Vaccini, Italia leader d’Europa. Il Papa: “Mi sono prenotato”

“Io credo che eticamente tutti debbano prendere il vaccino, è un’opzione etica, perché tu ti giochi la salute, la vita, ma ti giochi anche la vita di altri”. Papa Francesco irrompe nella campagna vaccinale con un’intervista esclusiva al Tg5 andata in onda ieri: “La settimana prossima inizieremo a farlo in Vaticano ed io mi sono prenotato, si deve fare”.

E l’Italia corre e con 550 mila prime dosi della vaccinazione già somministrate supera o almeno tallona in questa speciale classifica la Germania (manca uniformità su giorno e orario di aggiornamento dei dati) lasciando alle spalle Spagna e Francia, ancora al di sotto quota 300 mila dosi. Nel dato dei vaccinati ogni cento persone con lo 0,85 siamo tra i Paesi dell’Unione europea secondi solo alla Danimarca (1,94) e quinti assoluti nel mondo dietro l’impressionante Israele (19,55), Usa (2,02), Uk (1,94). Seguono dopo l’Italia la Cina (0,63), la Germania (0,57), la Russia (0,55) e la Francia (0,12).

Nessuno, però, se la sente di esultare e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte interviene così: “Stiamo attraversando un periodo difficilissimo, l’intero Paese è sfibrato dalla pandemia. Mai come in questo momento abbiamo bisogno di concentrarci, con la massima attenzione, alla realizzazione del piano di vaccinazione. Siamo il primo paese dell’Unione europea per numero di persone vaccinate, è un ottimo risultato che in questa fase iniziale ci conforta e ci deve spingere a continuare su questa strada”.

In totale, rispetto al quantitativo di vaccino Pfizer Biontech già in territorio italiano, è stato somministrato quasi il 60 per cento delle dosi disponibili.

 

Domani arriva Moderna. imminente ok a Astrazeneca

E arriveranno domani anche le prime 47mila dosi del secondo vaccino approvato, quello di Moderna, mentre entro la fine di febbraio l’Italia ne avrà a disposizione 764mila, che si andranno ad aggiungere a quelle garantite da Pfizer con un invio di 470mila a settimana e a quelle – se l’agenzia del farmaco europea Ema autorizzerà la commercializzazione entro fine gennaio come sembra nelle ultime ore – di Oxford Astrazeneca. “La vera strada – ha ribadito il ministro della Salute Roberto Speranza – per uscire da questi mesi e da questa crisi così difficile”. Ottimista, ieri su La7, anche la sottosegretaria Sandra Zampa: “Ce la caveremo come ce la siamo cavata bene in questo periodo. Non mancano né le siringhe né i diluenti, forniremo tutto il materiale necessario alle Regioni”.

A Napoli infuria la polemica per le lunghe file alle somministrazioni dei vaccini, ma la Campania per ora guida la classifica per regione col 75,2% delle dosi disponibili già somministrate; seguono Veneto (71,8), Toscana (71,2), Trentino (70,3), Sicilia (65,7), Lazio (64,5). Ultima sempre la Lombardia col 30,8 per cento.

Open, un altro no a Renzi: “Inchiesta rimane a Firenze”

L’inchiesta sulla Fondazione Open resta a Firenze. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione ai quali si erano rivolti anche i legali di Matteo Renzi, indagato nel capoluogo toscano per concorso in finanziamento illecito con gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, con l’ex presidente della Fondazione Alberto Bianchi e con l’imprenditore Marco Carrai. Nei mesi scorsi i legali di Renzi e Boschi avevano sollevato la questione di competenza sostenendo che l’indagine dovesse essere trasferita a Roma o anche a Pistoia. La procura ha sostenuto che la compentenza fosse fiorentina e così anche la Cassazione.

