Così Andreotti sostituì 5 ministri della Dc senza andare al Colle

Quaranta secondi. Tanto ci mise il 27 luglio 1990 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti per leggere alla Camera i nomi dei nuovi ministri che prendevano il posto dei cinque della sinistra Dc che si erano appena dimessi perché il governo aveva posto la fiducia sulla legge Mammì (la prima ad personam per Silvio Berlusconi): “Dopo le dimissioni di Mino Martinazzoli, Sergio Mattarella, Calogero Mannino, Carlo Fracanzani e Riccardo Misasi, ho proposto al presidente della Repubblica che ha poc’anzi firmato il decreto, la nomina di Virginio Rognoni, Gerardo Bianco, Vito Saccomandi, Franco Piga e Giovanni Marongiu”.

Dopo aver letto il foglietto, Andreotti si rimise a sedere accanto al suo vice Claudio Martelli. Impassibile, come se nulla fosse successo. È stato questo il rimpasto più esteso nella storia della Repubblica – 5 ministri sostituiti – senza che si arrivasse a una crisi e alla formazione di un nuovo governo. È quello che oggi spera il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, mentre Matteo Renzi ne chiede prima le dimissioni per poi dare il via libera, forse, a un Conte ter. La sostituzione dei cinque ministri del governo Andreotti VI è stata ribattezzata come la “soglia Mammì” oltre il quale servirebbero le dimissioni del premier. I molti rimpasti nella storia repubblicana infatti sono stati più contenuti: Alcide De Gasperi durante i suoi otto governi cambiava spesso uno-due ministri, Andreotti ne fece largo uso anche solo per convenienza politica: celebre il caso del ministro della Difesa Dc Vito Lattanzio che nel 1977 fu costretto a dimettersi dopo al fuga del generale nazista Kappler dall’ospedale e Andreotti gli dette i dicasteri della Marina Mercantile e dei Trasporti. Anche nella Seconda Repubblica i rimpasti sono stato molti, ma contenuti: nel 2004, dopo la scissione dell’Udc, Silvio Berlusconi dette la vicepresidenza a Marco Follini e durante il governo Renzi i nuovi incarichi sono stati ben 12.

Renzi si è incartato: tratta sul rimpasto e la Bellanova ancora non schioda

Questa sera Matteo Renzi dovrà scoprire le carte. Perché sulla sua scrivania arriverà il piano definitivo del Recovery Fund che precederà il consiglio dei ministri di domani e a quel punto dovrà decidere cosa fare: se far dimettere le sue ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e aprire la crisi o fare un passo verso il premier Giuseppe Conte che nelle ultime ore gli ha lanciato diversi messaggi distensivi. Nel frattempo il leader di Italia Viva prende tempo. Sia perché è incartato, sia per alzare la posta e ottenere il più possibile. Magari un “rimpastone” di 4-5 ministri che porterebbe o a una crisi pilotata e a un Conte ter, oppure a un semplice allargamento della squadra (senza le dimissioni del premier). Insomma, si tratta ancora. Fino all’ultimo minuto, cioè fino al cdm. Ma non oltre.

E nonostante ieri siano continuati i missili dei renziani che facevano pendere il borsino della crisi verso una rottura totale e la sfida parlamentare (“Il tempo è finito” diceva Bellanova mentre Ettore Rosato ha accusato il premier di voler “staccare la spina al governo”), la trattativa va avanti. Ché i segnali di distensione ci sono tutti: in primis la lunga riunione via zoom con i gruppi parlamentari di IV nella notte tra sabato e domenica in cui Renzi, pur attaccando “l’immobilismo” del governo e dicendosi pronto ad “andare all’opposizione”, ha usato toni più concilianti e addirittura simili a quelli del premier su Facebook: “Conte ci mandi il piano, poi andiamo di corsa in cdm e infine in Aula”. Ai suoi parlamentari, poi il senatore di Scandicci ha anche spiegato di “non volere la crisi” negando sia la possibilità del voto anticipato (“è un bluff”) ma anche di un accordo con il centrodestra. Un mezzo passo indietro, anche dovuto ai diversi interventi di deputati e senatori renziani che, pur facendo professione di fedeltà al leader, gli chiedevano di riflettere e tentare un accordo fino all’ultimo per non far precipitare tutto. E così è: la sensazione, anche tra qualche suo fedelissimo, è che Renzi si sia spinto troppo oltre e non sappia più come uscire vincitore da questa situazione. Anche perché Conte sabato sera, per togliergli ogni alibi, gli ha fatto capire che è pronto a “trattare” magari attraverso un nuovo “patto di legislatura”. E che Renzi voglia stare ancora al tavolo lo dimostrano i 30 punti inviati il 6 gennaio a Goffredo Bettini, fedelissimo di Nicola Zingaretti, e fatti filtrare solo ieri in cui c’è dentro un po’ di tutto: si va dal fisco alle amministrative fino alle solite critiche su Mes e servizi segreti.

E così in serata fonti di maggioranza parlavano addirittura di un accordo vicino con un maxi-rimpasto fino a 5 ministri che potrebbe addirittura non richiedere le dimissioni di Conte, che sta provando a evitarle ad ogni costo perché non si fida di Renzi. Tra i sacrificabili ci sono le solite Nunzia Catalfo e Luciana Lamorgese (a cui potrebbe andare la delega ai Servizi) per liberare l’Interno a Lorenzo Guerini e la Difesa a un renziano, o Ettore Rosato o quella Maria Elena Boschi che potrebbe andare ai Trasporti con lo spacchettamento del Mit. Ed è proprio sulla sua fedelissima che Renzi sta facendo le barricate per volerla all’interno dell’esecutivo (come ai tempi del governo Gentiloni), senza escludere che sia proprio l’ex premier a volere un ministero di peso per sé. L’accordo prevederebbe anche l’ingresso di Bettini come sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma le uscite a kamikaze dei renziani (“Matteo va fino in fondo, vuole rompere” fa sapere chi ci ha parlato ieri) fanno pensare all’ennesimo tentativo di alzare la posta anche sui ministeri. L’ennesimo ultimatum che spazientisce molti tra M5S e Pd (ieri al termine del cdm sul Covid c’è stato un battibecco proprio con Bellanova sul “ritardo” del piano Recovery), tra cui prende sempre più piede l’idea della sfida parlamentare che saprebbe di crisi al buio. Un’ipotesi che nella maggioranza vorrebbero evitare, almeno fino a stasera.

