Mafia. La classifica (sballata) delle province criminali: “I clan sono invisibili alla scienza”

“Prof, ma allora abbiamo sbagliato tutto?”. “Ma di che sta parlando? Non capisco”. “I dati Eurispes sulla criminalità nelle province italiane. Non ha visto?”. No, in effetti non ho visto. Al telefono è Marco, mio laureato comasco. Anni addietro fece la tesi di laurea sulle organizzazioni mafiose a Como. E poi la tesi magistrale sulla criminalità organizzata in Lituania. Se ne occupa ancora professionalmente, e mica poco. Insomma, non è un pivellino. Così mi arriva l’elenco di tutte le province italiane, classificate cromaticamente in base alla loro permeabilità alle mafie. Presentato da Eurispes insieme alla Direzione nazionale antimafia. Una suddivisione scientifica, sulla base di un indice di permeabilità alla criminalità organizzata (Ipco), costruito mettendo a sintesi “19 indicatori compositi”. Ogni tanto qualcuno ha di queste pensate.

Misurare “scientificamente” la presenza mafiosa usando questi o quegli indicatori oggettivi. In genere è un’ambizione che muove chi ha poca esperienza di studi in argomento. Se no saprebbe, giusto per fare qualche esempio, che l’assenza di omicidi mafiosi può derivare non dall’assenza di mafia ma dalla forza dell’ordine mafioso. Che il numero di beni confiscati può dipendere dall’intensità e dal vigore dell’azione giudiziaria come dall’indolenza (o dalle collusioni, venne dimostrato una volta al nord) degli investigatori. Che il numero dei comuni sciolti per mafia può dipendere dall’azione dei prefetti e dal loro rapporto con la politica locale. Eccetera, eccetera. E che ci sono indicatori dieci volte più significativi di quelli immaginati da chi si mette a confezionare i parametri.

Ad esempio come Università degli Studi di Milano demmo un valore alto alla presenza mafiosa nella provincia di Reggio Emilia prima ancora del processo Aemilia sulla base di due fatti: i candidati sindaci di Reggio partivano incredibilmente per fare campagna elettorale a Cutro (la patria dei Grande Aracri), il che significava andare a chiedere il voto non agli emigrati cutresi ma a chi comandava a Cutro; un documentario realizzato dagli studenti di un liceo di Reggio a Brescello, rivelava in modo sconvolgente il rispetto di cui godeva Francesco Grande Aracri sia nella folta colonia dei suoi compaesani sia nelle istituzioni amministrative. Che cosa c’entrano questi dati qualitativi con i parametri “scientifici”? Nulla, ma avevamo ragione noi. Ebbene, ora risulterebbe che tra le province meno esposte alle mafie ci sarebbero Como e Monza-Brianza. Che scoppiano di mafia, come ripetono i magistrati della Dda di Milano, i carabinieri, la Dia, la commissione regionale antimafia, la stampa lombarda e – se posso – i risultati delle nostre stesse ricerche. In queste province “meno permeabili” di tutte abbiamo autentici record di presenze mafiose: rispettivamente 8 “locali” di ’ndrangheta a Como e 6 a Monza. E in quest’ultimo caso due comuni storici come Desio e Seregno che sono stati costretti ad auto-sciogliersi per evitare di essere sciolti per mafia dal prefetto. Non solo. Il processo contro la ’ndrangheta di Cantù ha chiesto misure straordinarie di protezione dopo la prima udienza, perché parenti e fan degli imputati stavano inscenando in aula una sommossa trumpiana con insulti e minacce contro il pubblico ministero Sara Ombra.

Ma di che parliamo? Vien da dire. Con quale livello di conoscenza scientifica combattiamo la mafia? Perché, mentre si fa sintesi di 19 parametri, qualcuno non si affatica a leggere gli atti ufficiali, giusto per capire se non si stia prendendo un granchio colossale? È vero che anni fa un istituto di ricerca dimostrò, sempre scientificamente, che la Lombardia era, per presenza di ’ndrangheta, la nona regione d’Italia e non la seconda. Ma pensavamo fosse finita lì. “Prof, abbiamo sbagliato tutto?”. Forse su altro. Su questo no. Andiamo avanti, Marco.

 

San Patrignano. La serie tv che spacca il Paese: “Non dimentichiamo le ombre di Muccioli”

 

“La trama è scorretta: SanPa ha salvato il papà di mia figlia”

Ciao Selvaggia, ti racconto una storia. Il papà di mia figlia ha 58 anni. Io ne ho 48 e mia figlia 15. Lui ha iniziato ad usare eroina all’età di 14 anni, in prima superiore aveva il cucchiaino sotto il banco. Famiglia umile e perbene, secondo di 3 figli, i genitori erano troppo impegnati a lavorare per occuparsi di lui che invece avrebbe avuto bisogno di molte attenzioni (iscritto a scuola il giorno prima dell’inizio delle superiori dallo zio, perché i suoi non si erano nemmeno posti la domanda se volesse continuare gli studi). Ha fatto uso di ogni tipo di droga per 20 anni, principalmente eroina: per miracolo si è salvato da 2 “overdose”. Lavorava vestito in giacca e cravatta, come rappresentante per una casa farmaceutica, non era un tossico da strada, per capirci (non che questo faccia molta differenz). Le sorelle lo portavano al Sert a prendere il metadone, ha provato un paio di comunità, ma niente. Nel ’94 morì sua sorella di leucemia; aveva 31 anni e un bambino di 1 anno e mezzo. Lui nei momenti di disperazione le aveva rubato persino i gioielli per venderli e procurarsi la dose, e la sua morte fu per lui ancora più drammatica; ma fu anche la molla che lo spinse verso San Patrignano. Partì nel marzo del 1995. Vincenzo morì il 19 settembre di quell’anno. Lui lo ha conosciuto, anche se per pochi mesi. Sanpa gli ha salvato la vita, ha imparato un mestiere; adorava l’architettura e ha lavorato per 4 anni all’ufficio tecnico. Ha imparato a progettare ambienti e a disegnare arredi. Alcuni suoi disegni sono finiti anche sulla rivista AD, Architectural Digest. Lavorava 12 ore al giorno: ha imparato cosa sia la solidarietà e la responsabilità. Sì, perché quando entri, c’è qualcuno che si occupa di te 24 ore al giorno, per mesi e mesi, e quando diventi abbastanza “forte” sei tu a doverti occupare dei ragazzi che arrivano. A Sanpa ti insegnano il sacrificio, la passione per il lavoro, la cura che devi mettere in ogni cosa che fai, ti insegnano che ti devi impegnare sempre al 100%.