Intanto un’altra novità arriva dal Tribunale del Riesame che ha confermato la legittimità della perquisizione e del sequestro di documenti a carico di Marco Carrai che la Cassazione aveva invece annullato con rinvio degli atti alla procura. Nell’ordinanza, depositata il 24 dicembre, i giudici del Riesame parlano anche del finanziamento alla Open da parte della “Toto costruzioni”. Contributo che definiscono “schermato” con un incarico all’avvocato Bianchi. L’incarico riguardava una accordo transattivo tra la Toto e la società Autostrade, finite in un contenzioso che si trascinava da anni. Nell’ordinanza dunque si fa riferimento a quanto ritrovato dalla Finanza durante la perquisizione a Bianchi del 26 novembre 2019. Si tratta di una dichiarazione dattiloscritta risalente al 4 aprile 2018, con la quale Bianchi comunica ai suoi colleghi di studio “le modalità con cui ha schermato l’operazione di finanziamento della ‘Toto costruzioni’ in favore della Open” e indica “la nuova procedura” che intende “seguire per schermare ulteriori finanziamenti in favore della Fondazione, provenienti ancora da ‘Toto Costruzioni’ e dalla srl ‘Utopia’”. Scrive Bianchi: “Come ricorderete, allo scopo di consentire a taluni soggetti lo svolgimento del loro desiderio di contribuire in una forma peculiare alle attività della Fondazione Open, convenimmo che figurasse un incarico di un nostro cliente direttamente a me senza ovviamente sottrarre alcunché allo studio, sia perché trattavasi di compenso ‘ulteriore’, sia perché il netto rilevato dal nostro commercialista Busi fu direttamente da me versato a Fondazione Open e al Comitato per il Sì al referendum (vi allego la scrittura che all’epoca firmammo, relativa ad un compenso lordo di euro 750.000 (…) e la copia dei due bonifici da me effettuati del relativo netto, pari a Euro 400.838 (…)”. Poi Bianchi spiega che “la questione si ripropone adesso” con “due soggetti”: “uno è lo stesso Toto, l’altro è la società romana ‘Utopia S.r.l.’”. E aggiunge: “Nel caso di Toto, mi ha espresso il desiderio di versare a Open (…) un importo pari al netto del 2% di quanto, a seguito della nostra attività professionale (attualmente in corso) sarà ricavato dai contenziosi/trattative con Anas s.p.a. relative a riserve presentate nel corso dell’appalto della variante SS Aurelia a La Spezia, e di corrispondere a noi 1% dello stesso ricavato. Trattasi di somme evidentemente incerte, visto che sia il contenzioso che le trattative sono in corso. Incerti sono anche i tempi, considerato che se definiamo un accordo con Anas è pensabile esso si chiuda nel corrente anno, mentre se dobbiamo far conto sul contenzioso i tempi sono significativamente più lunghi”. Per quanto riguarda Utopia srl, Bianchi aggiunge che esistono “due fondamentali differenze: la prima è che la somma complessiva per due pareri (già redatti e inviati, ma si tratta di semplice rielaborazione lessicale di pareri già destinati ad altri clienti) è in questo caso già stata definita ed è complessivamente pari a 30.000 euro. La seconda è che in questo caso il ‘cliente’ vuole versare tutto (il netto) a Open, dunque come studio non c’è alcun incasso (così come non c’è stata nessuna prestazione, dato che ho semplicemente rielaborato mutatis mutandis pareri già esistenti)”. Il Riesame annota: “Emerge che Toto Costruzioni ha ritenuto di schermare il finanziamento in favore della Open per 400.838 euro mediante un incarico professionale a Bianchi”.

“La decisione del Riesame (…) ripete gli argomenti della prima ordinanza che era già stata oggetto di annullamento da parte della Cassazione. Verrà di nuovo proposto ricorso”, spiegano i legali di Carrai.

Consip, nuovi accertamenti sui contatti P. Chigi-Romeo

Riparte nei tempi supplementari l’inchiesta Consip. Dopo l’avviso chiusura indagini contro Alfredo Romeo, Tiziano Renzi, Carlo Russo e Italo Bocchino per la presunta turbativa d’asta e il presunto traffico di influenze sulla gara FM4 da 2,7 miliardi, i pm Paolo Ielo e Mario Palazzi hanno acquisito l’informativa depositata nel procedimento napoletano su Romeo per altri fatti. L’informativa riguardava i messaggi trovati nel telefonino di Carlo Russo. Dopo averla letta i magistrati romani hanno deciso di dare nuove deleghe di indagine ai Carabinieri. Poiché l’inchiesta era stata già chiusa però nelle indagini integrative non possono essere ri-interrogati gli indagati per chiedere conto dei nuovi elementi. Per esempio i pm non potranno chiedere conto a Domenico Casalino dell’incontro con Tiziano Renzi e Carlo Russo avvenuto il 22 aprile 2015 alle 15 in un bar dell’Eur a Roma raccontato da Casalino al Fatto nell’articolo “L’incontro ignorato dai pm fra Tiziano Renzi e l’ex Ad” del 30 ottobre 2020. Non potranno nemmeno chiedere di nuovo a Tiziano Renzi dell’incontro con Alfredo Romeo raccontato, sempre al Fatto e non ai pm, da Romeo.

Cosa potranno fare allora i magistrati romani? Potrebbero convocare Eleonora Chierichetti, completamente estranea alle indagini. Perché i pm potrebbero sentire a sommarie informazioni la ex collaboratrice storica di Matteo Renzi nell’inchiesta in cui è indagato il padre dell’ex premier? Nell’informativa i carabinieri napoletani ricostruiscono cosa sia avvenuto ad aprile 2015. Il 10 aprile di quell’anno pochi minuti dopo le 9 del mattino, Tiziano Renzi “comunicava a Russo il numero del cellulare di Eleonora Chierichetti”. Già collaboratrice di Matteo Renzi ai tempi in cui era presidente della Provincia e poi sindaco a Firenze, la Chierichetti in quel momento è nella segreteria di Palazzo Chigi, impegnata alle dipendenze del sottosegretario Luca Lotti. Due ore dopo aver ricevuto il contatto da Tiziano Renzi, Russo scrive: “Eleonora buongiorno, scusa se ti disturbo. Posso chiamarti? Grazie, Carlo Russo”. Dall’informativa non emerge il motivo di questo contatto. Tre giorni dopo, però, il 13 aprile 2015, alle 14.52, Paola Grittani, collaboratrice fidata di Alfredo Romeo, invia a Russo il numero della Romeo Gestioni. “Dr. Ecco il numero della segreteria dell’avvocato. Si preoccuperanno di passare la telefonata n. 081******* saluti”. Appena due minuti dopo Russo invia quel numero al cellulare della Chierichetti: “081******* avv Romeo”.

