Il Piano pandemico adesso c’è. I vertici del ministero dai pm

Alla prossima pandemia arriveremo preparati. L’Italia avrà un piano aggiornato alle ultime linee guida internazionali, neanche fosse la Svizzera. Si chiama “Piano strategico-operativo di preparazione e risposta a una pandemia influenzale 2021-2023 (Panflu)” ma “vale – si legge nella bozza – per la preparazione nei confronti di tutti gli eventi pandemici, anche quelli dovuti a una malattia respiratoria non conosciuta che definiremo come malattia respiratoria X”, non influenzale, tipo il Covid-19. Così nella malaugurata ipotesi di una replica nessuno potrà giocare a nascondino con le parole.

Nel piano c’è la catena di comando, chi fa cosa, le fasi (allerta, interpandemica, pandemica), le esercitazioni, le scorte di farmaci e di dispositivi di protezione individuale (Dpi) fino al numero di mascherine necessario per ciascun paziente, gli obblighi di aggiornamento, le precauzioni contro le infezioni ospedaliere, la formazione del personale, i piani regionali da approvare entro 90 giorni dal via libera al piano nazionale che avverrà in Conferenza Stato-Regione, i diversi scenari possibili per i virus con R0 (l’indice iniziale di riproduzione) a 1,4, 1,7 o sopra 2, le dotazioni minime di terapie intensive e subintensive e le regole per aumentarle se necessario come è stato fatto, con ritardo, nei mesi scorsi. Ci sono i principi di solidarietà, di salvaguardia dell’economia e di proporzionalità nelle misure di contenimento. C’è scritto cosa fare se non è possibile curare tutti: “Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori probabilità di trarne beneficio”. Mancano ancora i soldi, in parte verranno dal Recovery Fund.

Nella “bozza confidenziale” che circola da ieri, datata 31 dicembre e non definitiva, si legge che “il piano pandemico influenzale esistente è stato redatto nel 2006 e rimasto vigente”. Mai aggiornato per 14 anni per quanto fosse “raccomandato” dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e il ministero della Salute dovesse “farsi carico”, riconosce la bozza. Ora invece ci ha lavorato in piena emergenza, anche durante le feste, la direzione della Prevenzione del ministero, dal maggio scorso guidata dal professor Giovanni Rezza, coinvolgendo specialisti di mezza Italia. Insomma sul sito del ministero c’è un’informazione falsa: “ultimo aggiornamento 15 dicembre 2016”. Dal 2006 il mondo è cambiato, sono cambiate le linee guida dell’Oms e dell’Ecdc (Centro europeo per il controllo delle malattie), nel 2013 è intervenuto anche l’Europarlamento, ma il piano italiano è rimasto quello.

Sul mancato aggiornamento e soprattutto sulla mancata applicazione, all’inizio del 2020, del piano del 2006 sta indagando la Procura di Bergamo. I pm hanno convocato come persone informate diversi dirigenti del ministero della Salute, dal segretario generale Giuseppe Ruocco già direttore della Prevenzione all’ex direttore della Prevenzione Claudio D’Amario e ai responsabili dell’ufficio 5 Malattie trasmissibili e profilassi internazionale Francesco Paolo Maraglino e dell’ufficio 1 Affari generali Anna Caraglia. Li sentiranno a breve, poi toccherà al ministro Roberto Speranza e ad altri responsabili del ministero, dell’Istituto superiore di Sanità, del Cts e della Protezione civile. Nessuno di loro è indagato.

Il nuovo piano nasce all’insegna del Covid-19, emergenza definita “inattesa”: “L’esperienza del 2020 – si legge nella bozza – ha dimostrato che si può e si deve essere in grado di mobilitare il sistema per aumentare nel giro di poco tempo sia la produzione di mascherine e Dpi sia i posti letto in terapia intensiva, anche per far sì che non si verifichino disservizi nella assistenza e nella cura delle persone affette da malattie ordinarie”. Sbagliando s’impara.

Confini regionali ancora chiusi. Conte: “Impennata di contagi”

Di fronte alla proposta dell’Istituto Superiore di Sanità di far scattare la zona rossa dove ci sono più di 250 positivi a settimana ogni 100 mila abitanti, i presidenti di Regione non hanno badato alla forma: “Sarebbe un’istigazione a fare meno tamponi”. L’ostentato cinismo non ha smosso il governo: “Era solo un’ipotesi – hanno replicato i ministri – l’abbiamo già archiviata”. D’altronde, è l’altro leit motiv della riunione preparatoria del nuovo Dpcm che dovrà entrare in vigore sabato, ai governatori questa storia delle “patenti”, dei colori che testimoniano “chi è stato bravo e chi no”, va stretta. Lo ammettono il veneto Luca Zaia e il piemontese Alberto Cirio, con buona pace di chi – a cominciare da Vincenzo De Luca, che ancora ieri chiedeva “misure più restrittive per tutto il Paese” – si oppone da sempre agli interventi differenziati per Regioni: “Bisogna smetterla con le pagelle e le classifiche: dobbiamo cambiare comunicazione”. Lo stigma del “lazzaretto”, per dirla ancora con Zaia, non lo vuole nessuno, figuriamoci quelli che finora erano indicati come il “motore” del Paese. Ma il sistema a colori per ora non si tocca, piuttosto il ministro della Salute Roberto Speranza ha rassicurato i presidenti che il passaggio all’arancione o al rosso non si baserà solo sull’indice Rt, ma continuerà a tener conto dei 21 parametri e della classificazione complessiva di rischio: si va in arancione se il rischio è “alto” e Rt uguale o superiore a 1, in rosso se il rischio è “alto” e Rt a 1,25. Fin qui non c’erano veri automatismi. Dovrebbero però introdurre la zona “bianca” senza restrizioni con rischio “basso” e meno di 50 (se non 30) nuovi casi a settimana ogni 100 mila abitanti. Nessuna Regione è sotto 50.

