Il premier e tutti i 5S: “Mai più con questi”. Si tratta con B. e FI

Basta assedio, basta attese e forse basta Matteo Renzi. Di buon mattino il capo politico reggente del M5S, Vito Crimi, recapita al fu rottamatore l’ultimo avviso: “Se Renzi si rende colpevole del ritiro dei suoi ministri, con lui e Italia Viva non potrà esserci un altro governo. Esiste un limite a tutto”. E a stretto giro esce Palazzo Chigi: “Se il leader di Iv si assumerà la responsabilità di una crisi di governo in piena pandemia per il presidente del Consiglio sarà impossibile fare un nuovo esecutivo con Iv”. Così hanno deciso Giuseppe Conte e i Cinque Stelle: mettere Renzi di fronte al bivio, sfidandolo a rilanciare o a lasciare il tavolo. E non è casuale che abbia parlato per primo Crimi. Perché il Movimento vuole mostrare di essere compatto. Per questo in mattinata parlano tutte le anime del M5S. Compreso Alessandro Di Battista, che con palazzo Chigi ha da mesi un filo costante e diretto: “Se i renziani dovessero aprire una crisi di governo nessun esponente del M5S dovrebbe mai più sedersi a un tavolo o scambiare una parola con questi meschini politicanti”. Quasi un addio.

Quasi, perché quella di Conte e del Movimento è l’ultima mossa per spingere Iv a chiudere su una trattativa, concreta. “Se Renzi la smettesse di sparare richieste come il ministero dell’Economia si potrebbe ancora trovare il bandolo” sospira un grillino. Fino a sera gli sherpa trattano per un Conte-ter, con un robusto rimpasto e su dimissioni lampo del premier. “Un giorno e poco più, il tempo di varare il nuovo governo”. E infatti all’ora di cena Luigi Di Maio fa trapelare: “Tutti ora devono fare un passo indietro”. Ma la strada è stretta. Anche perché Conte resta quanto mai perplesso dall’ipotesi di dimettersi. Non si fida, e continua a proporre un allargamento della squadra di governo e qualche spostamento nelle caselle.

In questo quadro, si lavora più intensamente alla sostituzione di Iv con i Responsabili. O meglio, “con un nuovo gruppo centrista e moderato”, come lo definisce un grillino. E allora, se Clemente Mastella già annuncia “un’iniziativa” in tal senso, per costruirlo serve comunque un pezzo di Forza Italia. Non a caso, il demiurgo dem Goffredo Bettini lunedì sera ha aperto a FI, “da cui potrebbe venire un sostegno non solo isolato”. Nei piani originari del Pd, FI doveva essere un’altra gamba del governo per diminuire il potere di ricatto di Renzi. Ma ora il quadro può mutare. E gli stessi 5Stelle pensano a un accordo con i forzisti, con le dovute cautele. Ossia, i berlusconiani dovrebbero confluire in un un gruppo con un diverso nome. Ed essere tutti dal passato immacolato. A queste condizioni, potrebbero starci tutte le anime del Movimento. Per dirla come il senatore Emanuele Dessì, “se siamo riusciti a governare sui temi prima con Salvini e poi con Renzi, non dico che possiamo farlo con tutti, ma poco ci manca”. Ma in Senato ci sono i numeri? Al momento no, dicono innanzitutto dal Pd, dove in diversi guardano con ostentata ansia l’operazione. Ufficialmente temono che Renzi dall’opposizione possa togliergli consenso. In realtà, Conte uscirebbe sin troppo forte dalla terza palingenesi in poco più di tre anni da premier. “Ma i numeri si troveranno, finora Conte non si è esposto, ma se serve ci penserà lui” assicurano ambienti a lui vicini. Non solo: nel M5S sono convinti che un pezzo di Iv in Senato possa abbandonare il fu rottamatore. Soprattutto, raccontano che Conte avrebbe incassato altro tempo dal Quirinale, comunque più che scettico sull’operazione Responsabili.

Ovvero, se Renzi dovesse ritirare le ministre, il premier potrà comunque tornare in aula per la votazione sul Recovery Plan e poi per due delicatissimi provvedimenti come il decreto ristori e lo scostamento di bilancio. Tempo una settimana, dovrebbe sottoporsi al voto di fiducia. Giorni preziosi per formare il nuovo gruppo. Mentre la giustificazione formale è già pronta: neanche Iv esisteva al momento del parto del governo giallorosa, proprio come il nuovo gruppo centrista. Il male minore, per evitare quelle urne che nessuno vuole. “D’altronde noi su un premier diverso non reggeremmo” ripetono i grillini. E allora, o Conte o guai seri. Nell’attesa, Palazzo Chigi smentisce le indiscrezioni su un simbolo e un nome depositato da Conte a Roma per un suo movimento, “Insieme”. Troppo presto, forse.

