Dopo il rinvio della prima udienza a novembre, inizia oggi il processo contro Elżbieta, Anna e Joanna, le tre attiviste per i diritti Lgbtqi+ in Polonia che, nel luglio 2020, sono state arrestate a Plock durante una delle proteste contro il giro di vite sul diritto delle donne di abortire. Elżbieta e compagne hanno affisso e distribuito poster della Madonna nera di Czestochowa in cui Vergine e Bambino hanno l’aureola arcobaleno. Ai sensi dell’articolo 196 del codice penale è “un’offesa al credo religioso” e le tre rischiano fino a 2 anni di carcere. Amnesty International, Campaign Against Homophobia, Freemuse, Front Line Defenders, Human Rights Watch e ILGA-Europe hanno lanciato un appello che ha superato le 140mila firme per chiedere il ritiro delle accuse, ricordando che la Polonia è vincolata dal Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue a rispettare, proteggere e realizzare il diritto alla libertà di espressione.
Autostrade emette un altro bond da 1 miliardo
A due anni e mezzo dal disastro del Morandi, ove mai ce ne fosse stato ancora bisogno, è il segnale che la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia è ormai fuori dai radar. La trattativa con Atlantia (e i Benetton) per cedere il controllo è ancora in alto mare, ma il mercato non crede a un esito negativo. Ieri Aspi ha infatti collocato obbligazioni riservate agli investitori istituzionali per 1 miliardo di euro. La domanda c’è stata per quasi 2 miliardi. È il secondo collocamento, dopo quello da 1,25 miliardi di dicembre scorso. E arriva nonostante il rating junk, spazzatura dovuto ai rischi connessi allo scontro col governo dopo il Morandi. “Con la collocazione – si legge una nota – Autostrade si è dotata di tutte le risorse necessarie per il pieno supporto degli importanti piani definiti nel nuovo Piano economico finanziario”. È il Pef, che determina tariffe e manutenzioni per i prossimi 5 anni. È stato approvato dal ministero il 19 novembre scorso, nonostante la contrarietà dell’Authority dei Trasporti. Ma il Mit non l’ha ancora inviato al Cipe, cioè a Palazzo Chigi.
Mega-diga di Genova: il dibattito pubblico si fa senza pubblico, stampa e documenti
Senza documenti, a porte chiuse e microfoni spenti: il “dibattito pubblico” sulla nuova diga foranea del porto di Genova, il primo da quando il Codice degli appalti introdusse l’obbligo per le grandi opere, pare più un monologo, con ben poco di pubblico. La stazione appaltante (l’Autorità portuale col sindaco Marco Bucci, commissario per il piano straordinario di opere portuali concesso all’ente dal decreto Genova) ha previsto di svolgerlo in 20 giorni (sui 120 disponibili per legge) e non ha pubblicato i documenti elaborati in 18 mesi dalla cordata aggiudicataria della progettazione tecnico-economica guidata da Technital. Sul sito creato ad hoc c’è solo un dossier di sintesi di 40 pagine. All’analisi costi-benefici che sorregge un’opera da 1-1,3 miliardi a totale carico pubblico, inserita nel Recovery plan, sono dedicate due pagine. Il Fatto ha già riferito come Technital abbia ammesso che le miracolistiche proiezioni economiche (crescita del 100% dei traffici fra 2027 e 2029) “sono basate sulle interazioni con gli operatori”. Cioè sulle promesse dei concessionari delle banchine beneficiarie della nuova diga.
