Il Mali manda via i francesi, ma il Niger gli apre le porte

“Il cuore di questa operazione non sarà più in Mali, ma in Niger”, ha detto Macron annunciando giovedì la fine della missione militare Barkhane lanciata nove anni fa nella ex colonia francese per combattere i terroristi nel Sahel. Un ritiro che coinvolge anche la task force europea Takuba, avviata appena un anno fa, circa 800 uomini, di cui 200 italiani. E mentre Bamako chiude le porte a Parigi, chiedendole anzi di smobilitare “immediatamente” i suoi militari, Niamey gliele spalanca. “L’obiettivo è che la nostra frontiera col Mali sia messa al sicuro”, ha confermato ieri Mohamed Bazoum, presidente del Niger, su Twitter. A Niamey si trova già la principale base militare aerea di Barkhane. Bazoum metterà a disposizione “nuove basi” alla frontiera con il Mali: “Accoglieranno soprattutto Takuba, cosa che ha per noi molti vantaggi – ha scritto il presidente nigeriano –. Queste forze speciali hanno la capacità di rispondere alla minaccia delle organizzazioni terroriste”. La Francia è impegnata nella regione delle “tre frontiere”, tra Mali, Niger e Burkina Faso, con Barkhane, un contingente di circa 4.600 uomini, dal 2013. Un’operazione lanciata da François Hollande per combattere la minaccia terrorista nella regione, con il benestare dell’ex presidente del Mali Dioncounda Traoré.

Lo scorso luglio Parigi aveva annunciato un parziale ritiro delle sue truppe e l’arrivo nella regione degli alleati europei di Takuba. Ma l’esacerbarsi dei rapporti con la giunta militare al potere dal duplice golpe guidato da Assim Goïta, culminato con l’arrivo sul posto dei mercenari russi della Wagner e la cacciata dell’ambasciatore francese, ha precipitato gli eventi: Parigi si dà sei mesi per ritirare i suoi 2.400 soldati dalle basi di Gao, Menaka e Gossi. I militari gli intimano di farlo “senza perdere tempo”. Ma Barkhane è davvero finita? Anche se lascia il Mali, Macron ha affermato che il Sahel resta una priorità strategica per la Francia, e di conseguenza per gli alleati europei. Con la giunta di Goïta aggrappata al potere in Mali, e il colpo di stato di gennaio in Burkina Faso, che ha rovesciato il presidente Kaboré, il Niger appare ora il solo alleato possibile. “Il Niger ha il vantaggio di essere un governo presentabile per la Francia”, ha spiegato a France24 Vincent Brisset, specialista nelle questioni di difesa all’Iris, l’Istituto di relazioni internazionali e strategiche. In un paese segnato storicamente da colpi di stato, Bazoum, 61 anni, è arrivato al potere il 23 febbraio 2021 al termine di regolari elezioni. Il Niger è uno dei paesi più poveri del mondo. Negli ultimi anni gli attacchi dei gruppi jihadisti al-Qaeda nel Maghreb Islamico e Eigs, lo Stato Islamico del Gran Sahara, si sono moltiplicati. Centinaia di civili sono morti nel 2021. In un rapporto del settembre 2021, Amnesty scriveva che sempre più bambini sono vittime dei conflitti nella regione di Tillaberi, in Niger, o vengono reclutati dai gruppi armati. Bazoum prevede che dopo il ritiro di Barkhane e Takuba dal Mali “questa zona sarà ancora più infestata e che i gruppi terroristici si rafforzeranno”. A Parigi preoccupa la regione che dal Mali scende verso il sud e il Golfo di Guinea, “diventata una priorità nelle strategie di espansione di Al-Qaida e dell’Isis”. I rapporti tra i due paesi appaiono buoni. Nel luglio 2021, quando Parigi e i membri del G5 Sahel si erano riuniti in videoconferenza per discutere la strategia francese nella regione, Bazoum era stato il solo capo di Stato africano ad essere accolto all’Eliseo. La ministra della Difesa, Florence Parly, era già stata in Niger a febbraio per “discutere delle modalità di evoluzione del dispositivo Barkhane”. Ma il sentimento anti-francese avanza anche in Niger: “La posizione di Bazoum, considerato ora l’alleato privilegiato di Parigi – dice Brisset –, è molto delicata nel contesto attuale, perché i jihadisti potrebbero fargli pagare il suo impegno con Parigi”.

