Elezioni farsa: c’è la guerra civile ma rivince il presidente

Il 3 gennaio, Bangassou, una città di trentamila abitanti a 700 km a est di Bangui, sul fiume Mbomou, è stata occupata dai gruppi armati in guerra contro il governo centrale. “Si è scatenato il panico – racconta Innocent Solodi, un giovane originario di Bangassou, ma residente nella capitale, che ha potuto raggiungere alcuni parenti al telefono –. Metà della mia famiglia ha attraversato il fiume per cercare rifugio nella Repubblica democratica del Congo e l’altra metà è fuggita nei campi. Ne sono usciti solo il giorno dopo”. Tutti i centrafricani si sono ritrovati almeno una volta a dover fuggire nei campi o nei boschi dall’inizio della guerra civile nel 2013, caricando i figli sulle spalle. Nelle ultime settimane, ancora una volta, gli abitanti di tutte le città del paese, a eccezione di Bangui, sono tornati a fuggire. Lasciano frettolosamente le case, poi tornano, poi partono di nuovo, sulla scia degli eventi.

Gli scontri sono ripresi il 16 dicembre scorso, undici giorni prima delle elezioni presidenziali e legislative, quando sei dei principali gruppi armati si sono coalizzati per lanciare un’offensiva contro il governo e il presidente, Faustin-Archange Touadé́ra, in carica dal 2016 e rieletto a dicembre. Eppure i centrafricani avevano creduto di poter ritrovare un po’ di tranquillità: i protagonisti della guerra civile si erano, in un certo senso, spartiti il territorio, le sue ricchezze e i ruoli pubblici, formalizzando il tutto nel febbraio 2019 con un accordo di pace, l’accordo di Khartoum. Ma, a metà dicembre 2020, temendo di perdere i vantaggi acquisiti dopo le presidenziali, con la vittoria del presidente uscente, e sostenuti dall’ex presidente François Bozizé, la cui candidatura era stata respinta dalla Corte costituzionale, i gruppi armati hanno deciso di riprendere la strada della violenza. “Sono disperato”, dice Innocent, sospirando. Il giovane è appena rientrato dalla Cina dove ha portato a termine i suoi studi di scienze politiche. “Pensavo di rendermi utile – continua –. E invece mi ritrovo in queste condizioni, impotente e solo. Non ci resta che rimetterci nelle mani di Dio”. Innocent è uno sfollato come centinaia di migliaia di suoi compatrioti. Nel 2013 era stato cacciato dal suo quartiere di Bangui dagli uomini della Seleka, la coalizione di gruppi ribelli del nord e dell’est del paese, a maggioranza musulmana. Oggi per Innocent la paura dei massacri e dei saccheggi è tornata.

Lo stesso vale per Esther Ndewe, una giovane magrolina, 32 anni. È seduta sotto un albero di mango Koulamandja, un villaggio a una ventina di chilometri a nord di Bangui. Nel dicembre 2013, gli uomini della milizia anti-balaka, composta per lo più da cristiani, hanno voluto punirla perché aveva avuto un bimbo con un musulmano. Una scarica di pallottole di AK-47 le ha devastato una gamba. “Se dovessero tornare, non potrò scappare e morirò qui”, dice, piangendo. Accanto a lei, la sua compagna di sventure, Tediane Deboussa, 28 anni, costretta alla sedia a rotelle per il bacino maciullato in uno scontro a fuoco nel marzo 2013, si è ritrovata a terra, svenuta, dopo aver saputo che i gruppi armati, nemici ieri e alleati oggi, stavano avanzando verso Bangui. “I nostri pazienti oggi sono in uno stato di preoccupazione e di stress estremi”, spiega Marius Laga, uno degli psicologi della Ong ivoriana Children’s Life in Rural Areas (CLiRA), attiva in tutto il paese –. Ci dicono: torneranno ad attaccarmi, bruceranno la mia casa. Non possiamo fare nulla per rassicurarli – continua –. Abbiamo iniziato a lavorare con loro per superare il trauma del passato, ma ora, con questa nuova crisi, dobbiamo ricominciare da capo”. Anche se la situazione politica di oggi è diversa da quella del 2013, le nuove violenze riaccendono traumi individuali e collettivi mai guariti. “Le situazioni di crisi provocano gli stessi effetti, anche se i contesti sono diversi”, precisa Laga. La Ong organizza terapie individuali e di gruppo dal 2017. Si fa carico delle vittime di stupro che sono spesso respinte dalle famiglie. Si occupa anche di formare degli agenti psicosociali perché svolgano un ruolo di sensibilizzazione nei quartieri e organizza incontri con la popolazione. “La maggior parte delle persone non sono consapevoli di aver subito un trauma – aggiunge Ignace Kouassi, anche lui psicologo –. Ma sviluppano psicosi, dipendenze, soprattutto da alcol, e depressioni”. In due anni la Ong ha seguito circa 2.000 persone. Una goccia d’acqua. I bisogni sono giganteschi e gli esperti di salute mentale qui sono rari. La prima facoltà di psicologia nella Repubblica Centrafricana è stata creata solo nel 2014. Ancora non ci sono laureati. Le persone vengono assistite nell’ambito dei programmi delle Ong o delle agenzie delle Nazioni Unite, e sempre da stranieri, mai da africani. Le iniziative locali sono ancora rare. “Il governo ha istituito, nel 2015, una “giornata delle vittime”, l’11 maggio, ma per la gente è come se non esistesse”, osserva Pascale Serra, regista centrafricana di origini portoghesi. Con due amici ha fondato la Maison de la Mémoire, aperta dal settembre 2019, in un luogo tranquillo con un ampio giardino, tutti i fine settimana. La mostra permanente presenta i ritratti di donne e uomini che mostrano all’obiettivo del fotografo la foto di un caro rimasto ucciso durante la guerra civile. Sono organizzati anche laboratori di arteterapia, in collaborazione con artisti centrafricani. Uno sforzo enorme sarebbe necessario per poter offrire a tutti quelli che ne hanno bisogno delle cure adeguate. Servirebbe soprattutto della stabilità e, come dice Marius Laga, lo psicologo, servirebbe ”ritrovare la propria vita”. Ma chi dice crisi politico-militare dice povertà. “Nel 2013 le persone hanno perso tutto e per sette anni si sono battute per ricostruirsi – ricorda monsignor Nestor Nongo, vescovo di Bossangoa, a 300 km da Bangui –. Sono riusciti a mettere su delle piccole attività per mandare avanti la famiglia, ma eccoli di nuovo costretti a fuggire nei campi, rischiando di nuovo di perdere tutto”. La “crisi”, come dicono i centrafricani parlando della guerra civile, ha portato con sé frequenti saccheggi e il crollo di uno stato già disfunzionale. Malgrado gli aiuti internazionali, nulla è stato ricostruito dall’accordo di pace, o quasi.