Recovery, Ponte, Mes e Servizi: ogni giorno un penultimatum di Iv

All’inizio il problema erano la governance e la task force del Recovery Fund. Poi i soldi da spendere su Sanità e Turismo, le chiusure per le feste e perfino il cashback. E ancora, alla vigilia di Natale, il Mes, a Capodanno il ponte sullo Stretto di Messina, la mancanza di “visione” del governo e la legge di Bilancio approvata in quattro e quattr’otto da una sola Camera.

Il 2021 ha portato il sereno? Macché, giù di nuovo missili: la campagna vaccinale in ritardo, gli insegnanti da vaccinare in una settimana, la delega ai servizi segreti da cedere e poi di nuovo il Mes. Queste, a prima vista, sembrerebbero le critiche di un partito di opposizione al governo Conte. Invece no: sono i tantissimi fronti aperti, nell’ultimo mese, da Matteo Renzi e dal suo partito Italia Viva che ha deciso di aprire (quasi) la crisi di governo. Dall’8 dicembre a oggi il partito renziano ogni giorno ha incalzato il premier Conte con un nuovo motivo di dissenso, sempre condito dalle minacce di ritirare le due ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti e aprire formalmente la crisi. “La nostra è una battaglia di idee e non di contenuti” continua a ripetere Renzi, ma nel frattempo proseguono le trattative sotterranee per ottenere qualche ministero e, se possibile, far uscire Conte da Palazzo Chigi.

Per questo, e per i continui rilanci dell’ex premier su argomenti diversi, in molti ormai ritengono le critiche di IV solo strumentali. Obiettivo: voler aprire una crisi a tutti i costi. Tutto era iniziato l’8 dicembre quando, in un’intervista a Repubblica, l’ex premier aveva anticipato qualche dettaglio del suo discorso in Senato durante il dibattito sul Mes: “Serve un governo che funzioni, non 300 consulenti” diceva riferendosi alla task force, chiesta dall’Ue, per supervisionare la gestione dei 209 miliardi del Recovery Fund. Il giorno dopo, lo show a Palazzo Madama in cui Renzi aveva aggiunto critiche sul piano: “Nove miliardi per la Sanità sono troppo pochi, ce ne vuole il quadruplo. Vi sembra normale che ci siano 3 miliardi sul turismo?”. Poi era arrivato il primo penultimatum sulle dimissioni delle ministre: “Noi non vogliamo qualche poltrona, se vuole ce ne sono tre a sua disposizione in più”. E giù applausi dal centrodestra.

Il 15 dicembre nella sua e-news Renzi attaccava la maggioranza per la presunta contraddizione tra il cashback (invogliando agli acquisti natalizi) e le chiusure sotto le feste parlando di “indecisione costante” del governo: “Bisogna avere una posizione e mantenerla, non cambiarla ogni tre giorni” scriveva il senatore di Scandicci. Poi, prima il 21 dicembre con un video su Facebook e il 23 a L’Aria che Tira, Renzi rilanciava sul Mes, sapendo di spaccare la maggioranza perché il M5S è da sempre contrario: “Bisogna prendere il Mes, sono 36 miliardi per i nostri ospedali – diceva l’ex premier – Il M5S dice no perché sono populisti antieuropei”. Peccato che un anno fa, durante la ratifica del trattato Mes, Renzi disertò il vertice di maggioranza perché “se la vedessero loro” (Pd e M5S). Non solo, Renzi all’epoca criticava quel trattato: “Aiuta le banche tedesche”. Oggi invece vuole farvi ricorso a tutti i costi.

A ridosso di Capodanno poi, durante la conferenza stampa per presentare il suo piano Ciao, l’ex premier ritirava fuori dal cilindro il ponte sullo Stretto di Messina (“va fatto”) anche se non si può finanziare coi soldi del Recovery – rilanciato venerdì sera da Davide Faraone – ma anche la mancanza di “anima” del piano del governo. Nel discorso di due giorni dopo in Senato Renzi denunciava lo “svuotamento del Parlamento” perché la legge di bilancio approvata dalla Camera era arrivata in Senato già bloccata. Lui che nel 2016 voleva abolire il bicameralismo perfetto.

Il 2021 non ha portato un rasserenamento degli animi tra i giallorosa, anzi. Il 2 gennaio sul Corriere l’ex premier attaccava sul ritardo del governo sulla campagna vaccinale (“Bisogna correre”), poi giovedì scorso, il giorno dopo i fatti di Capitol Hill, coglieva l’occasione per chiedere al premier di cedere la delega sui servizi segreti: “È una questione di sicurezza nazionale” prima di ripescare il “caso Barr”, in cui non c’è alcuna prova del coinvolgimento del governo italiano nel Russiagate. Nelle ultime ore il muro alzato dall’ex premier è il Mes: “Senza di quello non c’è accordo”. Sono finiti gli argomenti possibili, si ricomincia da capo. La chiusura la lasciamo alle parole dello stesso Renzi ieri alla Stampa: “Ora basta con questa telenovela”.