A Sanpa quando si preparano le tavole per le 1000 e più persone che mangiano nel salone, non c’è un bicchiere fuori posto, misurano la distanza da un tovagliolo all’altro, e ogni cosa che si fa, deve essere perfetta. È il modo di vivere insegnato e trasmesso giorno dopo giorno, per dare il giusto valore alla propria esistenza. I percorsi di recupero in media durano 4 anni, ma ci sono ragazzi (ne ho conosciuti) che si sentono sicuri solo lì. Temono di ricadere negli stessi errori, una volta fuori, perciò decidono di rimanere e lavorare all’interno della comunità.

Il papà di mia figlia collabora con l’associazione che fa da tramite con Sanpa dal 1999, cioè da quando è uscito dalla comunità. Avrà fatto colloqui e fatto partire centinaia di ragazzi, e non sai quanti ringraziamenti riceve da tutti quei genitori disperati che non sanno più come aiutare i loro figli. Io Sanpa l’ho vissuta di riflesso, ma ogni volta che vado in quel posto magico, penso sempre alle vite salvate; e penso che se non ci fosse stato Vincenzo, non avrei la figlia meravigliosa che ho, e penso che suo padre, di sicuro, non si sarebbe mai salvato. Cristina ha passato in comunità anche la vigilia di Natale del 2019, ed è stata la più bella vigilia della sua vita. Frequenta la seconda liceo classico con ottimi voti, suona pianoforte e fa nuoto a livello agonistico. Ha visto con suo papà la serie di Netflix e ci è rimasta molto male. Sanpa non è quella della serie, almeno non da 30 anni a questa parte, ed è veramente deludente come sia stata rappresentata. Avrei trovato corretto esporre anche le luci della comunità, che sono tantissime, infinite. Non solo le ombre.

Con rispetto.

Sabrina

 

“Venti anni schiava della droga. In comunità ho ritrovato dignità”

Ciao Selvaggia, ti scrivo in merito ai tuoi due bellissimi articoli sulla serie Netflix Sanpa, luci e ombre. Sono entrata in comunità nel 2012 dopo 20 anni di dipendenze varie, tra cui quella per la cocaina. Sono entrata dopo aver perso una figlia per una malattia genetica rara e un figlio in casa famiglia. Per me San Patrignano è stata “luce”. Sono infinitamente grata perché grazie a Sanpa ho potuto crescere mio figlio per 4 anni e 8 mesi, circondati entrambi da amore ed accoglienza. Grazie a San Patrignano ho recuperato dignità e sono una donna e madre attiva nella società. Da quando ne sono uscita (nel 2016) non sono mai ricaduta nella tentazione di cercare la droga. Quello che molti di noi ex tossici contestiamo è che il documentario è un racconto sì equilibrato, ma che non rende giustizia a ciò che San Patrignano è oggi. Non contestiamo ciò che avvenne dal ’78 alla morte di Muccioli, ma la fine della serie lascia un vuoto con tante domande (alcune lecite), senza però mai citare chi da quell’esperienza (siamo in 20.000) ce l’ha fatta.

Grazie per l’attenzione.

Gabriella

 

Ho scelto di pubblicare queste due lettere, tra le tante arrivate su “SanPa” perché mi offrono il pretesto per sottolineare che nessuno, neppure il documentario, nega che a San Patrignano tantissimi ragazzi abbiano trovato “la luce”. Il racconto di cosa sia SanPa, però, sarebbe parziale proprio se quelle ombre che ne hanno segnato le origini e che sono in parte appartenute al suo fondatore venissero dimenticate. Se quelle aiuole perfette e il luogo pettinato che è oggi, come ha raccontato uno dei superstiti, seppellissero per sempre catene, morti e bugie.

Selvaggia Lucarelli

Trump aizza il popolo, Renzi le spara grosse e il vaccino fa sognare

 

Non solo vaccini.

Quando si avanzano proposte politiche ammantandole di presupposti scientifici non essendo scienziati, conviene accertarsi che nessun rappresentante della scienza si trovi in ascolto, altrimenti si rischia di essere bocciati senza che l’aspetto politico arrivi nemmeno ad essere preso in considerazione. È quello che è accaduto questa settimana a Matteo Renzi che, tra un ultimatum e l’altro, si è inserito nel confuso dibattito su vaccini e riapertura delle scuole, avanzando la sua proposta: vaccinare subito gli insegnanti affinché le scuole possano riaprire più facilmente. Purtroppo per il leader d’Italia Viva, in ascolto su Twitter c’era Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che con la precisione di un cecchino ha fatto fuoco sul suggerimento renziano: “On. Matteo Renzi, proposta senza basi scientifiche ed eticamente discutibile. Primo, per gli effetti del vaccino dopo 28 giorni dalla prima dose. Secondo, il vaccino protegge da Covid 19 sintomatica, non da infezione asintomatica da SarsCoV2. Terzo: la priorità assoluta spetta a personale sanitario e anziani, #Renzi #scuola”. Oltretutto se molti presidenti di Regione non vogliono riaprire le scuole non è per il timore di non trovare insegnanti disponibili, ma perché i trasporti pubblici sono inadeguati agli spostamenti dovuti alla riapertura delle aule. Partendo dal presupposto che la riapertura delle scuole è uno dei temi principali da affrontare, sarebbe bene affrontarlo in maniera meno approssimativa.

