolo. Vale 32 miliardi, ed è lievitato di quasi 20 da inizio dicembre, tutti “aggiuntivi”, quindi non sostitutivi di fondi già esistenti. Il grosso, 28 miliardi, è un evergreen: l’Alta velocità ferroviaria, il Tav. Qui il livello in dettaglio è elevato: nuove linee Av per 7 miliardi (3,3 aggiuntivi). I soldi servono per tre collegamenti: la Napoli-Bari; la Brescia-Padova (già in costruzione) e la Salerno-Reggio Calabria. Progetti che valgono oltre 20 miliardi, e che non termineranno entro il 2026. Ci sono poi le “velocizzazioni”: ci sono, per dire, la ferrovia Palermo-Catania-Messina (costo totale: 8,9 miliardi), la Roma-Pescara (6,5 miliardi) o la Orte-Falconara. Nel complesso, progetti anche molto vecchi e mai sottoposti a vere analisi costi-benefici. Ci sono poi 1,15 miliardi per mettere in sicurezza l’autostrada A24-25, la Strada dei Parchi del gruppo Toto, affidati interamente al commissario straordinario del ministero. L’obiettivo è andare di fretta e si allude al “modello Genova” previsto dallo “Sblocca cantieri” di luglio. Altri 3,2 miliardi sono dedicati ai porti: soprattutto Genova (la mega diga foranea) e Trieste.

4 Ricerca e istruzione: arrivano più soldi

La voce è tra quelle rimpinguate rispetto alle prime versioni. A Istruzione e Ricerca arrivano quasi 9 miliardi in più, che portano il totale a 28 miliardi (9 in più). Il trasferimento tecnologico, che coinvolge centri pubblici e privati (“l’interazione tra ricerca e mondo produttivo”) ne guadagna oltre 3 (8,5 totali). L’accesso all’istruzione (1 miliardo per gli alloggi studenteschi, 900 milioni per le borse di studio) e la riduzione dei divari territoriali (1,6 miliardi per nuovi asili nido) salgono a poco più di 9 miliardi. Il documento parla di una riforma del sistema degli istitui tecnici professionali, a cui destina 1,5 miliardi. Sulla ricerca si pensa a una partnership pubblico-privato con università e centri specializzati (sul modello, pare, della tedesca Fraunhofer). Vengono aumentati i fondi per i progetti di interesse nazionale, i Prin (600 milioni), e si parla di finanziare la creazione di “20 campioni territoriali di Ricerca & Sviluppo” e di “7 centri attivi in altrettanti domini tecnologici di frontiera” di alta tecnologia su ambiente, quantum computing, idrogeno, biofarma, etc.

5 Politiche del lavoro e fisco leggero al Sud

Al capitolo “Inclusione e coesione”, che è già destinatario di circa metà dei fondi Ue del Budget ordinario (39 miliardi in tutto), vanno 27,6 miliardi di euro. Alle “politiche per il lavoro” vanno 12,6 miliardi: 7,5 sono destinati alle politiche attive “dall’assegno di ricollocazione” fino “all’istituzione di un programma nazionale Garanzia di occupabilità dei lavoratori – GOL”; senza dimenticare la fiscalità di vantaggio per il Sud e incentivi a occupazione e imprenditoria giovanile e femminile (4,4 miliardi). Alle cosiddette “infrastrutture sociali” vanno 10,8 miliardi: parliamo di rigenerazione urbana (3,5 miliardi), housing sociale (2,8), servizi socio-assistenziali e via dicendo. Alla “coesione territoriale” vanno infine 4,2 miliardi: si tratta, in sostanza, di interventi sulle “aree interne” (quelle più povere, cui vanno 1,5 miliardi) e nelle zone terremotate (1,8 miliardi).