Ma soprattutto Speranza è di nuovo chiamato, vista la “serietà della situazione”, a invocare “misure per evitare un aumento incontrollato dei contagi”. Lo ripete Giuseppe Conte al Tg3: “Sta arrivando un’impennata di contagi, non sarà facile: dobbiamo fare ancora sacrifici”. Allo studio, per ora, c’è il divieto di asporto dopo le 18 per i bar, anche se il governo si orienta a consentire il take away di prodotti “confezionati”: la ratio è evitare la vendita di prodotti che possano essere consumati per strada (con rischio assembramento) e permettere comunque di acquistare cibo o bevande da portare a casa. Ancora in dubbio la chiusura per tutto il giorno di bar e ristoranti nei weekend. Confermato il blocco agli spostamenti tra Regioni anche “gialle”.

La terza ondata è alle porte, ripetono politici e scienziati. Nessuno minimizza, “nessuno – raccontano – si è messo a parlare di piste da sci”: addio alla riapertura il 18. Al tavolo di ieri mattina, al contrario, si sono seduti quasi tutti i presidenti, che a differenza di altre occasioni non hanno delegato ad altri la partecipazione alla riunione. Attilio Fontana si è presentato con Letizia Moratti, fresca di nomina alla Sanità della Lombardia. Tutti concordi hanno detto che per la fine della Dad delle superiori è presto (“Se in 17 su 20 abbiamo deciso così non è che la Azzolina può pensare che siamo tutti matti”) e tutti hanno espresso forti preoccupazioni sulla gestione dei vaccini: come calcoliamo le dosi da “mettere da parte” per i richiami? Come ci organizziamo per i nuovi ingenti arrivi? Il presidente dell’Anci Antonio Decaro ha suggerito di mobilitare l’esercito e fare turni “anche di notte”, insiste. Se ne riparla giovedì. Anche i numeri di ieri non rassicurano: 12.532 nuovi casi con pochi tamponi (91.656) per un indice di positività del 13,7%. I morti sono stati 448. Continuano ad aumentare lentamente i malati in terapia intensiva (+27) e nei reparti ordinari (+176). Le vaccinazioni salgono a 701.623 (il 76,4% delle dosi disponibili) e si ipotizza di accelerare le somministrazioni agli over 80 e di anticiparle per insegnanti e il personale scolastico. E un nuovo studio della Statale di Milano, sul British Journal of Dermatology, retrodata al 10 novembre 2019 il primo caso di SarsCov2 in Italia: una milanese di 25 anni cui era stata fatta una biopsia per una dermatosi atipica.

Dimissioni congelate e subito reincarico: il caso Goria nel 1987

Un piccolo partito del 2% che apre la crisi di governo perché gli “impegni sono stati disattesi”, il ministro che lascia in contrasto con la strategia di come spendere i soldi, patti segreti tra i segretari dei due partiti di maggioranza, il “no” a un mini-rimpasto e il timore di una crisi al buio. Sembra oggi, con Italia Viva che minaccia di aprire la crisi del governo Conte, ma stiamo parlando di 33 anni fa. Siamo nel novembre 1987: il crac di Wall Street e le tensioni politiche tra la Dc di Ciriaco De Mita e il Psi di Bettino Craxi stavano lacerando l’ennesimo governo pentapartito guidato dal democristiano Giovanni Goria, formato solo quattro mesi prima per volontà del presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Un uomo debole per una maggioranza debole. Tant’è che la battuta che girava nei palazzi era: “Giovanni Goria di Francesco”. Le tensioni nella maggioranza si riversarono tutte nella legge finanziaria, ma la crisi fu inaspettata e sottovalutata da tutti: ad aprirla, il 13 novembre 1987, il Partito Liberale (Pli) di Renato Altissimo che prima in un vertice a Palazzo Chigi con i segretari di partito e poi in consiglio dei ministri, fece ritirare il suo unico rappresentante, Valerio Zanone (Difesa), perché nella legge finanziaria non erano stati inseriti 3mila miliardi di lire di sgravi fiscali a commercianti e artigiani.