La grande fabbrica di zucchero dove lavorava Joseph Zama, a Kouango, nell’est del paese, saccheggiata e parzialmente distrutta nel 2014, non ha mai riaperto. Zama, 52 anni, rifugiato a Bangui, non ha ritrovato lavoro. Sua moglie, insegnante in una scuola privata, guadagna 85 euro al mese, con cui devono sfamare una dozzina di bambini, poiché la coppia ha accolto anche i figli del fratello di Joseph, ucciso nel 2015, e di sua sorella, morta di malattia. Purtroppo ha dovuto togliere i bambini dalla scuola privata, troppo costosa, e metterli in una scuola pubblica, dove però manca di tutto, “anche i banchi”. Joseph, che fa lavori saltuari, vive nell’angoscia da metà dicembre. Il litro di benzina costa 1,2 euro ed è obbligato a limitare i suoi spostamenti in auto necessari però per trovare lavoro. I prezzi dei beni di prima necessità sono cresciuti. I gruppi armati sono riusciti a bloccare la strada tra il Camerun e Bangui, principale arteria di approvvigionamento della capitale. I commercianti all’ingrosso per adesso vivono grazie agli stock. I piccoli commercianti non possono più spostarsi in provincia. “Prima andavo a Bossangoa due volte al mese per rifornirmi di manioca, zucca, fagioli, e una volta al mese a Gaoua Boulaye, al confine con il Camerun, per comprare arachidi e pesce affumicato – spiega Béatrice Namsene, che tiene un bancarella in un mercato di quartiere a Bangui –. Oggi non posso più spostarmi, è troppo pericoloso. Allora compro a dei grossisti qui, ma è molto più caro. E poi le persone acquistano meno, stringono la cinghia. E anche io”. Al suo fianco, Marie-Noëlle Gotowane, combattente nell’antibalaka fino al 2018, rischia di dover chiudere la sua tavola calda e si dice pronta a riprendere le armi in cambio di uno stipendio.

Traduzione di Luana De Micco

Crediti deteriorati. Bruxelles persevera nell’errore. Il piano Ue sarà un disastro per le banche e i clienti

La Commissione Europea ha pubblicato il 16 dicembre scorso l’action plan preparato dalla Commissaria Mairead McGuinness sui crediti deteriorati delle banche (i cosiddetti Npl, Non performing loans). Il piano, nonostante la pandemia, si muove sul tracciato del processo avviato nel 2017dal Consiglio europeo: per affrontare il problema si punta a favorire un nuovo mercato europeo unificato di compravendita degli Npl. La torta è grossa. Andrea Enria, Capo della vigilanza della BCE, stima in 1400 miliardi€i nuovi crediti in default generati dalla crisi, ben più dei 1000 creati nel 2007/2008.

La ricetta europea è sempre la stessa e diabolica: svenare le banche (e annessi clienti in difficoltà), costringendole a vendere i crediti a prezzi di saldo a favore dei fondi speculativi che sapranno lucrare soprattutto sulle garanzie collegate. La Commissione sostiene di voler evitare il rischio che questa enorme massa di “sofferenze” bancarie impedisca alle banche di poter dare nuovo credito per la ripresa economica, ma i numeri sono tali che mantenere questa ricetta sbagliata appare come quei protomedici e speziali che davanti a un esangue malato ordinassero implacabilmente salassi, determinandone il destino.

Come al solito a Bruxelles non ci si pone mai il problema di come evitare che centinaia di migliaia di clienti “buoni” delle banche entrino in crisi proprio per effetto della recessione innescata dal Covid. Si dà come per scontato che sia ineluttabile una valanga di insolvenze, e che l’unico rimedio sia gestire questa clientela con le logiche della speculazione finanziaria.

La Commissione poi solo ora sembra essersi convinta della necessità di creare delle Bad Bank nazionali per gestire gli Npl generati anche dalla crisi pandemica. Ricordiamo che nel 2015 l’Italia propose le Bad Bank nazionali ma gli organismi europei si misero di traverso costringendoci ad approvare in fretta e furia la normativa sulle Gacs, le garanzie statali sulle cartolarizzazioni di crediti in default che coprono i rischi dei fondi che sottoscrivono i titoli senior emessi dalle società che comprano gli Npl delle banche.

La Commissione prevede inoltre alcune iniziative che hanno come obiettivo quello di ridurre la “frammentazione finanziaria“, ovvero ritiene siano troppe 2000 banche in Europa e occorra istituzionalmente favorire le aggregazioni tra istituti anche attraverso le regole del nuovo Piano di azione sugli Npl. Ne faranno le spese le banche locali, più vicine al territorio, che hanno maggiore flessibilità e percezione del tessuto economico in cui operano, vicine alle Pmi e agli artigiani che sono il 90% della economia italiana. Una pacchia per grandi banche transnazionali ormai controllate dai fondi di investimento, del tutto disinteressate alle vicende di sistemi economici parcellizzati come il nostro, e sicuramente orientate alla massimizzazione del profitto e alla gestione del cospicuo risparmio liquido degli italiani, come rileva anche il Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che vigila sui servizi, nella relazione dello scorso autunno.

Se, come si dice, il buon giorno sivededal mattino, l’Ue annuncia un 2021 assai periglioso.

