La lunga stagione dello s-concerto, ma da Barcellona arriva un’alternativa per i live

Il 2020, si sa, ha segnato il de profundis per la cosmologia dei concerti e di tutti gli altri grandi, o piccoli, eventi dal vivo. E non poteva essere altrimenti. Adesso, certo, sta arrivando la vaccinazione di massa, ma occorrerà del tempo, e resta perciò massima la confusione sotto il cielo del rock e dintorni.

Che fare? Sacrificare a priori, forse con eccesso di pessimismo e zelo, l’anno appena iniziato, o ricorrere invece a un gramsciano ottimismo della volontà? Magari confermando, Vasco Rossi docet, i mega-tour fissati nell’estate 2021? Manca a un po’ a tutti noi, in maniera sempre più implacabile, quella magica fiamma bioritmica che solo gli spettacoli oggi definiti “in presenza” possono accendere. Diciamoci la verità: per chi non appartiene alla Generazione Z, lo streaming è giusto un succedaneo. Ci vorrebbe allora, in attesa dell’immunità di gregge, una terza via. Una exit strategy a tempo determinato per riaccendere i motori dell’industria live. Prima che il trauma collettivo, economico e socio-culturale, si estenda ulteriormente. E, perché no, provando a pensarli e a riprodurli i nuovi appuntamenti dal vivo, con modalità e lineamenti non troppo dissimili di quelli che possedevano in un tempo remotissimo, appena un anno fa e rotti. Fatte salve, ovviamente, le indefettibili precauzioni del caso.

Mentre alle nostre latitudini divampano le ipotesi sull’imminente festival di Sanremo (si legga il pezzo qui accanto, ndr), c’è chi congettura, allargando il discorso, una primavera-estate lastricata di biglietti elettronici Covid-free (“Sei vaccinato? Ok, puoi entrare e buon concerto”) e di spray disinfettanti-immunizzanti, da spruzzare sula folla in estasi. Un esempio concreto e illuminante arriva dalla Spagna e porta la firma del Primavera Sound, il festival indie per eccellenza. Più di mille persone hanno partecipato, lo scorso 12 dicembre, a una sperimentazione clinica (nome tecnico, Primacov) tenutasi nella mitica sala concerti Apolo di Barcellona. Un test codificato da importanti autorità sanitarie del territorio. Obiettivo: quello di verificare la possibilità di celebrare, fin da subito, eventi live senza distanziamento sociale, ma in sicurezza. Prima di accedere, gli astanti (tra i 18 e i 59 anni) erano stati sottoposti a test antigenici rapidi e a un tampone molecolare che hanno dovuto ripetere otto giorni dopo. E poi tutti tranquillamente dentro. A ballare e cantare, come in un weekend del 2018.

L’unico scotto pagato al new normal, l’obbligo di indossare, per l’intera durata dell’happening (ben cinque ore tra chitarre e dj-set), una mascherina certificata N95. Che si poteva togliere solo in alcune aree, per esempio per bere un drink. La ventilazione del locale era stata ottimizzata ad hoc, gli steward controllavano che non si formassero code per andare al bagno. Null’altro. E dai primi risultati è emerso che nessuno del nutrito campione ricontrollato è risultato positivo al Coronavirus.

“La virtù è un’arancia poco spremuta”, dice l’Oracolo

Tre indizi fanno una prova e “tre cose fanno un prodigio: ingegno fecondo, giudizio profondo e gusto per le cose del mondo”; non è Agatha Christie, ma un altro detective dell’animo umano: Baltasar Gracián (1601-1658), gesuita spagnolo, raffinato scrittore e navigato filosofo. Il suo Oracolo manuale, ovvero l’arte della prudenza è da poco tornato in libreria con i tipi di Adelphi, la traduzione e cura di Giulia Poggi e un saggio in appendice di Marc Fumaroli: una collezione di 300 aforismi, licenziata nel 1647 e diventata allora best-seller grazie all’edizione francese “tascabile”, grossomodo negli stessi anni in cui si leggevano Montaigne e Pascal.

Tradotto da Schopenhauer, amato da Nietzsche e La Rochefoucauld, compulsato da Borges – che pur non amava quello stile “strategico” e infiocchettato –, l’Oracolo è considerato un gioiellino della letteratura spagnola, giusto sul finire del Siglo de Oro, oltre che spregiudicato manuale del bon vivre per uomini di mondo, a cui Baltasar spiega come “ottenere la fama con il sudore degli altri”. Con la stessa ironia dell’omonimo di Delfi, il motto di questo Oracolo è “comprendere se stessi”, ma le armi del gesuita sono più smagate degli antichi: prudenza, riserbo, circospezione, discernimento, diffidenza, dissimulazione e persin ipocrisia, “doti” che, da sempre, hanno attirato sulla Compagnia di Gesù critiche e sospetti.

Altro aspetto precipuamente gesuitico è l’amalgama tra “malizia” e “milizia”, che rimanda alla struttura (natura?) politica dell’ordine fondato da Ignazio di Loyola. Gracián, e l’uomo a cui si rivolge, è machiavellico, astuto, seduttore e politico, appunto: un leader, senza ostentazione, che sa sfruttare l’“uncino dei cuori” e lasciare gli altri “con la fame”, in cambio di ammirazione, interesse, consenso e potere.