Da giorni i retroscenisti vedevano le manovre di Craxi ma anche la volpe di Andreotti, pronto a logorare De Mita, dietro alle mosse di Altissimo. Come si legge nelle cronache dell’epoca (il 14 novembre il Corriere titolava: “Scommessa su un Goria bis”), a quel punto l’ipotesi più probabile sarebbe stata quella di una “crisi pilotata” e la formazione di un Goria bis. Non ce ne fu bisogno. Il presidente del Consiglio salì al Colle per rassegnare le dimissioni che furono accettate ma “congelate”. Giusto il tempo, tre giorni, per trovare un accordo: il 18 novembre Cossiga respinse le dimissioni di Goria con una nota in cui faceva capire che non era il momento per impallinare il premier e che la crisi sarebbe arrivata presto.

Così rimandò Goria alle Camere dove il giorno dopo il governo ottenne la fiducia: l’esecutivo cadde 3 mesi dopo, venuto meno il veto di Craxi su De Mita a Palazzo Chigi. Quel potere a “fisarmonica” di Cossiga di congelare le dimissioni del premier dimissionario si potrebbero ripetere ancora oggi con Sergio Mattarella che potrebbe fare lo stesso con Giuseppe Conte: far approvare il Recovery Plan e poi reincaricare il premier forte di un nuovo “patto di legislatura” e una nuova squadra di ministri.

L’altro precedente che viene citato in questi giorni è quello dell’ultimo governo Berlusconi quando, incalzato dallo spread e dalle tensioni interne alla sua maggioranza (dai finiani all’Udc), il premier decise di salire al Colle per dimettersi dopo il voto sul Rendiconto generale dello Stato su cui non erano arrivati i 316 voti necessari alla maggioranza. Ma anche in quel caso il presidente Giorgio Napolitano gli pregò di restare almeno per far approvare la Legge di Bilancio. Questione di una settimana. Nel frattempo Napolitano nominò senatore a vita Mario Monti e il 16 novembre lo incaricò di formare un nuovo governo di tecnici. Quello che Giuseppe Conte spera di evitare.

Inquisiti da rimpasto: Matteo, Maria Elena e i fondi illeciti Open

L’ipotesi del rimpasto, nella tela che Matteo Renzi sta tessendo da oltre un mese, secondo le indiscrezioni più insistenti potrebbe prevedere la sua presenza accanto a quella di Maria Elena Boschi nella futura squadra di governo guidata da Giuseppe Conte. Il mandato dell’eventuale Conte-ter, se aspirasse come ovvio a chiudere la legislatura, scadrebbe nel 2023 ed è sufficiente incrociare questa data con le attività giudiziarie della Procura di Firenze per comprendere che l’ipotesi in questione – Renzi e Boschi ministri – risulta piuttosto problematica: nei prossimi due anni, e verosimilmente anche prima, i due massimi esponenti di Italia Viva rischiano di vedersi notificare una richiesta di rinvio a giudizio. Non soltanto, quindi, il Conte-ter sceglierebbe di imbarcare due indagati ma – se non fossero archiviati – si ritroverebbe a governare con due imputati. E le contestazioni che la Procura guidata da Giuseppe Creazzo muove nei loro riguardi sono peraltro di natura espressamente politica: il reato ipotizzato a loro carico è quello di finanziamento illecito alla (ormai ex) fondazione Open che viene considerata dagli inquirenti una articolazione della componente renziana del Pd. Una ricostruzione sulla quale già una volta la Cassazione ha però espresso più d’una perplessità. Se non bastasse, lo scorso dicembre, la Procura di Firenze – e proprio motivando a Renzi, che la contestava, la competenza territoriale – ha aggiunto che sta indagando anche per un’ipotesi di corruzione senza però specificare a carico di quale indagato e quindi, per il momento, dobbiamo considerarla ancora un’ipotesi verso ignoti. L’inchiesta fiorentina riguarda il periodo dell’ascesa di Renzi da sindaco di Firenze a premier. Vediamo di che si tratta.

Il 29 novembre 2019 la Procura di Firenze dispone la perquisizione di due uomini molto vicini al cosiddetto Giglio Magico: l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della fondazione Open e Marco Carrai. Sono entrambi indagati per finanziamento illecito e, nell’atto di perquisizione, la prima delle informative citate – l’indagine è stata delegata alla Guardia di Finanza – risale al 14 giugno 2019. L’inchiesta è quindi iniziata nella prima metà del 2019 e, da allora, sono già trascorsi 18 mesi. Il dato temporale lascia immaginare che l’inchiesta, già in fase avanzata, si chiuderà – con una richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio – entro la fine della legislatura in questione. Nel decreto di perquisizione a Carrai si legge, già nel novembre 2019, l’ipotesi sulla quale lavora la procura di Firenze: “La fondazione Open ha agito da ‘articolazione’ di partito politico: si vedano i riferimenti alle ‘primarie’ del 2012, al ‘comitato per Matteo Renzi segretario’, alle ricevute di versamento da ‘parlamentari’”. E ancora: “La Fondazione Open ha rimborsato spese a parlamentari e ha messo a loro disposizione carte di credito e bancomat”. In totale sarebbero circolati contributi per 7,2 milioni di euro, incassati dalla Open tra il 2014 e il 2018, per i pm in violazione della normativa sul finanziamento ai partiti.