Il soccorso azzurro: 14 o 16 senatori per evitare le urne

Ufficialmente Forza Italia fa da spettatore. Non disponibile a sostenere la maggioranza o un Conte-ter in caso di uscita di Italia Viva. E le parole di Goffredo Bettini (“FI esca dall’ombrello di Salvini e Meloni”) vengono respinte al mittente. “Siamo contrari a qualsiasi inciucio. Stiamo nel centrodestra. E poi di responsabili pro Conte in giro non ne vedo”, sottolinea la capogruppo alla Camera, Mariastella Gelmini.

Sulla stessa linea anche Anna Maria Bernini e Giorgio Mulè. E in serata arriva la nota di Silvio Berlusconi. “Nessun sostegno a Conte, non credo a cambi di maggioranza”, dice l’ex Cavaliere. Gli azzurri, però, sono un universo frastagliato. E nei corridoi del Palazzo, in attesa delle parole di Matteo Renzi, le voci corrono e B. le lascia circolare.

In queste ore non è un mistero che Bettini si sia sentito più volte con Gianni Letta. Il quale tiene informato Berlusconi sul contenuto di queste conversazioni. E B. pare abbia gradito assai le aperture dell’ex europarlamentare. Con un particolare in più. “Berlusconi avrebbe una gran voglia di prendersi la sua rivincita su Salvini, che nel 2018 mollò il centrodestra per governare coi 5Stelle senza fare un plissé. E la vendetta, si sa, è una pietanza che si gusta fredda…”, racconta una fonte forzista.

Berlusconi, dunque, ha lasciato la porta socchiusa e ancora si tratta. Ma per cosa? “Purtroppo FI è imprigionata nel Rosatellum. Se ci fosse il proporzionale sarebbe tutto più facile”, ammette Gianfranco Rotondi. La stampella forzista, secondo alcune fonti, potrebbe concretizzarsi nella regia indiretta per trovare 14-16 senatori “responsabili” nella terra di mezzo del Senato. Poi FI s’impegnerebbe con un soccorso azzurro “ogni volta che serve”. Basterà al Colle? “Alla fine tutto ciò non servirà: questo teatro Renzi l’ha messo in piedi su mandato di un pezzo di Pd e 5Stelle per far fuori il premier. Poi dovranno solo decidere chi mettere a Palazzo Chigi…”, chiosa, sornione, Paolo Romani.

Renzi è come Salvini: fa la crisi, poi finge che sia colpa di Conte

“Conte mi ha mandato a fanculo, evidentemente i voti ce li ha. A questo punto, tolgo il disturbo, me ne vado all’opposizione”. È in Senato Matteo Renzi, mentre aspetta il Cdm che darà il via al Recovery Plan.

Doveva essere la sera della battaglia finale, ma in realtà è a fine mattinata che si capisce dove va il vento.

Dopo aver letto la nota nella quale Palazzo Chigi, poco prima di mezzogiorno, fa sapere che in caso di rottura da parte di Iv, Giuseppe Conte non è disponibile a un nuovo governo con lui, il fu rottamatore arriva alle conclusioni finali. “Ci ho provato, ma non ci sono le condizioni”. Ostenta tranquillità, addirittura soddisfazione: “Questo governo di incapaci può fare a meno di me. E se vogliono qualcuno dei miei senatori, glieli regalo pure. Vediamo che cosa sono in grado di fare”. Ancora: “Farò un’opposizione seria, diversa da quella di Meloni e Salvini”.

Il segnale prova a darlo ieri sera: Teresa Bellanova e Elena Bonetti votano il Recovery Plan. Ma è il loro ultimo atto in Cdm. O almeno dovrebbe. Perché in serata ricominciano a rincorrersi le voci di rottura rimandata. Quel che è certo è che i pontieri sono ancora al lavoro, che cercano ancora di arrivare a una crisi pilotata, a un Conte-ter con dimissioni del premier, che il fu rottamatore potrebbe accettare. Ma le subordinate sono troppe e le posizioni dei due protagonisti fin troppo chiare.