Dopo una conferenza stampa con pochi minuti per i quesiti dei giornalisti e una presentazione online senza domande dirette, sono iniziati gli incontri della commissione tecnica del dibattito pubblico. Chiusi al pubblico e alla stampa. La segreteria del sottosegretario alle Infrastrutture Roberto Traversi ha replicato che “questa è la procedura”. Vano quindi aspettarsi che la “Commissione nazionale per il dibattito pubblico sulle grandi infrastrutture” appena istituita dal ministero prenda iniziative per far sì che il dibattito sia tale. Eppure oltre alle roboanti assunzioni sui traffici, le ombre coprono anche la tempistica incongruente con il Recovery e gli effetti economici, e ambientali. Senza dimenticare la sicurezza. Il dossier si limita a riferire che “le simulazioni hanno evidenziato che per tutte e tre le soluzioni proposte le manovre possono essere svolte in sicurezza”. Bucci si è sbilanciato sull’opzione più costosa e con lui Capitaneria e piloti del porto. Ma non è affatto chiaro, essendo preclusa la visione dei documenti di progetto, se i progettisti concordino, perché il dossier si guarda bene dall’affermare se una delle tre soluzioni sia più sicura. Per la città del Morandi e della torre piloti un interrogativo inquietante in aggiunta alla beffa del dibattito farsa.
Metti Tolstoj a sparlar di mogli
Al regista Roberto Quagliano e alla Kamelfilm bisogna riconoscere un certo coraggio per aver voluto realizzare un nuovo ciclo delle Interviste impossibili, il programma leggenda che negli anni Settanta dette voce ai grandi del passato con la collaborazione di chi in quegli anni collaborava con Radio Rai: tra gli altri Giorgio Manganelli, Oreste del Buono, Vittorio Sermonti tra gli intervistatori; Carmelo Bene, Romolo Valli, Paolo Bonacelli tra gli intervistati (per saperne di più basta andare sul sito delle Teche Rai). Tutta gente che oggi meriterebbe a sua volta un’intervista impossibile, avendo a sua volta varcato l’Acheronte, senonché ogni confronto rischierebbe di prefigurare il vilipendio di cadavere – il cadavere del servizio pubblico, s’intende.
Tuttavia l’impavido Quagliano, con l’appoggio della volenterosa Rai5, ha realizzato sei nuove Interviste impossibili molto letterarie: lunedì scorso la prima con Tostoj, poi Proust, Hemingway, London, forse nella speranza di farli amare alle giovani generazioni quasi quanto amano Cracco e Cannavacciuolo. Però la transustanziazione in video è una prova di avventatezza, più che di coraggio. Anche se va di moda trasformare tutto in immagine, per sintonizzarsi con l’aldilà ci vuole la radio – i morti non li vediamo, ma li sentiamo. Invece un Tolstoj in carne, ossa e barbetta parla del suo matrimonio come se fosse da Daria Bignardi, e della sua visione del socialismo come se si fosse collegato con Bianca Berlinguer. Ma lasciamo perdere le nostalgie impossibili; aver rilanciato le interviste impossibili è comunque buona cosa, considerato che di quelle quotidianamente, matematicamente certe non se ne può più. Anche a noi è venuta voglia di intervistare Giacomo Leopardi su questo tema, ed ecco la sua risposta: visto come si comportano i vivi, continuate pure a risvegliare i morti: “Tanto che in fine questo secol di fango o vita agogni e sorga ad atti illustri, o si vergogni”.
La prescrizione unica al mondo
Come accade di frequente in Italia, una pronunzia di prescrizione ha in parte vanificato le attese di giustizia delle vittime e dell’opinione pubblica.
La prescrizione è un istituto in sé ragionevole: se passa troppo tempo cessa l’interesse a ricostruire i fatti, a stabilire torti e ragioni, nel diritto penale a punire (tranne per delitti di estrema gravità che sono imprescrittibili). Nel diritto civile la prescrizione opera però solo fino a quando non inizia un processo, da quel momento cessa di decorrere. Nel processo penale la situazione è diversa e da poco tempo si è cambiata la disciplina.
Nonostante gli strilli sul processo infinito e le richieste di riformare la riforma della prescrizione, l’Italia è uno dei pochi Paesi al mondo ad avere (sarebbe meglio dire ad aver avuto, ma non si sa mai) una prescrizione congegnata in modo irragionevole.