Sin dalle prime battute l’inchiesta si concentra anche sui rapporti tra Bianchi, Carri e il gruppo Toto Costruzioni: “le operazioni dal gruppo Toto a Bianchi e da Bianchi alla Open appaiono in effetti dissimulare un trasferimento diretto di denaro dal gruppo Toto alla Fondazione Open”. Concetto espresso anche il 24 dicembre scorso dal tribunale del Riesame di Firenze – al quale la Cassazione, dopo aver annullato la perquisizione di Carrai, aveva nuovamente inviato gli atti – quando annota: “Toto Costruzioni ha ritenuto di schermare il finanziamento in favore della Open per l’importo di 400.838 euro mediante un incarico professionale a Bianchi”. Incarico che riguardava un contenzioso che Toto Costruzioni aveva in corso con Anas. È questo il contesto in cui Renzi e Boschi – e anche Luca Lotti – sono indagati per concorso in finanziamento illecito. Il 24 novembre scorso nessuno dei tre si è presentato alla convocazione disposta dalla procura. Boschi e Renzi hanno motivato la propria assenza con il legittimo impedimento che derivava dalla loro attività parlamentare per le sedute in corso. Parliamo senza dubbio dell’esercizio legittimo di un diritto. E senza dubbio, anzi a maggior ragione, sarà utilizzabile se Renzi e Boschi diventeranno ministri.

Recovery, Renzi sconfitto: le ministre con la valigia non dicono no al piano Ue

L’unica certezza nel delirio della quasi crisi è che stasera il Consiglio dei ministri approverà il Recovery Plan. Ma il futuro prossimo del governo è un enigma. Ossia è appeso alle giravolte e agli scatti d’umore di Matteo Renzi, sempre pronto a ritirare le sue due ministre e a innescare formalmente la crisi, mentre la trattativa sul rimpasto è una tela che ogni giorno va rifatta da capo. Anche perché Giuseppe Conte rimane fermo nel non volersi dimettere. “Le dimissioni del premier non sono sul tavolo” assicura un’alta fonte di governo. E un paio di 5Stelle di peso confermano che Conte rifiuta il passo di lato anche se meramente temporaneo: “È convinto che alla fine a cedere per logoramento sarà Renzi”.

Il leader di Iv oggi un mezzo passo indietro (o avanti) lo farà. “Approviamo questo Recovery”, ha detto ieri mattina. Ma questo non tranquillizza davvero nessuno. L’accordo complessivo non c’è: né sul patto di legislatura su cui sta molto spingendo il Pd, né sul resto. Così le quotazioni del ritiro delle ministre cambiano di ora in ora. Pareva deciso a tenere la pistola carica sul tavolo senza premere il grilletto, per ottenere il più possibile, puntando innanzitutto a umiliare il premier. Ma ieri sera l’ex sindaco di Firenze andava dicendo di essere pronto a far uscire dal governo Teresa Bellanova ed Elena Bonetti già oggi. Con una chiosa: “Poi in Parlamento facciamo passare il Recovery, lo scostamento di bilancio e il decreto Ristori, perché noi non siamo quelli che tengono bloccato il Paese”.

Una minaccia per alzare il tiro? Di certo, sono ore decisive. E dal Colle continua a filtrare un’unica indicazione: se Renzi apre formalmente la crisi, Conte si dovrà dimettere. E l’idea della conta in Parlamento appare fortemente sconsigliata dal Quirinale, in vista di un eventuale reincarico. Ma gli occhi sono sempre puntati sul capo di Iv. A Zapping il dem Goffredo Bettini riassume così gli umori del Pd: “Ho la sensazione che Renzi non abbia le idee chiare”. E apre all’opzione di “una crisi breve, gestibile, parlamentare, che non apra fibrillazioni che di solito le crisi producono”. Però Renzi continua ad alzare il tiro. Giorni fa ha chiesto il Mef a un Dario Franceschini interdetto. Quasi una provocazione. Ma ora punterebbe al Viminale per Ettore Rosato e al Mit, con una delega che resterebbe alla dem Paola De Micheli e l’altra sarebbe per la renziana Raffaella Paita. Ma se la De Micheli dovesse puntare i piedi, assalterebbe il ministero del Lavoro, dove però la grillina Nunzia Catalfo è pronta alle barricate. Piccola postilla: nonostante queste indiscrezioni, tutti credono che alla fine sarà la Boschi a entrare e non la Paita. Nell’attesa, ieri sera Renzi ha di nuovo invocato il Mes.

E mentre le scadenze si accumulano (Ristori e scostamento di bilancio, proroga dello stato di emergenza) ieri dal Pd puntavano il dito contro Roberto Gualtieri, accusato di essere in ritardo con l’invio ai partiti del Recovery Plan. Ma c’è molto nervosismo anche nel M5S.

In diversi spingono per un rimpasto largo, contestando la linea dei vertici, a partire dal reggente Vito Crimi, che vorrebbero blindare gli attuali ministri dei 5Stelle. Mentre veterani come il senatore Alberto Airola dicono già no a un ingresso nel governo della Boschi “perché dobbiamo essere coerenti”. Ma tanto tutto dipende da Renzi, e da Conte. Fonti di governo ieri sussurravano pessimismo: “Iv cambia di continuo le carte in tavolo, ormai cerca solo un pretesto per rompere”. Quando e come, è ancora un punto interrogativo.