6 Soldi raddoppiati: è una riforma del Ssn

I fondi per la Sanità sono più che raddoppiati rispetto alla prima bozza: da 9 a quasi 20 miliardi. Nel piano finisce un pezzo del progetto di riforma del Ssn di Roberto Speranza, in particolare quello che riguarda telemedicina, assistenza domiciliare e la cosiddetta “assistenza di prossimità” (creare 2.564 “Case della comunità” per prendere in cura 13 milioni di pazienti cronici): a questo capitolo vanno 7,9 miliardi, dei quali 400 milioni dal programma React Eu. L’altro fronte di intervento sono gli investimenti in tecnologia e macchinari, la digitalizzazione della Sanità (a partire dal fascicolo sanitario elettronico) e incentivi alla ricerca: 11,8 miliardi. In entrambi i capitoli si prevedono interventi edilizi sulla rete ospedaliera per arrivare a un ospedale ogni 80 mila abitanti (753 ospedali in tutto).

Panico tra i peones renziani: “Quindi ora che facciamo?”

A un certo punto di ieri, subito dopo il colloquio al Quirinale tra Sergio Mattarella e Giuseppe Conte, i ruoli si erano magicamente invertiti: i maggiori sostenitori del premier erano diventati i parlamentari di Italia Viva. Gli stessi che, sui social e in tv, da giorni bombardavano il presidente del Consiglio bollato come “arrogante”, “irresponsabile” o “il migliore amico di Mastella”, ieri dopo pranzo si preoccupavano per il futuro dell’avvocato del popolo. E quindi per se stessi. “Adesso che fa, apre al patto di legislatura?” si è sentito chiedere da una collega renziana l’ex capogruppo del M5S al Senato, Gianluca Perilli. Il terrore dei parlamentari renziani correva anche nelle chat sotterranee, ché quella ufficiale del gruppo era aggiornata a martedì sera con l’ultimo messaggio del capo: “Indipendentemente da come andrà la conferenza stampa voteremo le comunicazioni di Speranza, il decreto ristori e lo scostamento di mercoledì” aveva serrato le fila Renzi. E, quando qualcuno si è azzardato a chiedergli se sarebbe andato fino in fondo sulle dimissioni delle ministre, la risposta era stata lapidaria: “Sarà deciso prima della conferenza”. Nient’altro. Sicché, esclusi da ogni altra comunicazione, i peones renziani si aggiravano per il Palazzo con fare sconsolato, quasi storditi. “Non sappiamo niente” la risposta ai colleghi della maggioranza che gli chiedevano notizie. Qualcuno, come il senatore fiorentino Riccardo Nencini, che porta in dote il simbolo del Psi per tenere in vita il gruppo di IV al Senato, ha provato anche a far riflettere Renzi: “Matteo, è un momento molto delicato. Pensaci”.

Nel mentre – raccontano fonti di maggioranza – iniziavano le proposte mirabolanti dietro le quali si celava il terrore di perdere la poltrona: “Vi andrebbe bene Di Maio premier?” si è sentito chiedere un senatore del M5S. Quando però hanno capito che i grillini avrebbero fatto quadrato intorno al premier, i renziani hanno alzato la posta: “Glieli do io i responsabili” scherzava Renzi martedì sera. Una battuta, che in questa folle crisi, è diventata in un attimo verità. Quattro o cinque senatori erano già pronti a rientrare nel Pd, ma c’è chi sostiene che arrivassero a otto al momento della conta in aula. La senatrice Udc Paola Binetti, leader in pectore dei “responsabili per Conte”, nel Salone Garibaldi di Palazzo Madama la spiegava così: “Ma voi ci credete che i renziani vogliano rischiare la poltrona per seguire le ambizioni di Renzi?”.