Ma mi faccia il piacere

Lo stratega. “Gli ultrà di Trump accusano l’Italia: ‘Avete rubato le elezioni a Donald’. Per i complottisti l’incontro Obama-Renzi del 2016 servì a preparare il piano. Complici in ambasciata e satelliti Leonardo per assegnare il voto a Biden” (Stampa, 10.1). Tranquilli, ragazzi: quello non riesce nemmeno a far prendere il 2% a Scalfarotto in Puglia.

Lo sciamano. “Salvini grida: ‘Ora basta, andiamo in piazza’” (Libero, 7.1). Avete visto qualcuno?

Congiuntivite. “Conte nel pallone. Da una parte, pensa che sia l’uomo della Provvidenza. Dall’altra, ha paura che lo fottono” (Dagospia, 10.1). Fantocci, batti lei.

Censura buona. “Twitter silenzia Donald: non chiamatela censura” (Gianni Riotta, Stampa,10.1). Giusto: chiamatela Johnny.

L’amico dei clochard. “Mi autodenuncio. Se la scelta del governo sarà che il giorno di Natale non si può neanche portare una coperta o un piatto caldo a chi dorme in strada e ha freddo, io lo farò lo stesso, come da anni sono abituato a fare: portare dei doni ai bambini, pranzare insieme ai clochard. Non potete chiudere in casa il cuore degli italiani” (Matteo Salvini, Lega, Facebook, 25. 12). “Alessandra Locatelli, salviniana di ferro, è il nuovo assessore lombardo alle Politiche sociali. Nota per le posizioni intransigenti contro migranti e senzatetto, fece parlare di sé per l’ordinanza che proibiva di dar da mangiare ai clochard” (Fanpage, 8.1). È la volta buona che Salvini finisce dentro.

Record cioè flop. “Un Arcuri è per sempre.Il super commissario all’emergenza infinita che riesce a sempre a evitare ogni responsabilità dei flop” (Domani, 10.1). Tipo il flop dell’Italia al primo posto in Europa per le vaccinazioni.

Senza parole. “Arcuri ha commissariato il deep state americano. La spiegazione del golpe” (Fabio Vassallo, autore, Domani, 8.1). Questi non stanno per niente bene.

Compagni che inciuciano. “Il centrodestra disposto a un ‘esecutivo di scopo’” (Giornale, 10.1). “Pisapia: ‘Un governo di scopo con un presidente del Consiglio diverso. Così si può uscire dalla crisi. Ci sono molte persone che possono avere la fiducia di una maggioranza molto più ampia’” (Corriere della sera, 19.1). Riuscirà il compagno Pisapia a riportare al governo B. e Salvini? Vai, Giuliano, sei tutti loro!

Il poliglotta. “Boris è fuori dall’Europa: ‘Salutame a soreta’” (Pietro Senaldi, Libero, 2.1). Mi sa che Senaldi è madrelingua.

Paesi normali. “Christine Aschbacher, ministra austriaca del Lavoro, si è dimessa: è accusata di avere copiato parti della sua tesi di master e di quella di dottorato” (Corriere della sera, 10.1). Mica si chiama Marianna Madia.

I morti a galla. “Il premier ha tardato ad agire, se avesse assunto l’iniziativa quando noi lo chiedemmo e quando Iv non aveva posto questioni, i problemi avrebbero potuto essere risolti in modo meno traumatico” (Andrea Orlando, vicesegretario Pd,Stampa, 10.1). È un peccato che Conte non abbia l’argento vivo e lo sfrenato dinamismo di un Orlando.

Chi conosce i fatti. “Alla storia della cosiddetta Trattativa non crede nessuno e nessuno che conosce i fatti può credervi. Si era incaricato di smentirla Giovanni Falcone” (Alfonso Giordano, giudice del maxiprocesso,Riformista, 9.1). Diavolo d’un Falcone: la trattativa Stato-mafia partì subito dopo la strage di Capaci, ma lui riuscì a smentirla anche da morto: forse apparendo in sogno al collega Giordano, forse in una seduta spiritica.

Giorgio Covid. “Bergamo, inchiesta Covid. Il sindaco Gori: ‘Il Comune è parte civile’” (Giornale, 29.12). Si chiede i danni da solo.

Il virus dei Pollari/1. “Merkel ha parlato alla nazione. Giuseppi molto cauto: perché?” (Claudia Fusani, Riformista, 8.1). Chiedilo a Pio Pompa.

Il virus dei Pollari/2. “Dopo aver perso la sponda degli Usa il premier saluta l’ombrello tedesco” (Claudio Antonelli, Verità, 9.1). Te l’ha detto Pio Pompa?

Il virus dei Pollari/3. “Adesso il Russiagate rischia di mettere Conte nei guai” (Luca Fazzo, Giornale, 8.1). L’hai saputo da Pio Pompa?

Nostalgia canaglia. “Trump, ecco cosa succede quando si uccidono i partiti” (Fabrizio Cicchitto, Riformista, 8.1). E ci si iscrive alla P2.

Paga Pantalone. “Intanto le mie offese non sono gratuite: mi pagano per farle” (F.F. a Rocco Casalino, Libero, 7.1). Trattandosi di Libero, le pagano i contribuenti, soprattutto quelli che non leggono Libero.

Formidabili quei danni. “Ufficiale, Davigo fuori dal Csm. Ora va a fare danni sul ‘Fatto’” (Verità, 8.1). Paura, eh?

Il titolo della settimana/1. “Per usare i fondi Ue il governo ricicla i piani di Monti” (Roberto Formigoni, pregiudicato per corruzione, Libero, 3.1). Invece di darli direttamente a lui.

Il titolo della settimana/2. “Muccioli dava fastidio a due chiese: quella cattolica e quella comunista” (Red Ronnie, Verità, 9.1). Alle porcilaie e alle macellerie, invece, un po’ meno.