Insinuare, non dichiarare; abbozzare, non esporsi; suggerire, non indicare; saper creare attese; mai giocare a carte scoperte; circondarsi di bisognosi: “Si ricava più dalla dipendenza che dalla cortesia”. Sono queste le virtù del saggio, un onesto Iago dalle “intenzioni mai palesi”: bisogna essere– raccomanda Baltasar – “rabdomanti del cuore e linci delle intenzioni”; bisogna “saper eludere” e “far finta di non capire”. “Senza mentire, non dire tutta la verità”, la verità va sussurrata “sempre a mezza bocca” perché è “un salasso del cuore”. Condivisibile o meno, che prosa.

La prima delle “pietanze prudenziali” dispensate dal gesuita è ovviamente la moderazione, una “arancia non troppo spremuta”; seguono “sapere e coraggio, senno e forza”, conoscenza e giuste conoscenze, servirsi degli amici, scartare e dire di no, accomodarsi alle opinioni dei più. “Il dissenso è un’offesa… Soltanto Socrate se lo poteva premettere!”. Pur reazionario e ispirato da una antropologia negativa, fiele e humour, l’autore non disdegna, anzi, i belletti e gli artifici dell’arte, il gusto, la psicologia, ma come mezzi, non come fini, per diventare “un misto di colomba e serpente”.

“Non è stupido chi fa la stupidaggine, ma chi, una volta fatta, non la sa nascondere”: il grande nemico è la stupidità, foriera di eccessi, cocciutaggine, ridicolaggine, avventatezza, stramberia e bontà, che “da sola è cosa da bimbi e da stupidi”. Lo stoicismo qui è più estetica che etica: le passioni vanno dominate, ma soprattutto non esposte. “Non basta aver ragione, se la faccia esprime malizia… Il più grande disonore per un uomo? Mostrare che è uomo”.

Il Festival incartato a Sanremo

Bismark sosteneva che la gente non deve sapere come si fanno due cose: le salsicce e le leggi. Da quest’anno bisognerà aggiungere alla lista il Festival di Sanremo, la cui organizzazione è ormai incartata da esigenze tra loro sostanzialmente incompatibili: rispettare le norme anti-Covid, fare un Festival di Sanremo in pompa magna e con tanto di pubblico come chiesto dalla direzione artistica, aiutare il bilancio pericolante della Rai. Un casino inenarrabile, in cui si rincorrono voci incontrollate, persino un piccolo rinvio: ecco un riassunto ragionato del cul de sac in cui si sono infilati a Viale Mazzini.

I soldi. Il Festival di Sanremo si deve fare (anche) per ragioni di bilancio. La Rai ha chiuso in rosso il 2020 e chiuderà ancor più in rosso il 2021, soprattutto per il calo monstre della pubblicità dovuto alla recessione da Covid: per Viale Mazzini si parla di un segno meno tra il 15 e il 20%. In questo contesto va ricordata una cosa: nel 2020 Sanremo ha portato nelle casse della Rai 37,4 milioni di euro (costandone, pare, neanche 20), ben oltre l’8% degli incassi da pubblicità tv del gruppo. Insomma, Sanremo si deve fare e si deve fare entro aprile, quando la pubblicità vale di più perché c’è più gente davanti agli schermi. Ma come?

Normalità. Il “come” lo ha deciso la direzione artistica, cioè Amadeus, che vuol dire anche il suo agente Lucio Presta. Il conduttore e Fiorello hanno chiarito tempo fa che avrebbero condotto il Festival solo col pubblico e nel suo format normale: Fiorello lo ha ribadito alla Rai anche di recente. I vertici della tv di Stato – l’ad Fabrizio Salini e il direttore di rete Stefano Coletta – non hanno saputo o voluto cambiare prospettiva: e così avremo, forse, un Sanremo tradizionale con 26 big e otto giovani in gara, ospiti normali e super, cinque serate dalla durata monstre (chiusura alle 2 di notte) per far salire lo share. Posizione rafforzata, si dice, dal flop dello speciale di Beppe Fiorello, andato in onda lunedì sera su Rai1, ovviamente senza pubblico, fermatosi al 12,3% di share. E qui iniziano i problemi.

Covid. Sperando in un allentamento delle restrizioni, la Rai aveva spostato il Festival da febbraio all’inizio di marzo (dal 2 al 6): difficile cambi qualcosa rispetto a ora, ma ieri si parlava di un altrettanto inutile slittamento di un paio di settimane. I problemi sono innumerevoli. Attualmente, per dire, gli spettacoli dal vivo col pubblico sono vietati: Sanremo avrà leggi sue? Basterà organizzarsi con 150 figuranti? Un punto di forza del Festival tradizionale sono poi gli eventi esterni – dai live a Casa Sanremo (che ospita gli stand di molti sponsor) alle esibizioni nel palco di piazza Colombo marchiato “Nutella” ovunque – ad oggi semplicemente impossibili.