Conte alla rovescia

I retroscena del Giornale Unico, sempre più simili alle “bombe di Mosca” al processo di Biscardi, danno per certo uno sbocco “pilotato” della crisi di governo che più ridicolo non si può: Conte si dimette dopo l’approvazione del Recovery Plan, perché Bettini ha parlato con l’Innominabile, che gli ha garantito l’appoggio a un “Conte-ter”, dunque c’è da fidarsi. Dopodiché 5Stelle, Pd, LeU e Iv si siedono al tavolo per spartirsi i ministeri all’insegna di un “riequilibrio” in base a fantomatici “nuovi rapporti di forze”. Magari con Orlando e Di Maio vicepremier, e/o Bettini sottosegretario a Palazzo Chigi, e ministri Iv al posto di due, compresi la Boschi, Rosato e magari pure l’Innominabile (sempreché vinca la naturale ritrosia alle “poltrone”). In cambio di queste radiose prospettive, Conte cederebbe la responsabilità sui Servizi (che gli spetta per legge) e rinuncerebbe alla fondazione sulla cybersicurezza (e ai 2 miliardi che l’Ue ci mette a disposizione). Così Messer Due Per Cento, ora isolato all’angolo, potrà resuscitare e cantare vittoria (“Mi han dato ragione su tutto, quindi avevano torto tutti gli altri”). Poi ricomincerà subito a ricattare e minacciare il nuovo governo sul Mes, il ponte, la prescrizione, il rapporto Barr e altre puttanate prêt-à-porter.

Ora, può darsi che Conte sia così fesso da accettare questo suicidio: nel qual caso, peggio per lui. Ma siccome a noi importa poco delle sorti dei singoli e molto di quelle dell’Italia, rivolgiamo qualche domandina facile facile agli strateghi di questa ideona. 1. Gli italiani quale beneficio ne trarrebbero? 2. Perché mai un premier che ha sempre teorizzato e praticato la parlamentarizzazione delle crisi, dovrebbe dimettersi senza essere stato sfiduciato dalle Camere? 3. Chi può fidarsi della parola di un bugiardo matricolato, detto il Bomba fin dalla più tenera età, che in vita sua ha sempre fregato chiunque avesse stretto accordi con lui? 4. Che senso ha buttare giù un governo che gode della fiducia del Parlamento per farne un altro con la stessa maggioranza? 5. Hanno idea, i giallorosa, di quanti voti regalerebbero alle destre con qualche settimana di mercato delle vacche su ministri, viceministri e sottosegretari mentre gl’italiani pensano al virus, ai vaccini, alle aziende chiuse, ai posti di lavoro in fumo? 6. Lo sanno lorsignori, 5Stelle in primis, che l’Innominabile e la Boschi sono indagati per illecito finanziamento e, quando finirà l’inchiesta Open, rischiano di diventare imputati? E che il Conte 2, come l’1, vantava il raro pregio di non avere ministri inquisiti? E che Conte ha cacciato dal governo gialloverde il sottosegretario Siri perché indagato in uno scandalo di soldi? 7.Quale mente malata può pensare di rimpiazzare una ministra competente come Lamorgese con un Rosato o una Boschi, fra l’altro molto più molesti e destabilizzanti di quanto oggi non siano la Bellanova e la Bonetti? 8. Per quale strano algoritmo un partitucolo del 2 virgola qualcosa per cento dovrebbe avere tre ministeri, mentre l’equivalente LeU ne ha uno solo (Speranza)? 9. Chi l’ha detto che è meglio farsi ricattare per tutto il resto della legislatura da quel pelo superfluo, anziché cercare in Parlamento i voti necessari per liberarsene per sempre? 10. Perché mai, in una democrazia parlamentare con sistema proporzionale, i voti di quei “transfughi” (purché gratuiti, diversamente da certi “responsabili” di B.) sarebbero più indesiderabili di quelli di Iv, tutta formata da transfughi dal Pd, da FI, da LeU, dall’Udc e dal M5S?

La via maestra è una sola: quella costituzionale. Conte non ha alcun motivo di dimettersi, a meno che non venga sfiduciato dal Parlamento. Ed è improbabile che ciò accada, sempreché M5S, Pd e LeU dicano la verità quando assicurano che, se cade lui, si vota. Ergo, non sono disponibili ad altre formule con altri premier. Nel qual caso altri governi non ne possono nascere perché non avrebbero la maggioranza. Basterà dunque tenere il punto “O Conte-2 o elezioni” per indurre i “responsabili gratuiti”, cioè interessati soltanto a completare la legislatura, a uscire allo scoperto nel voto di fiducia, quando Conte lo chiederà in Parlamento. Senza neppure l’imbarazzo di contattarli prima. Lì tra l’altro si vedrà quanti di Iv seguiranno il loro capetto al macello, o se se ne sganceranno all’ultima occasione utile. Così l’Innominabile e i suoi quattro guastatori andranno a cuccia fino alle elezioni del 2022, data della loro agognata estinzione.