In linea generale tutti i sistemi processuali conoscono la prescrizione, ma di norma è un istituto di diritto processuale, mentre in Italia è di diritto sostanziale, sembra una questione di forma ma non lo è. Le norme processuali si applicano nel testo in vigore al momento della applicazione (tempus regit actum), mentre in diritto penale quelle sostanziali sono retroattive solo a favore del reo. Perciò le modifiche alla prescrizione si applicano e solo se più favorevoli, mentre se di sfavore operano solo per i reati commessi dopo la modifica normativa. Questo spiega perché la legge 9 gennaio 2019, n. 3, che peraltro vale dal 1° gennaio 2020, non poteva operare.
In altri Stati la prescrizione decorre solo fino all’inizio del processo. Per esempio, negli Stati Uniti d’America per felony (cioè quello che noi chiamiamo delitto) la prescrizione è in genere di cinque anni (tranne che per i reati imprescrittibili e salve le differenze fra singoli stati e sistema federale), ma con l’inizio del processo smette di decorrere. In Italia, invece, nel processo penale, la prescrizione continuava a decorrere anche dopo l’inizio del processo.
La Corte di Giustizia dell’Unione europea, con la sentenza 8 settembre 2015, rilevò che il nostro sistema di prescrizione era in contrasto con il diritto comunitario perché impediva l’applicazione di sanzione efficaci, proporzionate e dissuasive in materia di Iva.
La Corte costituzionale segnalò i problemi che quella pronunzia comportava in ragione del nostro diritto nazionale e la Corte di Giustizia tornò sui suoi passi. Ciò non escludeva il rischio che l’Italia fosse sottoposta a procedura di infrazione.
Il criterio di calcolo della prescrizione era semplice: si faceva riferimento a fasce di pena prevista, ma, siccome il sistema penale conosce aggravanti e attenuanti, nel corso del processo se qualche aggravante veniva esclusa o qualche attenuante riconosciuta (soprattutto cambiava il giudizio di comparazione fra le stesse con le attenuanti generiche ritenute prevalenti) improvvisamente la prescrizione si dimezzava.
L’onorevole Edmondo Cirielli, meritoriamente, propose di sterilizzare in parte aggravanti e attenuanti per il computo della prescrizione. La legge 5 dicembre 2005, n. 251 è conosciuta come “ex Cirielli” in quanto, dopo le modifiche nell’iter di approvazione, che di fatto dimezzava i termini di prescrizione, il proponente votò contro e chiese di non chiamarla più col suo nome. Ci fu una strage di processi a carico di colletti bianchi, che se la cavarono con la prescrizione.
Una sentenza di non doversi procedere per essere il reato estinto per prescrizione non è una sentenza di assoluzione, anzi se interviene nei gradi di appello e cassazione, talvolta conferma le statuizioni civili, cioè la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni a favore delle vittime e ultimamente in talune ipotesi la confisca.
Per queste ragioni è stata approvata la legge n. 3 del 2019 che blocca il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Gli oppositori di questa legge sostengono che la prescrizione assicura la ragionevole durata del processo. Se fosse vero i processi imprescrittibili (a esempio quelli relativi a delitti puniti con l’ergastolo) non finirebbero mai.
La realtà è che molte impugnazioni sono proposte per due ragioni: differire l’esecuzione della pena (o, se l’imputato è in custodia cautelare sperare nella decorrenza di tali termini) e confidare nel sopraggiungere della prescrizione.
Infatti, sempre per stare all’esempio degli Stati Uniti d’America, la sentenza di primo grado è esecutiva (come da noi la sentenza civile). In Italia invece l’imputato non è considerato colpevole fino a sentenza definitiva di condanna.
L’organizzazione giudiziaria, nel nostro Paese come altrove, è strutturata in modo piramidale: esistono una Corte Suprema di cassazione, 26 Corti d’appello e 139 Tribunali, oltre ai giudici di pace. Un sistema di questo genere può funzionare solo se un numero limitato di processi passa dal primo al secondo grado e dall’appello alla cassazione, altrimenti si blocca. Non solo, ma troppe impugnazioni riducono il tempo che i giudici possono dedicare a ciascun processo, con scadimento della qualità e maggiori possibilità di errori.
La Corte Suprema di cassazione in Italia definisce quasi novantamila processi l’anno (quasi 60.000 penali e la metà civili); quella francese circa mille; quella federale Usa 80, con il quintuplo della popolazione italiana.