 

Il libro della Kelton e la MMT: ri-pensare fuori dalla scatola

Il dibattito economico si sta trasformando profondamente e velocemente. Secondo alcuni è il “momento MMT”. La Modern Monetary Theory è una scuola economica nata negli anni ’90 che si sta facendo sempre più spazio. Durante la crisi del Covid, mentre la teoria dominante già si divideva fra difensori a oltranza e “aperturisti”, è stato pubblicato Il mito del deficit, un libro dell’economista Stephanie Kelton. Ex capo economista dei democratici nella commissione bilancio del Senato Usa, è stata consigliera di Bernie Sanders e poi di Joe Biden nella stesura del programma economico. Il libro, da poco tradotto in italiano, espone in modo divulgativo le basi della Mmt. Rovesciando la visione dominante per cui il bilancio del governo deve tendere al pareggio (almeno nel lungo periodo), la Kelton sottolinea che il deficit pubblico deve essere uno strumento per promuovere la piena occupazione e la stabilità economica.

Ma non si può capire la MMT se non si mettono in discussione le basi fondanti della visione convenzionale dell’economia. La moneta non è una merce scarsa per natura. A essere naturalmente limitati non sono i soldi, ma le risorse reali: lavoratori, materie prime, etc. Lo Stato non è come una famiglia, perché ha la sovranità monetaria. Questo non significa che si debba spendere a pioggia, ma piuttosto a sufficienza e tenendo conto dei limiti reali dell’economia, per evitare l’inflazione. Quanti lavoratori possiamo impiegare? Quanti macchinari? Questi sono i veri problemi secondo la MMT, non i limiti finanziari dello Stato, che sono sempre artificiali e politici.

Molti non capiscono la MMT o la guardano con ostilità perché sono legati all’idea che lo Stato si debba finanziare prima di spendere (e l’economia di mercato tenda autonomamente alla piena occupazione). Ma la scarsità del denaro è artificiale: lo Stato può creare moneta, alla quale dà valore con le tasse. Ecco un altro punto chiave: le tasse non servono a finanziare la spesa pubblica. Infatti, come potrebbero le persone pagare le tasse se lo Stato non avesse prima immesso denaro nell’economia? Per la MMT le tasse fanno sì che le persone offrano il loro lavoro per ottenere questa moneta: così lo Stato si potrà rifornire di quello di cui ha bisogno. Ma le tasse servono anche a controllare l’inflazione e la disuguaglianza e per incoraggiare o scoraggiare certi comportamenti.

Allora perché lo Stato si indebita se può emettere denaro? Lo fa per offrire un asset sicuro ai cittadini e alle banche (e anche per evitare che il tasso di interesse sulle riserve bancarie cada a zero). Secondo la MMT, indebitarsi è una scelta del governo, come il tasso di interesse da pagare sui titoli di Stato è una scelta della banca centrale (lo vediamo proprio in questi tempi). Il debito pubblico è semplicemente la somma dei deficit passati, non un fardello sulle future generazioni. Uno Stato che emette la sua valuta può sempre permettersi di ripagare i suoi vecchi debiti e contrarne di nuovi. Attenzione, però: tutto ciò vale per uno Stato sovrano. Come afferma la Kelton, esistono Stati con un alto grado di sovranità monetaria (Usa, Regno Unito, Giappone) e altri che ne hanno poca (come quelli con un tasso di cambio fisso). Invece, gli Stati che sono in un’unione valutaria (come l’Italia e la Germania) hanno ceduto la loro sovranità monetaria a un’autorità sovranazionale. Nel nostro caso, la descrizione MMT non si applica al singolo Stato nazionale, ma all’Eurozona.

Tuttavia, è proprio nei rapporti di un’economia col resto del mondo che la spiegazione MMT scricchiola. Il problema è che non tutte le economie si possono liberamente indebitare con l’estero nella propria valuta. Per gli Usa è facile, per un Paese in via di sviluppo, e non solo, può diventare proibitivo.

Questa è una delle critiche principali che gli economisti alternativi muovono alla MMT, mentre il mainstream, paradossalmente, la attacca dove è più forte: nella spiegazione del funzionamento del bilancio statale. La realtà, infatti, ci sta mostrando che “trovare i soldi è la parte più semplice. La vera sfida sta nel gestire le risorse reali di cui hai concreta disponibilità (…) senza far accelerare l’inflazione”, scrive Kelton. E una proposta per farlo, discussa in profondità nel libro, è un piano di lavoro garantito dallo Stato (un esperimento simile è iniziato in Austria). Certo, la descrizione della realtà fornita dalla MMT non è nuova. Ma il merito della Kelton e dei suoi colleghi è assemblare le intuizioni di vari economisti, da Keynes ad Abba Lerner, per fornire una spiegazione che sfida il sapere convenzionale. La MMT non è una panacea (lo riconosce Kelton stessa), ma permette di “passare da una narrazione incentrata sulla scarsità a una incentrata sulle opportunità”. Un utile strumento contro errori e luoghi comuni del mainstream, residui di un mondo estinto.

Il regno di Big Tech: Finanza e rendita dominano i colossi

La pandemia consente ai giganti hi-tech di rafforzare i loro monopoli globali. Il Covid spinge la digitalizzazione del lavoro e dell’istruzione, la domanda nel commercio e servizi online. Per uscire dalla recessione i tassi resteranno a lungo ai minimi. Tutto ciò aumenterà la finanziarizzazione delle grandi piattaforme digitali. Lo spiega un rapporto del Centro di ricerca olandese sulle multinazionali (Somo) che ha analizzato bilanci e modelli di business dei giganti Usa Alphabet (Google), Amazon, Apple, Facebook, Microsoft e delle cinesi Alibaba e Tencent.