Che cosa è successo dopo? Ci sono stati contatti tra Palazzo Chigi e ‘l’avv Romeo’? Quando Il Fatto si occupò della vicenda, l’ex ministro Lotti spiegò di non aver mai incontrato Romeo e di non averlo mai contattato telefonicamente. Romeo su questa circostanza ha precisato di non aver parlato con Matteo Renzi e ha spiegato così la ragione di quello scambio di messaggi: “Avrei avuto piacere che a concludere (un convegno a Roma poi tenutosi nel novembre 2015, Ndr) fosse il presidente del Consiglio (…) mi aveva chiamato in aprile anche una signora della Segreteria di Palazzo Chigi. Mi aveva dato assicurazioni ma non se ne fece niente”.

Il 18 dicembre scorso la Procura di Roma ha chiesto il processo per Tiziano Renzi, il suo amico Carlo Russo e l’imprenditore Romeo con altri perché, nell’impostazione dei pm, Russo si faceva promettere denaro per sé e per Tiziano Renzi (che ha sempre negato di conoscere le interlocuzioni tra Russo e Romeo) in cambio della propria mediazione sull’ex ad di Consip, Luigi Marroni (estraneo alle indagini) affinché favorisse le società dell’imprenditore campano nella gara Fm4.

Tiziano Renzi ha negato nell’interrogatorio di marzo 2017 con i pm di Roma di avere incontrato Alfredo Romeo. Nel maggio del 2017 però nel libro “Di padre in figlio” (edito da PaperFirst) pubblicammo la trascrizione di una telefonata tra Matteo e Tiziano Renzi alla vigilia di quell’ interrogatorio. Tiziano, mentre era intercettato dai pm di Napoli, escludeva con poca convinzione al figlio che lo incalzava di aver fatto incontri al ristorante con Romeo ma diceva di “non ricordare i bar”. Matteo Renzi dopo la pubblicazione difese il padre e chiese persino le scuse pubbliche ai giornalisti che rilanciavano la notizia del possibile incontro con Romeo, senza fare verifiche, a suo dire. Il Fatto svelò però nell’estate 2017 un’altra conversazione intercettata sempre nel 2016 in cui Russo e Romeo parlavano di un incontro in un ‘barettino’. Ipotizzammo fosse proprio ‘il bar’ dimenticato da Tiziano nella telefonata con Matteo. Allora Romeo si fece intervistare da Repubblica il 18 agosto 2017 e negò l’incontro. Però gli investigatori guardarono meglio i tabulati telefonici in loro possesso individuando la sovrapposizione delle celle agganciate dai tre cellulari il 16 luglio 2015, a Firenze. La linea di Russo, Romeo e Tiziano però restò la stessa. Il primo marzo del 2019 a Repubblica che gli chiedeva “È proprio sicuro di non aver mai incontrato Renzi Senior?”, Romeo tronfio e sicuro rispondeva: “Mai. L’ho detto e l’ho ripetuto non è il caso di tornarci”.

Si arriva così al dicembre 2020. Il Fatto chiede a Romeo un’intervista e l’imprenditore ritrova la memoria: “L’incontro col papà di Renzi lo ho avuto nel luglio del 2015. Ci siamo visti per dieci minuti al banco di un bar, senza neanche sederci. Abbiamo parlato solo del convegno che stavo organizzando con l’Osservatorio Risorsa Patrimonio (…) avrei avuto piacere che a concludere fosse il presidente del Consiglio. (…) Nessuna relazione con Consip”.

Il Gip Gaspare Sturzo la vede diversamente e nota che pochi giorni dopo quell’incontro Tiziano Renzi contatta l’amministratore delegato di Consip appena nominato, Luigi Marroni, e gli chiede un incontro a Firenze. Nelle risposte scritte di Romeo alle nostre domande a dicembre (che non abbiamo pubblicato perché Romeo pretendeva fossero messe in pagina integralmente comprese, oltre alle mezze ammissioni sull’incontro fiorentino, anche alcune balle da noi restituite al mittente) c’erano altri elementi interessanti come le chat sopra riportate per organizzare la telefonata Romeo-Palazzo Chigi. Per esempio c’era la rivelazione di un fatto: Carlo Russo arrivò al cospetto di Romeo nel 2015 grazie all’allora Ad di Consip. “Casalino – ci ha scritto Romeo – mi chiese attraverso Italo Bocchino di incontrare Russo”. Dunque ricapitolando: Russo incontra Casalino, Ad di Consip da solo a febbraio 2015. Sempre Casalino – a detta di Romeo – manda Russo da Romeo tramite Bocchino. Poi Casalino, da Ad in carica di Consip, incontra Russo con Tiziano Renzi al bar dell’Eur. Infine, dopo la sostituzione di Casalino con Marroni al vertice di Consip ecco che Tiziano Renzi e Russo incontrano Romeo il 16 luglio 2015 a Firenze. Il 20 luglio 2015 poi Tiziano contatta l’Ad in carica di Consip, Luigi Marroni, nominato dal governo Renzi, per incontrarlo a Firenze e poi aggiorna sul possibile futuro incontro Russo.