Il titolo della settimana/3. “Renzi: ‘Basta con questa telenovela’” (Stampa, 10.1). Lo dice lui a noi.

La filosofia territorialista che sogna il patto tra comunità e natura, etica ed economia

Se c’era una vittima predestinata dell’ubriacatura neoliberista, questa è stata certamente l’urbanistica. La debordante dilatazione dei flussi produttivi e di consumo nell’era del turbocapitalismo globale non ammette regole, vincoli, limiti.

Gli esiti “al suolo” sono stati, da un lato, una concentrazione degli abitanti della Terra in slum, favela, bidonville; dall’altro, l’esodo biblico dalle zone rurali. Anche in Europa il processo di urbanizzazione ha raggiunto livelli massimi: in Belgio il 97 per cento della popolazione vive in città, in Francia l’85, in Germania il 74, più o meno come in Italia. La scuola di pensiero dei territorialisti nasce negli Anni 90 dalle ceneri dell’urbanistica tradizionale dei piani regolatori comunali (“contrattati”), della “zonizzazione” (disegnata seguendo la rendita fondiaria), dei servizi stravolti dal cemento-asfalto.

Ci sono due modi per entrare nello spirito del “principio eco-territoriale” di Alberto Magnaghi dell’Università di Firenze: adoperarsi per apprendere una nuova disciplina delle scienze della Terra, che studia le complesse interazioni tra fattori antropici e naturali, storici e biologici, spaziali ed economici; oppure ammirare direttamente una delle “mappe di comunità” che sono gli strumenti di base della elaborazione dei piani territoriali con valenza paesaggistica. Non anonime carte topografiche bidimensionali, ma collage variopinti che raccolgono le impressioni “percepite” dagli abitanti dei luoghi riuniti dagli urbanisti-facilitatori di processi partecipativi. Così che i “valori patrimoniali” persistenti dei territori emergono dall’“intreccio di parametri soggettivi: percorsi e luoghi familiari e della memoria, luoghi simbolici e del sacro, conoscenza profonda della peculiarità della fauna e della flora, circuiti lavorativi, luoghi dell’incontro, delle attività ludiche e così via”.

L’attività pianificatoria, nella filosofia territorialista, innesca un processo vitale di presa di coscienza del “valore d’esistenza” intrinseco dei luoghi da parte delle comunità insediate, nella speranza che cresca anche il loro desiderio di diventare “soggetti attivi” capaci di “prendersi cura” collettivamente del territorio inteso come “bene comune”. Il quadro culturale generale a cui Magnaghi si riferisce è dichiarato fin dalle prime pagine: Kropotkin, Cattaneo, Adriano Olivetti… teorici dell’autogoverno comunitario. Ciò gli è costata qualche dura accusa (da destra come da sinistra) di sognare tante piccole Città del sole. Secondo costoro, fuori dal Mercato e/o dallo Stato non vi sarebbe alcuno spazio efficace di manovra politica. Le numerosissime esperienze di sistemi di relazioni ed economie autogestite con valenza etico-sociale che Magnaghi descrive testimoniano – al contrario – l’esistenza di una potenziale “nuova civilizzazione” in grado di riprodurre, salendo dal basso, meccanismi coevolutivi equilibrati tra gli insediamenti umani e le dinamiche dei cicli vitali naturali. La “riterritorializzazione” delle economie locali sembra essere quindi la risposta necessaria alla drammatica crisi ecologica e sociale che viviamo.

I ragazzi di via Panisperna ritrovano casa al Museo

Chiunque abbia studiato fisica in Italia si considera un nipotino di Enrico Fermi e del gruppo dei “ragazzi di Via Panisperna” che si è formato intorno a lui negli Anni 30 e che ha dato contributi fondamentali alla fisica del XX secolo, i quali hanno condotto, pochi anni più tardi, alla costruzione del primo reattore a energia nucleare controllata e poi alla bomba atomica. Il loro percorso è stato straordinario nella storia della fisica non solo per i fondamentali contributi scientifici, ma perché la loro eredità ha dato origine alla scuola di fisica italiana del dopoguerra.

Al contrario della rete di Istituti intitolati a Max Planck in Germania, in Italia non si è pensato di onorare la memoria di Enrico Fermi, “l’ultimo uomo che sapeva tutto”, come recita il titolo di una bellissima biografia (David N. Schwartz, Solferino, 2018). Tuttavia, alla fine degli Anni 90, grazie alla pressione di un gruppo di scienziati e cittadini, il senatore Athos De Luca ha proposto una legge, poi approvata all’unanimità, con lo scopo di far diventare la palazzina di Via Panisperna, nel dopoguerra inglobata nel ministero dell’Interno, un istituto di ricerca e un museo della Fisica. Ci sono voluti 20 anni dall’approvazione della legge perché la palazzina fosse restaurata e consegnata al nuovo Ente di ricerca, il Centro ricerche Enrico Fermi (Cref) che, alla fine del 2019, ha iniziato le sue attività. In questo arco di tempo un gruppo di fisici, che ha lavorato nel costituendo Ente, ha potuto consolidare le proprie attività ed è ora impegnato nei progetti scientifici promossi dall’Istituto, presieduto da uno scienziato di grande esperienza, Luciano Pietronero.

Nella palazzina è stato istituito un Museo con i reperti originali degli esperimenti di Fermi, integrati da sistemi multimediali che li rendono facilmente fruibili. Il Cref ha inoltre la particolarità di coniugare la ricerca alla divulgazione, svolgendo una attività scientifica originale, focalizzata su nuove tematiche interdisciplinari che si collocano nell’area dei sistemi complessi e fanno riferimento ai metodi della fisica in chiave moderna, con una attenzione alla rilevanza sociale.