Nell’ultimo decennio la classifica delle maggiori aziende globali è cambiata. Se nel 2008 primeggiavano le società petrolifere, nel 2018 le prime cinque imprese mondiali erano hi-tech. Nel 2016 il 90% dei dati mondiali esisteva solo da due anni, nel 2021 il traffico web sarà il doppio del 2018. Così i ricavi di Apple sono cresciuti di 32 volte da 8 miliardi di dollari nel 2000 a 260 nel 2019, quelli di Microsoft sestuplicati da 22 a 126 miliardi. Sono sorti sette nuovi colossi che in Borsa valgono ognuno oltre 500 miliardi, in tre casi più di mille (Microsoft, Amazon e Google) e uno quasi 2mila (Apple), mentre i concorrenti minori vendono solo sulle infrastrutture delle big tech. Le attività finanziarie delle sette sorelle sono passate da 67 miliardi nel 2007 a 740 nel 2019 e servono per acquisire aziende ed entrare in nuovi settori. Le cinque big tech Usa investono in titoli pubblici (263 miliardi), corporate bond (163) e fondi monetari (52), Alibaba e Tencent invece in cash e liquidità. Ma la quota degli asset finanziari su quelli totali è scesa dal 60% del 2010 al 47% del 2019: sono cresciuti gli investimenti fisici, specie per Amazon (98 miliardi, soprattutto in magazzini) e Google (85 miliardi, data center). Nel frattempo il debito è triplicato a 295 miliardi dai 94 del 2014: in Apple da zero nel 2013 è arrivato a 108 miliardi, in Microsoft da zero nel 2008 a 79, in Amazon da 393 milioni nel 2000 a 52 miliardi. Si tratta soprattutto di emissione di obbligazioni: grazie ai tassi ai minimi Apple ha raccolto 8,5 miliardi con bond da 3 a 30 anni che pagano lo 0,75%, Amazon 10 miliardi a tre anni allo 0,4%.

Gli attivi immateriali sono balzati da 26 miliardi nel 2010 a 192 nel 2019. La maggior parte sono avviamenti aumentati di 20 volte dai 7 miliardi del 2007 a 149. Calano invece gli investimenti in brevetti: da innovatrici le imprese sono divenute percettrici di rendite. Dal 2000 al 2019 Microsoft e Apple hanno versato agli azionisti 759 miliardi (235 miliardi in dividendi, 524 come riacquisto di azioni proprie), Alibaba e Tencent appena 5, Amazon, Facebook e Alphabet nessuno. Ma dal 2015 al 2019 hanno pagato compensi e bonus a dirigenti e dipendenti per 144 miliardi anche perché non amano le tasse: l’anno scorso avevano 310 filiali nei paradisi fiscali.

Intanto i monopoli delle sette sorelle crescono: grazie al loro ruolo di proprietari di infrastrutture essenziali controllano i prezzi, promuovono i propri prodotti e servizi, estraggono rendite di posizione dalle asimmetrie informative verso utenti, clienti, concorrenti e regolatori. Nel 2019 ad Facebook e Alphabet hanno raccolto il 50% della pubblicità digitale mondiale (587 miliardi), Apple ha il 32% delle vendite mondiali di smartphone, Microsoft il 15,4% delle entrate globali del cloud pari a 39 miliardi.

Anche l’ostilità dei legislatori è in aumento, specie nella Ue che da pochi mesi ha varato nuove norme sulle piattaforme digitali. Google nel 2018-19 ha ricevuto da Bruxelles multe per 6,8 miliardi per violazione della concorrenza. Amazon dal 2019 è sotto class action negli Usa per l’antitrust e a novembre la Commissione Ue ha affermato che ha distorto il mercato delle vendite online. Apple nel 2018 è stata accusata dall’Unione Europea di elusione fiscale con la richiesta di arretrati per 15 miliardi. Facebook nel 2019 ha pagato una multa da 5 miliardi al Governo Usa per violazioni della privacy. Microsoft dal 2004 al 2018 ha versato sanzioni per 2,46 miliardi dalla Ue per distorsioni commerciali. L’anno scorso Trump ha vietato WeChat di Tencent alle aziende Usa. Ad Alibaba è andata peggio: nel 2020 è stata bandita dall’India per violazioni della privacy. Dopo un discorso molto duro contro le banche statali e le autorità finanziarie cinesi, da ottobre il fondatore Jack Ma è sparito. Pechino ha annullato lo sbarco in Borsa di Ant Group, la controllata dei pagamenti digitali da cui Alibaba voleva incassare 37 miliardi. Poi l’Antitrust cinese ha aperto un’indagine sul gruppo.

Ci sono anche altri timori. Il rapporto 2019 sulle piattaforme digitali dello Stigler center dell’Università di Chicago spiega che la concentrazione di potere economico, mediatico, digitale e politico “è potenzialmente pericolosa per le democrazie”. I social media aiutano il diritto di parola ma sono attori politici opachi nelle mani di pochi soggetti con immense capacità di pressione sui legislatori. Le piattaforme disintermediano i mercati dei media, sottraggono risorse al giornalismo di qualità e investigativo. Daron Acemoglu, professore di economia al Mit, spiega su Project Syndicate che le sette sorelle non investiranno in tecnologie che potrebbero ridurre i loro profitti, così come le compagnie petrolifere senza sussidi non avrebbero mai puntato sulle fonti sostenibili. Le big tech sono cresciute fino a determinare la direzione dell’evoluzione tecnologica e ai concorrenti non resta che rendere i propri prodotti interoperabili – quindi dipendenti e subordinati – alle piattaforme delle sette sorelle. Colpire le big tech con le norme antitrust è necessario ma non basterà. bisogna che la tecnologia sostenga lavoratori, consumatori e cittadini, conclude Acemoglu.