Per oggi pomeriggio è convocata una conferenza stampa in cui l’ex premier spiegherà le sue ragioni: “Ho fatto passare il Recovery come segno di responsabilità, ora voteremo anche lo scostamento di bilancio e il decreto Ristori”. L’uscita di Iv dal governo dovrebbe essere formalizzata a quel punto.

Renzi ha capito che se arrivano abbastanza voti in Senato per rendere i suoi non determinanti, la sua ininfluenza è sancita. E così racconta che è Conte che lo sta spingendo alla porta, che lo vuole cacciare. E che a questo punto non ha altre alternative alla rottura. Un gesto che ancora nasconde l’azzardo: se il premier ha sbagliato i conti, la partita si riapre.

“Io le ritiro”, continuava a dire ieri sera. Dal punto di vista di uno abituato a giocare al rischiatutto sembra l’unica mossa possibile: spinto dal Pd, ha cercato di indebolire il premier. Ma è andato troppo oltre: vagheggiava un altro a Palazzo Chigi, da Dario Franceschini a Mario Draghi, passando per Luigi Di Maio. In questo percorso, è stato lasciato da solo. Poi, ha provato ad abbassare la posta: gli “bastava” l’umiliazione del premier ovvero un Conte-ter, con qualche ministero di peso per i suoi. Si è trovato la strada sbarrata dalla ferma determinazione del presidente del Consiglio a non dimettersi.

Ha capito che le cose si mettevano male, Renzi, quando ha sentito le dichiarazioni di Goffredo Bettini lunedì sera: “Non sono affatto convinto che da Forza Italia possa venire un sostegno soltanto da qualche disperato isolato”. Un’operazione che il Pd stava facendo ormai da giorni: trovare voti azzurri a Palazzo Madama, in maniera da sterilizzare Iv e rendere l’ex premier incapace di nuocere. Averla svelata prima, ha fatto saltare le linee della trattativa. E non a caso, alcuni degli ufficiali di collegamento tra Pd e Iv considerano fallimentare l’intera gestione Bettini dei rapporti tra i due contendenti.

Da ieri, comunque, l’operazione “Forza Italia” non è più aggiuntiva, ma sostitutiva, anche se ufficialmente il Pd sostiene di starne fuori. Per ora. “Questo così ci fa andare a sbattere. Se qualcosa va storto, arriviamo direttamente alle elezioni”, si sfogavano alcuni senatori di Iv. Sarebbero almeno in 7 -8 quelli pronti ad abbandonare il leader.

Intanto il Pd, che ieri era tecnicamente furibondo, cerca di tenere ancora in piedi una trattativa. Una riunione tra Nicola Zingaretti, Andrea Orlando, Dario Franceschini, Graziano Delrio e Andrea Marcucci stabilisce la linea: “No all’apertura della crisi, andare avanti con questo governo”. I big temono il cannoneggiamento di Renzi dall’opposizione. Temono che alla fine anche quello del premier si riveli un azzardo. Temono soprattutto che dietro l’angolo ci sia il governo istituzionale, e poi il voto. Non a caso Orlando ieri la metteva così: “Escludo totalmente il nostro appoggio a un governo di unità nazionale”. “Ricucire” (sempre per citare una metafora del vice segretario dem) a questo punto della storia pare quasi impossibile. Sentire ancora Bettini in serata: “Se c’è la crisi, Renzi si assume una responsabilità grave”. Ancora per qualche ora, soprattutto i governisti proveranno a ricomporre il quadro. Poi tra i dem scatterà la corsa all’esecutivo: per un posto di sottosegretario a Palazzo Chigi sono in corsa sia Orlando che Bettini.

E adesso, pover’uomo?