Tuttavia, la palazzina di Via Panisperna deve essere un patrimonio nazionale fruibile a tutti: per questo il Cref si propone di creare un programma di attività di promozione della cultura scientifica rendendo l’ente una realtà unica nel panorama nazionale. A Roma, solo caso tra le capitali europee, non è neppure in programma la costruzione di un museo della scienza. Il Museo della fisica dedicato a Fermi è già una solida realtà e nei prossimi mesi sarà più fruibile grazie a un nuovo ingresso autonomo dal Viminale. Inoltre, grazie a una serie di interventi nelle aree attigue al Museo, si potrà sviluppare il potenziale del Cref, dando vita ad attività di divulgazione scientifica di alto impatto socioculturale, indirizzato al grande pubblico, a studenti di scuola media, superiore e universitari e anche all’accademia: mostre temporanee, proiezioni di documentari, presentazioni di libri e lezioni su temi scientifici d’attualità e storici.

La palazzina, diventando il riferimento principale per la divulgazione scientifica a Roma, potrà fungere da volano anche per la costituzione di un vero e proprio museo della scienza, impresa molto più ambiziosa. A Roma abbiamo recentemente assistito al naufragio del planetario che pure funzionava bene. Prima di questioni di finanziamento o politiche, dobbiamo affrontare un problema culturale: convincere l’opinione pubblica che la divulgazione scientifica è importante perché utile a fornire gli strumenti concettuali per orientarsi nel complesso mondo che ci circonda, come l’attualissima vicenda della diffusione della pandemia dimostra ogni giorno. In questo senso un progetto pilota, seppure su piccola scala, può comunque dare l’esempio.

www.cref.it

“Il vaffa a Gassman. Tenco non si è ucciso. E Mussolini mi ha salvato dai fascisti”

Quando il maglione a collo alto non era solo una necessità climatica; quando la mano sulla fronte – il palmo al contrario – non era solo una tecnica basilare per provare la febbre; quando la cravatta regimental era un segno di appartenenza e l’Esistenzialismo creava dibattiti altissimi, c’era un ragazzo perennemente sorridente, un concentrato – immutato – di edonismo intellettuale che sfruttava tutti questi elementi per un unico fine: le donne. “Ho preso in mano la chitarra per conoscerle in vacanza”.

Da lì, da un cono di stimoli alto o basso che sia, Lino Patruno ha costruito una grande carriera jazzistica, ha suonato in Italia e all’estero, ha contribuito a fondare uno dei gruppi musicali più dirompenti e provocatori del periodo, I Gufi, ha scritto per la televisione, per il cinema (“Con Pupi Avati ho realizzato la sceneggiatura di Bix”) e ha edificato un angolo imperituro di vitalità quotidiana, priva di lacci.

Lei e il jazz.

Nei primi Anni 50 andava un po’ di moda, soprattutto quello francese, come colonna sonora dell’Esistenzialismo: i ragazzi italiani che non apprezzavano le sonorità nostrane, e desideravano tirarsela, ascoltavano i maggiori interpreti del tempo; (sorride) poi cambiava l’abbigliamento.

In nero.

Eravamo molto eleganti e cerco di mantenermi così ancora oggi; indossavamo i colletti alti, le cravatte regimental… era un modo per rimorchiare.

Altro che Esistenzialismo.

Avevo 15 o 16 anni, per l’estate mio padre aveva previsto un soggiorno a Senigallia; prima di partire un amico mi offre le strategie adatte: ‘Devi prendere una chitarra, imparare qualche pezzo, piazzarti in spiaggia e le ragazze arriveranno’. ‘Non ho la chitarra’. ‘Ti presto una delle mie e ti insegno un paio di accordi’.

Risultato?

Ho eseguito alla virgola, ma non si è avvicinata nessuna, ho solo scoperto l’amore per lo strumento: ho passato l’estate chiuso in casa per studiarlo, senza conoscere la musica.

‘Ci vuole orecchio’, cantava Jannacci.

Dopo due mesi ero già un membro di un complesso jazz.

Con gli anni ha imparato la musica?

Insomma, per modo di dire, giusto per scrivere quattro note dei miei brani. Ma il jazz è improvvisazione: preferisco lanciarmi piuttosto che stare lì a rimuginare.

I suoi genitori di cosa si occupavano?

Mio padre era un dirigente Montedison, mamma stava a casa, però suonava il pianoforte, e qualcosa anche lì ho imparato. Sempre senza la musica.

Figlio della borghesia.

Stavamo bene, altrimenti non avrei potuto acquistare le cravatte regimental; (ci pensa) per seguire mio padre abbiamo cambiato più volte città, da Nord a Sud, ultima tappa Milano fino al 1990; poi mi ha chiamato Pupi Avati: ‘Vieni a Roma, dobbiamo scrivere la sceneggiatura di Bix’.

Come mai lei?

Negli anni avevo suonato con tutti i componenti della band di Bix (musicista leggendario morto nel 1931).

È un grande cultore di musica…

Ho circa 50 mila dischi.

Film?

Intorno ai 10 mila; non ho una casa, ma un museo, per questo ho appena dato vita alla ‘Lino Patruno Foundation’, per lasciare tutto ai posteri; all’interno vorrei inserire alcuni amici, come Franco Nero, Maurizio Micheli e Giovanni Brusatori.

C’è una leggenda: quando alla Rai manca un film, chiamano Lino Patruno.

Non è vero: è da anni che non ricevo una telefonata dalla Rai, ma va bene così, visti i programmi che trasmettono.

Non vede nulla.

Per carità.

Neanche il suo amico Arbore?

(Ride) Capitava quando ero piccolo; pure Renzo un po’ si ripete, da trent’anni non sta creando nulla di nuovo. E io come lui.