Dal governo ai privati: il piano da oltre 11 miliardi per far “traslocare” la Pa

Una nuvola virtuale che dovrebbe contenere tutti i dati e le informazioni dei cittadini e della Pubblica Amministrazione, togliendoli di fatto dai database fisici che ad oggi li custodiscono, nel 95 per cento dei casi in modo poco sicuro e certo non all’avanguardia. Il parallelismo è semplice: così come gli archivi cartacei diventano presto obsoleti, anche i server fanno lo stesso. L’avanguardia per conservare e gestire la mole di informazioni prodotte oggi è il cloud, uno spazio virtuale che in quanto tale è facilmente raggiungibile da tutti e che grazie alla sua “immaterialità” risolve molti problemi di manutenzione e gestione. O meglio li “appalta” ai fornitori che, di norma, sono più preparati e attrezzati a farlo. E si paga quanto si consuma

Anche per questo il recovery plan italiano a oggi destina al progetto di un cloud nazionale della Pubblica Amministrazione almeno 11,3 miliardi di euro. Non ci sarà, ovviamente, un cloud pubblico, di Stato. Farlo, ci spiegano, è un utopia: le imprese che si occupano di questi servizi investono miliardi di dollari ogni anno per garantire efficienza e sicurezza e nessuno Stato potrà mai eguagliarle. Il progetto sul cloud, in gran parte già impostato nell’ultimo piano triennale, prevede prima di tutto l’identificazione di una cornice regolatoria in cui poi innestare gare per l’affidamento dei servizi. Dovrebbe contenere i vincoli, i criteri e i requisiti tecnici che le aziende dovranno rispettare per partecipare alle gare. Il modello è quello di Gaia-X, di cui leggete nell’articolo accanto, e la speranza è che un quadro possa essere identificato già nel primo semestre del 2021. All’interno di questi orientamenti, che saranno si spera in linea sia con i regolamenti europei sui dati che con gli indirizzi di sicurezza, c’è poi l’affidamento dei servizi ai privati. Anche in questo caso l’obiettivo è favorire i fornitori nazionali o almeno europei. Questa sarà forse la sfida maggiore se si tiene conto che i protagonisti del settore, quelli con maggiore capacità di fornitura di cloud insomma, sono Google, Amazon, Microsoft, Ibm&C. Tutti extra Ue.

L’affidamento, comunque, dovrà essere diverso in base al tipo di dati da gestire. “Sono tre le linee di indirizzo della strategia Cloud First per la Pubblica Amministrazione – spiega Paolo De Rosa, Cto del Dipartimento per la Trasformazione digitale guidato dalla ministra Paola Pisano -: la prima sarà garantire alle amministrazioni la possibilità di rivolgersi al mercato, per quei dati e servizi che non presentano particolari criticità e che possono essere conservati in cloud cosiddetti pubblici (quali sono quelli comunemente offerti tramite servizi in abbonamento: Apple, Google, Fastweb, Tim, etc.), ma comunque secondo regole e garanzie che ne assicurino il controllo a cittadini e amministrazioni, come già sta avvenendo nel contesto dell’Ue per il progetto Gaia-X”. La seconda linea “sarà diretta a garantire l’autonomia tecnologica ed il controllo statale su asset considerati particolarmente strategici per il Paese, attualmente ospitati in quei data center delle amministrazioni centrali stimati non sufficientemente sicuri ed affidabili”. Nella bozza iniziale del PNRR, infatti, è previsto uno schema del ‘Modello di transizione al Cloud della Pa’ che prevede che quando si impongono maggiori presidi di sicurezza e di controllo pubblico si ricorra a cloud ‘privati’, ad esclusivo uso della Pa, che possono risultare dall’aggregazione dei data center esistenti, quando di alta qualità, ovvero erogati da un Polo Strategico Nazionale creato sfruttando le sinergie tra pubblico e privato col coinvolgimento di uno o più operatori italiani e/o europei. “La terza linea di indirizzo – spiega sempre De Rosa – prevede il potenziamento ed il consolidamento dei data center di alta qualità che già esistono, come quelli delle poche società in-house centrali e regionali, come Sogei, che già ospitano servizi fondamentali, dal bilancio dello Stato a rami della sanità”.

Sia i colossi che i più piccoli potranno partecipare alle assegnazioni: le gare saranno divise in base ai servizi di cui gli enti, centrali e locali, avranno bisogno. Fondamentale sarà rispettare i criteri che garantiscano la cosiddetta “interoperabilità” ovvero la possibilità di far parlare tra loro le infrastrutture delle diverse amministrazioni ma anche di permettere eventuali subentri ad altre aziende, senza creare dinamiche bloccate di dipendenza da un solo fornitore. Il rischio che si creino grandi monopoli all’ombra della Pa digitale, infatti, è sempre dietro l’angolo così come che alle piccole e medie imprese restino le briciole. Al momento, comunque, non c’è ancora certezza sulla scansione temporale delle gare così come sul soggetto a cui toccherà da un lato valutare le aziende che possano partecipare alle gare e dall’altro certificarne l’affidabilità sulla base dei criteri stabiliti. Si attende poi l’esito delle gare Consip aperte a inizio anno per realizzare un accordo quadro per la fornitura di servizi “cloud IaaS e PaaS” (rispettivamente e in soldoni, spazio di archiviazione e piattaforme per sviluppare servizi). Decine di lotti da centinaia di milioni di euro e multifornitore all’interno dei quali le pubbliche amministrazioni potranno concordare i contratti per i servizi di cui hanno bisogno. Il valore è di oltre 2 miliardi e mezzo di cui 1,2 per lo sviluppo di “servizi applicativi in ottica cloud” per provare ad arrivare preparati a quella che per molti è già una rivoluzione.

Il “cloud” Ue rischia di nascere già in mano ai big Usa e cinesi

I dati sono per il XXI secolo ciò che il petrolio è stato per il XX, ma nell’economia digitale il Vecchio Continente è in ritardo abissale rispetto a Usa e Cina. All’Unione Europea servono regole e standard comuni per il cloud, la “nuvola” che consente di conservare, condividere ed elaborare su server remoti le informazioni, trasformandole in carburante per l’innovazione specie nelle piccole e medie imprese. Per questo Bruxelles punta su Gaia-X, l’associazione per il cloud europeo lanciata da Germania e Francia e alla quale l’Italia ha risposto con interesse. L’adesione delle multinazionali statunitensi e cinesi che dominano il settore fa discutere: se da un lato è necessaria al progetto, dall’altro pone gravi rischi.

Secondo Global Market Insights, il fatturato europeo di questa tecnologia è destinato a triplicare dai 25 miliardi di dollari del 2019 a 75 nel 2026. Con il 18% dei ricavi totali, nel 2018 la Germania era il primo mercato continentale. Quanto all’Italia, secondo l’Osservatorio della scuola di Management del Politecnico di Milano l’emergenza Covid nel 2020 ha fatto crescere del 21% su base annua il valore del cloud a 3,34 miliardi.