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Così era, così potrebbe tornare a essere.

Se il vaccino avesse potuto scegliere come promuoversi, una sorta di curriculum per convincere gli italiani ad assumerlo, avrebbe senz’altro adottato le parole della dottoressa Ilaria Donadio (Policlinico di Bari) pronunciate dopo l’inoculazione: “Quando abbiamo sentito il liquido nel nostro corpo abbiamo capito che nel vaccino c’erano soprattutto i baci e gli abbracci dimenticati, le gite scolastiche, gli anziani a capotavola nel giorno di Natale. C’erano i ragazzi con lo zaino sulle spalle, i cinema all’aperto, i teatri pieni e il concerto di Vasco che dall’alto sembravamo tanti puntini attaccati. C’era la tavolata di amici al ristorante, prendo la pizza diversa dalla tua così la dividiamo, il viaggio a Tokyo senza prenotare, la cena coi compagni di liceo che in fondo siamo sempre gli stessi e la libertà di rimanere a casa che poi, chi ci rimane più, dentro quelle 4 mura? C’era il lavoro, gli aerei che ripartono e le stazioni piene”. Più dei divieti e dei discorsi scientifici, più della colpevolizzazione o degli appelli alla responsabilità, può fare l’almanacco di quel che abbiamo perduto e che possiamo riprenderci.

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Così è.

La sintesi più efficace di quanto accaduto in Usa, in 280 caratteri, è di Andrea Orlando: “No onorevole Meloni, Trump non ha chiesto di fermare la violenza. L’ha suscitata prima invitando da presidente a partecipare alla manifestazione attorno al Campidoglio, poi fingendo di fermarla e insistendo sulla balla delle frodi elettorali. Adesso è il momento della verità”. Così è, anche se non vi pare.

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Negazionisti. “La balla del golpe a Capitol Hill”: i cattolici di destra in difesa dell’amato Donald

Lo sciamano fascio-vichingo Jake Angeli? “Un provocatore infiltrato degli Antifa”, la fatidica rete antifascista internazionale. I manifestanti di Capitol Hill? “Una folla grande, più che altro famiglie intere, gente normale, molti cinesi americani terrorizzati da quello che è successo in Cina, cattolici, protestanti, ebrei ortodossi”, come riferito da un accademico presente, John Rao, a Riccardo Cascioli della Nuova Bussola Quotidiana.

Per i clericali di destra italiani, Donald Trump è da sempre il condottiero del Bene contro le Tenebre progressiste che vogliono instaurare con l’aiuto dell’Anticristo Bergoglio il culto infernale di matrimoni gay, eutanasia senza limiti, uteri in affitto e così via. In due parole, il Great Reset. Ed è per questo che dopo l’assalto a Capitol Hill, nel giorno dell’Epifania, siti e quotidiani del network cattolico antibergogliano si sono votati con amorevole dedizione a smontare l’evidenza dei fatti che domina “in modo vergognoso” sui media mainstream, ovviamente proni al Nuovo Ordine Mondiale.

Scrive Marco Tosatti, un tempo autorevole vaticanista e oggi “portavoce” del monsignor macchietta Carlo Mario Viganò sul sito Stilum Curiae: “I media mainstream hanno ingoiato (…) la balla di Trump golpista, attribuendogli la responsabilità dell’assalto”. Da Radio Maria a Corrispondenza Romana dilagano poi le testimonianze di alcuni manifestanti che hanno visto negli Antifa infiltrati gli autori dell’assalto. E il citato Viganò approfitta del caos per rilanciare l’ultimo prodotto della teoria complottista sulle elezioni americani: in pratica, l’arcivescovo di Vatileaks 1 indica nei Servizi di casa nostra e in una nota azienda aerospaziale italiana, Leonardo, gli esecutori dei brogli elettorali a favore di Biden, con la manipolazione satellitare del software di gestione del voto statunitense. I mandanti? “Obama e Renzi”. Santi numi, viene da esclamare come in un fumetto.

La decostruzione clericale degli eventi del 6 gennaio è maniacale, riguarda ogni dettaglio di quelle singole ore. E tira in mezzo anche l’odiato movimento Black Lives Matter, equiparando le proteste per l’omicidio Floyd alle violenze contro le istituzioni americane. Ecco Aldo Maria Valli, ex vaticanista della Rai oggi antibergogliano, rilanciato da molti siti farisei di destra. Sotto accusa c’è la sindaca di Washington, Muriel Bowser: “Ma si è complottisti se si afferma che la signora Bowser, del Partito democratico, attiva sostenitrice del movimento Black Lives Matter, probabilmente non è troppo dispiaciuta del fatto che sedicenti trumpiani abbiano dato una così pessima prova assaltando il Campidoglio?”. Proprio così: “Sedicenti trumpiani”.

Ma il funesto congedo di Trump è un colpo soprattutto per i vescovi conservatori statunitensi schierati con lui ma costretti a condannare l’attacco. A cominciare dal presidente della conferenza episcopale José Horacio Gómez, arcivescovo di Los Angeles, lo stesso che settimane fa ha annunciato il varo di una commissione per decidere se dare o meno la comunione al nuovo presidente cattolico Joe Biden, favorevole all’aborto.