E allora, quando è arrivata la tanto agognata apertura di Conte a un “patto di legislatura” e il segnale proprio a Italia Viva (“Ritroviamoci attorno a un tavolo, Iv troverà da me massima attenzione”), i peones renziani (e non solo) d’un tratto cambiavano umore. La senatrice Daniela Sbrollini, durante le comunicazioni di Roberto Speranza, usciva dall’aula con un sorriso a 32 denti, la collega trentina Donatella Conzatti faceva sapere urbi et orbi che IV era disposta a un “nuovo patto di legislatura” chiedendo al premier di convocare “ un tavolo con i segretari”. E poi la napoletana Annamaria Parente tirava un sospiro di sollievo ché di lasciare la poltrona da presidente della Commissione Sanità non aveva nessuna voglia. Sempre Nencini, alla buvette del Senato, sorrideva garrulo scorrendo le agenzie dove trapelavano le trattative dei pontieri per ricucire: “Mi sembra che la situazione si sia rimessa a posto”. Non sapeva che un paio di ore dopo Renzi avrebbe fatto dimettere le ministre aprendo la crisi. “E adesso che facciamo?” il messaggio che girava di più tra i renziani spiazzati. Qualcuno difendeva “Matteo”, altri lo criticavano apertamente (“Ci ha tenuti fuori da tutto”). Alle 22 Renzi, fiutato il clima, li ha convocati via zoom per compattare il gruppo. E non è escluso che nelle prossime ore potrà arrivare qualche uscita eclatante. Anche perché i primi transfughi del Parlamento sono proprio quelli di IV: su 30 deputati, 25 deputati sono stati eletti con il Pd e gli altri in Forza Italia, Leu e Maie, mentre al Senato gli ex dem sono 15 a cui vanno aggiunti Nencini (Psi), Vono (ex M5S) e Conzatti (FI).

I Responsabili (per adesso) fermi al palo: “C’era la fila”

Si vedevano già protagonisti. Convocati ai vertici di maggioranza. Qualcuno nutriva pure ambizioni da ministro. Chissà. Tutto a un certo punto pareva possibile. Poi a infrangere i loro sogni è arrivato Matteo Renzi, che ha ritirato i ministri mettendo forse la parola fine al governo, ma lasciando aperta la porta a un nuovo esecutivo con la stessa maggioranza e premier diverso. A Palazzo Madama, con Italia Viva fuori dalla maggioranza, era quasi pronto un gruppo di responsabili pro Conte. Allo scoperto, istituzionalizzato, come chiesto nei giorni scorsi dal presidente Mattarella. Perché era chiaro che Conte non sarebbe potuto andare avanti con una maggioranza raccogliticcia. “C’era la fila fuori”, dice qualcuno.

Il nervosismo per le trattative nella terra di mezzo di Palazzo Madama a un certo punto è talmente alto che in una riunione di Forza Italia volano parole grosse. Anna Maria Bernini (che ha appena parlato con Berlusconi) e Licia Ronzulli faticano a tenere unita la truppa. “Attenzione, chi dà solo adito a sospetti è fuori dalle liste”, dicono in coro. Il gruppo (54 senatori) è in fermento, ma alla fine tiene. Da FI, Lega e FdI forse non sarebbe arrivato nessuno, o quasi. Ma gli altri? Per serrare le file viene convocato un vertice di centrodestra dove, assieme a Salvini, Meloni e Tajani, sono invitati pure Lorenzo Cesa, Maurizio Lupi e Giovanni Toti. “I partiti del centrodestra ribadiscono con chiarezza la loro indisponibilità a sostenere governi di sinistra”, recita la nota. Ma ormai i giochi erano fatti. In caso diverso, invece, proprio da quei cespugli sarebbe potuta arrivare una sponda importante a Giuseppe Conte.