Però – secondo la deposizione di Luigi Marroni, ritenuta attendibile dai pm romani – quando finalmente Russo incontra, su input di Tiziano, Marroni non gli raccomanda Romeo ma un’altra società. Quale? Mistero. Marroni non ricorda. Questa è la matassa che dovrà essere sbrogliata nell’udienza preliminare.

Per chi suona la campana degli Usa? Per chiunque ignori le diseguaglianze

Quanto siamo lontani, in Italia, dall’assalto trumpiano a Capitol Hill? Dipende cosa vediamo in quelle scene: se cerchiamo un suprematista bianco complottista che si aggiri a torso nudo con le corna di bisonte nel centro di Roma potremmo sentircene remoti. Ma se proviamo ad allargare anche solo un poco lo sguardo, e a chiederci cosa sia successo alla democrazia americana, ebbene le risposte non sono così tranquillizzanti.

È quel che ha provato a fare, con la consueta intelligenza, Fabrizio Barca, che ha scritto (su Twitter, a caldo): “Scene che ci fanno riflettere su estrema fragilità democrazia USA. Ma, attenzione, è un segnale per tutte le democrazie. A quale risentimento arriva un popolo colpito da enormi disuguaglianze, che non crede più che esista un’alternativa. E lo spazio che ciò apre all’autoritarismo”.

Una lettura per molti non solo corretta, ma perfino ovvia. Io stesso l’ho ritwittata, commentando: “È esattamente così purtroppo. La tragedia di una democrazia che non riesce a costruire eguaglianza e giustizia. Queste immagini del Parlamento americano segnano un’epoca. Dalla quale non si esce senza giustizia ed eguaglianza”.

Invece, apriti cielo. “Chiamare ‘popolo’ un manipolo di golpisti violenti è davvero un grave infortunio. Anche perché il popolo, quello vero che crede nella democrazia e la rispetta, ha appena scelto un’alternativa: votando liberamente”, ha tuonato l’inaffondabile dem Andrea Romano. E l’economista e parlamentare italovivaista Luigi Marattin ha preso Barca, metaforicamente, per il bavero: “Di fronte a golpisti e terroristi c’è sempre stato, storicamente, qualcuno che li chiamava ‘popolo’ e faceva intendere che, in fondo, ‘è colpa della diseguaglianza’. Solo che non era mai accaduto così in fretta. Questo qui qualcuno lo voleva leader del centrosinistra”. Seguono due giorni di attacchi contro “quelli che scambiano la parodia della Marcia su Roma per la presa della Bastiglia”.

Ora, l’unico serio motivo per occuparsi di questo rumore di fondo è che scambiando quel che è successo a Washington per un episodio, più o meno parodistico, di folklore fascista si corre il concreto rischio di imboccare la stessa strada che l’ha prodotto. I 74 milioni di voti che Trump, nonostante tutto, ha preso poche settimane fa, vengono dalle aree più povere di un’America spaccata: quella che produce il 29% della ricchezza del Paese (nel 2016 era il 36%). L’ironia sulla rozzezza e sull’ignoranza dei fascistoidi che hanno fatto irruzione nel Congresso impedisce di vedere che proprio la diseguaglianza nella conoscenza è un elemento chiave.

La spaccatura tra chi attribuisce il proprio successo alla “meritocrazia” (che altro non è se non la cristallizzazione delle diseguaglianze) e la rabbia di chi si sente tagliato fuori dall’ascensore sociale dell’istruzione è un fattore crescentemente esplosivo. Pochi giorni fa, il premio Nobel per l’economia Angus Deaton ha scritto sui rischi micidiali che corre una democrazia così diseguale come quella americana, ricordando che “nella distopia di Michael Young – dove ha origine la parola ‘meritocrazia’ – la meritocrazia porta la guerra civile tra i populisti e l’élite meritocratica”.

Tutto questo non vuol dire, naturalmente, giustificare alcunché, né affermare che Trump abbia fatto gli interessi dei più poveri (anzi, le sue politiche hanno aumentato le diseguaglianze: i suoi tagli fiscali hanno reso, per esempio, Apple più ricca di 47 miliardi di dollari e la riduzione dell’imposta sulle società dal 35 al 21% ha beneficiato i più ricchi). Vuol dire semplicemente ricordarsi che se la nostra democrazia occidentale, così interconnessa, non riuscirà ad essere più giusta, più eguale, alla fine sarà spazzata via. E finché la sprezzante cecità sociale dei Romano e dei Marattin lavora per i nostri Trump (che si chiamano Salvini e Meloni) non c’è affatto da stare tranquilli.