 

Grecia a destra: musei privati e opere in prestito all’estero

La Grecia ci riguarda. E non solo per il suo intramontabile ruolo di sorella maggiore culturale, ma anche per la sua pericolosa condizione di democrazia del sud Europa, ricca di patrimonio culturale ma debole sul piano economico. Le “soluzioni” adottate per la Grecia rischiano, prima o poi, di essere rivolte contro l’Italia, passando da un laboratorio relativamente piccolo a un grande “malato” che preoccupa i signori della ricchezza che governa il mondo.Ebbene, poche settimane fa il Parlamento greco ha approvato una legge, voluta dal governo di destra guidato da Kyriakos Mitsotakis, che permette di prestare opere d’arte, reperti archeologici e “interi monumenti” (!) a musei stranieri, fino a un massimo di cinquanta anni. La proposta iniziale del governo era di prestare fino a cento anni, ma la dura opposizione parlamentare di Syriza e quella culturale degli archeologi greci hanno almeno ottenuto questa riduzione.

A beneficiare della legge sarà intanto il Museo Benaki di Atene, che sta per aprire una sede a Melbourne, Australia (sull’evidente, discusso, modello del Louvre di Abu Dhabi), ma l’obiettivo è molto più ambizioso: la ministra greca per la cultura, Lina Mendoni, notando che ben 10 milioni di reperti dei musei greci aspettano di prendere il volo, ha dichiarato che “l’iniziativa legislativa del governo mira a utilizzare ed evidenziare il nostro patrimonio culturale come punto chiave per cambiare il modello economico, e ridefinire l’identità del Paese”.

Pochi giorni fa, un altro passo di questa strategia è divenuto pubblico, grazie ad una lettera aperta a Mitsotakis scritta dai lavoratori (archeologi e non) del Museo Nazionale Archeologico di Atene. Il tema è la pianificata trasformazione in enti autonomi, svincolati dal Ministero per la Cultura, dei cinque principali musei del Paese: lo stesso Museo Nazionale Archeologico e il Museo Bizantino e Cristiano di Atene, il Museo Archeologico e il Museo della Cultura Bizantina di Salonicco, e il Museo Archeologico di Heraklion, a Creta. La prospettiva è chiara: creare fondazioni, e avviare una privatizzazione del patrimonio culturale greco.

Nella lettera, gli archeologi e i loro colleghi, ricordano che “l’istituzione del Museo Archeologico Nazionale è stata una delle prime preoccupazioni del neonato stato greco. Il Museo fu fondato originariamente ad Egina nel 1829 e, pochi anni dopo, secondo la prima Legge Archeologica del 1834, divenne ufficialmente il ‘Museo Pubblico Centrale’, costituendo uno dei più antichi servizi pubblici dello stato greco, con un chiaro scopo di proteggere, preservare e promuovere il patrimonio culturale della Grecia antica. La sua creazione ha contribuito alla formazione dell’identità ideologica dello Stato greco moderno e il suo funzionamento ha rappresentato una costante di successo nella sua lunga e turbolenta storia. Signor presidente del Consiglio, il Museo archeologico nazionale ha finora funzionato con la trasparenza e le normative che regolano tutti i servizi statali e già attua quanto auspicato nel disegno di legge da presentare, difendendo la tutela delle antichità, mantenendo l’integrità delle sue collezioni archeologiche, organizzazione o partecipazione a numerose mostre in Grecia e in tutto il mondo, avanzamento della ricerca scientifica, realizzazione di progetti cofinanziati e promozione della cultura ellenica con eventi, attività estroverse di successo, conferenze scientifiche sulle sue mostre per il pubblico in generale e programmi educativi gratuiti a pagamento per tutti i cittadini”. Tutto questo potrebbe continuare, proseguono, garantendo finanziamenti e personale: mentre la brusca mutazione voluta dall’esecutivo potrebbe portare a scenari drammatici, e comunque ancora in larga parte oscuri.

Con queste due leggi, una approvata una in gestazione, la Grecia si mette al passo con le riforme di Dario Franceschini (che ne sono l’evidente fonte di ispirazione), ma al tempo stesso le supera, spingendo ancor di più l’acceleratore su quella stessa strada: mercificazione del patrimonio, prestiti all’estero, autonomia dei musei e loro sradicamento progressivo dall’apparato statale. Non si deve dimenticare che il governo di Mitsotakis, la cui politica sui migranti è sotto gli occhi di tutti, è aperto alla destra più estrema: come ha scritto Dimitri Deliolanes, “ora militanti o ex militanti di Alba Dorata si muovono sotto la bandiera del partito di governo e dispongono di importanti appoggi nell’esecutivo: il ministro dello Sviluppo Adonis Georgiadis; quello dell’Agricoltura Makis Voridis; perfino il deputato Thanos Plevris, figlio di Kostas, l’uomo dei colonnelli in Italia”. È dunque fin troppo evidente che la politica ultraliberista del patrimonio culturale unisce i governi di destra e quelli sedicenti di centrosinistra: la ridefinizione identitaria di cui parla Lina Mendoni si annuncia come un incubo. Che non rimarrà solo greco.

La sai l’ultima?