Si potrebbe anche ridurre il numero delle impugnazioni. In Italia ai giudici di appello e di cassazione, su impugnazione del solo imputato non è consentito aumentare la pena. Gli avvocati sostengono che hanno il dovere di tutelare il loro assistito con tutti i mezzi che l’ordinamento prevede ed hanno ragione. Si potrebbe aiutarli copiando dalla Francia, dove il divieto di aumentare la pena non c’è.
Non si dica che si violerebbero i diritti umani: lì hanno inventati i Francesi e in Italia è già consentito aumentare la pena in caso di opposizione al decreto penale di condanna.
La prescrizione è rinunciabile dall’imputato. Quando questi è accusato di reati commessi nell’esercizio di pubbliche funzioni, che secondo l’art. 54 della Costituzione dovrebbero essere svolte con disciplina e onore, non ci si dovrebbe attendere che rinunci alla prescrizione o a tali funzioni? Diversamente non si dovrebbero trarne le conseguenze prendendo le distanze da chi se ne avvale?
A proposito: onore a Mauro Moretti che alla prescrizione ha rinunciato.
La Nato è in declino, ma non così tanto da permettersi il “Bomba” Renzi
È vero che la Nato è un’alleanza in declino, ma non al punto da contemplare la nomina di Matteo Renzi a suo segretario generale. Da qualche settimana, una voce non smentita dall’interessato così motiva l’attacco al governo Conte, sottraendo al suo controllo i Servizi segreti e insediando, attraverso un provvidenziale rimpasto, agli Esteri, alla Difesa e/o agli Interni (delega ai medesimi servizi compresa) personaggi quali Marco Minniti, Roberta Pinotti, Lorenzo Guerini, per non parlare di Boschi, o se medesimo.
Tutto ciò, fingendo di dimenticare, nell’ordine, che Renzi, con Minniti, fu denunciato da Onu e Consiglio d’Europa, nonché dal New York Times, a causa della sua responsabilità per l’invio in Libia dei servizi italiani, da lui dipendenti, allo scopo di trasformare scafisti in gestori di terrificanti campi di concentramento, a cui a Unhcr e Oim è tuttora vietato l’accesso. Che Roberta Pinotti, quale ministra della Difesa, in violazione di limitazioni votate dal Parlamento, s’è distinta nella conferma dell’acquisto di 90 F-35, di nessuna utilità e di dubbia funzionalità, con costi futuri di 15 miliardi e oltre. Che Lorenzo Guerini, attuale ministro della Difesa, come titoli di competenza, oltre ad aver presieduto il Copasir, vanta solo quello d’esser stato sindaco di Lodi. Dei titoli di competenza inerenti alla sicurezza, della Boschi e di Renzi medesimo, il tacer è bello.
La Nato, indebolita dalla caduta del Muro di Berlino, temporaneamente riesumata dall’attacco alle due Torri, è stata protagonista di tre guerre che si stanno concludendo con sconfitte politiche cui l’Italia ha partecipato, in barba all’art. 11 della Costituzione: Iraq, Afghanistan, Libia. Il nuovo presidente Usa, che dipende dalla spesa militare e dal bisogno di nemici credibili (Cina, Russia), non vi potrà rinunciare. Tuttavia ha lanciato un segnale importante a favore di un’Europa più unita, essenziale ai fini della tenuta della democrazia in Occidente, specie dopo quanto avvenuto a Washington. Cosa c’azzecca con tale prospettiva la crisi del governo Conte, che ha costruito le sue principali credenziali a Bruxelles; un premier che, come prevede la legge vigente, aspira a mantenere sotto controllo i Servizi segreti, altrimenti disposti a muoversi secondo finalità proprie, cioè altrui?