Per lei solo film.

Vedo quelli di De Sica, come Umberto D. e Ladri di biciclette; o Rossellini (silenzio, pausa). Lui l’ho conosciuto a casa di Vittorio Gassman, presenti anche Bernard Blier e Juliette Mayniel; a un certo punto Vittorio si rivolge a Roberto: ‘Quando giravi Roma città aperta, cosa avevi nella mente per creare un capolavoro?’. E Rossellini: ‘A Vitto’, pensavo a trovare la pellicola per poter girare’.

Smontata l’epica…

Con Vittorio, negli Anni 60, eravamo alla Bussola di Viareggio e il patron del locale, Bernardini, gli chiede di salire sul palco: ‘Dai, ci sono pure I Gufi, Mina…’. Così prima della serata ufficiale prende il microfono, davanti a duemila persone. Ovvio che venne accolto da grandi applausi. Lui sorride, alla Gassman, e con tono imperiale prende la parola: ‘Tutto sommato… tutto sommato siete dei simpatici stronzi’.

Amichevole.

Dal fondo della sala un tizio risponde al grido di battaglia: ‘Stronzo sarai tu’. A quel punto si è scatenato l’inferno, lo volevano picchiare, tanto da doverlo chiudere nelle cantine della cucina; il giorno dopo gli domando: ‘Cosa ti è venuto in mente?’. ‘Volevo verificare fino a che punto potevo osare’.

Con I Gufi è mai stato censurato?

Sì, una stupidaggine: eravamo a Chianciano per uno spettacolo, e cantiamo: ‘Sant’Antonio allu diserte se lavava l’insalata, Satanasse pe’ dispiette glie tirette na sassata. Sant’Antonio lo prese pel collo e lo mise col culo a mollo’. La moglie del commissario si mise a urlare, ci fermarono. Denunciati per vilipendio alla religione.

E…

Assolti dopo un anno. Eppure anche a Pisa salì sul palco il questore per impedirci di riproporre quella canzone.

Negli Anni 60 avete scoperto fama e soldi…

Avevamo il più grande impresario, Remigio Paone: lavoravamo tutti i giorni (e sorride).

È allegro e gaudente.

Sempre stato e sono rimasto tale: niente matrimonio, ho amato tutte le belle donne che ho incontrato.

Quante storie d’amore?

Non rispondo, ma il numero è alto.

Più di Simenon?

Siamo lì.

I suoi genitori si aspettavano l’exploit artistico?

Ma no! Dopo il diploma da geometra mi hanno assunto alla Montedison di Montecatini. Non mi piaceva. Un giorno litigo con il capoufficio. Me ne vado, papà incazzatissimo (ride). Passa il tempo e il capo della sede mi convoca: ‘Da noi non se n’è mai andato nessuno: le dispiace se ufficialmente la licenziamo?’. ‘Cosa comporta?’. ‘Se va via lei ha diritto alla metà della liquidazione; se la colpa è nostra l’otterrà per intero’. Così ho gridato: ‘Licenziatemi!’.

Suo padre?

Non mi ha rivolto la parola per mesi, nel frattempo per guadagnare qualcosa suonavo il basso in un complesso da ballo.

Chi apprezza tra i musicisti italiani?

Alcuni amici come Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Luigi Tenco, Gino Paoli e Sergio Endrigo. Sergio era un poeta.

E Gaber?

Da ragazzo prese il mio posto in un’orchestra, e gli insegnai i pezzi da suonare; già allora percepivi la sua grande forza, un fuoriclasse.

Torniamo a Tenco.

Con lui, nei primi Anni 60, per una sera siamo stati scritturati. Prima dello spettacolo si presenta il proprietario del locale, un tipo losco, minaccioso, con accento del Sud: ‘Questa sera prenderete il 40 per cento del cachet’. E Tenco, il più incazzoso di noi: ‘Ora vado al microfono e spiego al pubblico che lei non rispetta i patti’.

Finale?

‘Se non canta, le mitraglio subito le gambe’. Abbiamo obbedito.

Qual è la sua idea sulla morte di Tenco?

Lavoravo alla Ricordi, Luigi veniva spesso nel mio ufficio. Il nostro argomento principale, se non unico, erano le donne.

Una fissa.

Durante quel maledetto Sanremo, aveva problemi: stava con una tizia legata al clan dei Marsigliesi, un giro pericoloso. Per me non si è ucciso. E non sono l’unico a pensarlo.

In un filmato d’epoca, lei duetta con Lucio Dalla.

A 16 anni suonava il clarinetto in maniera eccezionale, tanto da dissuaderlo dal cantare. Per fortuna non mi ha dato retta.

Enzo Jannacci.

Era il mio dottore…

Un bravo medico?

(Sospira) Bah, diciamo di sì. Il problema è che si dimenticava tutto, forse perché geniale; con lui siamo stati tra i primi a esibirci al Derby, molto prima dell’arrivo di Cochi e Renato, Teocoli e altri; Massimo Boldi suonava la batteria con noi e non aveva alcuna intenzione di lanciarsi nel mondo dello spettacolo.

E poi?

Scoprì la sua verve comica nei post spettacolo a casa mia: finita la serata venivano da me per mangiare e vedere un film; in quelle occasioni Boldi iniziò a imitare il proprietario del Derby.

Di quel gruppetto di giovani, chi era il più bravo?

Teocoli era straordinario con le donne.

Sul Derby si favoleggia di amicizie con la criminalità milanese.

Solo ladri di polli, al massimo c’era chi puntava le radio delle auto.

Ha dichiarato: ‘Romano Mussolini mi ha salvato dai fascisti’.