Venti di guerra. Donbass, via i civili, Putin oggi avvia nuove esercitazioni

Il Cremlino denuncia un “deterioramento” della situazione nel Donbass, la regione nell’est dell’Ucraina abitata da russofoni, dov’è in atto dal 2014 una secessione da Kiev. Le lancette della crisi tornano ad avvicinarsi alla mezzanotte della guerra, nonostante la Russia annunci ulteriori ritiri: carri armati e un treno militare carico di personale e attrezzature dal confine ucraino, bombardieri dalla Crimea. Ma nel contempo Mosca progetta per oggi esercitazioni nucleari. I leader dei separatisti del Donbass ordinano l’evacuazione in Russia dei civili – “mossa cinica” per Washington – e chiedono agli uomini di prendere le armi: un’autobomba esplode a Donetsk e si contano 30 bombardamenti ucraini in un solo giorno, con l’arrivo di mercenari da Kosovo e Albania. Kiev, invece, accusa i filorussi di “60 violazioni del cessate il fuoco in 24 ore”. Per gli Usa, Mosca ha fino a 190.000 militari “dentro e vicino” all’Ucraina, molti di più dei 100 mila stimati a fine gennaio. Biden consulta i leader Ue e Nato, il Vertice Ue discute di sanzioni, i ministri della Difesa russo e Usa si telefonano; oggi ci sarà un G7 Esteri, la prossima settimana si vedranno Blinken e Lavrov, che dice: “Non bastano le promesse”. C’è pure una guerra diplomatica, dopo l’espulsione, giovedì, del numero 2 dell’ambasciata Usa a Mosca.

Monaco, quant’è chic parlare di sicurezza e soprattutto di affari

Fino a domenica, 500 tra capi di Stato, diplomatici e lobbisti saranno riuniti all’Hotel Bayerischer Hof dove si svolge la Conferenza di Monaco sulla Sicurezza (Msc): un summit extra-lusso di politica estera. Ospite d’onore, la vicepresidente statunitense Kamala Harris, che incontrerà il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Saranno presenti 35 capi di Stato e più di 100 ministri. Assente, ma sulla bocca di tutti, la delegazione russa. Vladimir Putin ha definito Msc troppo orientata all’Occidente. L’edizione dello scorso anno, completamente telematica, aveva come oratori Joe Biden, Angela Merkel, Boris Johnson ed Emmanuel Macron. A orchestrare tutto c’era, e c’è, Wolfgang Ischinger, 75 anni, diplomatico tedesco. Ed è su di lui che si sta concentrando l’attenzione. Ischinger guida la Conferenza dal 2008 e ha trasformato quella che era una riunione di esperti in quella che il sito di analisi Politico.eu ha definito una ‘Davos con le pistole’.

Con aziende private che gareggiano a colpi di finanziamenti milionari per ottenere pass di accesso all’hotel e incontri privati con ministri e diplomatici. Nel 1963, una settimana dopo l’assassinio di Kennedy, Henry Kissinger ed Helmut Schmidt si videro a Monaco in un incontro organizzato da Ewald-Heinrich von Kleist, un aristocratico tedesco che aveva preso parte alla fallita cospirazione per assassinare Hitler nel 1944. Negli anni la conferenza ha cambiato nome e formato. Ma non ha mai smesso di attirare gli uomini di potere. Non si parla di economia come sulle montagne svizzere, ma si tracciano le linee della geopolitica mondiale. In questo albergo, nel 2007, Vladimir Putin fece un duro discorso contro gli Stati Uniti accusandoli di ‘uso quasi illimitato della forza nelle relazioni internazionali’. Per molti analisti fu il primo passo verso l’annessione della Crimea nel 2014 e all’attuale crisi ai confini ucraini. L’anno successivo Merkel scelse Wolfgang Ischinger come nuovo presidente della Msc. La Conferenza è un ente non profit e indipendente che nel 2008 era finanziato quasi completamente dal governo federale. Ischinger aveva raggiunto l’apice della carriera diplomatica con la nomina ad ambasciatore negli Stati Uniti, inizio incarico 11 settembre 2001.