Dall’Udc ad esempio, che secondo alcuni era pronta a mettere il simbolo scudocrociato, dato che in Senato per formare un gruppo bisogna far riferimento a una forza politica che ha partecipato alle elezioni. In cambio avrebbero preteso un forte riconoscimento politico. “Ma perché li cercate solo da questa parte – dice Paola Binetti – qualche responsabile può arrivare pure da Italia Viva”. Già, perché la suggestione, a un certo punto della giornata, è che non tutti i 18 renziani siano pronti a seguire l’ex premier. Da tenere ben presente è però il pallottoliere. Tutta la maggioranza (senza Renzi) con i 16 delle Autonomie e i 9 del Misto già assodati avrebbe raggiunto quota 147. Per arrivare a quota 161 ne mancavano 14. Ma in realtà altri sono dati per presi, quindi la forbice su cui lavorare è 9-11. E così era partito il pressing sugli altri, specie gli ex 5 Stelle. Sembra che alcuni di loro si stiano avvicinando al Centro democratico di Bruno Tabacci. Molto attivo nel reclutamento anche l’ex forzista Raffaele Fantetti. “Pare ce ne siano una dozzina, un po’ da tutte le parti, pure da FI”, butta lì a Un giorno da pecora Gregorio De Falco. “Io tra i responsabili? Non credo. Mi pare che si stiano ammastellando…”, risponde l’ex M5S Mario Giarrusso. Tra i gran ciambellani c’è pure lui, Clemente Mastella che a Palazzo Madama muove il braccio armato di sua moglie Sandra Lonardo. Renzi, però, per ora infrange i sogni e le ambizioni di molti. E i giorni felici di Razzi e Scilipoti sembrano lontani, anche se proprio da Razzi sono arrivate parole di speranza per i suoi eredi: “I responsabili ci sono già, chi rinuncia a 12mila euro al mese?”.

Colle al buio: “Il premier ci di ca cosa vuole fare”

La crisi c’è ma non si vede. Almeno, non ufficialmente. Non è ancora tempo di consultazioni, lampo o meno che siano. Oppure di nomi alternativi a Conte, visto che il bersaglio grosso di questo surreale mercoledì tredici sembra proprio lui, il premier più popolare di sempre. Ergo per approdare alla fatale immagine di ieri sera – Renzi che bombarda Conte ma non apre la crisi – tocca cominciare dalla mattina, dove sul Quirinale si concentra il pressing asfissiante, per dirla in termini calcistici, di tutto il Pd e di parte del M5S, stando alla ricostruzione ufficiosa degli ambienti del Colle. A partire da Nicola Zingaretti, il segretario dei democratici, è tutto un coro rivolto al premier: “Coi Responsabili non si può andare avanti, devi ricucire con Renzi e rivolgerti a lui”. Insomma c’è da salvare l’attuale formula di governo, quella giallorossa, senza lanciarsi in avventure senza un orizzonte lungo. Anche perché la convinzione degli “aperturisti” verso Italia Viva è netta: con i Responsabili non si va oltre la primavera. Dopo ci sono le urne.

La sponda del capo dello Stato è nei fatti. Sono giorni che da Sergio Mattarella giungono segnali contro un’operazione sostitutiva di Italia Viva con Responsabili di cui non si conosce nulla, né i loro nomi, né quanti siano. E così Conte cede e decide di salire al Quirinale nel pomeriggio. Una mossa che viene letta anche come la possibilità di neutralizzare la prevista conferenza stampa di Renzi alle cinque e mezza della sera. La sostanza del colloquio tra Mattarella e l’Avvocato è questa: “I Responsabili non ci sono, io voglio andare avanti con questa maggioranza”. Ovviamente, il presidente della Repubblica ribadisce per l’ennesima volta che la soluzione di questo caos deve essere rapida, con un Paese in piena emergenza pandemica. Tuttavia la sensazione è che il premier torni sui suoi passi di ieri, “mai più con Italia Viva se rompe”, a malincuore. Obtorto collo. In ogni caso l’apertura pubblica arriva poco dopo (ma senza mai citare Italia Viva) e un tiepido ottimismo fa sperare il Colle. Invece.

Invece l’ex Rottamatore dal due per cento rompe lo stesso ma fino a un certo punto. Certo, descrive Conte come una sorta di Trump nativo della provincia di Foggia, ma al Quirinale badano più alla decisione finale di Renzi, che è quella di non voler aprire sino in fondo la crisi. Ed è da qui che prende forma il buio persino al Colle. Che significa la disponibilità di Renzi a votare altri provvedimenti decisivi di questi giorni, dal decreto Ristori allo scostamento di bilancio? Di conseguenza, ed è questa la domanda principale, cosa farà Conte? Andrà al Quirinale per dimettersi oppure congelerà il ritiro di Bellanova e Bonetti e andrà avanti per un’altra settimana? La previsione infatti è che il premier possa andare alle Camere giovedì prossimo per cercare la fiducia con il sostegno dei famigerati Responsabili.