Se invece qualcuno gioca sporco – e una parte del Pd che ancora tiene bordone all’Innominabile ne è gravemente indiziata – quella sarà l’occasione per smascherarlo in Parlamento. Il governo cadrà, Conte andrà a casa (tanto un mestiere ce l’ha) e chi avrà licenziato “il politico più popolare d’Italia per darla vinta al più impopolare” (copyright D’Alema) lo spiegherà ai suoi eventuali elettori, se troverà le parole. Noi ci ciucceremo per qualche mese un’ammucchiata con Pd, FI, Iv, Calenda e frattaglie poltroniste di Lega e M5S guidata dai premier preferiti dai giornaloni (Cottarelli, Cartabia, Amato, Cassese, robe così: Draghi non è fesso). Una sbobba talmente immangiabile che molta gente urlerà: “Ridateci Conte”. E lo costringerà a tornare in pista, come capo dei 5Stelle o di una lista al loro fianco. Allora sì che ci sarà da divertirsi. Perché si voterà prima che gl’italiani si scordino chi ha fatto cosa.

Addio a Lara Vinca Masini, studiosa mai schiava del mercato

È morta Lara Vinca Masini, nell’amata Firenze in cui era nata 94 anni fa. Da studiosa, completa e profonda, dell’arte d’oggi, mai allineata con la dittatura del mercato e con le risibili autopromozioni delle pubbliche amministrazioni, ha inseguito lungo una vita “una memoria non ripiegata su sé stessa, ma usata come stimolo per il recupero di una creatività nutrita di una linfa nuova che ritrovi, anche nel passato, una sorta di preveggenza di un futuro non scontato”. Proprio per questa capacità di tenere in tensione passato, presente e futuro attraverso il discorso sull’arte, ci mancheranno i suoi occhi acuti, la sua voce gentile. Il Mibact, nel 2014, le negò la Legge Bacchelli: imperdonabile sfregio. Il suo sterminato archivio, carico di futuro, vivrà al Centro Pecci di Prato.

“Prima di morire – ha scritto – avrei tanto voluto avere davanti a me la Madonna del parto di Piero della Francesca, un Nero di Burri e il Kiefer della Biblioteca di San Giorgio a Pistoia”. Se li sarebbe meritati.

Virginia, Franz, Henry: gli amici di Lady Oates

Una delle colpevoli menzogne del contemporaneo è l’adagio secondo cui scrivere è un atto solitario. Il fatto che, mentre scriviamo, nessuno sia con noi – se non il foglio, il pc, la pagina di Word con il cursore intermittente – è una verità soltanto apparente, cioè materiale; e questo perché, invece, insieme a noi, cioè dentro di noi, c’è lo scrittore che siamo: quell’insieme immateriale di immagini e presenze che nutrono la scrittura. Non si tratta, però, solo di maestri o modelli: ha ragione Roland Barthes quando parla di “fantasmes”. Ed è in questa direzione, quella di dialogare con i propri fantasmi letterari, che possiamo leggere Nuovo cielo, nuova terra (Il Saggiatore, pp. 270, euro 22) di Joyce Carol Oates, il cui titolo già declina il conflitto materiale/immateriale.

A Virginia Woolf, Oates deve l’idea di un mondo soggettivo in cui le relazioni umane tra spiriti privi di corpi più che personaggi ruotano attorno a una morsa mentale: l’idea che la dimensione estetica, cioè l’arte, controlla e distorce la vita. In più, tenta di ereditare la vague impressionista che trascina le opere woolfiane (Gita al faro, Le onde, La signora Dalloway) verso le tensioni tra vita e morte, conscio e inconscio, intimità e isolamento, che fanno dell’esistenza un’esperienza psichica. Accanto a lei – in questa specie di altare dove ognuno recita la propria giaculatoria senza mai stonare – Oates ammira la poesia brusca ed esasperante di D.H. Lawrence “che impone su di noi – scrive l’autrice – la sua musica bizzarramente febbrile, bizzarramente delicata”, soprattutto per il senso di immortalità che deriva dalla violenta e autarchica magia di versi come: “… il mio cuore si accusò/ pensando: non sono misura del creato.” L’incantesimo che Lawrence compie nelle sue liriche non è solo quello di rifiutare il dogma secondo cui l’uomo è la misura di tutte le cose, ma di rivelarsi quale scrittore “mistico che tende all’altrove” e che invece racconta l’uomo come schiacciato dalla sua triviality di essere ordinario. Legati al misticismo dell’autore de L’amante di lady Chatterley – in quel territorio che è la devozione letteraria di Oates – si muovono da un lato Franz Kafka, che avversa il concetto di eroe: l’eroico è una modalità di azione, mentre “la commedia grottesca dell’intera opera di Kafka” si basa sulla contemplazione dove – non essendoci lotte disponibili – l’antieroe crea la lotta dentro di sé; e infine “il mondo purgatoriale di Samuel Beckett”: meno noti delle opere teatrali, nei romanzi Molloy, Malone e L’innominabile possiamo essere certi solo dell’incertezza dato che l’identità resta per sempre l’incognita nell’equazione narrativa.