Chi può andare? In un anno normale, al netto del pubblico dentro e fuori dall’Ariston, tra produzione del Festival, cantanti, ospiti e rispettivi staff, giornalisti, sponsor e intere trasmissioni si trasferiscono a Sanremo non meno di 5mila persone: anche riducendo all’osso il non necessario (e parecchi media locali non la prenderanno bene), ci saranno centinaia di persone che dovranno lavorare “in sicurezza”, anche dal punto di vista del Covid-19, in uno spazio angusto come il retropalco dell’Ariston. Queste persone andranno poi nutrite, fatte dormire, trasportate avanti e indietro, molte “tamponate” in continuazione come prevedono i protocolli vigenti per gli spettacoli e andrà chiarito come reagire a eventuali positività: la Rai, si dice, invierà più squadre di tecnici del solito per ovviare al problema, ma se tra i positivi c’è un cantante in gara o uno del suo staff?

Il Comune. Sanremo vive di Festival e non solo per la convenzione da 5 milioni l’anno con la Rai: hotel, ristoranti, etc. in quella settimana fanno un bel pezzo dei loro bilanci. Per questo (pure) la politica locale vuole un Festival più normale possibile e si spinge a sognare gli eventi in piazza: “La Regione vuole vedere il palco dell’Ariston aperto – ha detto il governatore Giovanni Toti – Abbiamo tanti progetti intorno al Festival per promuovere il territorio”.

L’alternativa. Fin dall’autunno ai piani alti di Viale Mazzini era stata presentata la possibilità di cambiare il format del Festival: niente pubblico, niente comici, niente super-ospiti, niente Ibrahimovic, solo uno spettacolo tv basato sulla gara canora. Tradotto: meno gente da gestire, meno rischi, meno costi, tutto finito a mezzanotte. Dal punto di vista delle entrate pubblicitarie, sarebbe cambiato poco: lo share, chiudendo prima, sarebbe stato più basso, ma le teste davanti alla tv no (e sono loro a determinare il prezzo degli spot). Salini e Coletta però, forse in omaggio al locale Casinò, hanno scelto la via Amadeus/Presta, cioè giocare d’azzardo con regole e contagi e ora nessuno sa come uscirne.

Il rischio. Uno spettacolo in pompa magna potrebbe, specie se ci si sposterà a fine marzo e senza riaperture significative, essere poco gradito a un pubblico che ormai “vede” la fine del blocco dei licenziamenti e alle molte imprese liguri lasciate senza la loro parte di torta: se panem et circenses dev’essere, serve anche il pane.

Il 14° emendamento: via “soft” per disfarsi del tycoon eversivo

Se The Donald si salverà dall’impeachment perché non ci sono i tempi necessari a causa dell’imminente insediamento di Joe Biden, e addirittura potrebbe graziare se stesso e i figli con generi e nuore prima di lasciare la Casa Bianca, non è detto invece che i suoi due più entusiasti sostenitori tra i senatori repubblicani la faranno franca. Josh Hawley e Ted Cruz non hanno infatti condannato l’insurrezione dei trumpisti-complottisti una settimana fa contro Capitol Hill e così i deputati democratici stanno prendendo in considerazione di espellerli dalla vita politica. Soprattutto l’ultraconservatore e ultrareligioso Ted Cruz viene ora considerato anche da numerosi onorevoli e senatori repubblicani un approfittatore. Il senatore dell’Arizona durante la campagna elettorale del 2016 si era candidato alla presidenza e durante le primarie ne aveva dette di cotte e di crude nei confronti del tycoon. Una volta perse le speranze non aveva però rinunciato a descrivere Trump come inadatto a guidare gli Stati Uniti. Durante questi 4 anni, la crescita dell’adesione ai “valori” di Trump da parte della popolazione ha convinto il pio Cruz a cambiare strategia, ovvero riconvertirsi al ruolo di membro del Senato più realista del re. Da nemico del tycoon, è diventato con il collega Josh Hawley il più strenuo alleato di Trump del partito Repubblicano. Ma rispetto ad Hawley, Cruz ha compiuto questo triplo salto carpiato per provare a spacciarsi come il vero erede di Trump e ritentare l’esperienza della corsa alle Presidenziali nel 2024 per il Gop. Hawley ha gli stessi obiettivi, ma una storia politica finora meno importante rispetto all’ex governatore Cruz.

Anche per Hawley tuttavia i Democratici della Camera potrebbero invocare il comma 3 del 14° Emendamento della Costituzione che consente al Congresso di rimuovere qualsiasi legislatore che abbia istigato o sostenuto o partecipato ad insurrezioni contro lo Stato.