In ogni caso, almeno fino a ieri sera il capo dello Stato non ha avuto notizie sulla strategia futura di Conte. Anche se c’è la consapevolezza di aprire una finestra prima delle consultazioni (se l’eventuale fiducia dei Responsabili non dovesse esserci) per approvare appunto decreto Ristori e scostamento e completare così l’iter avviato l’altra sera con il consiglio dei ministri sul Recovery Fund. E rispetto alla crisi dell’agosto del Diciannove, si fa notare, la differenza è tanta. Il Papeete di Renzi in realtà ributta la palla nella metà campo dell’odiato Avvocato, che in piena solitudine potrebbe riprovare l’operazione Responsabili. Una decisione che al Quirinale continua a non essere valutata con favore. A meno che un pezzo di Forza Italia non si stacchi sul serio.

Il centrodestra compatto: “ora si torni al voto”

La destra coglie la palla al balzo e si presenta unita di fronte all’apertura della crisi di governo. Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi firmano una nota congiunta con cui chiedono le dimissioni di Giuseppe Conte e il ritorno alle urne: “Il premier prenda atto della crisi e si dimetta, si presenti domani in Parlamento per chiedere un voto di fiducia. La via maestra resta quella delle elezioni. Ci affidiamo alla saggezza del presidente della Repubblica per una soluzione rapida, ribadiamo la nostra indisponibilità a sostenere governi di sinistra”.

Conte vuole giocarsela. Verso la conta in aula

Al tramonto del suo giorno più lungo, Giuseppe Conte si chiude a Palazzo Chigi e medita di fare quanto progetta dall’inizio della crisi. Andare in aula e cercare i voti per resistere e liberarsi di Matteo Renzi e di Iv, sostituendoli con quei Responsabili di cui molti negano l’esistenza, ma che invece dovrebbero esserci e in abbondanza, assicurano gli sherpa che ci lavorano. Lo farebbe la prossima settimana, subito dopo il voto sullo scostamento di bilancio, previsto per il 20 gennaio. O prima, se riuscirà ad anticipare la votazione.

Nessuna resa quindi, niente salita al Colle con le dimissioni in tasca. Conte vuole percorrere quella strada che ieri mattina il Pd gli ha detto di non imboccare, “perché devi fare di tutto per ricucire con Matteo Renzi”. Ha voglia di quella sfida che pure il Quirinale gli sconsiglia, anche in un colloquio pomeridiano che cambia l’inerzia della partita con il fu rottamatore. Martedì mattina, Palazzo Chigi aveva suonato tamburi di guerra: “Se Renzi dovesse aprire una crisi in piena pandemia per il premier sarà impossibile fare un nuovo esecutivo con Iv”. Ieri pomeriggio, dopo essere stato convocato da Mattarella, l’avvocato si presenta a un assembramento di telecamere e cronisti dietro Chigi e pare un penitente: “Il governo può andare avanti solo col sostegno di tutte le forze della maggioranza. Mi auguro non si arrivi al ritiro delle ministre Iv, si sta lavorando per definire una proposta di patto di legislatura”. È la mano tesa cui negli auspici dovrebbe seguire una riunione dei leader della maggioranza. Ma nel pomeriggio Renzi ritira le ministre e gli rovescia addosso di tutto. Così Conte torna al piano originario. Tanto più che in mattinata il Garante del M5S, Beppe Grillo, aveva indirettamente benedetto l’operazione: “Stiliamo insieme un patto tra tutti i partiti, senza distinzione tra maggioranza e opposizione, perché è l’ora della responsabilità”.