Pochi anni dopo divenne il rappresentante della diplomazia tedesca nel Regno Unito. Quando prese in mano Msc decise di imprimere un forte cambiamento. Nel 2020 la Conferenza ha avuto un finanziamento federale per circa il 15% delle spese e il volume di donazioni è cresciuto fino a superare i 10 milioni di euro. L’ex ambasciatore siede oggi in oltre dieci consigli di amministrazione di enti senza scopo di lucro, ma ha anche avuto un ruolo di prestigio all’interno della compagnia di assicurazione Allianz. Nel 2015, dopo aver lasciato Allianz, ha fondato un’agenzia di consulenza: Agora Strategy Group. L’azienda ha firmato contratti co: Allianz, Ey (il colosso della contabilità) e poi Hensoldt, appaltatore tedesco della difesa e Investcorp, fondo d’investimento internazionale. Tutte queste società hanno un’altra cosa in comune, oltre a essere clienti di Agora, finanziano Msc. La forza dell’ex ambasciatore è nel diritto di scegliere chi può partecipare alla Conferenza di Monaco. Secondo lo statuto di Msc, “il presidente estende gli inviti a partecipanti e osservatori”, tutti gli invitati sono ‘ospiti personali del presidente’. Quindi un’azienda con una donazione, detraibile ai fini fiscali, può inviare i suoi manager in un hotel dove per tre giorni vivono i capi della diplomazia mondiale. Nei suoi 14 anni alla guida di Msc, Ischinger ha aggiunto all’evento principale una serie di incontri distribuiti per tutto l’anno. Si tratta di riunioni più piccole, tutte in località extra-lusso. Il metodo è sempre lo stesso: aziende private pagano e presenziano a incontri tra politici e diplomatici. Il piatto forte non sono le riunioni formali. Dall’anno prossimo Msc avrà un nuovo presidente: Christoph Heusgen. Anche lui è un diplomatico ed ex ambasciatore. Ma poco cambia. Ischinger nel 2018 ha trasformato l’azienda che organizza Msc in una fondazione di cui è diventato presidente. Quindi non sarà più lui a gestire la Conferenza, ci penserà Heusgen, ma toccherà alla fondazione prendere le decisioni sul futuro di Msc.

MailBox

 

Sul Pass gli obblighi sfociano nel paradossale

Siamo davvero alla follia: che senso ha l’obbligo di Super green pass per chi fa smart working? Sarebbe come chiedere a un muto di non parlare mai inglese.

Albertina Lodi

Totalmente d’accordo. Peggio di chi sbaglia c’è solo chi persevera.

M. Trav.

 

Mani Pulite: ma quante pippe sul finanziamento

Spero che l’analisi di Angelo Panebianco al Tg1, riguardo il trentennale di Mani Pulite, non ve la siate persa. Inizia così: “La causa va ricercata nella fine della Guerra fredda” e via con un pippone sulla “ipocrisia dei partiti che non volevano ammettere che la politica costava”. Bene: ora i ladri dei soldi pubblici vanno definiti ipocriti!

Giovanni Frulloni

Caro Giovanni, quel signore ignora che i partiti prendevano il finanziamento pubblico e potevano ricevere finanziamenti da privati purché fossero dichiarati. Se non li dichiaravano era perché quelli non erano finanziamenti, ma tangenti.

M. Trav.

 

Certa informazione ha lobotomizzato la gente

Travaglio e Padellaro hanno scritto di Mano Pulite e della forza dirompente che ha avuto all’epoca dei fatti, scardinando quello che risultava essere un sistema politico-finanziario in stato embrionale. In pratica un preludio alle consuetudini di oggi. Di questo dobbiamo ringraziare il nostro mancato presidente della Repubblica (B.) e le sue leggi ad personam, avallate da un po’ tutti i partiti. Quello che mi spaventa di più, in questo momento storico, è il fatto che se dovessimo andare a votare ora sarebbe una ecatombe: la gente ormai è talmente stanca o lobotomizzata per tutte le immagini negative addossate soprattutto ai magistrati onesti, al M5S e a un giornalismo ancora sano. Questi, infatti, si avvieranno alle urne in fila indiana con gli occhi sbarrati fissi nel vuoto, dritti a votare il solito imbonitore che spara merda per coprirne altra. Penso che il nostro giornale venga letto da una fascia di età che va dai 40 anni in su, mentre la parte più giovane o non compra il quotidiano o si informa su internet, leggendo i titoli con più like senza però approfondire. Manca la memoria, e non solo per questi avvenimenti. Dobbiamo rimetterci a quel 41% di persone che non rispondono ai sondaggi politici: ma saranno guardie o ladri?