La neoeletta deputata Cori Bush ha presentato una richiesta formale per la rimozione di tutti i funzionari pubblici eletti coinvolti nell’incitamento al fatale attacco alla sede del Congresso. Ma lo sforzo è concentrato sui due senatori potenzialmente contendenti la presidenza fra quattro anni. Entrambi ora si trovano isolati e soggetti ad aspre critiche anche dei repubblicani moderati. Prima dell’insurrezione. Cruz e Hawley si sono divertiti a interpretare la parte dei rivoluzionari-gentiluomini. Una foto diventata ormai tristemente iconica, scattata poco prima della rivolta, mostra Hawley con il pugno alzato verso i rivoltosi in segno di solidarietà. Poco prima del discorso incendiario di Trump rivolto ai propri sostenitori, Cruz li aveva intercettati spiegare loro – come se ce ne fosse bisogno – con toni entusiastici l’importanza di lottare a tutti i costi per mantenere Trump alla Casa Bianca. Cruz e Hawley avevano ottenuto gli elogi dei media di destra per il loro rifiuto di accettare i risultati delle elezioni. Nel momento in cui la loro rivoluzione però è diventata spaventosamente reale, Hawley e Cruz erano introvabili. “I nomi di Cruz e Hawley dovrebbero passare alla storia accanto a persone come Benedict Arnold”, ha detto a il rappresentante dell’Arizona Ruben Gallego. “Sono solo traditori del Paese e traditori della Costituzione.” Bisognerà vedere in ogni caso che posizione prenderà il vertice del Partito Repubblicano al fune di procedere speditamente verso la rimozione. Hawley si è guadagnato il titolo di fedelissimo che desiderava quando è diventato il primo senatore degli Stati Uniti a giurare un’opposizione incrollabile al processo democratico, promettendo la sua lealtà all’eterna presidenza di Trump. “Non chiederò mai scusa per aver dato voce ai milioni di cittadini del Missouri e americani che sono preoccupati per l’integrità delle nostre elezioni”, ha detto Hawley. “Questo è il mio lavoro e continuerò a farlo”. Cruz invece continua a cambiare versione dimostrando quella che molti analisti hanno definito “una vigliaccheria senza limiti”. I membri repubblicani del Senato adesso stanno cercando di convincere gli elettori sbalorditi che in realtà si sono opposti a Hawley e a Cruz fin dall’inizio.

Addio al re dei casinò: fu primo sponsor di Donald

Due funerali americani: il primo è quello del re dei casinò Sheldon Adelson, uno dei più importanti, se non il primo finanziatore di Donald Trump; il secondo è quello delle donazioni che, dopo gli eventi senza precedenti di Washington, le grandi aziende e colossi finanziari hanno deciso di non fare più ai politici.

Il magnate del gioco d’azzardo è morto per un linfoma a 87 anni dopo aver cambiato la vita “degli individui che lo circondavano, ma anche la storia delle nazioni: in Usa, Israele e altrove”, ha detto sua moglie Miriam. Nato nel 1933 da un tassista lituano e una sarta gallese, Adelson cominciò ad accumulare dollari a 12 anni distribuendo giornali, per investire, compiuti i 16, in distributori automatici. Un affare dopo l’altro è diventato il re di Las Vegas, dove ha demolito vecchi edifici per costruire memorabili piramidi kitsch come la Rosa veneziana, un casinò da circa 2 miliardi di dollari.

Amico di George Bush, che ora piange l’american patriot, “uno degli uomini più generosi della storia americana” secondo quelli che ha foraggiato negli anni, si faceva vedere di rado in pubblico e, a chi gli chiedeva della sua enorme fortuna, rispondeva con la massima di una leggenda del football, l’allenatore Vince Lombardi: “Vincere non è tutto, è l’unica cosa”.

Le sue oltre 50 società, che continueranno a operare da Singapore fino a Macao, hanno fatto piovere dollari a cascata sulla politica a stelle e strisce.

Democratico fino al 1988, era rimasto lontano dalla vita del Congresso finché nel 2012 si assicurò il record di maggior donatore della storia elettorale Usa, elargendo 90 milioni di dollari ai candidati che potevano evitare il ritorno di Obama. Dopo quella scommessa persa, ha puntato, vincendo, sull’altro moghul che nel 2016 decise di candidarsi alle elezioni: a Trump, Adelson ha donato 20 milioni di dollari nella campagna del 2016. Altri milioni, negli ultimi anni, li ha spesi per le richieste di risarcimento e multe dopo le indagini per corruzione del dipartimento di giustizia.

Ieri però in America non è morto solo Adelson, è il sistema delle donazioni stesse che si è arrestato: hanno detto stop ai finanziamenti i colossi Hallmark, Mastercard e American Express, massimi contributori dei repubblicani alle ultime elezioni, seguiti dalla Blue Cross Blue Shield, storica compagnia d’assicurazione che sosteneva il partito di Trump dal 1996.

L’invasione del Congresso da parte dei “patrioti” pro Trump ha allontanato quei finanziatori che elevano o affossano parabole politiche e che, con la loro benzina di contante, permettono al motore politico statunitense di muoversi. Ad esempio, Kevin McCarthy e Steve Scalise, leader alla Camera dei Repubblicani, hanno raccolto nelle loro carriere 24 milioni di dollari di donazioni.

Di rimbalzo anche i Democratici, ora furiosi, sono rimasti feriti: i giganti Goldman Sachs e BlackRock, assieme ai colossi Facebook e Google, hanno fatto la stessa scelta verso la rosa intera dei candidati.

Insomma, per chi vuole mantenere la sua carriera politica, o iniziarla, sono tempi duri. A chi è nel gioco rimane ora solo il motto consolatorio di Sheldon, re dei casinò: “Sono in un business la cui intera attività è basata sul perdere o vincere. Non piango quando perdo, c’è sempre una mano nuova in arrivo”.