L’infinita crisi giallorosa blocca pure il quinto decreto Ristori

I soldi dei primi quattro, comunque benedetti, se ne sono andati via come una pioggerellina sull’ombrello: l’ultima tranche di ristori, i 628 milioni del decreto di Natale – giurano dal ministero dell’Economia – stanno arrivando sui conti correnti degli interessati (partite Iva, bar, ristoranti, etc.) direttamente dall’Agenzia delle Entrate, una modalità “veloce” che forse era bene usare fin dall’inizio dell’emergenza.

Siccome però siamo in una situazione, e in una crisi, mai vista, corre l’obbligo di ricordare che questo mese di fibrillazioni nella maggioranza giallorosa sta ritardando l’atteso, quinto decreto Ristori, quello che doveva basarsi su un nuovo scostamento di bilancio da 20 miliardi e arrivare all’inizio dell’anno.

È a questo che ieri hanno fatto riferimento i presidenti delle cinque Regioni che da lunedì entreranno nella zona di rischio arancione – Calabria, Emilia Romagna, Lombardia, Sicilia e Veneto in rigoroso ordine alfabetico – in una lettera comune al governo: chiedono “di fornire doverose e puntuali rassicurazioni circa un’immediata messa in campo di ristori e la loro quantificazione”. Questo per evitare – scrivono Stefano Bonaccini, Attilio Fontana, Nello Musumeci, Nino Spirlì e Luca Zaia – “ulteriori penalizzazioni alle categorie colpite e per scongiurare il rischio che interi comparti vengano definitivamente cancellati dalla geografia economica delle nostre Regioni”. Conviene ricordare, se non altro, che nelle zone arancioni bar, ristoranti o palestre non possono essere aperti neanche di giorno.

In sostanza, siamo arrivati alle nuove chiusure senza sapere su quante risorse potremo contare e a quali fini. Come detto, a inizio dicembre lo scostamento di bilancio ipotizzato – cioè il maggior deficit – era di 20 miliardi (che si aggiungono ai 100 autorizzati per il 2020): per procedere serve un voto a maggioranza assoluta del Parlamento che autorizza il governo a modificare i saldi di finanza pubblica. Senza questa autorizzazione non esiste neanche il decreto, nel senso che le norme non sarebbero finanziariamente coperte. Stabilita l’entità della cifra, bisognerà poi capire cosa farci.

Il quinto decreto Ristori, secondo le indiscrezioni di queste settimane, dovrebbe muoversi su due direttrici fondamentali: la prima è quella degli indennizzi diretti per le categorie produttive e le imprese colpite dalle chiusure e/o da cali di fatturato ingenti (ma bisogna stabilire se ci sono soglie e quali); la seconda è la sospensione delle scadenze fiscali prorogate a marzo e aprile per chi è in difficoltà causa Covid (l’idea sarebbe cancellare l’intero importo dovuto, ma non tutti sono d’accordo e non su tutto). Tutte risposte che i cinque governatori e soprattutto i cittadini dovranno aspettare ancora per qualche tempo: al momento al Tesoro e dentro la maggioranza, ammesso che esista ancora, stanno riscrivendo alacremente, ma senza molto costrutto, il Recovery Plan.

“Se chiedi rispetto, devi darlo”. “Abbiamo solo perso tempo”

Il vertice di maggioranza sul Recovery Fund è un incontro strano, con un’atmosfera da fine campionato. La squadra di Matteo Renzi, nonostante i sondaggi da retrocessione, gioca a perdere. Lo spettacolo – specie per il pubblico pagante, stremato da un anno di pandemia – è davvero modesto.

Riscaldamento. Il fischio d’inizio è venerdì sera alle 18 e 30. Si gioca a porte chiuse, in videoconferenza. A Palazzo Chigi solo alcuni ministri e la delegazione di Liberi e Uguali (Federico Fornaro e Loredana De Petris). Italia Viva diserta in blocco la trasferta: Teresa Bellanova, Maria Elena Boschi e Davide Faraone sono a casa su Zoom. Con Giuseppe Conte ci sono i ministri Roberto Gualtieri, Stefano Patuanelli, Enzo Amendola, Peppe Provenzano e i capi delegazione Dario Franceschini (Pd), Alfonso Bonafede (M5S) e Roberto Speranza (Leu). C’era una volta una maggioranza, ora due squadre: Pd, M5S e Leu in una metà campo, i renziani nell’altra. Ma la partita è condizionata dall’unico assente. Matteo Renzi controlla i suoi giocatori come alla Playstation. Tutti in difesa, si gioca per non far giocare l’altro: prima tocca a Faraone, poi Boschi e Bellanova.