Bruxelles sa che la “nuvola” è strategica per concretizzare il giro d’affari da 829 miliardi di euro previsti in Europa nel 2025 dall’economia digitale. Nel suo discorso di settembre sullo stato dell’Unione, la presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen ha spiegato che la Ue “costruirà un cloud europeo basato su Gaia-X come parte del piano Next Generation”. Ma nel settore il Vecchio Continente sconta un gap di investimenti di 11 miliardi l’anno rispetto a Usa e Cina. Da qui il piano di investimenti pubblici per 10 miliardi mirato a creare un ecosistema aperto di cooperazione che possa competere con il modello privato delle multinazionali Usa e con i monopolisti di Stato cinesi.

Il 15 ottobre scorso 25 Paesi, tra i quali l’Italia, hanno firmato una dichiarazione per creare la Federazione europea del cloud. Il 18 e 19 novembre 4mila tra manager, esperti e ricercatori hanno così partecipato al vertice virtuale di lancio dell’associazione. Gaia-X vuole realizzare un’infrastruttura federata che consenta di condividere in un ambiente sicuro e rispettoso della privacy i dati di cittadini, imprese e governi, aprendo alle imprese i dati di settori pubblici come i trasporti e la sanità. I provider dovranno adottare gli standard più elevati di sicurezza e i principi europei di apertura, trasparenza, interoperabilità, capacità di connessione. Il primo passo sarà la stesura delle regole tecniche e di servizio, non sotto forma di norma come nel caso del Gdpr, il regolamento sulla privacy, ma come alleanza commerciale.

Sin dal primo giorno Gaia-X conta 159 aziende partecipanti: 49 tedesche, 33 francesi e 29 italiane tra le quali Enel Global Services, Intesa Sanpaolo, Leonardo, Poste e Tim. Ma l’Europa è terra di conquista per i colossi Usa e cinesi, veri padroni mondiali del cloud. Questi giganti hanno risorse finanziarie enormi e realizzano investimenti fuori portata per gli operatori locali. L’8 maggio scorso Microsoft ha annunciato di voler investire 1,5 miliardi di dollari per creare un data center in Italia. La settimana prima Amazon Web Services aveva inaugurato la sua farm a Milano. A marzo Google aveva firmato una partnership con Telecom Italia. Ecco perché Amazon, Microsoft, Google, Ibm e Alibaba partecipano all’associazione sin dal suo avvio.

Bruxelles sa di dover trattare da una posizione di svantaggio con Usa e Cina. Il timore è che però la ricerca di un accordo a ogni costo con le società big tech possa vanificare le aspirazioni europee di sovranità e autodeterminazione digitale. “La Ue e i governi nazionali devono garantire che Gaia-X non diventi il cavallo di Troia di Google, Apple, Facebook, Amazon o Microsoft”, spiegano Stefane Fermigier e Sven Franck, imprenditori e attivisti francesi dell’open source. Fermigier e Franck ricordano che l’ad dell’associazione, Hubert Tardieu, viene da Atos, società di It con sedi in Francia e Germania che ha stretto un’alleanza globale con Google propriol nel cloud.

Tra i membri di Gaia-X, a sollevare i maggiori sospetti è Palantir. La società Usa ha scelto il suo nome non a caso: nel “Signore degli Anelli” di Tolkien indica le sette sfere di cristallo che “sorvegliano da lontano”. Palantir, che il 30 settembre si è quotata a Wall Street raccogliendo 15,8 miliardi di dollari, fu fondata nel 2003 per creare software antiterrorismo per il Pentagono e oggi offre due piattaforme: Gotham, che consente agli analisti della difesa e dell’intelligence di “identificare schemi nascosti in profondità nei database”, e Foundry, che “trasforma i modi in cui le imprese interagiscono con i loro dati creando un sistema operativo centrale”.

A fine giugno 2020, questi servizi erano usati da 125 clienti di 36 settori in oltre 150 Paesi. Tra le aziende che utilizzano Foundry ci sono Airbus, Bp, Credit Suisse, Merck, Fca e Ferrari. Gotham invece è usato da esercito, marina, Marines e aviazione Usa, Fbi e Polizia danese, ma i primi clienti sono stati i servizi segreti statunitensi: Cia, Nsa (Edward Snowden rivelò che Palantir può tracciare ogni attività online), Dipartimento della sicurezza interna e Agenzia di Washington per il controllo dell’immigrazione, che usa il software per aumentare arresti e deportazioni di immigrati illegali.

Amnesty International e gruppi per i diritti umani storcono il naso, Bruxelles però non può permettersi di cadere dalla “nuvola”.

Luna sì, luna no. È vera la storia dello sbarco? “Non so, non ho visto, e se c’ero dormivo”

Mia madre, l’altra sera, era in vena di racconti: “Ma tu, lo sbarco dei primi uomini sulla Luna, te lo ricordi?”. “Mamma avevo tre anni, come faccio a ricordarmelo?”. “Ah, quindi non hai visto Armstrong poggiare il primo piede sulla Luna?”. “ Il cantante?”. “Ma che cantante, l’astronauta! Non sai che ti sei persa. È stata una notte magica. Tre uomini sono sbarcati sulla Luna il 20 luglio del ’69”. “Ma tutti e tre scesero?”. “No, solo il primo… dopo un po’ anche il secondo”. “E il terzo?”. “No, il terzo rimase sull’astronave col motore acceso, sulla Luna non si sa mai! Ti ricordi le parole che pronunciò Armstrong appena allunato?”. “Mamma, ti ho detto che avevo tre anni!”. “Un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità. 650 milioni di spettatori seguirono trepidanti l’evento e tu non ti ricordi?”. “Mamma io dormivo!”. “Ecco vedi, quando c’è una cosa importante da vedere, tu dormi sempre!”. “Allora mamma, cosa hanno fatto di bello sulla Luna questi tre?”. “Hanno raccolto materiale lunare, pietre, polvere… reperti insomma”. “E quindi tutto quel viaggione solo per tre sassetti?”. “Certo, per studiare e capire di cosa è fatto il nostro satellite”. “Ah, e di cosa è fatto?”. “Senti, io non lavoro alla Nasa, non lo so esattamente. Però, se ci sono andati, un motivo ci sarà stato, no?”. “E perché non ci sono più tornati?”. Mia madre ha incominciato a innervosirsi: “Ma che ne so io! Io sono stata semplicemente testimone di un grande evento storico, come tutto il mondo, tranne te”. “Mamma, se volevano che lo vedessi anch’io potevano rifarlo anche l’anno scorso!”. “Si, adesso tornano sulla Luna per far contenta te!”. “Mamma però c’è chi dice che era tutto finto, girato come un film in uno studio cinematografico”. “Figurati, se fosse stato un film gli americani non ci mandavano tre sconosciuti, come minimo ci spedivano Gary Cooper!”.