 

Danimarca. Sulla tv di Stato il cartone per bambini con un pene lunghissimo

Tra le notizie più inquietanti della settimana ci duole dover citare il cartone animato danese che ha come protagonista un uomo con un pene lunghissimo. Gli amici scandinavi che lo trasmettono sulla tv di Stato lo considerano adatto a un pubblico tra i 4 e gli 8 anni. Forse sono davvero progressisti e noi siamo irrimediabilmente bigotti, ma è difficile capirne il senso. Il protagonista è il superdotato John Dillerman, un gioviale omino con i baffi, un discutibile vestito a righe biancorosse e, per l’appunto, un pisello che non finisce mai. È la sua peculiarità, lo usa nei modi più svariati: come elica per librarsi in cielo, come asta per saltare più in alto degli alberi, come frusta per domare animali feroci. Tutto pare stilizzato, inoffensivo, senza traccia di erotismo, solo completamente assurdo. Come molte grandi opere d’arte, il cartone divide l’opinione pubblica: “Ha sollevato enormi polemiche e condanne” – scrive Repubblica – ma “c’è anche chi non si dice minimamente turbato dalla sua messa in onda”.

 

Bolzano. Arrivano nelle scuole i cani anti-Covid: quando puntano una mascherina scatta il tampone

Un tempo la comparsa dei cani della polizia nelle scuole scatenava il terrore nei giovani consumatori di sostanze proibite. Ma in questi tempi in cui sono tutti virologi, anche le bestie si adeguano: non cercano più l’erba ma il maledetto virus. “I cani anti-Covid – scopriamo dall’Ansa – hanno preso servizio questa mattina (il 7 gennaio, ndr) nel liceo scientifico di lingua tedesca a Bolzano. Nell’aula magna hanno annusato le mascherine degli studenti, depositate in vaschette di cartone. In caso di sospetto si accucciavano e lo studente volontariamente si sottoponeva al tampone”. Insomma se il cane ti punta, rimane un’esperienza non proprio piacevole. Gli olfatti però sono ancora da affinare: “Durante il primo giorno di servizio – scrive ancora l’Ansa – i cani hanno segnalato cinque casi sospetti. Per questi studenti il test rapido antigenico è risultato negativo”. Sulle droghe invece non si sbagliavano mai.

 

Australia. Fuggitivo trovato sugli alberi sopra acque piene di coccodrilli. Viene salvato e arrestato di nuovo

Non era quello che si aspettavano dal solito giro in barca. Due pescatori australiani hanno trovato un uomo nudo aggrappato ai rami di una mangrovia, un metro sopra uno specchio d’acqua infestato dai coccodrilli. Era ridotto proprio male, scrive il Guardian: coperto di fango, pieno di tagli e morsi d’insetto. Vincendo una comprensibile diffidenza, i due l’hanno preso sulla barca, gli hanno offerto da bere e qualche vestito. Come ci è finito là sopra? Non è chiaro. Luke Voskresensky, 40 anni, gli ha riferito – in modo non del tutto razionale – di essersi perso quattro giorni prima, di essere sopravvissuto mangiando lumache e di aver smarrito tutti i suoi vestiti. Qualche pezzetto di verità è venuto fuori quando i tre sono tornati a Darwin. In ospedale Voskresensky è stato piantonato dalla polizia: era un fuggitivo che si era disfatto del braccialetto di controllo degli arresti domiciliari. La sua fuga per la libertà gli è valsa 4 notti sopra i coccodrilli, un altro arresto e nuovi capi d’accusa.

 

Colombia. Il cane ruba cibo in un supermercato ma prima di andarsene si disinfetta le zampe

Per questa notizia meravigliosa dobbiamo ringraziare La Zampa, la sezione della Stampa dedicata agli animali, ma preme sottolineare che è stata rilanciata anche dai social di Repubblica (Gedi è una grande famiglia). Riportiamo il titolo originale: “Cane ruba cibo in un supermercato ma prima di andarsene si disinfetta le zampe”. Poesia. “Prima di tutto l’educazione e il rispetto delle regole – scrive La Zampa –. Anche se sei un cane. Sta facendo il giro del mondo il video di un randagio che entra in un supermercato di Medellin, in Colombia, alla ricerca di cibo senza però infrangere le regole di sicurezza, che impongono agli avventori di disinfettarsi le scarpe, in questo caso le zampe, per limitare la diffusione del Covid-19. Come se fosse consapevole dell’importanza del rispetto degli standard di biosicurezza, l’animale è passato dal tappeto disinfettante predisposto all’ingresso del negozio”.

 

Inghilterra. Fa domanda per cambiare nome da ubriaco. L’anagrafe lo accontenta: ora si chiama Celine Dion

Tutti facciamo cose terribili da ubriachi. Thomas Dodd, un 30enne inglese dello Staffordshire, durante le feste di Natale ci è andato particolarmente pesante. Si è sbronzato di fronte alla tv mentre guardava un concerto di Celine Dion e in uno stato di semi-coscienza ha avviato le pratiche online per cambiare generalità, pagando pure 89 sterline. Dopo qualche giorno le autorità locali gli hanno notificato che la richiesta era stata finalizzata: ora si chiama Celine Dion. Celine peraltro non sembra particolarmente scosso per la vicenda, visto che ha deciso di raccontarla al sito Birmingham Live: “Ora come faccio a dire al lavoro che devo cambiare il mio nome nell’intestazione delle email?”. Una preoccupazione comprensibile, la prima che verrebbe in mente a tutti. “Ora spero solo di non essere fermato dalla polizia, potrebbe essere imbarazzante. Stamattina ho cantato sotto la doccia, ma posso dire di non aver ereditato né la voce della vera Celine Dion, né il suo conto in banca”. Strano.