Certo, è una via impervia. Non piace al Pd, e suscita dubbi anche in parte del M5S. Però i numeri ci sono, giurano da Palazzo Madama. “Abbiamo trovato il doppio dei senatori necessari, nelle ultime ore si erano offerti anche due o tre leghisti….”. Anche un pezzo di Forza Italia sarebbe pronto a trasmigrare nel nuovo gruppo centrista, sotto le insegne dello storico Udc. Ora bisognerà capire cosa ne penseranno i partiti. Ma il premier ha già quella rotta in testa. “Giuseppe ha capito che non si può più arrivare a un Conte Ter” soffiano grillini di peso in serata. Pare impossibile, dopo lo strappo di Renzi. Certo, Luigi Di Maio non esclude nei suoi colloqui che si possa ancora lavorare a un reincarico dell’avvocato. E pubblicamente assicura “il massimo supporto” a Conte. Mentre più o meno tutti ammettono: “Senza più Conte a Palazzo Chigi faremmo molto fatica a reggere”.

Però nei gruppi parlamentari già discutono di un nuovo premier a 5Stelle. E il primo nome che circola è proprio quello di Di Maio. Ma in diversi potrebbero deglutire anche una figura terza. Però è presto. Anche perché i ministri e diversi big dei 5Stelle, in primis Alessandro Di Battista, sono pronti a sostenere Conte in quella che potrebbe essere l’ultima battaglia. “Il Movimento continuerà a lavorare per i cittadini con Giuseppe Conte” scandisce il capo delegazione Alfonso Bonafede. Cioè con l’avvocato, che ieri sera tiene un Cdm sulle misure anti-Covid. E lo apre con un passaggio obbligato: “Le dimissioni delle due ministre di Iv mi sono state comunicate via email e le accetto”. Giura: “Ho provato fino all’ultimo a evitare questo scenario”. E si sfoga: “Purtroppo Iv si è assunta la grave responsabilità di aprire una crisi di governo. Sono sinceramente rammaricato, per il notevole danno che si sta producendo per il nostro Paese per una crisi di governo nel pieno di una pandemia”. Sillabe di una rottura, definitiva.

Via le ministre: Renzi rompe, mezzo Pd non prova a fermarlo

Voleva la testa di Giuseppe Conte, dall’inizio. E ieri cerca di compiere l’ennesimo “omicidio politico” della sua carriera, Matteo Renzi. A guardarlo dalla prospettiva di Italia Viva e del Pd, il premier potrebbe davvero essere arrivato al capolinea. Per una precisa scelta del leader di Iv e per la voglia di ridimensionarlo di buona parte dei dem, che ha segnato anche le ultime ore della trattativa, prima della mossa di Renzi. Anche se al Nazareno ancora si lavora al Conte Ter.

Biancocome un lenzuolo, con la mascherina chirurgica, accompagnato da Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Ivan Scalfarotto nelle vesti di vittime sacrificali, alle 18:17 sferra il colpo che affonda il Conte bis. “Questa conferenza stampa è convocata per annunciare le dimissioni” della delegazione al governo, scandisce. E poi dice parole pesantissime nei confronti del presidente del Consiglio: “Non giochiamo con le istituzioni, la democrazia non è un reality show”, dice lui che di tendenza al reality show ne sa qualcosa. Parla di “uso discutibile” della delega ai Servizi, lo critica per la condanna non abbastanza decisa di Donald Trump.

Graziano Delrio, Lorenzo Guerini, Dario Franceschini e gli altri che hanno portato avanti la trattativa fino all’ultimo momento utile, lo ascoltano attoniti. Notano la durezza delle sue parole, che ad alcuni pare un punto di non ritorno. Eppure il Pd ha avuto un ruolo non secondario nello showdown: il segretario, Nicola Zingaretti, ha parlato con Conte, anche ieri mattina, per chiedergli di confrontarsi con il presidente della Repubblica, di riaprire con il patto di legislatura. Al Nazareno non era piaciuta la nota di Palazzo Chigi di martedì, letta come una chiusura rispetto a Iv. E il partito intero è andato in pressing su Conte per convincerlo a cercare di tenere Iv dentro. Senza, però, garanzie da parte di Renzi che le offerte sarebbero bastate. E questo fa intuire quello che nel partito racconta più d’uno: il Pd è diviso, Conte in molti non lo sopportano più.