Pasticcio dem, l’impeachment intralcia l’agenda di Joe Biden

Sarà durata mezza giornata l’illusione di Joe Biden di vivere, nei primi cento giorni da presidente, una luna di miele felice con il popolo americano e due anni di sintonia con il Congresso: dall’esito dei ballottaggi in Georgia, all’alba del 6 gennaio, che hanno assicurato ai Democratici il controllo del Senato, oltre che della Camera, al pomeriggio dello stesso giorno, con la presa del Campidoglio da parte dei sostenitori di Donald Trump sobillati dal magnate stesso. Quella sommossa ha rinfocolato l’astio dei Democratici verso Trump e ha costretto i Repubblicani sulla difensiva. L’idea di mettere sotto impeachment il magnate per una seconda volta, a mandato praticamente scaduto, comporta più grane che impatti positivi per il presidente eletto. Che, però, dopo essersi sottoposto al richiamo del vaccino anti-Covid, si limita a dire: “Trump non dovrebbe essere in carica, punto.” Il presidente eletto non prende pubblicamente posizione contro l’impeachment, ma chi gli è vicino non ne nasconde l’irritazione.

L’iniziativa della speaker della Camera Nancy Pelosi gli può, infatti, solo creare imbarazzi nella prima fase della sua presidenza, quando lui, invece, sperava di procedere con il vento in poppa avendo dalla sua sia la Camera che il Senato. Del resto, più che per calcolo politico, la Pelosi, arci-nemica di Trump, agisce “per fatto personale”, nel giudizio prevalente dei media Usa. La speaker della Camera ha combattuto, e perso, con Trump, sia il Russiagate, finito in una bolla di sapone, sia il Kievgate, sfociato in un impeachment da cui, però, il magnate è ovviamente uscito assolto, perché il verdetto spettava al Senato, in quel momento a maggioranza repubblicana. Non è che la situazione oggi sia molto diversa: se oggi la Camera voterà la messa in stato d’accusa del presidente per “incitamento all’insurrezione”, il Senato dovrà poi processare il magnate e pronunciarsi. La condanna richiede una maggioranza dei due terzi: democratici e repubblicani sono 50 pari in Senato – lo stallo può essere rotto a favore dei Democratici dal voto della vicepresidente, Kamala Harris, che presiede il Senato –; e, dunque, bisogna che almeno 17 senatori repubblicani, uno su tre, votino con i Democratici. Oggi come oggi, non è pensabile che ciò avvenga. La Pelosi sta andando di nuovo a sbattere? Biden lavora sotto traccia per evitarlo e avrebbe parlato al telefono con alcuni senatori repubblicani, per tastarne il polso. Mentre autorevoli giuristi tirano fuori un’alternativa meno traumatica sia al XXV emendamento, cui il vice di Trump, Mike Pence, non si presterà, dopo l’ingiunzione della Camera di ieri sera, sia all’impeachment. Se il problema non è destituire il presidente, ché comunque Trump non lo sarà più dal 20 gennaio, ma interdirlo per sempre dai pubblici uffici e, quindi, impedirgli di ripresentarsi alle elezioni, effetto collaterale dell’impeachment; una soluzione potrebbe essere offerta dal XIV Emendamento della Costituzione Usa, in base al quale nessuna persona che abbia giurato fedeltà alla Costituzione può più ricoprire incarichi pubblici se coinvolta “in insurrezione o ribellione”. Per questa procedura, basta la maggioranza semplice della Camera e del Senato. Le priorità di Biden nei suoi primi cento giorni sono chiare e semplici: fare varare la sua squadra, così che i ministri possano mettersi al lavoro; e, poi, spingere sull’accelerazione della vaccinazione e della prevenzione, fronte pandemia, e provare a stimolare la ripresa dell’economia. È difficile che i Repubblicani si mettano di traverso sulla lotta alla pandemia e sul rilancio dell’economia.

In Sardegna torna il Piano Casa. Più cemento per hotel e residenze

Un aumento fino a un massimo del 50 per cento dell’esistente che potrebbe tradursi in 10 milioni di metri cubi di volume in più per le strutture alberghiere della Sardegna: già oggi, in Regione, la maggioranza mira a far approvare il Piano Casa su cui si sta discutendo e lottando da oltre un anno a causa di più di una criticità. Il risultato sarà un via libera al cemento in nome della pandemia, ma anche un pericoloso liberi tutti sull’abitabilità dei seminterrati.