 

Torino. I bambini giocano a calcio in oratorio, il prete viene multato e fa ricorso citando i Patti Lateranensi

Don Davide di Chivasso,nel torinese, è uomo di saldi valori. Ha lasciato giocare a pallone i ragazzini del suo oratorio e questo non si può fare: gli sport di contatto sono vietati in tutta Italia, nei circoli laici come in quelli religiosi. Un cittadino lo segnala, la polizia interviene. Due volte. La prima come bonario avvertimento, ignorato. La seconda volta scatta la sanzione: 373 euro di multa per il prelato. Il denaro è lo sterco del demonio, ma per don Davide è questione di principio, quei soldi allo Stato non glieli vuole dare. Così fa ricorso. E qui arriva il capolavoro, per merito dell’avvocato Alexander Boraso. Il legale prima contesta dei vizi formali, poi si aggrappa niente meno che ai Patti Lateranensi, l’accordo tra Mussolini e il Vaticano firmato nel 1929: “Il Dpcm non può in alcun modo derogare alle norme relative agli accordi Stato-Chiesa, con la conseguenza che l’organizzazione dei locali dell’oratorio non sono soggetti alle sue disposizioni, ma neppure gli agenti della polizia locale potevano elevare sanzioni”. In bocca al lupo.

 

Irlanda. Lo studio scientifico porta una scoperta epocale: “Chi parla usando spesso la lettera ‘P’ trasmette più Covid”

La scienza non smette di compiere portentosi passi avanti nella conoscenza del Coronavirus e i giornali non possono fare a meno di renderne edotta l’opinione pubblica. Sabato per esempio La Stampa ha citato uno studio, senz’altro autorevolissimo, dell’Irish Journal of Medical Science. La scoperta è di tutto rilievo: “Chi parla con molte ‘p’ trasmette più Covid”. “Dimmi come parli e ti dirò quante possibilità hai di diffondere il Covid – scrive il giornale torinese –. La fonetica delle lingue parlate nei diversi paese influenza la trasmissione di Sars-CoV-2. Uno studio scientifico pubblicato dall’Irish Journal of Medical Science dimostra che la ricorrenza della consonante occlusiva ‘p’ (che prevede una rapida emissione di flusso d’aria) sia ‘associata al numero di riproduzione di base del virus’”. Molto interessante. Sfuggono tuttavia le implicazioni pratiche di questa scoperta nella battaglia infernale contro la pandemia. Se sostituiamo la “p” di pipistrello con la “b” di boiata possiamo tornare ad abbracciarci?

“L’Italia del futuro? Patria dei billions men. I ricchi ci salveranno”

Guido Maria Brera è uno di quelli che fanno ricchi i ricchi. Non contentandosi, immagina che il suo mestiere di finanziere debba anche renderli un po’ felici nella supposizione che la felicità poi transiti, per effetto dell’alta marea benestante, verso il resto del mondo. E così scrive romanzi e intesse trame di modo che la narrazione dia senso e sentimento anche al business e il business alla vita. Scapigliato, per via di una chioma tenuta a bada con difficoltà, fisico assai televisivo, una moglie (Caterina Balivo) nota conduttrice.

Lei ha parlato della fortuna prossima ventura: l’Italia abitata dai “billions men”. A occhio sarebbero straricchi in cerca di un “buen retiro”.

Io ho detto che questa pandemia all’Italia consegna almeno una fortunata possibilità: essere la piattaforma ideale di vita e di lavoro per i tanti billions men. Abbiamo il mare, la montagna, il cibo, il sole, il vento, un patrimonio artistico inarrivabile e uno strepitoso disegno urbanistico. Abbiamo la capacità di accogliere e rendere disponibili i nostri borghi meravigliosi. Il lavoro a distanza è la leva sulla quale premere il dito, è la disponibilità immediata per un numero cospicuo di persone di trovare nel mondo un luogo dove lavorare e vivere bene.

Questi miliardari ci riempiranno di miliardi? Bello così.

Nessuno regala nulla. Ma chi può, sceglie dove vivere. E domani lo farà molto più che oggi. Perché potrà gestire da remoto, governare le proprie attività da lontano. Se tizio ha avuto la ventura di nascere in Nevada e ora ha la fortuna di accasarsi in Umbria o in Puglia, sapendo che in quei luoghi trova servizi all’altezza, perché non immaginare che lo farà per davvero?

A me continua a sembrare l’idea di una Italietta come un grande resort. Mi ricorda il Billionaire di Briatore.

Noooo! Non penso che l’Italia debba essere il luogo per far svernare le coppie mature e annoiate magari facendole pasteggiare a champagne. Dico l’opposto: se ho un posto più bello e attraente nel quale vivere e dal quale seguire i miei affari perché non dovrei andarci? Perché un cinese che finora ha messo in cassaforte i suoi yuan vivendo in città che sono camere a gas non può togliersi lo sfizio di conoscere il vento? Andare in Trentino o in Basilicata e assaporare il colore del vento, come cantava De Andrè? È un lusso che invece può permettersi e certamente si permetterebbe se l’Italia gli offrisse strutture d’eccellenza: penso alla sanità, agli aeroporti, al transito digitale. Vivere e lavorare da noi. La-vo-ra-re, e creare altri posti di lavoro.

È l’isola di Utopia.

Ma perché? Noi siamo messi meglio di tanti altri e abbiamo il territorio che al confronto anche con Paesi europei è meno rovinato. Bisogna solo valorizzarlo, investire.

E qui casca il Recovery.

Questo è il momento di fare debito perché i tassi di interesse non li vedremo mai più così bassi. Fare debito a condizione che gli investimenti creino la crescita. La crescita ce li ripagherà.

Intanto ora è il buio. Lei è riuscito a far soldi anche col buio?

Io sono come quel calzolaio che ha le scarpe rotte. Ho fatto fare soldi ai miei clienti, sì. D’altronde girava tanta carta moneta che era facile intuire una valorizzazione degli assett.

Però il buio continua, la società è tagliata in due, affettata tra garantiti e affamati.