Carpiati alla Meloni. Dai fascismi a Donald, difende l’indifendibile
Non si leggeva un così intenso romanzo epistolare dai tempi de I dolori del Giovane Werther (Johann Wolfgang Goethe). Roba vecchia, démodé. Meno male che adesso tutto si ammoderna e si attualizza con il carteggio “Lettere a La Stampa” (Giorgia Meloni), scambio di missive (articolo-risposta, risposta alla risposta, risposta alla risposta alla risposta) tra la segretaria di Fratelli d’Italia e il direttore del quotidiano torinese Massimo Giannini. Lui a dire che quella di Fratelli d’Italia è una destra che andrebbe un po’ ripulita, specie alla luce delle ambiguità sul tentato golpe trumpista, lei a battersi come un leone per negare. Lui a dire che la sora Meloni e il baciatore di salami Salvini giocano a fare gli “sciamani d’Italia” (come quel cretino che ha invaso il Campidoglio Usa vestito come se stesse per recarsi a Pontida), lei indignata per il paragone. Ciliegina sulla torta, un tweet della signora Meloni sui fatti di Washington, così ambiguo, ma così ambiguo, da rasentare la perfezione del paraculismo. Testuale: “Mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump”. Che è un po’ come dire: “Mi auguro che si spenga l’incendio nel bosco come chiesto dal piromane che l’ha appiccato”.
Un carpiato, insomma, succo concentrato di malafede. Che diventa ancor più esilarante quando si ricorda alla Meloni l’assessora umbra Clara Pastorelli, che si fa una foto agghindata come lo sciamano di Capitol Hill. Uh, che reazione: “La signora indossa un cappotto e un colbacco!”, dice la Meloni. Questa è la sua arguta difesa, come ammettere che l’assessora umbra non è riuscita a procurarsi un cappello con le corna e si è adattata, problemi di trovarobato, insomma.
Il carteggio, va detto, è sui fatti americani e alla fin fine si incentra su questa domanda: è possibile che un partito che mira a governare il Paese continui a schierarsi con un (ex, tra poco) presidente americano che incita all’insurrezione, appoggia le milizie filonaziste, blandisce e corteggia certe sette di squinternati pericolosi tipo QAnon, sostiene gente che indossa magliette che inneggiano all’Olocausto? Quesito interessante.
Ma si tratta solo di un pezzettino della questione, perché anche in Italia i dubbi su Fratelli d’Italia sono numerosi. Proprio nei giorni del carteggio, per dirne una, un’altra assessora di FdI (Regione Veneto, assessore all’istruzione, andiamo bene, ndr), Elena Donazzan, intona Faccetta nera ai microfoni della radio di Confindustria, in un programma dove (sentito con queste orecchie) il conduttore riceve telefonate dalle ascoltatrici per capire chi offre di più per fargli un pompino (giuro). Il caso Donazzan si aggiunge ad altre decine, forse centinaia. C’è quello vestito da nazista, quello con la foto del duce, il consigliere comunale che fa il saluto romano, l’attuale “governatore” delle Marche che va a cene celebrative della marcia su Roma, col Puzzone stampato sul menu. La difesa è sempre stata ridicola: si va da “Ragazzate” a “Una mela marcia”, a “Strumentalizzazioni”. Insomma, si minimizza la prevalenza della nostalgia fascista all’interno di un partito che – ricordiamolo a Crosetto e alla sora Meloni – ha nel simbolo la fiamma del Msi, oltre a detenere il poco invidiabile record di arrestati per ’ndrangheta. Ora aspettiamo altre lettere, missive, carteggi e corrispondenze per negare, minimizzare, parlare d’altro o buttare la palla in tribuna. Insomma, nuovi capitoli de I dolori della giovane Giorgia, romanzo epistolare. Un po’ noioso, a dirla tutta.