Non so come sia finita in Consiglio dei ministri e me ne frega il giusto. Ieri, ogni volta che mi mettevo a scrivere, dai laboratori di Italia Virus fuoriusciva una flatulenza opposta a quella di un minuto prima. Prima il ritiro delle ministre-ostaggio Bellanova&Bonetti. Poi il ritiro del ritiro delle ministre. Poi l’annuncio di una conferenza stampa oggi sul ritiro del ritiro del ritiro delle ministre. La gag “Tiritiritu? Tarataratà”, peraltro rubata a Leone Di Lernia, potrebbe anche essere simpatica, se non fossimo in mezzo alla strage più drammatica del dopoguerra (ieri altri 616 morti) e se gli italiani bramassero una bella campagna elettorale anziché una buona campagna vaccinale. Quindi ho smesso di seguire la farsa, un po’ per questioni igieniche, un po’ perché avevo da fare. E ho pensato che ce la saremmo risparmiata se fin dalla prima minaccia (cioè a inizio dicembre) il Pd tutto si fosse associato a M5S e LeU in una dichiarazione ufficiale e solenne: “Caro Matteo, il ritiro delle tue ministre non sarebbe una gran perdita: ce ne faremo una ragione. Ma, dopo, non faremo mai più un governo con te e il tuo partitucolo. Stacci bene”. Invece le quinte colonne renziane che infestano il Pd hanno continuato a usarlo, vezzeggiarlo, legittimarlo, mandarlo avanti a dire ciò che pensavano loro. Intanto facevano uscire sui giornaloni fantomatici rimpasti, nuovi governi, doppi giochi di Di Maio e cedimenti di Conte su tutta la linea. Come se il padrone della legislatura fosse il Pd, che ha perso tutte le elezioni da quando è nato, nel 2018 ha subìto la più cocente sconfitta della sua storia e nel 2019 è tornato al governo e all’onor del mondo per tripla grazia ricevuta: il suicidio di Salvini, l’invito dei 5Stelle, la credibilità di Conte. Poi, aperto il vaso di Pandora, i doppiogiochisti non sono più riusciti a chiuderlo e si sono spaventati.

Per loro fortuna l’Innominabile, noto ai tempi d’oro per portare fortuna a se stesso e sfiga all’Italia, ora porta sfiga a se stesso e fortuna all’Italia. Aveva scommesso sulle riaperture, e ora persino i presidenti di Regione vogliono chiudere. Aveva scommesso sul governo incapace che non riesce a liberare i pescatori in Libia, e non aveva ancora finito di dirlo che erano liberi. Aveva scommesso sulle provocazioni a Conte per fargli saltare i nervi e addossargli la colpa della crisi, e Conte s’è morso la lingua per lasciarlo litigare da solo. Aveva scommesso sulla sponda di Zinga e Di Maio, invece “lo hanno rimasto solo”. Aveva scommesso sul flop dei vaccini, e l’Italia è prima in Europa. Aveva scommesso sulla minaccia di ritirare le ministre, come ai bei tempi su quella di lasciare la politica, e ha scoperto che anche stavolta la minaccia era una speranza.

Viaggio all’“Osteria del palco” per scorpacciate di gastro-musica

Generalmente quando ci si accinge a scrivere una biografia di un artista – che sia un pittore, uno scrittore, un musicista o un attore – si scandagliano vita, morte e miracoli, indugiando sul processo creativo oltreché sul significato delle opere realizzate. Di questi tempi, poi, coi social network sovente utilizzati come vetrine dagli stessi artisti, per i moderni Sherlock Holmes del giornalismo gossipparo sulle tracce delle celebrità del momento, il lavoro è reso ancora più agevole. Ma c’è chi, come la giornalista musicale Francesca Amodio, ispirata dal noto detto del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach, “l’uomo è ciò che mangia”, si è spinta anche più in là in quella che è una vera e propria indagine sulle vite dei 25 musicisti dei quali si è occupata nel suo L’Osteria del Palco – storie gastromusicali di musicisti on the road per i tipi di Polaris. “Un libro – spiega l’autrice – nato innanzitutto per augurare buon compleanno al Mei, lo storico festival delle etichette indipendenti nato a Faenza 25 anni fa, caratterizzato dai valori come lo scambio, la socialità e la passione in un mondo dominato sempre più dalla competizione. Il filo rosso è il sodalizio tra musica, viaggio e gastronomia, tre matrici fondamentali per ciascun artista, che hanno in comune le caratteristiche di pazienza, dedizione e quotidianità”. Già perché una canzone, così come un piatto sofisticato che richiede tempo e cura per essere cucinato al meglio, ha bisogno anch’essa di una gestazione spesso lunga e complessa. E così, Francesca, dopo aver selezionato 25 artisti esponenti del mondo musicale cosiddetto “indipendente” nostrano (tra questi Enrico Rava, Roberto Gatto, Zen Circus, Giulio Casale e Management), e averli intervistati, si è fatta indicare ristoranti, locande e osterie che solitamente consigliano, finendo per creare anche un’utile guida per appassionati di musica, viaggi e soprattutto buon cibo.