Il virus conclude il ventennio della grande depressione. Dal duemila le crisi si sono ripetute e la vitalità della società ridotta a uno stato larvatico. Io la chiamo la società del Fentanil, lo psicofarmaco che rimuove, anestetizza. Abbiamo dimenticato intere generazioni di giovani, tagliato le gambe alla fetta emergente. E ora ho timore che il virus non si allontani da noi in breve tempo. E ho timore che se continuiamo a cincischiare ci faremo travolgere ancora una volta.

Vuole un altro lockdown?

C’è altra scelta? Un governo che si rispetti deve saper anticipare le mosse e anche sfidare l’impopolarità. La gente non capirebbe? Non è un motivo sufficiente. Il grande Di Bartolomei, il calciatore della Roma, mio mito da ragazzo, diceva sempre: “Il rigore va tirato forte.

Dovevano rientrare in 3,6 milioni: solo 220mila tra i banchi

Avrebbero dovuto essere 3,6 milioni gli studenti delle scuole superiori a rientrare in classe oggi secondo di chi aveva spinto per spostare la data dal 7. E invece saranno poco più di 220mila: gli altri restano in didattica a distanza e la storia più o meno recente ormai ci ha insegnato che tornare in classe non è una priorità per parte del governo e gli enti locali. “Le Regioni – ha detto ieri la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina in una intervista al Corriere – hanno deciso di prorogare prima di vedere i risultati del monitoraggio sulle fasce di rischio. Capisco le preoccupazioni sui rischi legati al periodo di Natale ma le Regioni hanno potere di operare anche altre restrizioni, perché si colpisce solo la scuola?”. Così, il calendario è un caos senza precedenti. In Abruzzo da oggi si torna al 50%, in Basilicata la Dad sarà fino al 30 gennaio, in Calabria tornano solo elementari e medie mentre in Campania il rientro sarà graduale dal 25 gennaio. Stessa data per l’Emilia-Romagna, in Friuli si torna dopo il 31 gennaio come nelle Marche, in Sardegna, in Sicilia (dove invece primaria e medie sono chiuse fino al 16) e in Veneto. In Lazio si torna il 18 così come in Liguria, Molise (anche per elementari e medie), in Piemonte e in Puglia. In Lombardia si resta a distanza fino al 24 gennaio, così in Umbria. Solo la Toscana riparte oggi mentre Trentino e Valle d’Aosta hanno ricominciato il 7.

Secondo l’ultima indagine Ipsos-Save The Children almeno 34mila studenti delle scuole superiori sono a rischio di dispersione scolastica. Il 28% ha dichiarato che almeno un loro compagno di classe dal primo lockdown ha smesso di frequentare le lezioni. Un quarto ritiene che siano addirittura più di tre. Secondo gli adolescenti intervistati, tra le cause principali c’è la difficoltà delle connessioni e a concentrarsi. A risentirne è la preparazione: il 35% si sente più impreparato e quest’anno deve recuperare più materie dello scorso. Olanda e Francia, raccontava ieri sul Sole 24 Ore la presidente dell’Invalsi, hanno certificato con test massivi fortissime carenze nell’apprendimento degli alunni. Quattro studenti su dieci dichiarano di avere avuto ripercussioni negative sulla capacità di studiare. E ancora: si sentono stanchi, incerti, irritabili, ansiosi, disorientati, apatici o scoraggiati.

Stretta sui bar e le zone rosse. Ma le Regioni sfidano Roma

Abbiamo visto un po’ tutti assembramenti più o meno consistenti di persone davanti ai bar quando è possibile solo l’asporto: il caffè o la birra si bevono lì davanti. Così il governo, nel prossimo Dpcm che entrerà in vigore dal 16 gennaio dopo la scadenza dell’attuale, potrebbe vietare l’asporto dalle 18 per i soli bar, preservando le consegne a domicilio. Potrebbero riaprire i musei in zona “gialla”. Niente da fare per cinema, teatri, stadi, palestre, piscine e sport di contatto. Possibile apertura sugli allenamenti. Salterà la riapertura degli impianti da sci, prevista per il 18 gennaio. Il coprifuoco dalle 22 alle 5 rimarrà, così come le tre fasce a colori (da oggi tornano “arancioni”, come deciso, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Calabria e Sicilia: solo asporto per bar e ristoranti e libertà di movimento limitata al Comune di residenza) e il divieto di uscire dalla propria Regione anche “gialla”, però dovrebbe essere introdotta una zona “bianca” con restrizioni minori e sarebbe mantenuto il diritto di far visita una volta al giorno a parenti o amici, introdotto durante le feste.

Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha riunito i capidelegazione della maggioranza con i ministri della Salute Roberto Speranza e degli Affari regionali Francesco Boccia. Oggi i due ministri affronteranno i presidenti delle Regioni, che daranno battaglia sull’inasprimento dei criteri per le zone “rosse” proposto dall’Istituto superiore di sanità: al di là di Rt (tornato sopra 1 a livello nazionale dopo sei settimane) e degli altri parametri, basterà un’incidenza di 250 casi ogni 100mila abitanti nell’ultima settimana (forse però calcolata sui soli positivi over 50). Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni: “Quel limite non l’ha chiesto nessuna Regione e, se volete la mia impressione, non entrerà fra quelli utilizzati per decidere la colorazione o lo spostamento delle Regioni”. Speranza parlerà mercoledì in Parlamento. Nel frattempo il suo staff sta fissando per fine mese l’audizione con il procuratore di Bergamo Angelo Chiappani che indaga su piani pandemici ignorati e mancata istituzione della zona “rossa” lo scorso marzo nella Bergamasca.