In questo saggio-riflessione al confine con la divagazione sulla letteratura moderna e contemporanea, Oates ritrova i filoni che rappresentano il suo nucleo più prezioso, e cioè l’esperienza visionaria: la scrittrice è certa che gran parte della vita umana debba sparire prima di poterci fornire un romanzo, e suggerisce ben chiara una netta divisione tra la scuola europea e quella americana. Gli scrittori americani credono troppo nella terra, nella realtà, pongono eccessiva fiducia nella certezza fisica, vivono dentro una bolla di illusione – o meglio di autoinganno – di una vittoria finale. Oates, invece, prende a modello più il canone europeo, il romanzo del cielo, trascendentale, la lettura metafisica del mondo che, dopo l’Ottocento, ha contezza dell’uomo quale eroe dell’incertezza. Come lei, tuttavia, anche altri suoi connazionali: Flannery O’Connor, la cui narrativa – priva di intenzioni realistiche – dovrebbe essere letta come una serie di parabole in cui si celebra la necessità di soccombere “alla pazza ombra di Gesù” attraverso una violenza irreparabile; Silvya Plath e la sua spietata solitudine, con cui celebra le esequie delle “agonie terminali del romanticismo”; e ancora Henry James, ossessionato dal mito della Caduta morale, e nei cui romanzi l’immaginazione di stampo realista si ritira.

Sul tracciato di altri illustri americani “immateriali” come lei, Oates – candidata più volte al Nobel per la sua sconfinata, luminosa e versatile produzione – è stata capace di pitturare l’America con spietato senso critico. Per lei, l’America annega nell’“acqua nera” (come racconta nella novella Acqua nera); e nella quadrilogia Epopea americana, il famigerato sogno a stelle e strisce si rivela più un incubo di solitudine urbana, proprio come in certi quadri di Hopper. E infine, nel suo ultimo romanzo, il distopico Rischi di un viaggio del tempo, una ragazza del futuro sconsideratamente idealista viene mandata indietro nel tempo di ottant’anni e si ritroverà a fare i conti con la materialità devastante del mondo, da cui non è detto che l’amore potrà salvarla.

Polonia, diritti negati e donne in rivoluzione (però armate di flash)

“Le donne arrabbiate cambieranno il mondo”. È la scritta che sventola sul cartellone di una ragazza che guarda temeraria verso l’orizzonte in rivolta a Katowice. La foto è stata scattata il 26 ottobre scorso da Michalina Kuczynska durante uno sciopero delle “Straik Kobiet”, “sciopero delle donne”. Lo stesso giorno la reporter Agata Kubis immortala a Varsavia le proteste di un’attivista contro la decisione della Corte Costituzionale che approva il divieto d’aborto fortemente voluto dal governo: la ragazza in strada si spoglia per protesta, ma né volto né petto sono visibili. La sua nudità è coperta dallabbaglio del flash, una luce che non contraddice la provocazione, ma la rafforza di paradossi: la sagoma è completamente bianca, la fotografa l’ha trasformata in una statua di guerra. Wolna Polka vuol dire libertà polacca: un’altra scritta di parole colorate contro gli scudi scuri delle divise schierate che ritrae, eliminando qualsiasi distanza con la barriera delle forze dell’ordine, la fotografa Alicia Lesiak. Le altre immagini ritraggono centinaia di volti mentre combattono: sono le amazzoni slave che non hanno freddo né paura nelle notti siderali polacche, da un lato all’altro della nazione.

“Blocco cittadino, 5º giorno delle proteste in Polonia”, si legge nelle didascalie del prezioso archivio di immagini raccolto dall’App, Archiwum Protestów Publicznych, “Archivio proteste pubbliche”, album dei giorni di fuoco, manganelli e idranti. La biografia visiva delle manifestazioni che dal 2016 hanno increspato la scena politica della Polonia è frutto della resistenza fotografica dei giovani reporter polacchi dell’App, che hanno documentato la battaglia della loro comunità contro il governo conservatore. Sono “una piattaforma di fotografi, attivisti, sociologi, artisti”: hanno cominciato in sei, ma oggi sono in 17. “Il più anziano ha 70 anni ed è Chris Niedenthal”, leggendario fotogiornalista che ha coperto il collasso del comunismo per Newsweek, “Johanna ha 29 anni ed è la più giovane”.

“Le divisioni stanno creando ferite profondissime nella popolazione e in guerra siamo tutti”. Senza protesta non esiste gioventù e viceversa. Che le ragazze siano state la miccia che ha dato avvio alle proteste di tutti “in un Paese conservatore e patriarcale come il nostro, è stupefacente, prima pensavo che la società civile polacca esistesse come potenziale, in stato embrionale, ma mi ero sbagliato”, dice Rafal Milach, vincitore di un World Press Photo e membro dalla celebre agenzia Magnum. Le donne sono state il “capitale sociale che hanno preparato il terreno per le proteste della comunità intera, una rivoluzione che non si sarebbe verificata senza le prime “marce nere” contro il divieto d’aborto nel 2016: ora le proteste sono della popolazione tutta contro le ineguaglianze, la violazione dei diritti umani, l’assoggettamento di tutti i poteri indipendenti al governo”. Nemmeno le potenti croci della Chiesa nazionale le hanno fermate: “In Polonia è impossibile a volte separare il profilo politico da quello religioso, la dottrina governativa da quella cattolica, lottare contro i dettami della Chiesa polacca è combattere Golia, ma nemmeno questo ha fatto arretrare le donne”, che non si lasciano più relegare nei ruoli esclusivi di moglie e madre. La guerra è guerra innanzitutto dei simboli e si combatte attraverso la riappropriazione dell’auto-narrazione, la creazione di immagini e nuove icone, “una battaglia fondamentale, cruciale da vincere”. Fulmini femmina e scariche elettriche: la bandiera di lotta delle “Straik kobietè”, il simbolo dell’elettricità.