Primo tempo. Il calcio d’inizio è di Conte. Il governo ha distribuito un documento di sintesi sul Recovery Fund di 13 pagine, lo introduce il premier e poi lo illustra punto per punto Gualtieri. Faraone si inserisce come un terzino di altri tempi. Non gli interessa prendere la palla o la caviglia. Mette in mezzo il solito Mes, la cybersecurity, poi i fondi per l’agricoltura e per la famiglia (i due ministeri renziani). Tutto fa legna. Il senatore siciliano lamenta ancora un problema di metodo: “Nel Consiglio dei ministri del 7 dicembre c’era un testo di 130 pagine, perché ora sono diventate 13?”. Risponde Gualtieri: “Non è questa la sede per discutere del testo definitivo. Eravamo tutti d’accordo su una riunione politica, per confrontarci sulle spese e sui saldi finali”.

Faraone continua a picchiare e stavolta butta la palla direttamente fuori dallo stadio: “Dove sono i fondi per il Ponte sullo Stretto?”. Gualtieri: “Non ci sono. È un’opera incompatibile col Recovery Fund e con i tempi certi che pretende l’Europa”.

Ma Italia Viva ha un altro problema, forse più grosso: nel frattempo Renzi è in televisione e dice di non aver mai chiesto il ponte di Messina. Però la scivolata di Faraone è filtrata dal vertice ai giornalisti, escono le prime agenzie di stampa. La partita si innervosisce definitivamente.

Secondo tempo. Faraone va in panchina, tocca alla Boschi. C’è un dettaglio nelle 13 pagine del governo che proprio non le va giù: “Non ci sono risorse per i porti del Sud”. Replica Conte, ironico: “Nel documento di sole 13 pagine vi è sfuggito il passaggio sull’incremento degli investimenti sui porti del Sud”. È a pagina 10.

È duello tra i due, l’ex ministra si inalbera, si ingarbuglia, pretende “rispetto”. Ancora il premier: “Chi chiede rispetto deve dare rispetto”. Tempo di recupero, chiude Bellanova: “Abbiamo solo perso tempo, vogliamo leggere un documento completo, è inutile convocare un’altra riunione”. Franceschini garantisce: “Trasmetteremo il testo ai ministri almeno 24 ore prima del prossimo consiglio”.

Post partita. Di fatto non vince nessuno. Italia Viva prosegue la strategia del logoramento, tutto è fermo. Negli spogliatoi non c’è terzo tempo, nessuna sportività. Il primo pensiero della Bellanova è twittare contro un blogger del Fatto Quotidiano. Renzi ha ottenuto il suo triste zero a zero.

“Conte non si tocca, senza di lui c’è il voto. Crisi è da marziani”

A un nuovo presidente del Consiglio non vuole neppure pensarci: “Lo dissi al Fatto già mesi fa, mettere in discussione Giuseppe Conte è fantascienza”. E predica pace: “Martedì dobbiamo approvare in Consiglio dei ministri il Recovery Plan e poi lavorare per un patto di legislatura”. Però il Guardasigilli e capo delegazione del M5S, Alfonso Bonafede, deve dirlo: “Ognuno ora dovrà assumersi le proprie responsabilità, evocare la crisi agli italiani pare una cosa da marziani”.

La riunione di venerdì sul Recovery Plan è stata difficile e la situazione è confusa. Come se ne esce?

L’unica rotta possibile è quella del lavoro. Il contributo del Movimento è sempre stato sui contenuti, e per questo sarà molto importante il Consiglio dei ministri sul Recovery Plan di martedì prossimo, dove il piano andrà approvato per poi essere portato in Parlamento e aperto al contributo di tutti.

Come arriverete a martedì? Venerdì al tavolo Iv ha ritirato fuori il Ponte sullo Stretto… Non l’ha sorpresa questo?

No, visto che anche in altre riunioni il tema era stato sollevato. Ognuno ha le sue legittime priorità ma non credo che il Ponte ora sia fra le priorità degli italiani.

Iv insiste anche sul Mes. Cerca un pretesto per rompere?

(Sorride, ndr) Interpretare Iv per me è arduo. Di certo la posizione del M5S sul fondo salva Stati è chiara, e sia il Mes che il Ponte non rientrano nell’ambito del Recovery Plan. Non erano temi all’ordine del giorno. Dopodiché penso che continuare a ostentare tensione sia profondamente sbagliato. La gente ci chiede soluzioni, non certo una crisi che oltretutto non verrebbe compresa a livello internazionale.

Ma il Recovery Plan è così efficace? Cosa avete ottenuto?

I tre pilastri del documento, la green economy, la digitalizzazione e l’inclusione sociale, sono nel Dna del Movimento. Detto questo, abbiamo lavorato per misure significative per la scuola, l’industria 4.0 e la giustizia. E abbiamo ottenuto il prolungamento del superbonus per l’edilizia residenziale fino a tutto il 2023.

I renziani, e anche il Pd, sono critici sui fondi per la cybersicurezza.

Ne discuteremo. Ma non vediamo problematiche particolari sul punto.

Il M5S afferma che i suoi ministri “non sono sacrificabili”. Ma senza rimpasto come potete accordarvi con Renzi?