Grande amico e musicista, pure lui non conosceva una nota musicale: era un 4 novembre, noi in scena al Teatro delle Arti di Roma con uno spettacolo in cui pizzicavamo i fascisti; il direttore del teatro era Peppino De Filippo, persona deliziosa, ogni sera veniva nei camerini per rincuorarci se c’era poco pubblico o ringraziarci per la sala piena.

Mussolini…

Al centralino iniziano ad arrivare telefonate strane: personaggi improbabili che chiedono della nostra presenza. Intuisco il pericolo, chiamo prima Romano e poi mio cugino, personaggio di spicco dell’antiterrorismo, uno che nel curriculum aveva un attentato delle Br e l’uccisione della scorta.

Risultato?

Romano manda un gruppetto di adulti, mio cugino degli agenti. I poverini che volevano bloccare lo spettacolo se ne andarono avviliti, ma tenaci: ‘Abbiamo fallito, ma torneremo’; (cambia tono) sto scrivendo un libro sui miei incontri.

Ne anticipi uno…

Arturo Benedetti Michelangeli (celeberrimo pianista). Una sera, a Milano, ero in giro con le mie fidanzate. Verso l’una di notte passo in un locale di Brera gestito da amici, dove spesso suonavo per divertimento; entro, prendo il basso, intono un paio di brani e alla fine si avvicina un signore: ‘Mi può seguire? Il maestro vorrebbe salutarla’. Era buio, non vedevo nulla. Mi avvicino e scopro Arturo Benedetti Michelangeli.

Le è preso un colpo.

Mi chiede di continuare, io felice accetto; a fine serata il segretario di Michelangeli mi consegna un assegno da duecento mila lire. ‘Ho suonato per lei, per la gioia. Se lo accetto svanisce tutto’.

Un suo grande amore non corrisposto?

Mi hanno corrisposto tutte.

Ha mangiato più da solo o in compagnia.

Cucino. E benissimo.

Il segreto per arrivare a 85 anni così allegro.

Basta non sposarsi, e nessuna rottura di palle di figli che crescono e da mantenere.

È credente?

Ateissimo.

Scaramantico?

Qualche volta, più per imitazione.

Un vizio.

Le donne, ma oramai sono un po’ fuorigioco.

Chi è lei?

Un pazzo scatenato che ragiona ad hoc.

In manette lo “sciamano”. Nuovo raduno il 17 gennaio

Il morto c’è già scappato. Anzi, non uno solo: cinque, nell’assalto al Campidoglio di mercoledì. Ma la tensione innescata dal presidente uscente Donald Trump resta altissima. E i repubblicani che prendono le distanze dal magnate sono minacciati e contestati, mentre in tutta l’Unione proseguono gli arresti dei vandali che hanno occupato e devastato Camera e Senato. Ieri, sono stati arrestati Adam Johnson, l’uomo con i piedi sulla scrivania di Nancy Pelosi, accusato del furto del computer della speaker della Camera, e Jacob Jake Anthony Chansley Angeli, lo sciamano fan di QAnon. Sui social è febbrile l’organizzazione del prossimo appuntamento pro-Trump e anti-establishment, domenica 17, tre giorni prima dell’insediamento di Joe Biden, in una Washington che a quel punto sarà già stata abbandonata da Trump. S’ipotizza che il presidente il 19 vada a Mar-a-Lago, Florida, e annunci un’ondata di grazie, incluse quelle per i figli e forse per se stesso. L’ultima a schierarsi contro il presidente sobillatore è la senatrice dell’Alaska Lisa Murkowski: dovrebbe “dimettersi immediatamente, ha già causato abbastanza danni”, dice in un’intervista. Minacce fisiche toccano al senatore repubblicano Lindsey Graham, già fedelissimo di Trump, insultato in aeroporto a Washington da ultras trumpiani. Era pure accaduto a Mitt Romney, capofila degli anti-Trump, in un aeroporto dello Utah e poi sul volo che lo portava a Washington. Murkowski è la prima fra i senatori repubblicani a chiedere l’uscita di scena subito di Trump, mentre i democratici lavorano a una procedura d’impeachment, che Biden non avalla per evitare d’inasprire le contrapposizioni. Tramontata l’ipotesi di un ricorso al 25° Emendamento. Lo staff della Casa Bianca e i senatori repubblicani, tramite il loro leader Mitch McConnell, hanno già ricevuto istruzioni su come comportarsi se davvero i democratici della Camera sapranno costruire un caso, basato su un capo d’accusa solo, “istigazione all’insurrezione”, entro il 19, quando il Senato, cui spetterebbe ‘processare’ il presidente, tornerà a riunirsi.

“The Donald ora pensa al suo impero dei media”

“Il futuro di Trump? Sarà deposto? O condannato in un processo penale? Se non ci saranno conseguenze, credo davvero che potrebbe creare un impero mediatico, e poi ricandidarsi nel 2024”. Erica De Bruin è professoressa associata all’Hamilton College, New York, ed autrice di How to Prevent Coups d’État: Counterbalancing and Regime Survival, frutto di studi sulla prevenzione dei colpi di stato.

Quello a Capitol Hill è stato un tentativo di colpo di stato da parte di Trump?

È stato un grave attacco alla democrazia, una insurrezione istigata dal presidente, ma non lo definirei un colpo di stato, che tradizionalmente implica la partecipazione di una forza militare o paramilitare organizzata che agisce dall’interno del sistema. Trump non ha potuto contare su questo tipo di supporto, ma non c’è dubbio che negli anni di presidenza abbia operato molto vicino al limite delle garanzie democratiche, in questo agevolato da diversi fattori: la possibilità di costruire consenso tramite un accesso non filtrato ai social media, la complicità di ampi settori del partito repubblicano, il seguito nelle forze di polizia.

C’è stata complicità fra agenti e manifestanti al Campidoglio?