Jaroslaw Kaczynski, fondatore del Pis, il partito Diritto e giustizia al potere, per gettare ombre e disinformazione tra la popolazione, “ha addirittura detto che quello è il simbolo delle SS, dimostrando di non conoscere, dopo la Seconda Guerra mondiale, l’iconografia nazista” dice Karolina Sobel.

Fotografare è una missione civile. Con la luce illuminano, a volte scavano ed altre coprono: quello che non fanno è amalgamarsi ai titoli della stampa vicina al potere: “I media nazionali sono polarizzati come tutto nel Paese, quelli vicini al governo propagano la narrazione omofoba dominante, sempre più aggressiva ed esplicita, creano la bolla di informazioni, sembra che parlino di un altro Paese, una realtà parallela”.

“Dal primo giorno abbiamo iniziato a scattare per reazione spontanea a quello che stava accadendo: per documentare la violenza della polizia e la forza della piazza, creare una risorsa di immagini avulse dalle fake news dei media mainstream polacchi, per una circolazione di istantanee senza compromessi, che prescindono dal mercato editoriale. Siamo uno spazio di documentazione libera”, continua Rafal.

Sono foto ma anche dichiarazioni civili, prese di posizioni visuali. I reporter dell’App non sono preda di consapevolezze facili, semplificazioni ovvie, previsioni falsamente ottimiste: lo scenario in Polonia è dei peggiori, ma stanno nascendo “in questi tempi bui nuovi legami di solidarietà tra le persone, l’APP ne è un esempio: alcuni di noi operano da diverse città e non ci siamo ancora conosciuti di persona, ma la lotta ci ha unito”. Dove “la sinistra viene ancora associata solo al comunismo, un trauma politico ancora non superato”, può spaventare chi prenderà il potere in seguito, ora che l’assenza di stato di diritto è stata “consolidata attraverso nuove leggi ed emendamenti, che hanno deformato la scena politica”. Nessuna profezia sul futuro se non quella che le polacche non rimarranno ad assistere passive al loro calvario e i flash delle macchine fotografiche dell’App continueranno ad illuminarle, finché la storia non smetterà di andare avanti all’indietro.

The Dissident. Nessuno vuole comprare il film su Khashoggi

È stato difficile il percorso della pellicola sulla morte di Jamal Kashoggi. Anche prima che The Dissident facesse la sua prima al “Sundance Film Festival” l’anno scorso, il regista Bryan Fogel aveva la sensazione che il suo documentario sull’assassinio di Jamal Khashoggi sarebbe stato difficile da vendere. Il film, disponibile on demand dalla scorsa settimana, è stato uno dei più attesi al Sundance. Il film precedente di Fogel, Icarus, sul doping russo alle Olimpiadi aveva vinto l’Academy Award come miglior documentario. Nella pellicola su Khashoggi ci sono gli audio del suo assassinio nel consolato saudita di Istanbul e c’è la partecipazione della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, e molti dettagli sugli sforzi di hacking dei sauditi, inclusa l’infiltrazione nel cellulare del fondatore di Amazon Jeff Bezos. Alla proiezione Fogel aveva implorato i Media Group di non spaventarsi. “Nei miei sogni, i distributori resisteranno all’Arabia Saudita”, aveva detto un ottimista Fogel sperando che Netflix, Amazon, Hbo o altri si facessero avanti, per dare al film una piattaforma globale per la storia di Khashoggi, che è prima di tutto un thriller geopolitico. Ma la difficile strada da percorrere per The Dissident era segnata. Nessuno degli streamer che hanno acquistato diversi film al Sundance, ha opzionato la pellicola eppure ci si poteva aspettare qualcosa di buono da un regista che ha vinto un Oscar. The Dissident alla fine è stato acquisito da Briarcliff Entertainment, un distributore indipendente e dopo due settimane in circa 200 sale (ridimensionate per la pandemia), è su iTunes, Amazon e Roku. L’indifferenza dei giganti dell’enterainment solleva interrogativi sul futuro di film politici in streaming. Nella caccia agli abbonati alcune Media Company hanno già capitolato a richieste che rasentano la censura. Nel 2019, Netflix ha rimosso un episodio di Patriot Act – che condannava la copertura dell’omicidio di Khashoggi – dopo una denuncia saudita. Il mese scorso, il New York Times ha scritto che Tim Cook ha bloccato una serie su Apple Tv critica sulla Cina, dove si fabbrica il 90% dei suoi prodotti.