Gianni dal Corso

Caro Gianni, per fortuna abbiamo anche molti lettori giovanissimi!

M. Trav.

 

C’è ancora il giornalismo sano: non tutto è perduto

Il lettore Andrea Castagnini mi è sembrato un po’ pessimista per varie ragioni. La prima riguarda il numero di pagine del nostro giornale, che non sono solo quattro, ma è anche un parametro fuorviante: non conta la fogliazione, ma quello che c’è scritto. Inoltre si trascura che molti di voi del Fatto sono presenti in diverse trasmissioni televisive (quasi sempre private, come La7); poi non si possono trascurare le presenze all’esordio del Conticidio di Travaglio l’altra sera al Parco della Musica. Io nel mio piccolo cerco di diffondere il verbo con gli amici e i conoscenti, e così dovrebbero fare tutti coloro che si riconoscono nel taglio editoriale del Fatto (che non sono pochi). L’altra sera, allo spettacolo di Travaglio, accanto a me c’era una signora con la figlia, che avrà avuto sì e no 13 anni, che mi è parsa molto attenta. Questa non è una cosa di poco conto, però le sue risate spontanee insieme a quelle della sala mi sono sembrate indice di un feeling consolidato: un seme che sta germogliando.

Delfino Biscotti

 

Quanto ci sono costati i disastri ambientali

Le catastrofi ambientali accadute nell’ultimo anno sono costate circa 350 miliardi di dollari. I costi continuano ad aumentare e solo una piccola parte dei danni era coperta da assicurazioni: mancando investimenti sulla prevenzione, la situazione non potrà che peggiorare.

Gabriele Salini

Quanti morti per Covid. “Una media con il passato?” “No, non è così facile”

 

Buongiorno, ma a nessuno è venuto in mente di confrontare le morti medie mensili registrate negli ultimi due anni, caratterizzati dalla pandemia, con quelle delle due o tre annate precedenti?

Eppure un simile confronto sarebbe in grado di evidenziare bene l’incremento dei decessi dovuti effettivamente al Covid-19. Occorre infatti considerare che senza il Covid, in Italia si registrano mediamente 60 mila morti al mese. I circa 400 decessi al giorno attribuiti in certi periodi alla pandemia significano 12 mila morti al mese, un buon 20% in più del solito, che un semplice grafico a barre sarebbe in grado di evidenziare chiaramente.

Se da un simile grafico risultasse invece un incremento mensile inferiore al 20%, da questo si potrebbe calcolare, sia pure con una certa approssimazione quante di quelle circa 400 morti al giorno si sarebbero comunque verificate, Covid o non Covid.

Morti che quindi potrebbero a ragione essere classificate come morti con Covid e non per Covid. Il ragionamento mi sembra valido.

Bernardino De Sanctis

 

Gentile signor Bernardino, le dico subito che è venuto in mente a tanti, anche ai medici, di fare un confronto tra i decessi che si sono verificati nel 2020 e nel 2021 e la media registrata nei cinque anni precedenti, utilizzando i dati Istat. Cosa che dimostra come sulle morti provocate dalla pandemia ci siano ancora punti oscuri.

Il Fatto se ne è occupato il 27 gennaio scorso, in occasione della pubblicazione del report sui decessi dell’Istituto superiore di sanità, mettendo in fila tutto ciò che ancora non sappiamo. Sappiamo che non si muore solo nelle terapie intensive ma anche nelle aree mediche. E sappiamo che si muore persino di fuori da un ospedale.

Ma dove esattamente non viene chiarito. Nei Pronto soccorso? Nelle case di riposo? Non sappiamo quanti muoiono a causa dell’infezione e quanti semplicemente con il Covid: sono cioè positivi al virus ma hanno altre gravi patologie che li portano alla morte. Una domanda che si è fatto anche l’immunologo Guido Silvestri: “E’ importante chiedersi quanti dei morti comunicati nei bollettini giornalieri siano effettivamente per questa infezione e non semplicemente con essa”.

Del resto, come spiegano gli stessi medici, se una persona ha gravi malattie non è facile stabilire se il Covid-19 è la causa diretta del decesso, perché per verificarlo servirebbe una analisi che è quasi da medicina legale.