Il piano permette di aumentare l’estensione delle strutture ricettive, quindi sia hotel, ma anche comunità alloggio nelle strutture sanitarie, fino al 50 per cento del volume esistente per la parte che riguarda gli spazi comuni, quindi hall e simili. In alternativa, si prevede anche l’aumento del numero di stanze del 15 per cento o il miglioramento del livello di classificazione della struttura (ma sempre nel limite del 50 per cento dell’esistente). Si tratta di interventi che risparmiano l’immediata fascia costiera: esattamente un anno fa, la norma proposta sempre dal governatore Solinas lo consentiva ma a dicembre era stata esclusa dopo una fitta discussione. Dai 300 metri dalla battigia in poi, però, è un sostanziale libera tutti. In un primo momento (e resta comunque la tacita ratio ispiratrice della misura) nel testo uscito dalla commissione l’allargamento degli spazi comuni era stato motivato con le necessità nate dall’emergenza Coronavirus, riferimento che è stato poi eliminato in Aula. Altri aumenti di volume sono possibili per efficientamento energetico, tetti verdi o giardini verticali. Meglio ancora se l’intervento include il riutilizzo delle acque meteoriche e reflue. Inoltre, si dà la possibilità di chiudere le verande degli hotel con elementi amovibili per 240 giorni l’anno, si potranno coprire le piscine (sempre con strutture amovibili) e sarà consentita anche la compravendita di crediti volumetrici tra strutture non distanti tra loro più di trecento metri.

A tradurre in termini di impatto ambientale queste norme è il coordinatore dei Verdi, Angelo Bonelli: “La Regione Sardegna a trazione leghista con Solinas autorizza l’ampliamento volumetrico: un manifesto alla deregulation e all’aggressione di ambienti naturali protetti che in nome della rilancio dell’economia sarda sacrifica irreversibilmente un patrimonio ambientale e quindi culturale, che ha reso famosa la bellezza della Sardegna in tutto il mondo con grandi ritorni economici”. La stima è di un incremento di almeno 10 milioni di metri cubi e Bonelli spiega di aver già pronto un ricorso per impugnare la legge.

Altro punto critico su cui ieri in Assemblea regionale l’opposizione si è particolarmente ribellata, è quello che rende abitabili i seminterrati. Anche se il testo prevede che “il recupero a fini abitativi” è vietato nelle aree dichiarate di “pericolosità idraulica elevata o di frana elevata” per l’opposizione “non c’è considerazione per i cambiamenti climatici che stanno interessando anche la Sardegna, con alluvioni e piogge torrenziali sempre più improvvise che potrebbero interessare un domani zone oggi considerate esenti da rischio”. A inizio dicembre, un’alluvione a Bitti, in provincia di Nuoro, ha ucciso tre persone e tolto casa a circa 68 abitanti. Nel novembre del 2013 ad Arzachena, provincia di Olbia, una famiglia di quattro persone morì nel seminterrato allagato a causa di un’alluvione.

Partiti, preti, rabdomanti… Tutti a svuotare la Cig Covid

Per Salvini erano “una mancia e un’elemosina”: risorse insufficienti per le imprese, troppe categorie escluse. Salvo scoprire poi che a Milano la Lega le sue 360 ore di “cassa” se l’è prese eccome, autorizzate da Regione Lombardia che lei stessa amministra, causale: “Emergenza sanitaria Covid-19”. Il Partito democratico? Ha ottenuto indennizzi per i dipendenti di varie federazioni provinciali sparse per l’Italia. Perfino Rifondazione comunista, che è fuori dal Parlamento dal 2008, ne ha beneficiato. La “deroga”, del resto, è molto ampia. Parliamo degli aiuti emergenziali alle imprese, della “cassa integrazione guadagni in deroga” avviata col Cura Italia, che non basta mai: appena rinnovata in manovra per altre 12 settimane, il governo già teme i contraccolpi al giro di boa del 31 di marzo, quando finirà lo stop ai licenziamenti con previsione di un milione di nuovi disoccupati. Incubo vero per l’economia, minaccia reale alla tenuta sociale del Paese. Per molti, ma non per tutti. Perché gli “aiuti”, tanti o pochi che fossero, nel frattempo sono andati a ruba.

Da marzo 2020, l’Inps ha erogato indennità di Cig Covid a più di 100mila “aziende” che le regioni hanno via via autorizzato al beneficio. Tra i beneficiari – fatalmente affogati in migliaia di delibere ed elenchi allegati – ci sono anche alcuni partiti politici. Anche loro hanno un bilancio e dei dipendenti, certo; ma fino a prova contraria non sono imprese e la chiusura dei loro uffici, a regola, non determina cali di fatturato come per un ristorante o un negozio d’abbigliamento. In tutto questo, va precisato, non c’è nulla di illegale e i singoli importi riconosciuti sono una goccia nel mare dei 70 milioni di ore di cassa finora autorizzate. Ma che anche i partiti abbiano contribuito a svuotarlo un po’ di mal di pancia, forse, lo provoca. Lo stesso può valere per una pletora di enti religiosi o pseudo tali che, senza pagare l’Imu, hanno poi bussato alla cassa dello Stato come imprese di mercato al pari di una lavanderia, un bar o un’autofficina che rischiano di non riaprire più.