“Preferisco un disco ai talent. E Vasco è l’unico inarrivabile”

Molti addetti ai lavori avevano dato per scontato l’assedio di Sfera Ebbasta con il suo nuovo album Famoso ed invece è Persona il disco più venduto del 2020 (dati Fimi): “Contentissimo e poi non me l’aspettavo”, racconta Fabio Bartolo Rizzo, in arte Marracash. Flemmatico, riflessivo, lucido come pochi altri nella scena rap italiana, forse solo Fibra. Ha un tour sold-out – con quattro date al Forum di Milano – rimandato più volte a causa Covid: “C’è un nuovo pubblico che mi segue e anche per me c’è una maturità con la quale fare i conti. Secondo le voci di corridoio, si dovrebbe tornare nei palasport a settembre 2021”. È anche il vincitore morale dell’era rap dello streaming, capace di conquistare il cuore degli adolescenti – che inseriscono la sua Crudelia nelle loro playlist – riuscendo a entrare nel loro immaginario: “Mi piace l’idea che un ragazzino a cui piace Tha Supreme – al quale riconosco un grande talento – ascolti il mio disco, non è scontato”.

Dovresti quasi ringraziarla questa Crudelia per l’ispirazione…

La mia ex relazione era maudit, oscura e malata eppure è stata la scintilla per iniziare l’album. Ringrazio soprattutto me stesso, perché sono riuscito a reagire bene dopo questa esperienza, altri si sarebbero ammazzati.

Passeranno altri tre anni di distanza come per il precedente album?

No, nemmeno un anno, anzi è imminente. È il proseguimento di questo filone d’oro che ho scoperto: la forma-canzone, il “rap maturo”.

Hai citato “Persona”, il film di Ingmar Bergman

La mia seconda passione è il cinema. Vedo una miriade di film, mi interessa il tipo di linguaggio usato dai registi: mi ispira e uso frullare citazioni.

“Scrivere testi è facile, fa brutto viverli”, sei un cantautore?

Faccio fatica a rapportarmi a De André o Guccini perché provengo dal rap. Preferisco Mogol-Battisti perché con loro la forma-canzone prende il sopravvento. Per me l’inarrivabile è Vasco: la sua poesia è semplice e piena di vita, profonda.

La tua opinione sui social è controcorrente.

Dico spesso che Beethoven non avrebbe scritto le sue opere se ci fosse stato YouTube. Il chiacchiericcio incessante in cui tutti giudicano, tarpa le ali e fa tendere tutto verso il basso. Finisce che te la tieni per te l’opinione.

Nell’album parli di fallimento: in un mondo di vincenti parli del contrario.

Il disco insegna ai ragazzi a fallire. Il fallimento fa parte della storia di chiunque, anche dei vincenti, anzi soprattutto. I ragazzini – almeno da quello che vedo – hanno confuso il fine con il mezzo. Avrò quell’orologio e cambierà tutto, la gente mi apprezzerà, scoperò. Glielo darei per un anno l’orologio per far capire che non cambia niente.

La maglietta di Gucci a 500 euro citata in “L’ego”…

Quando sei piccolo vuoi essere accettato. Il pensiero dominante è: devi avere Gucci per esserlo. Non gliene frega un cazzo di Gucci, gli hanno insegnato di fare così per vincere. Conosco genitori che hanno problemi perché questa cosa diventa incontrollabile.

Offri vie di uscita: “il rispetto è la guardia del corpo”.

Quello che propongo come alternativa è sempre idealismo, spero attecchisca. Essere rispettati è una cosa immateriale: ora che il disco è andato benissimo ho un sacco di proposte di reality e sono tanti soldi.

Salmo ha rinunciato a “X Factor” e ha realizzato “Machete Mixtape”…

È quello che farò anch’io. Mi metto a fare musica.


“Il sonno della ragione vota Lega. Salvini se lo contesti o già se lo citi, manda faccina e bacini”. Il rischio è che l’istantanea sia uno snack che si logora…

Come fai oggi a uscire con un album che non menziona quello che sta succedendo? Anche col rischio che poi quello che scrivi diventi vecchio a breve. Spero che il Covid sia l’occasione per ripensare questo materialismo esasperato. I cantautori avevano un contesto alle spalle: quello che loro dicevano influenzava l’elettorato.

Il tuo primo mestiere è stato il perito elettrotecnico.

Non so neanche avvitare una lampadina.

Ti chiamavano marocchino per la pelle scura. E hai scelto Marra nel tuo nome d’arte.