Natascia Ronchetti

Si sono dimenticati degli “angeli”

Gli angeli,creature sublimi che ci proteggono durante il cammino terreno, come sostiene la religione cattolica, pare siano anime di persone che si sono distinte, in vita, per particolari generosi sacrifici e sono, per la maggior parte, in attesa di assurgere a livelli di riconosciuta santità. Molti di loro (pare) restino in uno stato di beatitudine, invisibili a tutti e, spesso dimenticati dagli uomini. Nel 2020, anche le nostre istituzioni hanno definito “angeli” i sanitari che han combattuto la pandemia ma, proprio perché angeli, sono (siamo) caduti nell’oblio. Nessuno tiene in considerazione che tali decessi, per la maggior parte, siano avvenuti perché i generosi colleghi e colleghe non hanno avuto i dovuti mezzi per proteggersi, né l’adeguato addestramento per stare accanto a un paziente infettivo.

Di quante responsabilità non si parla più! L’origine di molti drammatici aspetti dell’evolversi della pandemia, sono dovuti alla mancanza di un piano pandemico aggiornato, alla totale assenza di approvvigionamento di presidi medici per la protezione personale, all’inesistente aggiornamento di tutti i sanitari che si sono trovati a fare gli “infettivologi” pur provenendo da discipline completamente diverse. Non dobbiamo dimenticare che abbiamo regalato le mascherine alla Cina per ricomprarle frettolosamente dalla stessa, che ce le ha fornite inadeguate, perdendo denaro e tempo. Non dobbiamo dimenticare che il panico e l’assenza di preparazione, ha fatto scappare i medici di medicina di base, lasciando la popolazione nella paura. Fra i medici deceduti ci sono anche molti che erano già andati in pensione e che sono generosamente tornati al lavoro. Il portale FNOMCeO (Federazione degli Ordini dei Medici d’Italia) riporta il triste elenco dei medici deceduti sul lavoro, per Covid. Sono a oggi, 369. A questi vanno sommati almeno altrettanti infermieri. Ma gli angeli spariscono e sono stati cancellati tutti i deceduti dalla memoria dei nostri rappresentanti istituzionali. Il governo ha stabilito un “ristoro” per le famiglie dei sanitari deceduti per Covid. Ma le colpe chi le pagherà?

 

L’ira di Mario o il momento Kunt

Ieri, sui giornali e nei salotti tv, era il giorno dell’incazzatura di Mario Draghi contro la sua maggioranza che vota contro il parere del governo: “L’ira di Draghi” (Repubblica), la sua “strigliata ai partiti” (CorSera); un Draghi “mai visto così infuriato” (Stampa), che dice a Mattarella “Così non si può andare avanti” (Messaggero) con annessa minaccia di addio (“se volete perder tempo trovatevi un altro”), anche declinata come “rischio di voto anticipato” o di “perdere i soldi del Pnrr”. Qui, però, il problema non è tanto il fatto che il presidente del Consiglio chieda lealtà alla sua maggioranza (anche se, va ricordato, quella è una strada a doppio senso), né che – in coerenza con un andazzo che dura da decenni – consideri il Parlamento un luogo di ratifica di decisioni prese altrove e i rappresentanti del popolo degli scolaretti da tener buoni o al massimo minacciare col taglio della paghetta. No, c’è qualcosa di più profondo, meno razionale, che si agita sotto quest’incazzatura omerica e le cronache che, tra brividi di eccitazione e paura, la magnificano: non pare anche lei, ipocrita lettore, che siamo già al “momento Kunt” del nuovo Unto dei Signori? S’intende proprio il marziano Kunt, quello di Un marziano a Roma di Flaiano: atterrato in ottobre a Villa Borghese e presto divenuto una sorta di messia, oggetto di appassionate sviolinate giornalistiche, di altissimi dibattiti intellettuali e finanche di progetti cinematografici (“il marziano ha accettato di fare una particina di marziano in un film che sarebbe diretto da Roberto Rossellini”), già a gennaio il povero Kunt rimane però vittima della feroce volubilità della Capitale fino al terribile momento in cui i fotografi iniziano a invitarlo a levarsi da davanti all’obiettivo (“A’ marzià, te scanzi?”). Draghi non è certo a questo punto: è ancora vergine, se non di servo encomio, almeno di codardo oltraggio, ma la sua parabola di marziano a Roma comincia a definirsi. È febbraio, bollirà ancora per mesi e anche per lui arriverà gennaio. Nel suo Taccuino del marziano lo stesso Flaiano annotava che “Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso”. Abbiamo il timore che l’irato extraterrestre di Palazzo Chigi sia stato ormai compreso da tutti: “A’ Mario, te scanzi?”.