Giuridicamente i partiti sono “associazioni non riconosciute”. Alla bisogna però diventano vere e proprie aziende con tanto di codice Ateco (94.92) cui ancorare benefici di legge e ristori. Succede dal 2014: per mandar giù il taglio del finanziamento pubblico, hanno avuto lo zuccherino dell’accesso al trattamento straordinario di integrazione salariale. Nei sei anni successivi l’hanno usato per scaricare sulla collettività i costi del loro personale in eccesso, perché smettere di fronte alla calamità Covid?E infatti non hanno smesso. Scorrendo gli elenchi degli 30mila beneficiari lombardi della Cig Covid-19 si incappa, ad esempio, in un’istanza autorizzata a nome della “Lega per Salvini premier”, lo stesso che bollava gli aiuti del governo alle imprese così: “È una bufala, non c’è nulla”. Ma c’era abbastanza perché il 14 maggio 2020 il suo partito ottenesse dalla Regione (che amministra) l’autorizzazione a stipendiare per due mesi tramite l’Inps un dipendente con 3mila euro. E per altri 1.764 destinati alla sede di Como della Lega Nord. E altri ancora. Va detto che Salvini si è preso a cuore l’estensione del beneficio a categorie inizialmente escluse, come i tour operator: in effetti duemila agenzie di viaggio chiuse in Lombardia non ne beneficiavano, ma la Lega sì.

Restando in Lombardia, il Pd ha chiesto contributi per i dipendenti delle federazioni provinciali di Mantova (1.747), Varese (4.150), Como (2.268 euro). E così in Lazio, Abruzzo e Calabria. Spostandosi in Toscana, li ha ottenuti anche per i dipendenti delle sedi di Livorno e Firenze. Nel capoluogo, ma anche a Roma, è stata autorizzata la cassa anche per Rifondazione Comunista, partito che non sta in Parlamento da 13 anni (oggi è rappresentato da Paola Nunez nel Gruppo Misto).

L’argomento partito-azienda è terra terra? È populista? Forse è vero, ma investe anche le alte sfere celesti. Tra i beneficiari della Cig-Covid figurano, ad esempio, l’Istituto diocesano per il sostentamento del Clero di Lodi (10mila euro), Mantova (15mila euro) e Bergamo (16mila euro), moltissime parrocchie, istituti scolastici religiosi privati, ma anche strutture per il riposo spirituale che, alla bisogna, si palesano come veri e propri alberghi. In caso di crisi bussano tutti allo Stato, non al Vaticano. L’amor di sussidio accomuna fedeli e pagani. Spuntano perfino cartomanti e pranoterapeuti tra i mille rivoli che hanno contribuito a prosciugare un mare di soldi destinato alle imprese. Come l’Istituto di biopsicotronica di Mario Azzoni, storico amico e già consigliere del neo assessore alla Salute della Regione Lombardia, Letizia Moratti. Proprio grazie a Regione Lombardia ha messo in cassa 4 dipendenti con 10mila euro di integrazione salariale. L’oggetto sociale? “Corsi di energia bioradiante”. Manca la liquidità per finanziare i prossimi aiuti alle imprese? Ci sarà sempre in Italia un partito, un prete o un rabdomante (sussidiati) a indicare la strada.

Nella bolla del Coronavirus, i ragazzi stanno crescendo

Questa mattina, alle otto, ho salutato mio figlio sulla porta di casa mentre andavo a lavorare e gli ho augurato “Buona scuola!”. Poi l’ho guardato meglio, e mi sono resa conto che stavo augurando buona scuola a un quindicenne con lo stesso pigiama da tre giorni, un paio di cuffie infilate storte e le ciabatte di Rick&Morty. Certo, per un attimo l’abbrutimento della dad mi è parso chiaro e inequivocabile, ma poi sono tornata a coltivare il mio pensiero ricorrente, in questi giorni, e cioè che vivere l’adolescenza durante la pandemia non è solo il disastro irreversibile che tutti stanno cercando di farci credere. Certo, i ragazzi non vanno a scuola, non escono divisi in gruppetti durante la ricreazione, non fumano le svapo di nascosto in gita e non si baciano alle feste.

Qualcuno ha dovuto rinunciare ai tornei di basket, alle scuole di danza o al corso di chitarra, ma la verità è che questi ragazzi hanno una rosa di possibilità per galleggiare nella socialità che era inimmaginabile anche solo 15 anni fa. Questa è la prima pandemia nata nell’era digitale. Fosse arrivata negli anni 80, per dire, sarebbe servita l’autocertificazione per andare a telefonare a un amico o a un fidanzato nella cabina a gettoni. Cabina a gettoni che forse avremmo trovato sigillata, visto che sarebbe stata il luogo infetto per eccellenza (le cornette dei telefoni pubblici sarebbero state fatte brillare dagli artificieri). Il livello di istruzione negli adulti, qualche decennio fa, era decisamente più basso, molti di noi si sarebbero ritrovati in casa con genitori analfabeti o semi-analfabeti, senza poter andare a scuola. E non è che avremmo avuto la dad. Forse la dad si sarebbe potuta fare tramite la tv e considerato che negli anni 80 in tv l’unico che aveva disposizione un canale quasi 24 ore su 24 era Red Ronnie, saremmo venuti su con Red Ronnie come docente. Immaginate il disastro. Oggi gli adolescenti, in un mondo costretto all’immobilità, possono conoscersi, connettersi, innaffiare amori e amicizie, perfino corteggiarsi. Certo, toccandosi e annusandosi poco, ma questo era un problema che ci ponevamo già prima, se non ricordo male. E in fondo, quello che prima era il problema (stanno sempre sui social anziché vedersi), oggi è la soluzione (per fortuna ci sono i social, visto che non possono vedersi). Nella stessa situazione, 20 anni fa, avremmo vissuto in una bolla di solitudine.