Intanto è ancora Renzi che fa capire il campo da gioco, aprendo a ogni soluzione, tranne al governo con i Responsabili. Sostiene di non aver preclusioni verso Conte, ma che non è l’unico nome possibile, dà la sua disponibilità al governo istituzionale. Non dichiarando esplicitamente aperta la crisi, lascia pure qualche spiraglio al premier. Ma per lui, il Conte Ter è ipotesi minoritaria, sottoposta a precise condizioni: una convocazione dei leader già oggi, una crisi lampo e consultazioni entro domenica. Renzi è pronto a sostenere un governo Di Maio, come un governo Franceschini, con questa maggioranza, o un governo istituzionale guidato da Marta Cartabia. Il Pd una linea definita non ce l’ha. Zingaretti parla di rottura umana e politica col fu Rottamatore, sostiene di non volerci neanche più parlare, considera quello di Renzi un errore gravissimo. Lui e Bettini sono pronti a sostenere Conte, magari anche nell’ipotesi conta in aula e appoggio dei Responsabili.

Ma intanto Franceschini sta ancora lavorando alla mediazione con Iv, al Conte Ter. In molti sono convinti che il capo delegazione dem starebbe già lavorando per un governo a sua guida. Ma va detto che l’interessato per primo sa benissimo che M5S non lo reggerebbe. Guarda piuttosto alla presidenza della Camera, che potrebbe ottenere già da subito con un esecutivo Fico (altra ipotesi sul tavolo). I fatti sono che per ora i dem attendono di vedere come si muove il premier, che temono non solo le urne, ma pure un governo istituzionale. Intanto, oggi si riunirà l’ufficio politico. A quel punto, si capirà se qualche distinguo viene allo scoperto.

Finalmente te ne vai

Il vero spettacolo non è l’Innominabile che parla tre ore senza dire nulla, se non che apre la crisi perchè gli sta sulle palle Conte. È che c’è ancora qualcuno che gli crede e lo prende sul serio. Mente da 10 anni ogni volta che respira. Ha tradito tutti quelli che han fatto patti con lui. Tuonava contro “i partitini” che volevano la “dittatura della minoranza” e ne ha fondato uno per imporre la dittatura della sua minoranza. Ha rottamato qualunque cosa abbia toccato, dal suo partito al suo governo al Paese, e ci ha provato pure con la Costituzione, con una furia distruttrice che nemmeno Attila flagello di dio (quello di Abatantuono). Ha coperto di ridicolo le mejo firme del giornalismo italiano, che sdraiate ai suoi piedi salutavano in lui il sole dell’avvenire salvo scoprire che era il sòla. Ha mollato il Pd per “svuotarlo come ha fatto Macron con i socialisti francesi” e l’unica cosa che ha svuotato è il suo residuo elettorato. Allora ha preso a rottamare il governo Conte-2 che lui stesso aveva voluto 17 mesi fa, nel bel mezzo della pandemia e della strage da Covid, della redazione del Recovery Plan e della campagna vaccinale. È andato in pellegrinaggio da Verdini a Rebibbia. Ha parlato con Salvini di altri governi (“Hai visto? Ho fatto il culo a Conte!”). Ha sputtanato il piano Ue, scritto non da Conte, ma dai pidini Gualtieri e Amendola dopo 19 riunioni con i rappresentanti di tutti i ministeri (inclusi i suoi, che evidentemente dormivano).