La libertà d’opinione e di critica vale anche per i social network

“La democrazia deve essere il regime della verità, nel senso della piena possibilità della conoscenza dei fatti da parte di tutti”

(da Il diritto di avere diritti di Stefano Rodotà Laterza, 2012 – pag. 224)

 

Avete mangiato male o pagato troppo in un ristorante? Vi hanno servito il caffè o il cappuccino in una tazza sporca? Non siete stati accolti bene in albergo e vi hanno assegnato una stanza di categoria inferiore a quella prenotata? Insomma, siete insoddisfatti delle prestazioni ricevute da un esercizio commerciale e volete comunicarlo coram populo? Potete dirlo liberamente anche ai vostri follower su un social network, a condizione di non insultare e offendere nessuno.

Con una recente sentenza del giudice Giacomo Oberto (n. 186/2022), il Tribunale di Torino ha stabilito che in questi casi non si commette il reato di diffamazione. A suo parere, le recensioni negative pubblicate sui social svolgono “una fondamentale funzione economica, perché evitano pubblicità ingannevoli e danni ad altri clienti”. Se le critiche vengono espresse con un linguaggio corretto e non offensivo, sono un’“opera sicuramente meritoria”. E, aggiungiamo noi, possono funzionare da deterrente, prevenendo “pratiche commerciali scorrette” come dice la normativa antitrust.

La causa in questione è stata promossa da una richiesta di risarcimento danni di 150mila euro, presentata da una concessionaria di auto e moto che aveva citato in giudizio l’amministratore di una pagina Facebook e la relativa community, dedicate alla compravendita di veicoli usati. In un post divenuto virale, un cliente aveva raccontato di essersi accorto dopo l’acquisto che l’auto era sinistrata e di aver inviato diverse email di reclamo al venditore senza ottenere alcun risultato. L’amplificazione della rete aveva prodotto cinquecento condivisioni e più di mille like. Una sorta di “gogna mediatica”, dunque, da cui la concessionaria s’era ritenuta danneggiata nella sua immagine e nella sua reputazione.

Non si tratta di una sentenza “sovversiva”. Ma, come si suol dire, è destinata a fare giurisprudenza. E può contribuire a tutelare meglio i diritti dei consumatori nei confronti degli esercizi commerciali, segnando una svolta nella vita quotidiana dei cittadini. Tanto più se fosse regolarmente applicata anche ai servizi pubblici o a quelli in concessione: dalla sanità alle poste, dai trasporti alle telecomunicazioni. Diventerebbe una “bacheca elettronica” su cui scrivere quello che spesso non funziona o funziona male (e magari quello che talvolta funziona).

Il diritto d’opinione e di critica, sancito dal fondamentale articolo 21 della Costituzione, vale insomma anche per i social network. Quella norma della Carta scritta con preveggenza settant’anni fa garantisce a tutti il diritto di manifestare il proprio pensiero, oltre che con la parola o con lo scritto, con “ogni altro mezzo di diffusione”. E quindi, Internet compreso.

Quali sono allora i limiti per non incorrere nel reato di diffamazione online? Non possono che essere gli stessi che valgono offline, per la carta stampata, la radio o la tv. Vale a dire l’interesse pubblico della notizia, la cosiddetta “verità putativa” e la continenza del linguaggio. È chiaro che, se qualcuno diffonde attraverso un post un’informazione privata, falsa oppure offensiva, commette il medesimo reato dell’incauto giornalista che la pubblica sulle pagine della propria testata.

Lo stesso giudice di Torino, accogliendo la richiesta di archiviazione del gip, ha ribadito che l’utilizzo di espressioni ironiche e goliardiche è tollerato se si rappresentano fatti realmente accaduti e senza trascendere nell’invettiva. La verità non sempre trionfa. Ma, per citare un’espressione gramsciana, è comunque “rivoluzionaria”.

 

Follia Italia: Davigo a giudizio per aver fatto il suo dovere

Un magistrato galantuomo, a cui l’Italia degli onesti deve molto, Piercamillo Davigo, è stato rinviato a giudizio da un Gup di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio in relazione ai verbali resi in istruttoria dal faccendiere Amara – che denunziava l’esistenza di una loggia segreta di cui facevano parte anche magistrati componenti del Csm – consegnati a Davigo dal pm milanese Paolo Storari.