E poi c’è, in questa dimensione sospesa, anche la grande opportunità per gli adolescenti di imparare cose che avrebbero imparato, forse, più in là. Sono investiti di responsabilità in un’età in cui tendono a essere sfuggenti e inaffidabili. Devono mettere la mascherina, devono organizzarsi lo studio con maggiore autonomia, devono rimanere spesso a casa da soli, devono dare tutti i giorni il loro contributo a una società in affanno.

Incredibilmente, stanno imparando il senso della comunità e del bene comune vivendo nell’isolamento, o comunque, con una socialità limitata. Il che è un paradosso, ma anche una grande opportunità. Imparano a fare la propria parte e il senso di quel “si fa quel che si può” pronunciato in JoJo Rabbit dalla mamma del piccolo JoJo, che combatte il nazismo con i suoi pochi mezzi.

Soprattutto, fanno i conti con un tema che la Generazione Zeta conosce poco: quello delle conseguenze. Abituati dalla tecnologia a mettere un filtro tra loro e il mondo, gli adolescenti sono spesso digiuni del concetto di empatia. Si immedesimano poco negli altri, hanno la possibilità di fare del male senza guardare negli occhi dell’altro gli effetti della loro frequente anaffettività. La pandemia ha insegnato a loro, a tutti, quanto il gesto di uno di noi possa cambiare le sorti di un’intera comunità, quanto possa fare la differenza, nel bene e nel male. Ed è un insegnamento che arriva nell’età dell’egoismo per eccellenza, dell’affermazione di sè, dell’autodeterminazione, il che rende questo momento, per gli adolescenti, qualcosa di potente e irripetibile. Infine, abbiamo dei ragazzi che stanno vivendo immersi nella storia, in quello che accade. Hanno – mai come oggi – l’opportunità di comprendere l’importanza della scienza, il peso della politica, i problemi pregressi della scuola, l’importanza imprescindibile della salute e di uno stato che sappia curare. Molti di loro, forse, rimarranno impermeabili a tutto. Altri coglieranno l’opportunità che l’epidemia gli sta dando. Certo, mi dispiace che si stiano perdendo qualcosa, ma il tempo della leggerezza tornerà. E non vedo l’ora di vederli di nuovo in classe o al bar ad abbracciarsi, gli adolescenti, ma non mi dispiace l’idea che torneranno a farlo avendo imparato qualcosa in più di come si sta al mondo.

“Leonardo, tangenti per appalti su misura”. Indagati 10 dirigenti, anche 2 società Google

Fondi neri per 4,5 milioni di dollari accumulati in quattro anni (2013-2017), utilizzando una società schermo americana e veicolando il denaro di ritorno attraverso società di pagamento di Google. In mezzo una storia di corruzione tra privati che coinvolge funzionari della società Leonardo, il colosso italiano in buona parte pubblico attivo in forniture militari e aerospaziali. L’inchiesta della Procura di Milano coordinata dal pm Gaetano Ruta e dalla Guardia di finanza ha svelato un sistema di evasione fiscale, corruzione e riciclaggio, nel quale Leonardo Spa appare, a oggi, parte lesa. Tradotto: i vertici nulla sapevano di ciò che facevano i loro dipendenti. Fin da subito Leonardo ha dato la piena disponibilità a collaborare con la magistratura.

Detto questo, chi corrompe, secondo la Procura, è la Trans Part srl (4 indagati) con sede a Milano, mentre chi incassa le tangenti sono 10 funzionari di Leonardo (indagati), remunerati con denaro, ma anche con utilità. Indagate secondo la legge 231 sulla responsabilità amministrativa due società di pagamento online riferibili a Google: la Google Ireland Ltd e la Google Payments Ltd. Anche il colosso di Mountain View ha dato massima collaborazione alla Procura, secondo cui queste due società hanno rappresentato il veicolo attraverso il quale far rientrare il denaro evaso nelle tasche dei titolari della Trans Part, indagati anche per riciclaggio. Ai 10 funzionari di Leonardo è contestata l’accusa da codice civile di corruzione tra privati. Qui, si legge nell’ordine di esibizione mostrato ieri dalla Gdf di Milano nelle sedi di Leonardo a Roma e a Pomigliano d’Arco, i titolari di Trans Part “remuneravano i soggetti incardinati nel gruppo Leonardo quale prezzo pagato per assicurarsi le commesse per lo svolgimento dell’attività del gruppo Trans Part”. La corruzione otteneva così “il disvelamento da parte dei soggetti incardinati nel gruppo Leonardo di informazioni privilegiate, da loro conosciute in ragione della carica ricoperta, quali le offerte di concorrenti”. Le tangenti ottenevano “la disponibilità da parte dei soggetti” del “gruppo Leonardo, di modificare le procedure ai appalto adeguandole alle necessità di Trans Part”. Dagli atti giudiziari emerge una importante capacità decisionale dei dieci dipendenti di Leonardo, che, secondo la società partecipata per il 30% dal ministero dell’Economia, non ricoprivano un ruolo dirigenziale. Infine, per 23 funzionari del gruppo la Procura ha chiesto l’acquisizione delle email.