Il mio unico credo è farsi accettare così come si è. Fare in modo che gli altri ti accettino e accettino quello che tu vuoi dalla vita è l’unica vittoria possibile.

Calabria, la mia Africo. “Perduta gente” e pochi libri

Calafrica, Reggio d’Arabia, Calabria Saudita e così via: le storpiature toponomastiche calabresi infiammano l’immagine atavica di una terra dove i rabbini arrivano da tutto il mondo per garantirsi i cedri più belli, ma per gestire la sanità in tempo di pandemia si è pensato al chirurgo di guerra Gino Strada, come se l’Aspromonte fosse l’Hindu Kush dei talebani. Del resto il mito, anche letterario, di questa regione Grande e amara (vedi libro di Leonida Repaci) nasce ad Africo con le cronache di Umberto Zanotti Bianco, calato nel Mezzogiorno degli Anni 20 come un filantropo nel Terzo Mondo.

Nato a Creta da padre diplomatico piemontese e madre inglese, biondo, gentile e colto Zanotti Bianco descrive i bambini scalzi e sporchi, le tombe scoperchiate, le case dove la gente dorme con le bestie, compreso un ormai celebre maiale malarico che trema invece di dare calore, il torrente da attraversare su una trave assassina, il medico che manca perché quello che deve arrivare è un confinato e i fascisti non lo vogliono, un misero pane nero di lenticchie, metafora di una condizione di vita quotidiana rispetto alla quale Cristo si è fermato a Eboli diventa un romanzo rosa.

Il miracolo economico italiano non sarà abbastanza miracoloso per redimere tutto questo, anzi peggiorerà le cose portando una modernità corrotta, senz’anima e senza memoria. Perché Cristo si è fermato a Eboli, ma i democristiani si sono arrangiati senza di lui. Nel ’51 Africo viene travolta da un’alluvione e gli abitanti, dopo un periodo come profughi dispersi, vengono spostati in mezzo al nulla ad “Africo nuovo”, cioè dalla montagna al mare, contro il parere di Zanotti Bianco che voleva ricostruire vicino per non sradicare. Il fascismo è finito, il filantropo anglo-piemontese è diventato senatore a vita, le sue cronache un racconto che dà il titolo alla raccolta Tra la perduta gente (1959). Ma la leggenda nera calafricana diventa sempre più nera: “Gli africoti odiano il mare”… È questo l’incipit di Africo (1979), il libro di Corrado Stajano dedicato alle rinnovate disgrazie, agli anni di piombo in Aspromonte: la gioventù comunista locale spera in Mao e viene presa a fucilate dalla ’ndrangheta, le mani dell’onnipotente Don Giovanni Stilo si allungano su tutto: “Prete, sceriffo, governatore”.

Il parroco porterà Stajano e Giulio Einaudi a processo per diffamazione e anche per questo il libro, assolto dalle accuse dal giudice Elvio Fassone a Torino, diventerà un pezzo fondamentale della militanza intellettuale in Italia, fonte di ispirazione per Gomorra di Saviano e medaglia al petto del giornalista cremonese, oggi novantenne. Il Saggiatore ha ristampato il titolo nel 2015. Einaudi lo ha lasciato andare. La Calabria, afflitta da un esotismo troppo nero per essere letterariamente commerciale come quello siciliano o napoletano, non fa vendere molto in libreria: qui il piombo criminale non si trasforma automaticamente in piombo tipografico.

Uscito mezzo secolo dopo I Malavoglia, Gente d’Aspromonte di Corrado Alvaro è il classico dei classici in materia e il titolo più fortunato. La Calabria non è solo abisso, ma anche una specie di Macondo pastorale, una terra spietata e sensuale, dove pure nei porci predomina il nero, ma sono più saporiti di quelli rosa. Nato a San Luca, paese tra quelli con maggiore concentrazione criminale, vincitore dello Strega nel ’51 con Quasi una vita, Alvaro dedica alla terra natale pagine dure ma anche incantate che un secolo dopo trovano qualche eco in un noir, Anime nere di Gioacchino Criaco, romanzo di formazione criminale. Nelle prime pagine leggi di questo “porco” intorno al quale trafficano i protagonisti, pastori dell’Aspromonte. Porco di qua e poco di là… Finché non capisci che si tratta di un sequestrato. A quel punto cammini dentro le scarpe dei criminali (non ’ndranghetisti) sul sentiero dei briganti e dei nuovi trafficanti di persone e droga. E segui il giovane protagonista tra i banchi di scuola e i bagni nelle pozze segrete, le avventure con le prostitute e le prime imprese criminali.