 

Il coraggio della solitudine. Inascoltato Sciascia capace di vedere prima (e meglio) i nostri mali

Il libro è di 143 pagine e ti immagini che, in questa festa per Leonardo Sciascia che in tanti – anche grandi firme – stanno celebrando, si tratti di un rapido, affettuoso pamphlet. Tutti sanno che, fra coloro che hanno accolto, difeso, sostenuto e poi eletto al parlamento (Partito radicale) lo scrittore Leonardo Sciascia, uno che stava sconvolgendo il paesaggio letterario e la sua rappresentazione politica, c’era Valter Vecellio, politico colto e scrittore amico. È stato fra i frequentatori più vicini e più attenti anche perché li ha uniti la militanza radicale. Ma c’è un segreto nelle pagine che Vecellio ha dedicato a Sciascia, come un sorta di ringraziamento personale e di ricordo esclusivo di persona che sa. Il libro è Leonardo Sciascia, la politica, il coraggio della solitudine (Ponte Sisto Editore). Consiste in questo. Sembra che il libro sia un’intensa e affettuosa collezione di aneddoti da dedicare a un grande amico scomparso. In realtà sono un indice di argomenti che trasforma una biografia in un glossario e interpretazione di idee.

La più importante, con cui comincia, è il raro impegno politico del testimone solitario. Per esempio, è la sua ribellione al disconoscimento – da parte di molti cattolici autorevoli e vicinissimi a Moro –, delle lettere dello statista diffuse durante la prigionia nel mai scoperto (o subito scoperto e taciuto) covo delle Brigate rosse. Giustamente Vecellio nota quel combattere da solo contro una piena impopolarità, come il segno di un cavaliere di ventura che non viene mai disarcionato dalle cose che fa ma, piuttosto, cambia ciò che viene toccato dal suo impegno e dalla sua capacità di capire, da solo e in anticipo. Un passaggio importante del libro è il rapporto, allo stesso tempo da bambino meravigliato e da spettatore profetico, per il cinema. Questo mi spiega perché ho incontrato Sciascia nella casa di Francesco Rosi, l’ho ascoltato narrare fatti politici del momento come se fossero già diventati film, ma che non avevano una interpretazione giornalisticamente plausibile. Queste pagine introducono alla parte più bella e importante del libro di Vecellio, che non è un ricordo o un omaggio, ma una camminare insieme lungo percorsi che, al momento, erano cautamente nascosti. Non è il disprezzo dei giornalisti (ne cita alcuni, che li condividesse o no) per le loro capacità professionali e il grado di informazione vera che sapevano passare. Ma Vecellio ci racconta che Sciascia vede subito (pensate quanti anni prima) le incrinature profonde e non riparabili dell’edificio dal quale un tempo si poteva gridare al fuorilegge centrato dalla notizia, “È la stampa bellezza”. Avete capito che in questo libro ci sono due voci da ascoltare. Quella di Sciascia, che anticipa coraggiosamente il presente. E quella di Valter Vecellio, che continua a collegare l’allora con l’adesso perchè tanti capiscano.

 

Leonardo Sciascia. La politica, il coraggio della solitudine

Valter Vecellio

Pagine: 143

Prezzo: 12

Editore: Ponte Sisto

Odisseo, Danny Zuko e la parola amen: all’idiozia non c’è limite

 

PROMOSSI

Entra odio ed esce amore. Poco prima dell’irruzione a Capitol Hill, che sarebbe costata la vita a quattro persone, Donald Trump è stato ripreso insieme allo staff e ad alcuni parenti mentre osservava le immagini dei suoi supporter riuniti nella Capitale sulle note di Gloria, famoso brano di Umberto Tozzi. Al nostro la cosa, giustamente, non è andata giù: “Gloria è stata usata durante azioni di inaudita violenza verbale e fisica. Mi dissocio e in quanto autore sono pronto a difendere i valori che veicola la canzone. Le mie canzoni parlano della bellezza della vita, e vorrei cogliere l’occasione per dissociare completamente me stesso e la mia musica da qualsiasi atto di violenza. Ho sempre preferito l’amore alla violenza, il dialogo alla forza. Nelle mie canzoni canto la bellezza della vita”. Da Glory days a Gloria, abbiamo trovato il nostro Bruce!

 

BOCCIATI

Generazione cretinetti. Dopo Via col vento, anche Grease è finito nel mirino dei revisionisti. Il film – uscito nel 1978 e ambientato alla fine degli anni Cinquanta, diretto da Randal Kleiser e interpretato da John Travolta e da Olivia Newton John – è stato sommerso da una valanga di critiche sui social, dopo che è stato proiettato su Bbc1, il giorno di Santo Stefano. Pietra dello scandalo un verso della canzone “Summer Nights” , in cui Danny Zuko descrive la scena di seduzione con Sandy e il coro chiede “Dimmi di più, dimmi di più, lei ha lottato?” (“Tell me more, tell me more, did she put up a fight?”). Gli spettatori più giovani, hanno etichettato il musical come “sessista”, “eccessivamente bianco”, “misogino”, “omofobo” e persino “rapey” (qualcosa che incita allo stupro). Vince la gara di idiozie “eccessivamente bianco”.