È ancora presto per certezze definitive, ma da quello che abbiamo visto la polizia ha sottostimato quella che si è poi rivelata una insurrezione con elementi armati. Credo che questo dipenda da tre fattori. Il primo è il favore con cui Trump ha sempre trattato i poliziotti. Il secondo la familiarità di certi settori della polizia con la destra americana. Il terzo, culturale, dal fatto che la sicurezza negli Stati Uniti è strutturalmente razzista: una protesta di bianchi non è mai vista come pericolosa quanto quella di neri. Il terrorismo nazionalista mai considerato grave, nemmeno dall’Fbi, quanto quello islamico o di altra matrice. Credo che questo abbia provocato una pericolosa sottostima dei rischi di quella manifestazione.

E i militari?

C’è uno stereotipo duro a morire: l’idea che si tratti di una forza monolitica, conservatrice, una carriera scelta da proletari. Non è così: oggi i militari di carriera sono una forza culturalmente eterogenea, con redditi notevoli, che si percepisce come altamente professionale. A unire tutti è la determinazione a non farsi tirare dentro beghe politiche. La Guardia Nazionale ha cercato di tenersi fuori anche dall’intervento a Capitol Hill, e quando è intervenuta lo ha fatto senza armi. Credo sia stata una decisione saggia.

Lei ha studiato i metodi di prevenzione dei colpi di stato. Gli Stati Uniti oggi hanno tutti gli anticorpi?

Ho raccolto dati per oltre 10 anni: nessuno Stato al mondo è interamente al riparo dal rischio di golpe. Ma gli Stati Uniti sono fra quelli meno esposti, grazie alla intenzionale decentralizzazione delle forze militari, con una divisione estrema di ruoli e poteri che depotenzia la difesa ma fornisce in cambio maggiori garanzie di fallimento di tentativi di presa antidemocratica del potere. Quello che è più complesso evitare è il democracy backsliding, un’erosione della democrazia che può portare a un suo arretramento. E questo è un pericolo ancora molto concreto.

Quella di Twitter è una scelta politica: per questo non va

La decisione di Twitter di sospendere l’account di Donald Trump crea un brutto precedente. Insieme a Facebook, la società fondata da Jack Dorsey controlla infatti gran parte della comunicazione, con un’influenza evidente nel dibattito pubblico. La decisione, più che una rigida applicazione di regole interne, appare invece molto politica. Non a caso si accompagna all’annuncio da parte di Google

di bandire la piattaforma Parler, regno della destra alternativa americana, scelta che si appresta a compiere anche Apple.

Le motivazioni “politiche” si possono scorgere nello stesso comunicato della società di San Francisco che ha preso la sua decisione dopo aver ricostruito la sequenza di tweets del presidente statunitense da leggere “nel contesto di eventi più ampi nel paese e nel modo in cui le dichiarazioni del presidente possono essere mobilitate da diversi pubblici, anche per incitare alla violenza, nonché nel contesto del modello di comportamento di questo racconto nelle ultime settimane”.

Twitter fa riferimento al clima che si starebbe creando per l’inaugurazione della presidenza Biden, alla decisione di Trump di non presenziare e a prove di “piani per future proteste armate” già il 17 gennaio. Tutto questo lascia intendere che “la transizione non sarà ordinata” e che dunque la sospensione ha una funzione preventiva. Sulla base di una autonoma valutazione da parte di una società privata, si prende una decisione che pone il social network su un piano più forte dell’autorità politica più forte al mondo, come nemmeno le Nazioni Unite.

Il quotidiano online statunitense Politico.com ha evidenziato ieri sul proprio sito la domanda: “Hey Twitter, sei sicuro di ciò?”. E il suo fondatore, John Harris, autore dell’articolo, ha voluto sottolineare che la decisione “in termini strettamente politici, potrebbe benissimo dare slancio a Trump e ai suoi sostenitori”. D’altro lato, i sostenitori della decisione, citiamo ad esempio la testata Valigia Blu definiscono “incomprensibile il grido di disperazione di chi in queste ore, in seguito a una decisione senza precedenti delle principali piattaforme social, si lamenta perché la stessa regola che si applica a noi comuni mortali è stata finalmente applicata all’uomo più potente sulla faccia della terra”.

A risposta di questa tesi un po’ semplificata si potrebbero richiamare gli scritti di quanti hanno riflettuto sulla funzione di “spazio pubblico” delle piattaforme social, da Joseph Van Dijk a Manuel Castells o Zizi Papacharissi. Le piattaforme hanno già plasmato, occupandola, la sfera pubblica facendone una proprietà diretta.

Cristina Antonucci, sociologa politica e docente di Comunicazione politica alla facoltà di Lettere della Sapienza, ha scritto su Formichenews, rivista molto netta contro le posizioni populiste, che i social network si assumono ora una grande “responsabilità nel decidere chi, dotato di una posizione di potere politico o di un incarico istituzionale, abbia diritto ad avere accesso alle piattaforme”. Le piattaforme si sono finora presentate come supporto tecnico alla discussione e non come editori ma ora “decidono di fare un passo avanti e prendere posizioni politiche nella sfera pubblica”. Per questa ragione “possono e devono rispondere, nell’assumere scelte collettive così politiche, a norme di diritto pubblico, e non solo a policy aziendali”.

Volendo semplificare ancora dovrebbe essere un’autorità pubblica a prendere una decisione così gravida di conseguenze, non certo un consiglio di amministrazione. Bandire una figura politica costituisce un passo molto più impegnativo dell’oscuramento di un tweet o della segnalazione di affermazioni false e fuorvianti: costituisce esattamente una decisione politica. Pensare che possa prenderla un social network e che possa farlo sulla base della libertà d’impresa significa rassegnarsi a essere soggetti allo strapotere delle corporation e alla definitiva privatizzazione della sfera pubblica.