Anime nere è stato pubblicato nel 2008 da Rubbettino, casa editrice fondata dal figlio di un cantoniere dell’Anas, Rosario Rubbettino negli Anni 70. La stessa che ha ristampato Tra la perduta gente di Zanotti Bianco e ha licenziato il romanzo d’esordio di Mimmo Gangemi, Un anno d’Aspromonte. Criaco – oggi autore Feltrinelli – naturalmente è di Africo. L’anno scorso minimum fax ha dato alle stampe Statale 106, reportage di Antonio Talia, un viaggio sulle strade della ’ndrangheta che culmina nella festa della Madonna di Polsi, dove si incontra ogni anno il gotha mafioso. Copertina nera dove il tacco dello stivale italiano si confonde con una pistola (pure Garibaldi ha rischiato di lasciarci le penne in Aspromonte, cavandosela con la ferita alla gamba).

Con il Coronavirus ci sono più cani e più bisogni in giro

L’osservazione che segue ha valore puramente locale avendola esperita nel mio piccolo territorio di competenza. Non ha quindi la pretesa di essere intesa quale malvizio (mi piace così, attaccato), nazionale e men che meno che possa suonare come predicozzo civile. Tuttavia non mi posso esimermi dal riferire ciò che ho più volte notato girando per viuzze e sentieri del mio paese, massimamente nei giorni contrassegnati dal colore rosso, quando si poteva farlo muniti di autocertificazione, e l’avevo, oppure, tra gli altri motivi, per permettere di fare quattro passi ai cani di proprietà. Appunto, i cani. Non ho potuto fare a meno di constatare un incremento statisticamente rilevante rispetto ai giorni diversamente colorati delle deiezioni canine abbandonate qua e là, come se il rosso della giornata esentasse padrone e padroni dal raccoglierle muniti di guanti e apposito sacchettino. Il problema sta nel fatto che la buona abitudine di togliere dalla strada tali fatte, consolidata ormai nel periodo ante Covid, ha portato la maggior parte di coloro che non possiedono cani a passeggiare con maggiore libertà, magari gli occhi rivolti al cielo o al lago, senza tanto guardare dove nel frattempo il piede, destro o sinistro a scelta, si sta per appoggiare. È la ragione per la quale mi è stato possibile risentire dopo tanti mesi colorate, pure loro, maledizioni rivolte ad anonimi incivili o assistere a equilibrismi nel tentativo di eliminare delle suole l’indesiderata materia (cosa non facile considerata la stagione e il tipo di calzature dotate di suole dette “a carrarmato”). A meno che l’abbandonare tale materia per via non sia nelle intenzioni dei proprietari di cani atto di recuperata inciviltà, ma piuttosto un tentativo di procurare occasioni di buon augurio, visto che di un simile accidente si dice possa essere foriero di fortuna. Io, per quanto mi riguarda, ci sto attento, le fortune che ho già mi bastano. Ma se mi sono accinto a scrivere queste poche righe è per la sola ragione che si è risvegliato in me il coté letterario di quanto detto. E qui casca l’asino, il sottoscritto cioè. Sono certo infatti di aver letto anni fa un racconto di Indro Montanelli che, su e giù, trattava della materia di cui sopra, ma non saprei dire in quale dei suoi molti volumi. Ne sono convinto però, al punto che mi dico pronto a scommetterci. Ma, in caso contrario, sono anche pronto ad ammettere l’errore e pagare dazio.