Ha inventato scuse e alibi ridicoli per dire sempre no e prendere in giro gli alleati: dal Mes al ponte sullo Stretto, dai servizi segreti alla cybersicurezza, da Trump alla task force del Recovery, dalla prescrizione alla liberazione dei pescatori in Libia, per non parlare della Boschi che chiedeva notizie dei “porti del Sud” oltre a quelli “di Trento e Trieste” (testuale). Ha chiesto poltrone ministeriali mentre accusava gli altri di pensare alle poltrone. Eppure c’è ancora qualcuno che gli crede e lo prende sul serio. I giornaloni raccontano di un’inesistente “lite” o “rissa” o “sceneggiata” fra lui e Conte, che non ha mai detto una parola contro di lui, ingoiando insulti, calunnie e provocazioni. Topi di fogna da maratona tivù tornano o diventano renziani e persino salviniani, sparando su eventuali “responsabili”, “transfughi”, “ribaltoni”, come se l’unico partito formato al 100% da transfughi non fosse proprio Italia Viva e se il Pd non avesse fatto “ribaltoni” governando con B. sotto Monti e sotto Letta e poi con i “responsabili” e “transfughi” di Ncd (Alfano&C.) e di Ala (Verdini) sotto l’Innominabile e Gentiloni. Ma il meglio lo dà mezzo Pd, che più prende ceffoni, calci e pugni, più gode e strilla “ancora! ancora!”.

Una scena sadomaso che mette tristezza e clinicamente si spiega soltanto con la variante italiana della sindrome di Stoccolma: la sindrome di Rignano. Del resto, fino all’altroieri nel Pd erano quasi tutti renziani: credevano di essere guariti, invece restano posseduti e purtroppo sprovvisti di esorcisti. A meno che non sia vero ciò che il Pd ha sempre smentito: cioè che un mese fa mandò avanti l’Innominabile all’assalto di Conte per indebolire il premier e sistemare il loro rimpastino (fuori De Micheli e Lamorgese, dentro Orlando e Delrio), poi come sempre ne perse il controllo e si spaventò a morte. Infatti l’altroieri, quando Conte e i 5Stelle han fatto il gesto di minima dignità di dire “Se fai cadere il governo, con noi hai chiuso” e l’hanno messo all’angolo, il Pd è entrato nel terrore. Anzichè finirlo, gli ha lanciato astutamente l’ennesima ciambella di salvataggio. Ha ripreso a rincorrerlo, a tendergli la mano, a offrirgli qualunque pizzo e a garantirgli che per carità, “mai dire mai”, anzi averne di italovivi in un nuovo governo, come se niente fosse, non è successo nulla, abbiamo scherzato, amici come prima. Vuoi la Boschi ministra? Ma certo. Vuoi andare tu agli Esteri? Accomodati. Vuoi i servizi segreti? Ma prego. E ci mettiamo sopra anche una fettina di culo. Oh, sì, dài, facci del male, frustaci ancora che ci piace!

Nessuno dei vedovi inconsolabili pidini ha spiegato con che faccia potrebbe mai sedersi a un tavolo con chi ha appena rovesciato il loro e suo governo e detto di loro le cose peggiori (l’ultima è: complici di un “vulnus democratico”, qualunque cosa voglia dire) per farne uno nuovo. E quale sadomasochista potrebbe mai accettare di presiederlo, con la certezza di essere molestato e brutalizzato quotidianamente com’è avvenuto a Conte prima con un Matteo e poi con l’altro. Ma magari lo troveranno, essendo la politica italiana un serbatoio inesauribile di uomini senza dignità. Infatti ieri, mentre l’Italia intera temeva che l’italomorente facesse l’ennesima retromarcia e poi tirava un sospiro di sollievo per essersi liberata di Italia Virus sulle note dell’ultimo successo di Renato Zero (“Finalmente te ne vai… come soffro!”), il Pd si listava a lutto e continuava a inseguire il suo persecutore. A cercare “spiragli di dialogo” nel suo delirio sciamanico. E a sognare un altro bel governo con lui (almeno fino allo stop di Zinga al Tg1). Per fortuna, ora è tutto molto chiaro: chiunque rifiuta a prescindere nuovi voti al Senato e si risiede al tavolo con lo sfasciacarrozze si condanna, come dicono a Bologna, a camminare per altri due anni “con un gatto attaccato ai maroni e qualcuno da dietro che gli tira la coda”. Chi si candida? Chi ci casca? Le iscrizioni sono aperte.