Secondo il College of Physicians di Philadelphia, il tempo necessario allo sviluppo di un vaccino va dai 10 ai 15 anni perché richiede la decifrazione del genoma del virus, lo sviluppo del farmaco e tre fasi di test clinici. Ma, in occasione di questa pandemia, le cose sono andate diversamente.
Il 9 gennaio 2020 il governo cinese ha riferito che era stato identificato il virus responsabile della Covid-19 e il 12 gennaio ne rendeva disponibile la sequenza genetica. Agli inizi di giugno circa 170 gruppi di ricerca erano scattati nella gara all’invenzione del vaccino; a fine luglio già 26 vaccini erano candidati alla sperimentazione sugli esseri umani; a fine ottobre oltre 200 vaccini erano in fase di sviluppo. Il 9 novembre il gruppo Pfizer-Biontech ha annunziato che il suo vaccino era pronto e l’8 dicembre la sua prima dose è stata somministrata nel Regno Unito. Il 17 dicembre gli Stati Uniti hanno approvato il vaccino dell’azienda Moderna. Dunque, per creare l’antivirus sono bastati più o meno gli stessi mesi che occorrono per mettere al mondo un bambino.
Parlando a Rai3, il farmacologo Silvio Garattini ha spiegato che questo miracolo è dovuto almeno a tre fattori concomitanti. Il primo consiste non solo nella tempestività con cui si è agito ma anche nella modalità con cui si è cercata la soluzione: mai prima d’ora era stato creato un vaccino con la tecnologia Rna, per cui è stato possibile modificarlo con un processo più rapido, senza bisogno di effettuare grandi test e senza il pericolo di interagire poi con il nostro Dna.
Il secondo fattore, che ha consentito di realizzare in pochi mesi ciò che di solito richiede molti anni, consiste nelle risorse economiche di cui hanno potuto disporre i ricercatori. Se le imprese farmaceutiche avessero dovuto contare solo sui propri capitali, si sarebbero comportate in modo molto più prudente; avere a disposizione enormi finanziamenti pubblici le ha incentivate a tagliare i tempi. Ad esempio, hanno cominciato a produrre le dosi del vaccino prima ancora che si testasse definitivamente. Se i test fossero risultati negativi, si sarebbero gettate tutte le scorte accumulate, ma se fossero risultati positivi (come poi è stato) si sarebbero avute, con enorme anticipo, milioni di dosi già pronte per essere somministrate. Il terzo fattore consiste nell’eliminazione o nello snellimento di molti passaggi burocratici.
Il processo di creatività collettiva che si è squadernato sotto i nostri occhi in questi mesi ha superato per ampiezza e costi la corsa alla produzione della bomba atomica organizzata a Los Alamos nel secolo scorso, quando il progetto Manhattan coinvolse per sette anni nove università e numerosi altri laboratori americani. E ha superato persino il “Progetto Genoma” per la mappatura del Dna.
Ogni singola azienda e ogni singolo gruppo ha operato per proprio conto, in gran segreto come gli scienziati atomici a Los Alamos. Invece gli Istituti superiori di sanità e i governi dei vari Paesi – soprattutto quelli europei – si sono tenuti in contatto permanente tra loro, come avevano fatto i laboratori del “Progetto Genoma”. Dunque l’egoismo e l’agonismo economico delle singole aziende hanno soddisfatto il vecchio liberismo di Adam Smith; il lauto finanziamento pubblico ha soddisfatto l’interventismo di Roosevelt e di Keynes; la paura del virus globalizzato, che ha contagiato democraticamente tanto Johnson e Macron quanto l’ultimo degli inglesi e dei francesi, ha fatto il resto.
La rapida creazione dell’antivirus ci ha fornito anche un’utile occasione per comprendere come procede la scienza nel suo sviluppo incessante. I primi epistemologi che se ne occuparono (Locke, Berkeley, Hume, Kant, Russell) erano convinti che il progresso scientifico dipendesse esclusivamente dalle straordinarie capacità induttive di singoli scienziati geniali come Galileo o Newton. Altri epistemologi (Popper, Lakatos, Kuhn) hanno avanzato l’ipotesi che il progresso dipende dai paradigmi elaborati e condivisi dalle comunità scientifiche.
Ma quanto è avvenuto in questi mesi tira in ballo altri epistemologi, secondo i quali la scienza progredisce senza alcun metodo, in base al caso e alle occasioni (Fayerabend), e altri ancora (Lakatos soprattutto) secondo cui progredisce in base ai programmi dei governi o delle grandi imprese che decidono quali programmi finanziare e quali no. Ad esempio Pfizer eBiontech, già esperte nel trattamento dell’Rna, di fronte all’occasione della pandemia hanno capito che questo era il loro momento e hanno immediatamente dirottato sul progetto Covid-19 più di 1.200 ricercatori.
In materia di Intelligenza Artificiale, l’Human Brain Project della Ibm vi sta investendo somme iperboliche impegnando per dieci anni oltre 10.000 addetti. Per obiettivi analoghi la Huawei sta impiegando 80.000 ricercatori con un investimento di 20 miliardi di dollari l’anno. Con programmi così mastodontici e mirati come può non progredire la scienza in questo campo? L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che i vaccini salvino ogni anno tra i 2 e i 3 milioni di persone ma che, se tutti nel mondo avessero uguale accesso alle vaccinazioni, si potrebbe salvare un altro milione di individui. Il fatto è che gli scienziati lavorano per i programmi che interessano chi li paga.
Dunque la rapidità con cui è stato messo a punto il vaccino anti-virus è funzione di almeno otto fattori. Anzi tutto la genialità delle migliaia di scienziati che hanno condotto le ricerche, tra cui spiccano la biochimica ungherese Katalin Karikó, vicepresidente della Biontech e la tedesca Kathrin Jansen, senior vicepresidente della Pfizer. Va notato, per inciso, che durante tutti questi mesi la Jansen ha diretto l’intera operazione lavorando in smart working.
Altri fattori determinanti sono stati l’occasione del tutto casuale, fornita dall’improvvisa esplosione della pandemia; l’immediato stanziamento di grandi finanziamenti pubblici convogliati sulla ricerca dell’anti-virus; lo scatto concorrenziale delle aziende più veloci nell’afferrare un’occasione di business senza precedenti (quella che Hirshman chiamerebbe hability to invest); il know how manageriale sfoderato dalle aziende migliori nel pianificare il loro processo creativo (quella che Hirshman chiamerebbe capacity to invest); la competitività tra decine di aziende agguerrite e soprattutto tra Pfizer-Biontech e Moderna; la potente e sofisticata strumentazione tecnologica oggi disponibile; il pungolo implacabile con cui i media hanno incalzato governi, aziende e ricercatori, trasformando la ricerca dell’anti-virus in una ricca caccia al tesoro tra aziende e tra nazioni.