Libertà di pensiero: serve per le opinioni meno condivise
La Silicon Valley ha consegnato a Donald Trump – presidente uscente e in odore di impeachment, ma pur sempre presidente – il foglio di via: i suoi account Facebook, Instagram e Twitter sono stati sospesi e rimossi. I fatti che stanno dietro a questa epocale decisione sono noti e gravissimi: non è necessario ricordarli né spendere altre parole per condannarli senza appello. Ma qui non vogliamo occuparci delle responsabilità di Donald Trump, né politiche né eventualmente penali. Qui parleremo di libertà. Mark Zuckerberg è stato il primo ad annunciare la sospensione del profilo di Trump da Facebook e da Instagram, spiegando la “misura cautelare” con queste parole: “Il rischio di consentire al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo momento è semplicemente troppo grande”. Due giorni dopo, anche Twitter ha optato per la censura, rimuovendo definitivamente l’account dell’inquilino della Casa Bianca. L’azienda ha stabilito di congelare il profilo di The Donald ravvisando “il rischio che inciti ulteriormente alla violenza”. Trump ha cominciato a usare l’account ufficiale della presidenza, ma Twitter ha rimosso immediatamente i suoi post come, spiegano, accade a chiunque venga escluso dalla piattaforma (non si possono usare altri profili). Trump allora ha provato a trasferirsi su Parler, il social destro, che però è stato rimosso dai server di Apple, Google e Amazon (in contemporanea si è iscritto a Parler anche Matteo Salvini: il tempismo è tutto).
Giusto o sbagliato? Lunedì da Francia e Germania sono arrivate reazioni per certi versi inattese. Angela Merkel ha definito “problematico” il blocco dell’account Twitter del presidente; il ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, ha dichiarato: “Ciò che mi sciocca è che sia Twitter a decidere di chiudere il profilo di Trump. La regolamentazione dei colossi del web non può avvenire attraverso la stessa oligarchia digitale”. Per completezza bisogna dire che nelle stesse ore anche l’account Twitter del quotidiano Libero è stato temporaneamente sospeso per “attività sospette”: non ci è stato ancora possibile però ricostruire l’accaduto.
Tornando alle vicende americane: contrastando la posizione dei leader europei, alcuni commentatori hanno obiettato che i social network sono aziende private e in quanto privati fanno ciò che vogliono. In casa mia faccio entrare – e parlare – chi voglio. Una conclusione un po’ troppo semplicistica e che non tiene conto del fatto che i social network, per diffusione, sono diventati piazze, ancorché virtuali. Dunque luoghi pubblici, dove i diritti fondamentali devono essere garantiti. E se non ci possono essere dubbi sulla censura di attività illegali, quando in ballo ci sono opinioni la cosa, per usare le parole della Cancelliera, si fa più problematica anche senza tirare in ballo le profezie di George Orwell. Ma qui è la politica a essere rimasta indietro, perché non riesce ad arginare i monopoli e a garantire che le libertà vengano tutelate anche sulle piattaforme online, che hanno acquisito, da privati, un potere senza limiti (questo sì che è un gigantesco problema democratico). È stupefacente però che in giro ci sia così tanta voglia di bavaglio. E che quest’arietta censoria negli ambienti cosiddetti progressisti, tolleranti, antifascisti. La libertà di pensiero deve essere garantita soprattutto e senza esitazioni quando esprime posizioni non condivise dalla maggioranza. Altrimenti è troppo facile. Senza dire che le censure, oltre a regalare la patente di martire a chi la subisce, trovano sempre i loro antidoti.
Come si può conquistare il consenso sui vaccini
La fiducia nei vaccini si rafforza rendendo il consenso informato, che ogni cittadino è tenuto a dare, un atto quanto più possibile vicino al significato autentico di queste due parole. Una scelta consapevole richiede che i cittadini siano informati non solo sulle caratteristiche degli unici due vaccini ora disponibili, ma anche su quelli in arrivo. Anche in passato la scelta del giusto vaccino ha presentato notevoli difficoltà che si sono protratte nel tempo ben oltre le fasi di sperimentazione. Per esempio per il vaccino antipolio si sono contrapposti per molto tempo due diversi tipi di vaccino: il vaccino inattivato di Salk e quello a virus attivo ma depotenziato di Sabin.