Scilla, le Ferrovie non vogliono il “pugno chiuso” di Valarioti

Brutte notizie da Scilla, il delizioso borgo sulla riva calabrese dello Stretto di Messina. Chi me ne ha avvertito probabilmente non sapeva che a Scilla ho passato, fra 1950 e 1959, uno dei periodi più intensi e felici della mia vita; e ancora ho negli occhi, viste dalla terrazza di casa, le Eolie schierate all’orizzonte dietro il castello dei principi Ruffo, e Capo Peloro che annuncia la Sicilia. A Scilla non c’era allora la scuola media, né una biblioteca pubblica. Perciò è una buona notizia che ora una biblioteca ci sia, aperta il 7 settembre e gestita da volontari, e che ad ospitarla sia stato destinato, anche se un po’ decentrato, un edificio dismesso della vecchia stazione ferroviaria. A questo punto l’associazione culturale Clemente de Caesaris (Pescara), che ha preso l’iniziativa, ha voluto dare più visibilità e risalto alla biblioteca con un murale dedicato a Giuseppe Valarioti, ucciso dalla ’ndrangheta a Rosarno l’11 giugno 1980. Rosarno è il mio luogo di nascita, e Valarioti l’ho conosciuto di persona: insegnante di storia e filosofia al liceo, era ricco di cultura e di passione civile e si era impegnato nel Pci, contribuendo alla sua vittoria nelle elezioni comunali, ma venne subito dopo colpito a morte. A quarant’anni dal delitto, onorare Valarioti pare a me un’ottima idea. L’artista incaricata, Simona Ponzù Donato, ha approntato un bozzetto dove Valarioti, al centro e con un libro in mano, saluta col pugno chiuso, e il presidente dell’Associazione De Caesaris Andrea D’Emilio lo ha mandato alle Ferrovie, proprietarie dell’edificio, per approvazione. E la brutta notizia viene qui: a quel che pare le Ferrovie hanno negato il permesso per via di quel pugno chiuso, considerato un fastidioso simbolo politico. Niente pugno chiuso, niente murale.

Davvero non credevo che in questo 2021 dipingere un comunista di 40 anni fa, in giacca e cravatta e con in mano i ferri del mestiere (un libro), possa esser ritenuto un gesto sovversivo. In questa Italia post-post comunista, dove i presunti eredi del defunto Pci si lasciano troppo facilmente menare per il naso da chi con la sinistra non c’entra proprio niente, è davvero tanto azzardato ricordare i tempi andati, quando salutare col pugno chiuso poteva voler dire invitare alla solidarietà sociale? Peppe Valarioti, laureato in lettere classiche, sapeva bene che la parola ndrángheta viene dal greco andragathia, che vorrebbe dire più o meno “valore virile”: a tanto si è spinta nei secoli la corruzione dei costumi, che questa estrema traccia della nobile lingua greca che in quelle terre fu parlata dall’antichità al pieno medioevo ha finito per designare la variante locale della mafia. Ma chi fu virilmente valente nel sostenere le ragioni della democrazia, e riuscì perfino a vincere le elezioni, non fu la ndrangheta, fu Valarioti. E fu punito con la morte. Non posso credere che il gesto di quest’uomo puro venga censurato quarant’anni dopo. E davvero spero che le Ferrovie vogliano smentire presto questa notizia imbarazzante, anzi dolorosa.

Salvini fuori tempo: si iscrive a Parler, ma il social è offline

“Ci hanno mollato tutti i fornitori, da quelli dei servizi di messaggi di testo ai provider di posta elettronica, agli avvocati”. John Matze, amministratore delegato di Parler ieri era disperato. Il social network per “la libertà di parola”, fondato da lui e da Rebecah Mercer nel 2018, dopo essere stato scaricato, o meglio, reso non scaricabile da Google e Apple per via “dei messaggi di odio” postati dagli utenti, è stato mollato da Amazon Web Service (Aws), per la stessa ragione, diventando irraggiungibile anche via web. “Faremo del nostro meglio per tornare online prima possibile, ma abbiamo molti problemi perché tutti i fornitori ci dicono che non lavoreranno con noi perché se Apple e Google non approvano, non lo faranno”, ha detto Matze che si è rivolto al giudice federale perché ordini a Parler di reintegrarlo, oltre ad aver fatto causa ad Amazon per violazione dell’antitrust. Pensare che il leader della Lega, Matteo Salvini aveva appena creato il suo account su Parler, nel fine settimana in cui stava diventando difficile per il social attendere a tutte le richieste, visto il trasloco in massa dei follower di Trump. Su Parler i supporter del tycoon già la facevano da padroni: lui stesso l’estate scorsa ai primi segnali di censura da parte di Twitter, consigliato dai suoi, vi era approdato, tra negazionisti, complottisti, antisemiti e razzisti. Una delle star di Parler con 56 milioni di follower è il senatore repubblicano Ted Cruz, che ha guidato l’ultima crociata in Senato per ritardare la certificazione della vittoria Biden. Dopo l’assalto a Capitol Hill, Amazon aveva segnalato alla piattaforma centinaia di post violenti, senza che questo mettesse in agitazione i gestori. Ad agitarsi sono gli utenti: c’è chi giura che non finirà qui.