 

Non molto clever. Siamo negli Stati Uniti (la vicenda è precedente alla presa del Campidoglio da parte dei fanatici trumpiani). Emanuel Cleaver, un pastore protestante democratico eletto alla Camera per lo stato del Missouri, ha scelto di chiudere la sua preghiera, recitata in apertura dei lavori del 117esimo Congresso, con la parola “Amen”. Fin qui nulla di strano. Non fosse che dopo Amen il nostro Cleaver ha aggiunto “A woman”. Il repubblicano Guy Reschenthaler, cha ha twittato il video online, ha spiegato che “amen” viene dall’ebraico, e significa “così sia”. Dunque non ha nessun senso accompagnare A- men al successivo A-woman (perché non X-man?). L’ex presidente della Camera, Newt Gingrich, ha invece criticato con toni più forti la preghiera di Cleaver: “la follia radicale è iniziata”. Radicale non si sa, lessicale certamente.

 

Andra moi énnepe ottusa. “Sono molto orgogliosa di dire che quest’anno abbiamo rimosso l’Odissea dal piano di studi!” Lo ha detto, e con che orgoglio, la professoressa Heather Levine, docente alla Lawrence High School di Lawrence, nel Massachusetts. Omero veicolerebbe un maschilismo “tossico” (sarà mica perché la prima parola dell’Odissea è ‘Andra’, accusativo di ‘aner’, uomo?). L’ennesimo episodio di cancel culture lo abbiamo scoperto dal Wall Street Journal che ha raccontato di come con lo slogan #DisruptTexts, si stiano eliminando i classici, da Omero a Francis Scott Fitzgerald. Alla Brown University gli studenti se la sono presa con le statue degli imperatori Marco Aurelio e Augusto in quanto ‘suprematisti bianchi. Il New York Times si è chiesto: dovremmo cancellare anche Aristotele? “Qualunque cosa sia lontanamente associata agli stereotipi dei ‘maschi bianchi’ è oggi motivo di cancellazione ed è l’opportunità per i mediocri di mostrare la propria ignoranza”, ha detto con ragione al Foglio Davis Hanson, professore emerito di studi classici alla California State University, che nel 2001 ha pubblicato “Who killed Homer”. E no, non era Homer Simpson (che peraltro è il contrario del politicamente corretto).

 

Bei tempi. Con gli arbitri estratti a sorte almeno a vincere non erano le solite

Ricordate il campionato 1997-98, quello delle più furibonde polemiche arbitrali sfociate con la bufera di Juventus-Inter 1-0, arbitro Ceccarini, la partita del rigore-non rigore Iuliano-Ronaldo? Ebbene, pochi lo ricordano ma sull’onda dell’indignazione popolare per le malefatte commesse dagli arbitri il designatore Gonella decise, l’estate stessa, che il nuovo campionato (1998-99) si sarebbe svolto utilizzando il sorteggio integrale degli arbitri. Per la precisione, ogni settimana venivano inseriti nell’urna i nomi di 9 arbitri (la serie A era a 18 squadre) e si procedeva al sorteggio puro e semplice: ogni fischietto aveva le stesse probabilità di arbitrare Milan-Inter o Bari-Empoli, Roma-Juventus o Salernitana-Venezia. Ebbene, sapete quale fu a fine campionato il piazzamento in classifica delle due grandi litiganti dell’anno prima, la Juventus campione e l’Inter defraudata e ribelle? La Juve finì 7^ e l’Inter 8^. Fuori da tutti i giochi, fuori dalle Coppe che contavano. La classifica del campionato 1998-99, l’unico della storia del calcio italiano in cui gli arbitri non vennero scelti dai Nicchi o dai Gussoni o dai Bergamo & Pairetto della situazione ma dalla dea bendata, vide il Milan (allenatore Zaccheroni) vincere lo scudetto a 70 punti davanti alla Lazio (69) e poi ancora Fiorentina 56, Parma 55, Roma, Udinese e Juventus 54, Inter 46. Per la cronaca: il 7° posto costrinse la Juventus a giocare la Coppa Intertoto (oggi defunta) affrontando i romeni del Ceahlāul, i russi del Rostsel-maš e infine i francesi del Rennes battuti nella doppia finale (2-0, 2-2). L’Inter si dedicò solo a campionato e Coppa Italia.

Domanda: secondo voi è un caso che nell’anno del sorteggio arbitrale Juventus e Inter siano finite alle spalle di club come Fiorentina, Parma e Udinese, la Juve a -16 dal Milan campione e l’Inter a -24? La memoria corre al campionato 1984-85, il primo di Maradona al Napoli (e Rummenigge all’Inter, Socrates alla Fiorentina, Junior al Torino, Wilkins e Hateley al Milan), il solo torneo, oltre a quello appena menzionato, in cui si ricorse a un diverso tipo di sorteggio arbitrale. Per le 8 partite di ogni domenica (a quel tempo la serie A era a 16 squadre) il designatore D’Agostini formava gruppi di 4 arbitri per 6 fasce diverse di partite, divise per importanza, e procedeva poi all’estrazione fra i 4 nomi. Un sorteggio non integrale, quindi, ma parziale; e tuttavia, a leggere la classifica finale si resta ancora oggi sbalorditi. Nel campionato dei Maradona, degli Zico, dei Platini e dei Rummenigge lo scudetto arrise (prima e unica volta nella storia) al Verona di Osvaldo Bagnoli che raggiunse quota 43 punti davanti a Torino (39), Inter (38), Sampdoria (37), Milan e Juventus (36), Roma (34) e Napoli (33). La Juventus, giunta sesta, non avrebbe trovato posto nemmeno in Coppa Uefa; ma avendo vinto la Coppa dei Campioni all’Heysel, nella tragica finale con il Liverpool, si qualificò come squadra detentrice del titolo.

Ora, se è vero che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza ma tre indizi fanno una prova, la curiosità di vedere cosa succederebbe, in un terzo campionato contrassegnato dal sorteggio degli arbitri, è forte. Magari vedremmo lo scudetto finire all’Atalanta, un po’ come successo al Verona; e capiremmo che sì, forse le cose dovrebbero andare sempre così. Come capita capita. Non telecomandate.