Entrambi, Sabin e Salk, si rifiutarono di brevettarli, facilitando un vasto confronto su base scientifica e le autorità pubbliche adottarono uno di essi in fasi diverse, indipendentemente da ogni logica commerciale e da ogni divisione geopolitica. Il vaccino inattivato di Salk fu adottato nel 1955 dagli Stati Uniti e da molti altri Paesi. Alcuni drammatici errori di produzione nell’inattivare il virus e una sua limitata efficacia caratterizzarono i primi anni. Alla fine degli anni 50, i Paesi socialisti lo abbandonarono e adottarono il vaccino depotenziato di Sabin. A questi si aggiunsero poi altri Paesi come gli Usa e, prima ancora, l’Italia, che autorizzò il vaccino Sabin nel 1963 e lo rese obbligatorio nel 1966. Ma la scelta cambiò di nuovo. I successivi miglioramenti del vaccino inattivato di Salk e i rischi posti dal virus depotenziato, ma pur sempre attivo di Sabin, hanno fatto sì che dal 2002 il primo sia di nuovo l’unico vaccino somministrato nel nostro Paese contro la polio.
Le scelte da fare nel caso del vaccino per il Covid sono ancora più complesse. Sono stati sperimentati vaccini inattivati come quello di Salk, e vaccini basati su un messaggio mRNA che danno istruzioni alle nostre cellule di produrre un pezzettino innocuo di virus che stimola la reazione di anticorpi e, infine, vaccini a vettore virale in cui il virus somministrato non è più lo stesso virus depotenziato, ma un altro innocuo modificato. A fronte di questa maggiore diversità tecnologica ci troviamo un quadro istituzionale che rende la situazione più complicata e opaca. Le tecnologie più semplici e difficilmente brevettabili, basate sul vaccino inattivato, non hanno raccolto, tranne tardive eccezioni, l’interesse delle multinazionali occidentali. Sono state prevalentemente sviluppate da aziende cinesi, col risultato che la scelta del vaccino è associata a uno scontro geopolitico che non era presente per il vaccino polio nemmeno durante la Guerra fredda. Il risultato è che abbiamo informazioni opache sui vaccini inattivati, nonostante alcuni Paesi ricchi come Abu Dhabi li abbiano adottati con entusiasmo.
Per le piattaforme vaccinali più sofisticate gli Stati nazionali e l’Ue si sono trovati un quadro ben diverso dai tempi di Sabin e Salk, in cui poche multinazionali occidentali hanno il monopolio brevettuale, le capacità di sviluppo e la loro produzione. Le autorità pubbliche hanno fatto a gara per accaparrarsi i vaccini e rinunciato a regolare le sperimentazioni in modo da avere un raffronto trasparente. Pur in presenza di ingenti sussidi pubblici e di sostanziosi preacquisti, i contratti sono secretati, e sembra ormai chiaro che per le sperimentazioni non sono state poste dai regolatori alcune condizioni importanti. Sperimentazioni fatte escludendo i più anziani che sono un obiettivo prioritario di immunizzazione. Non sono poi stati richiesti dati che permettessero di stimare la capacità del vaccino di bloccare la trasmissibilità del virus, nonostante sia una caratteristica importante. Tutti questi dati vanno richiesti o almeno stimati indipendentemente dalle autorità. Troppe rimarranno altrimenti le domande senza risposta.
Perché spingere o obbligare dei giovani dipendenti delle Rsa a fare un vaccino per la salute dei loro assistiti se non si hanno dati sulla effettiva capacità di ridurre la trasmissibilità del virus? Cosa dire a un giovane che volesse vaccinarsi per proteggere i suoi genitori? Cosa dire a persone molto anziane che hanno dubbi sul fatto che il vaccino li porti effettivamente a sviluppare i necessari anticorpi mancando l’evidenza dai test sulla loro categoria? E infine, in assenza di questi dati, come scegliere fra i diversi vaccini e dare un consenso informato?
Porsi queste domande non deve assolutamente rallentare le vaccinazioni. Anche se il vaccino evitasse solo le conseguenze più gravi, spesso letali del virus, la sua distribuzione dovrebbe essere molto veloce. Ma questo non toglie l’obbligo di esibire un corretto consenso informato contenente, quanto prima, anche le risposte alle domande al fine di garantire la libera e consapevole scelta e, quindi, la libertà personale sancita dalla Costituzione.
Anno 2150, finalmente Firenze ha una statua dedicata a Matteo Renzi
Riassunto della puntata precedente: Anno 2150. Alle Giubbe rosse, locale storico di Firenze, il giornalista Palla Pucci ha lanciato l’idea di un monumento a Renzi.