Lo stato d’emergenza, in vigore fino al 31 gennaio, sarà prorogato, ma non fino a luglio. La prossima scadenza dovrebbe essere a fine aprile. Conte preferisce un periodo più breve per poi valutare la situazione, come lo scorso luglio quando fu prorogato solo fino a ottobre. Dallo stato d’emergenza dipendono i poteri del commissario straordinario Domenico Arcuri, la possibilità di emanare ordinanze urgenti di Protezione civile e, in una certa misura, gli stessi Dpcm.

I numeri non consentono grande ottimismo. Ieri i nuovi casi rilevati sono stati 18.627, il 13,3% dei 139.758 tamponi, il 29,5% delle 63105 persone testate. I morti sono stati 361, meno di sabato (483) e della media degli ultimi sette giorni (489) che è simile a quella dei precedenti sette (486,7) ma superiore a quella del 21-27 dicembre (446,6). Crescono i ricoveri: ieri negli ospedali i posti letto occupati da malati Covid-19 sono aumentati di 167 unità nei reparti ordinari, di 22 nelle terapie intensive con 181 nuovi ingressi. Nelle rianimazioni ci sono 2.615 persone, domenica scorsa erano 2.583, domenica 27 dicembre 2580: un terzo in meno delle 3.848 del picco della seconda ondata (25 novembre), ma ora aumentano leggermente. Secondo Agenas, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali, la soglia del 30% è stata nuovamente superata a livello nazionale: oltre quel valore l’attività ordinaria delle rianimazioni può entrare in difficoltà. Tra ottobre e novembre, secondo l’Iss, è accaduto quando l’incidenza dei contagi ha superato quota 300 alla settimana ogni 100mila abitanti, di qui la proposta del passaggio automatico in zona rossa sopra i 250.

L’incidenza purtroppo sale. Se l’ultimo monitoraggio settimanale dava 313 casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni fino al 3 gennaio, con un valore quasi triplo in Veneto, ieri eravamo già a 201 ogni 100 mila negli ultimi sette giorni, secondo le elaborazioni del dottor Paolo Spada sul blog “Pillole di ottimismo”. Andrebbero in zona rossa Veneto (422) ed Emilia-Romagna (289) oggi “arancioni” ma anche il Friuli-Venezia Giulia (406) e la provincia autonoma Bolzano (296) al momento “gialli”, come Trento e le Marche che sono appena sopra il limite (252).

La guerra in FdI: c’è chi non vuole gli ex-fascisti

Il titolo di “sciamana d’Italia” che le è stato affibbiato per la rinnovata simpatia verso Donald Trump pure ora che i suoi supporter hanno dato l’assalto a Capitol Hill, non l’ha proprio digerito. Ma a guastare la domenica a Giorgia Meloni ci si è messo pure Francesco Storace: qualcuno in Fratelli d’Italia si è permesso di lanciare anatemi contro i fascisti alla maniera di Laura Boldrini, senza che nessuno dai vertici lo richiamasse all’ovile. “FdI vietato ai fascisti: lo sentenzia il senatore Andrea De Bertoldi in una lettera ad un giornale. Chissà che ne pensa Ignazio La Russa” affonda il coltello Storace vellicando gli umori di chi, come lui, esige “rispetto per la storia dalla quale una comunità intera proviene”. A rispondere “Presente!”, per ora sono solo gli utenti social dove il clima contro De Bertoldi si scalda: un fan di Storace lo definisce un “sinistrorso, un altro guaio dell’Università di Trento”, c’è chi vorrebbe che fosse “accompagnato alla porta” per indegnità e altri lo accusano di voler fare “una caccia alle streghe”.

De Bertoldi ha appena osato scrivere che chiunque si “proclamasse fascista o post fascista non avrebbe alcun diritto di cittadinanza” nel partito. Tradotto: camerati e nostalgici è bene che siano accasati altrove, dalle parti di Forza Nuova o Casa Pound, non certo in Fratelli d’Italia. Che oggi ha altre frequentazioni e uno standing internazionale, tali da consentire alla Meloni persino di scalare i vertici dell’Ecr, il partito dei Conservatori europei. Chi la pensa come De Bertoldi, plaude. Ma la polemica è aspra, identitaria. Degna di quella che Storace animò contro Gianfranco Fini, reo di aver definito, durante la sua visita in Israele nel 2003, il fascismo come “male assoluto”. I cuori neri eredi del Movimento Sociale andarono in ebollizione e Storace convocò all’Hilton di Roma le truppe di destra: si ritrovarono in migliaia, giovanotti usi ad alzare il braccio, vecchi camerati tra cui il ragazzo di Salò Mirko Tremaglia e persino donna Assunta Almirante.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti: Fini, dopo essersi avventurato per i lidi di Futuro e libertà è sparito dai radar. Storace è tornato a fare il giornalista (è vicedirettore del Tempo), ma non molla la politica: “Non conosco la storia politica del senatore De Bertoldi, che sarà sicuramente rispettabilissima. Ma è difficilmente accettabile che un partito che ha accettato di mettere la fiamma del Msi nel proprio simbolo possa tranquillamente lasciar correre una affermazione così offensiva che potrebbe pronunciare Laura Boldrini: mi rifiuto di pensare che questo sia il pensiero dei vertici di un partito che ho rispettato, a cominciare dalla sua leader Giorgia Meloni”. A cui saranno fischiate le orecchie e pure al suo Richelieu Guido Crosetto che missino non è mai stato, a differenza di La Russa. Che non si sottrae: “Noi con il fascismo abbiamo già fatto i conti a Fiuggi, all’epoca di An”. Sì, ma i fascisti? “In FdI non c’è nessuno che pensa di rimettersi il fez in testa. Nel partito però c’è senz’altro posto per tutti quelli che vogliono leggere la storia, di ombre e luci, senza paraocchi”.