Se qualcuno ha questa istanza la farà presente. Finora non è successo. Ma il M5S è soddisfatto dei propri ministri.

Si può allargare la squadra senza togliere nessuno?

Non parlo di retroscena e ipotesi. Mi interessano i temi, le cose da fare.

Però Renzi pretende la dimissioni del premier per un Conte ter. Il M5S può reggere senza di lui a palazzo Chigi?

Toccare Conte è impensabile. È lui che ha tenuto il Paese in una fase come quella della pandemia, e che ha condotto la trattativa in Ue sul Recovery.

Senza di lui, c’è solo il voto?

Noi lavoriamo perché questo governo vada avanti, e per questo proponiamo anche un patto di legislatura per tutta la maggioranza. Ma ciascuno nei prossimi giorni si assumerà le responsabilità delle proprie decisioni. E se fosse messo in discussione Conte a quel punto ci sarebbero solo le elezioni.

Ci sarebbe anche la via dei responsabili con il voto in Parlamento sul Recovery. Li state cercando…

Respingo questi ragionamenti. Il Recovery Plan sarà il pilastro del nostro futuro ed è patrimonio di tutti. Per questo si cercherà la massima convergenza sul documento.

Cioè non sarà un voto di fiducia?

No. Ma ripeto, non ragiono di maggioranze alternative o cose del genere.

Renzi romperà?

Auspico davvero che prevalga la responsabilità, il lavoro da fare è ancora tanto. Dobbiamo proseguire con la campagna di vaccinazione, partita molto bene. Con 550mila vaccini fatti siamo i primi in Europa e dobbiamo continuare così. In tempi di emergenza, come si fa a parlare di crisi?

Recovery, martedì si vota il piano. Con o senza le ministre renziane

C’è tempo fino a martedì per capire se il governo giallorosa con questo premier e questa maggioranza andrà avanti. Cioè fino al Consiglio dei ministri che dovrà approvare il Recovery Plan. Ma di certo Giuseppe Conte ha già deciso. Di dimettersi per dare vita al Conte ter, come vorrebbe Matteo Renzi, non vuole saperne: perché non si fida del fu rottamatore, e non troppo neppure del Pd. La linea quindi è quella di approvare il Recovery martedì a maggioranza, anche senza le ministre di Iv. E poi di andare in Parlamento e verificare in Aula se i voti sul suo governo ci sono ancora.

Nell’attesa è disposto a concedere qualcosa a Renzi, ritoccando la squadra. Ossia allo spacchettamento del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con una delega che rimarrebbe a Paola De Micheli e l’altra che andrebbe a Maria Elena Boschi. E pare pronto anche a lasciare la delega ai servizi segreti a Luciana Lamorgese, stimata anche dal Quirinale. Così al Viminale potrebbe andare il dem Lorenzo Guerini, che lascerebbe la Difesa, altro ministero nel mirino di Iv. Ma di più Conte non vuole cedere, anche perché il M5S ha ribadito di non voler cambiare i propri ministri. “Non reggeremmo” spiegano dai piani alti. Basta leggere il post di Conte su Facebook, nel quale rilancia il patto di legislatura, per capire: “Sto ricevendo molti inviti, anche autorevoli, ad essere paziente. Ma io non sono affatto paziente. Al contrario sono impaziente perché il Paese sta soffrendo”. Per i 5Stelle è intoccabile, come ripete Francesco Silvestri: “Qualcuno vorrebbe farlo fuori con giochi di palazzo, ma non accadrà”. Il piano di Conte però potrebbe infrangersi contro Renzi, che continua a dire di essere pronto a rompere. Il ritiro della delegazione al governo, minacciato da un mese, è di nuovo annunciato per domani, se non addirittura per oggi. E ieri sera ha visto i suoi parlamentari su Zoom. Non è facile tenere sulla sua linea non solo i gruppi, ma anche i big, visto che Boschi e Ettore Rosato puntano al governo. Pd e M5S si mostrano uniti, ma crescono i piani B e C, se il premier non dovesse garantire la durata della legislatura: dalla ricerca di un altro premier politico all’eventualità di un governo istituzionale. Il Colle non vede di buon occhio la conta in Aula e neanche l’idea di una maggioranza aggrappata ai Responsabili. E continua a parlare con Conte e Renzi per portarli a un accordo. Mentre i dem, da Zingaretti a Delrio, continuano a mediare. A dare la linea è il capo delegazione, Dario Franceschini: “Bastano un po’ di buonsenso e di buona volontà per evitare una crisi in piena pandemia. Martedì mandiamo il Recovery in Parlamento e avviamo subito un confronto per un patto di legislatura”.

Il Nazareno sta cercando di convincere Conte a impostare contestualmente al Recovery quell’accordo complessivo per frenare Renzi. Ma il rimpasto deve essere sostanzioso. Mentre qualcuno nel partito lavora ancora per portare dentro Renzi.