Contro di lui si è immediatamente scatenata la gogna mediatica da parte di diffamatori seriali, da anni strenuamente impegnati a difendere corrotti, corruttori, bancarottieri, evasori fiscali, ecc., e si è definito infamante il reato ascritto a Davigo. Ora, quale che sia la valutazione di opportunità o meno, non vi è alcun dubbio che Davigo si sia mosso nella convinzione di agire in “adempimento di un dovere” (art. 51 Codice penale) che gli incombeva dall’essere un componente del Csm che riceveva gravi dichiarazioni da un pm che gli segnalava ritardi, ostacoli o condizionamenti nelle indagini da parte del procuratore capo Greco (successivamente archiviato).

La “prova provata” che Davigo ritenesse di agire in adempimento di un dovere, sta nella circostanza che egli immediatamente portò a conoscenza quanto affermato dallo Storari sia del vicepresidente del Csm, David Ermini, (nonché di altri componenti del Csm, tra cui Giuseppe Cascini, membro della disciplinare), sia del Pg della Cassazione Giovanni Salvi (titolare dell’azione disciplinare) il quale, proprio a seguito dell’iniziativa di Davigo, contattò il procuratore Francesco Greco, sì che furono effettuate le formalità per l’iscrizione nel registro degli indagati.

Orbene – precisato che l’esimente dell’adempimento di un dovere può anche essere “putativa” quando vi è l’errore incolpevole dell’agente sulla sussistenza o interpretazione di una norma da cui si ritiene scaturisca il “dovere” – va osservato che se c’è qualcosa di incredibile nella vicenda è il comportamento del vicepresidente Ermini che, interrogato dal pm di Brescia, dipinge scene surreali come questa: “Appena uscito Davigo, presi la cartellina che mi aveva lasciato sul tavolo e, per i motivi sopra indicati (irritualità e irricevibilità degli atti) la cestinai. Voglio sottolineare che io quei verbali non li ho mai voluti leggere e li ho buttati nel cestino senza aver preso conoscenza del loro contenuto”. Quindi, l’Ermini si recò al Quirinale per riferire al capo dello Stato della superloggia di cui l’aveva informato Davigo e “il Presidente mi ascoltò senza fare commenti” (lo dipinge, cioè, come “una sfinge immobile e silenziosa”, copyright da Barbacetto e Massari, Il Fatto Quotidiano del 6.2).

E che dire del comportamento del Cascini, componente della disciplinare, il quale, anch’egli interrogato dai pm di Brescia, ha dichiarato di aver subito compreso – vedendo le copie dei verbali – che “si trattava di materiale riservato” e ha aggiunto: “Poiché Davigo mi aveva chiesto un’opinione sul da farsi, ricordo di avergli detto che, trattandosi di materiale informale, ricevuto per vie non ufficiali, noi non avremmo potuto farci nulla”. E ha aggiunto: “Era chiaro a tutti e due che non ricevevo quelle informazioni nell’esercizio delle mie funzioni. La ritenevo infatti una confidenza tra colleghi”. Dimentica il Cascini che, quale componente del Csm, è pur sempre un pubblico ufficiale e le confidenze non trovano ingresso (non è che uno si sente o non si sente pubblico ufficiale a seconda dei casi!).

Morale della favola: Davigo va a giudizio e viene crocifisso; Ermini e Cascini, che non hanno subìto alcuna iniziativa, rimangono rispettivamente, il primo vicepresidente e il secondo componente della sezione disciplinare del Csm. Quando decideranno di andarsene a casa?

 

Il “narciso Amato show” è un reality del Diritto

Non partecipiamo al tripudio e non cadiamo in deliquio per il “Giuliano Amato show”, per questo 83enne “vitale” e “mattatore” che “striglia il Parlamento” (Foglio) con la sua “oratoria raffinata dai toni bassi” (Repubblica), tantomeno ci uniamo al compiacimento per le sadiche bacchettate sulle nocche ai “promotori pasticcioni” (ibidem) da parte di questo “combattente coi capelli bianchi” (La Stampa).