La discussione si protrasse per settimane. Secondo Pucci, il monumento doveva mostrare Renzi a cavallo. “E perché mai?” domandò l’urologo Capponi, dando a Duccio Ricci uno scacco di scoperta. “Come perché?” replicò Pucci. “Chi attraverserebbe la strada per andare a vedere la statua di un uomo a piedi?” “Inoltre, un monumento a cavallo riempie meglio la piazza,” glossò Doffi. “Sarà, ma dai documenti non risulta che Renzi andasse a cavallo”, disse quel comunista del professor Corsini, che ostacolava il progetto in tutti i modi possibili. “E risulta da qualche documento che non ci andasse?” domandò l’avvocato Lamberti, con quel suo stile che in Corte d’assise tramortiva l’avversario. “Scacco matto”, disse Capponi. Dal giorno dopo, in città si cominciò a parlare del monumento a Renzi. Palla Pucci, per indirizzare l’opinione pubblica, scrisse un articolo che era un pezzo di bravura: “Sotto la pioggia e contro il vento, sulle cime e nei burroni, Matteo Renzi andava a passo svelto: il passo degli innovatori. Con lui il cane, il fido Melampo, povero vecchio Melampo, che non sopravvisse al padrone, rifiutò il cibo, e un mattino lo trovarono stecchito sulla sua tomba”. L’articolo incontrò. Qualcuno scrisse sui muri: Viva Renzi! Qualche anziano, intervistato, adesso ricordava benissimo di averlo visto a cavallo. Renzi non andava mai a piedi. Se avesse potuto, sarebbe entrato a cavallo in Parlamento. La giunta approvò il modello della scultrice Assia Magalotti, caldeggiato dal Pucci; ma a sua moglie, che di scultura, abbiate pazienza, non si intendeva, la statua non garbava. “Che Renzi, dall’alto della sua cavalcatura, guardi diritto dinanzi a sé è spiegabile”, ammetteva. “Un politico è come un conquistatore, è come un buttero della Maremma”. Ma quel cavallo che guarda verso il basso non si spiegava. “Si spiega benissimo, invece”, disse il marito, che era l’amante della Magalotti. “Il politico scruta l’avvenire, guidato dalla scienza politica; il cavallo cerca la pimpinella e la maggiorana, guidato dall’istinto: questo è natura, quello è cultura. Bucefalo e Alessandro Magno.” Venne il giorno dell’inaugurazione. Palchi, inviti, stelle filanti, fanfare, spumante, bandiere, autorità. Dopo tre lunghi squilli di chiarine, in piazza della Signoria calò il silenzio. Il sindaco tirò una cordicella che terminava con una nappa dorata, e il lenzuolo che celava l’opera scivolò lungo la statua di Renzi a cavallo, drappeggiandosi sul basamento di granito. Non volava una mosca. “Cari concittadini”, disse il sindaco “inaugurando oggi questo monumento, voglio confessarvi la mia emozione. Mi affacciavo alla vita pubblica, e Matteo Renzi era già sceso da più di un secolo nella tomba. Ma viveva nel ricordo. I vecchi, come rapsodi, si erano trasmessi l’un l’altro le sue gesta, e alcune sue frasi che passarono alla storia, quali: ‘Davanti alla crisi e ai cambiamenti della nostra società, chi si attrezza per tempo continua a vincere!’ ‘Passando dalle elezioni, non passando dagli inciuci di palazzo!’ ‘Se perdo il referendum non è che vado a casa, smetto proprio di fare politica!’ ‘Un fiorentino sopporta tutto. L’importante è evitare, accuratamente, di passare da bischero. Perché se passi da bischero non hai diritto neanche alla compassione che in genere un popolo dotato di umanità come il nostro riserva agli sconfitti. Se te la sei cercata, affari tuoi: sei passato da bischero!’”. E tutta la tribuna delle autorità fu in piedi per unirsi all’applauso roboante della folla. Che simpatica carogna può essere, la folla!