Grassi saturi

Mentre il mondo libero e progressista esulta per il maccartismo alla rovescia di Facebook e Twitter che tappano la bocca al presidente americano qualunque cosa dica, anzi ancor prima che parli (tanto ha perso), i nostri giornaloni liberi e progressisti continuano a sparare fake news come se piovesse. L’ultima, ma solo in ordine di tempo, ce la regala Repubblica con un’intervista al senatore Ugo Grassi, prof di diritto privato a Napoli, eletto nel 2018 coi 5Stelle e passato il 12 dicembre 2019 alla Lega. Titolo: “‘Giuseppe mi convoca e chiede: vuoi qualche incarico?’. Palazzo Chigi: fatti del passato”. Ecco la prova che il premier recluta personalmente i responsabili in cambio di poltrone per scalzare i renziani. Roba da Procura della Repubblica. Anzi da manicomio criminale: solo un pazzo tenta di comprare un leghista senza pensare che quello correrà a sputtanarlo. Seguono alti lai dei renziani capitanati dallo statista siculo Faraone, che grida al “governo Scilipoti-Casalino” (lui che stava nel governo Renzi-Alfano-Verdini).

Dunque, stando a Repubblica, Conte convoca Grassi “per convincerlo a tornare nei ranghi della maggioranza” giallorosa. In mancanza di una registrazione, conta la data. L’intervistatore sente il portavoce di Conte, che in base al registro di Palazzo Chigi la situa al 31 ottobre 2019, due mesi dopo la nascita del Conte-2 e 41 giorni prima del trasloco di Grassi alla Lega. E nega che Conte gli abbia mai offerto incarichi (ma questo Rep non lo riporta). Grassi non si pronuncia: fu “qualche tempo fa, preferisco non scendere nel dettaglio”. E Rep pubblica lo stesso l’intervista, pur sapendo che non ha senso comunque. Se Conte, come dice, riceve Grassi prima che passi alla Lega, perché mai chiedergli di “tornare nei ranghi della maggioranza”, visto che già ci sta? Se lo vede dopo, come dice Grassi, perché mai rischiare la faccia convocando un neofita della Lega, ansioso di ben figurare agli occhi del suo nemico Salvini? Non basta. Conte, dice Grassi, gli dà un consiglio: “Se hai bisogno di interlocutori politici, guarda al Pd”. E lui lo trova “strano” perchè “avevo abbandonato il M5S” essendo “più in sintonia con la Lega”. E perché mai Conte chiama un neoleghista per dirgli di rivolgersi al Pd? E poi che fa: tarocca il registro di Palazzo Chigi per retrodatare lo storico incontro? Gran finale. Rep: “Che conclusioni ha tratto?”. Grassi: “Che il premier cercasse, allora come forse oggi, forze a supporto della sua maggioranza”. Maggioranza all’epoca ben salda, perché Iv non aveva ancora iniziato a rompere. Ma forse Conte, preveggente, si portava avanti col lavoro già un anno prima. Partendo dal senatore più affidabile.

La diseguaglianza non è irreversibile, ma più di tutto serve la politica

L’ampia ricerca curata e coordinata da Carlo Trigilia che si distende in un volume ricco di interventi (impossibile citare tutti gli autori) non solo costituisce una efficace radiografia delle società capitalistiche occidentali, ma ha il pregio di non fermarsi a guardare l’esistente. Anzi, la sorpresa maggiore è che lo studio, impostato su basi sociologiche, ma che si dipana nell’analisi di grandezze economiche quali crescita, welfare, lavoro, tasse, ha un punto di caduta eminentemente politico. Ripercorrendo gli studi sulla diseguaglianza condotti da Piketty, Stiglitz, Atkinson e altri, il punto di partenza è infatti evidenziare la varietà dei capitalismi in rapporto ai livelli di redistribuzione del reddito, unità di riferimento della ricerca.

I differenti Paesi vengono raggruppati in una distinzione già nota, cioè quelli a “crescita non inclusiva” come Stati Uniti e Gran Bretagna; quelli a “bassa crescita non inclusiva”, vale a dire il Sud Europa tra cui l’Italia, e quelli a “crescita inclusiva” in cui rientrano i Paesi europei nordici e continentali. Fattori storici legati al tipo di società, alla dinamica dei fattori produttivi, spiegano le varie distinzioni, ma ciò su cui qui si insiste è soprattutto la spiegazione politica e istituzionale. I Paesi a crescita non inclusiva sono soprattutto democrazie “maggioritarie” mentre gli altri sono a “democrazia consensuale” (rispolverando la nota distinzione di Lijpahrt). I primi spingono la competizione al centro, con riduzione delle prerogative dei partiti di sinistra che vengono maggiormente esercitate in Paesi a sistema proporzionale e con una diffusa “democrazia negoziale”. Il ruolo dei partiti di sinistra è decisivo e lo è soprattutto la politica che spiega, più dell’economia, “i problemi che ostacolano la riproduzione di uno sviluppo inclusivo”. Non c’è una oggettiva realtà dettata dalla globalizzazione che impone un pensiero unico, ma ci sono scelte politiche e rappresentanze sociali che incidono sul nostro futuro.