Per noi la conferenza stampa di un’ora tenuta dal neo-presidente della Corte Costituzionale in diretta sul canale Vimeo della Consulta pochi minuti dopo la camera di Consiglio, mentre l’account Twitter ufficiale riportava come fa da giorni ogni parola, mugugno, monito e battuta del de cuius, è stata uno spettacolo insieme imbarazzante e avvilente. Il linguaggio, che ai giornali importanti è sembrato “pop”, era sciatto, superficiale: “Se io sono in grado di fare l’ultima mossa e di mettermi la pasticca sulla lingua sono coperto ed è coperto chi mi dà la pasticca, e se non sono in grado di darmi la pasticca sono Million Dollar Baby, ci vuole Clint Eastwood che mi fa l’iniezione”. Il registro inutilmente beffardo: “Chi non ha sentito questa parola (eutanasia, ndr), sono pronto a offrirgli due fustini di Dixan”. Il contenuto, non sempre veritiero: “Il primo ragazzo maggiorenne che arriva a decidere che la vuole fare finita, e trova un altro ragazzo come lui, e una sera in cui hanno un po’ bevuto glielo fa (sic)…”. Questo, come fa notare Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, non è vero: se il referendum fosse passato sarebbe rimasta in vigore la norma che punisce come omicidio volontario l’atto compiuto contro una persona in condizioni di deficienza psichica, per altra infermità o per abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti.

Il messaggio, non sempre pertinente: “Leggere o sentire che chi ha preso la decisione non sa cosa è la sofferenza mi ha ferito, ha ferito tutti noi ingiustamente”, al che verrebbe da dire “e quindi?”; il dato non interessa, non rileva: o vogliamo introdurre il criterio dell’effetto emotivo che i quesiti referendari e le relative polemiche hanno sui giudici della Consulta, tra quelli per la loro ammissibilità? Introdurre nel discorso, che dovrebbe esser rigoroso e neutro, una categoria passionale (l’offesa, la ferita) è semplicemente ridicolo.

Lo stile esorbitante, non istituzionale: “Vi dico una cosa che non potrei dire”. E allora non la dica, presidente, che fa, la spia? Che siamo, nel confessionale del Grande Fratello? Poi si butta nella mischia, fornendo stralci di motivazioni sul rigetto dei due temi più popolari, cannabis e eutanasia, provocando risse sui social e nei talk show, trasformando un organo sacro come la Corte in un reality del Diritto Costituzionale, quando avrebbe potuto scrivere due righe di comunicato in attesa delle motivazioni formali. Da quando l’hanno tirato in ballo per il Quirinale, si sente chiamato a comunicare, monitare, esternare: forse pensa che il Paese penda dalle sue labbra. Sull’ammissione del quesito per abolire la legge Severino, dice che il criterio è stato lo stesso di quello adottato per non ammettere il testo sulla cannabis (per incompatibilità coi trattati internazionali non si può consentire “la coltivazione di droghe pesanti”: che ci vuole a farsi una raffineria di eroina sul balcone?): “l’incandidabilità (dei condannati, ndr) non rispondeva a obblighi internazionali”. Ma perché tirare in ballo i trattati internazionali quando c’è l’art. 54 della Costituzione che impone “disciplina e onore” a chi ricopre cariche pubbliche?

“Non abbiamo cercato peli nell’uovo”: e perché? Sono andati a occhio? Hanno giudicato l’ammissibilità dei quesiti alla carlona? Non è compito della Consulta anche cercare il pelo nell’uovo, per limitare al massimo ogni dubbio ed errore? Su Cappato: “Dire che questa Corte fosse mal disposta significa dire una cattiveria che si poteva anche risparmiare, per lui era più opportuno riflettere su cosa stava facendo”. Chi critica la Corte su questioni politiche e tecnico-giuridiche è cattivo. Era indispensabile questa smargiassata? Amato va avanti così per un’ora, prolisso, ciarliero, autocompiaciuto. Un cronista gli chiede di una certa intervista e di una certa cravatta: “Ah… quando ero ragazzo io serviva molto, l’uomo senza cravatta o faceva il regista o faceva l’attore, eheh, quindi io riuscivo a capire il vostro mestiere… io lo dissi a chi mi intervistava: avevo un professore a Pisa che ci cacciava via se non avevamo la cravatta in classe, e…”. Interessante, presidente, ci dica di più. Chissà che avvincenti messaggi di fine anno dal Quirinale, se fosse andata com’egli desiderava.

In questi anni ci siamo concentrati sui ladri, non sempre con successo, e ci è sfuggita una delle peggiori piaghe che affliggono il Paese: la mania di protagonismo di chi ha potere. Basta, per pietà, coi narcisisti nelle Istituzioni.