Giustiziere norvegese ammazza i papà migranti e violenti che seviziano i figli

Il piccolo Faisal ha quattro anni e arriva all’ospedale di Ullevål che sembra dormire. Il bimbo non si sveglia, ha una gravissima emorragia cerebrale. Faisal è pachistano e il papà è un bullo trentenne dal collo taurino. Urla. Al medico che non può farlo entrare durante la Tac, grida: “Maledetto razzista”. L’uomo dice che il figlioletto è caduto dall’albero. Non è vero. Il bambino ha lividi ovunque. Violenza paterna. Faisal muore e il padre va nella stanza per la preghiera, all’interno dell’ospedale. Dopo un po’ lo trovano morto. È stato ucciso.

Oslo, ai giorni nostri. Il medico che ha tentato di salvare Faisal è Haavard, borghese benestante. È sposato con Clara, brillante funzionaria del ministero della Giustizia che sta scrivendo una proposta di legge che obbliga gli enti pubblici a denunciare le violenze sui minori. La coppia ha due gemelli e il loro rapporto è da separati in casa. Haavard ha una relazione con Sabiya, collega pachistana. Clara si dedica solo al lavoro e soprattutto cela indicibili segreti familiari, simboleggiati dal fiordo natìo nella Norvegia occidentale. E quando Haavard va a un seminario fuori Oslo insieme con l’amante, ecco che nel loro albergo viene ammazzata una donna di origini iraniane, sospettata di violenze sulla figlioletta. Strane coincidenze. Fiordo profondo di Ruth Lillegraven (traduzione di Andrea Romanzi), poetessa e scrittrice per bambini, abbina l’antica tradizione sociale e politica del giallo scandinavo con lo psicothriller coniugale, un classico di questi anni. Il romanzo ha principalmente tre “io narranti”: Haavard, Clara e suo padre Leif. Il contesto è quello di un Paese che da storico modello progressista di welfare e integrazione si è riscoperto populista e di destra, con gang di ragazzi migranti che bullizzano i loro coetanei autoctoni e ministri che ragionano con la pancia, in base ai sondaggi e agli umori dei loro elettori.

Un secolo con Pat, “sacerdotessa della cattiveria”

“Trovo noiosissima e artificiosa la pubblica passione per la giustizia; dopotutto, che giustizia sia fatta non importa né alla vita né alla natura.” Una dichiarazione di poetica quella che Patricia Highsmith formalizza nel suo Come scrivere un giallo. Sì, perché la “somma sacerdotessa della cattiveria” non sa proprio che farsene della morale che grava su tanta letteratura di genere. Ammira la “razza superiore” degli assassini. “In alcuni dei miei libri le vittime sono individui cattivi o scialbi, perciò l’assassino è più importante di loro”. Uno dei motivi per cui in patria non ebbe mai successo – negli Usa vendette sempre poche migliaia di copie – fu l’amoralità delle sue pagine. Troppo cupa per il consumo di massa.

Ammetteva che scrivere di tipi psicopatici le veniva facile. Amava documentarsi sulla psicologia dei killer, incollava nel taccuino ritagli di giornale sui casi più efferati di cronaca nera, rimirava a lungo immagini scioccanti di incidenti automobilistici, di cadaveri, di corpi brutalizzati dalla violenza sessuale. La creatura più celebre della Highsmith è Tom Ripley, l’affascinante psicopatico che compare in 5 dei suoi 22 romanzi. È spietato ma con un gusto per le raffinatezze. Suona al clavicembalo Bach, legge Schiller e Molière e va molto fiero della sua collezione di opere d’arte. Il tonfo di un cadavere in una fossa appena scavata gli dà un piacere indicibile, e ride alla vista di due delle sue vittime mentre bruciano in un’auto. Eppure è lo stesso uomo che si commuove davanti alla tomba di Keats. Sul grande schermo ha avuto tra gli altri il volto di Alain Delon, di Dennis Hopper in L’amico americano di Wim Wenders, di Matt Damon nelle pellicola firmata da Minghella che nel 1999 ha contribuito alla riscoperta dell’autrice.

Il suo appetito insaziabile per il grottesco, il crudele e il macabro, deve molto a Edgar Allan Poe, con cui condivideva il giorno di nascita, il 19 gennaio. Patricia Highsmith nacque nel 1921, a Forth Worth, in Texas. La nave di Teseo celebra il centenario riportando in libreria i racconti di Donne, Ripley sott’acqua e il suo esordio del 1950 Sconosciuti in treno. Romanzo basato sull’idea geniale di due uomini che decidono di scambiarsi gli omicidi. Hitchcock ne trasse L’altro uomo, sceneggiato da Chandler.

Le opere di Highsmith differiscono dalla maggior parte della narrativa dozzinale sfornata dagli autori di thriller anche in virtù del suo temperamento di donna. Attraversare il suo privato significa affondare in un pantano di eccentricità. Vantava fama di taccagna. Un’amica raccontò che una volta, d’inverno, le chiese di accendere i termosifoni e lei rispose: “Tieni una bottiglia d’acqua calda fra le ginocchia.” Il suo argomento di conversazione preferito era parlare di quanto costavano le cose. Era ossessionata dal denaro. Si mise ad allevare centinaia di lumache nel giardino di casa. In più di un’occasione mondana fu intercettata con lumache e foglie di lattuga nella borsa. Altra stranezza: i premi ricevuti amava appenderli su una parete del bagno.

Per tutta la vita, a lungo omosessuale non dichiarata, fu impegnata nella ricerca appassionata della donna ideale. Ebbe numerose e tormentate relazioni. Nel 1952 uscì sotto pseudonimo il romanzo oggi noto con il titolo di Carol: Therese lavora nel reparto giocattoli di un grande magazzino di New York. Un giorno si sente attratta da una cliente, Carol, che sta comprando una bambola per la figlia. Le due si innamorano e partono per un viaggio in auto attraverso l’America. Il marito di Carol ingaggia un detective per inseguire le due donne allo scopo di raccogliere prove da usare contro di lei per ottenere la custodia della figlia. Carol sacrifica alla fine la figlia per Therese. L’idea che un romanzo, negli anni 50, potesse finire con due donne che vanno a vivere insieme fu davvero rivoluzionaria.

Sebbene nel suo Diario di Edith si legga una frase come “Non è sicuro, perfino più saggio, credere che la vita non abbia alcun significato?”, il suo ultimo lavoro fu Idilli d’estate. Per i fan una mezza delusione perché questa volta il bene trionfava sul male. La Highsmith, prima di morire nel ’95 circondata dalle montagne svizzere, forse aveva fatto pace con i propri demoni?

Le “Lettere” di Fëdor: il romanzo di una vita

Alla casa editrice il Saggiatore sono matti, come i russi per Paolo Nori. Hanno raccolto in un volume di quasi 1.400 pagine e di 1,54 kg di peso l’intero (o quasi) corpus delle lettere di Dostoevskij. Si intitola Lettere : sulla cover un bel ritratto di Fëdor che, come racconta sempre Nori, una ragazza di Cesena – che abita a Bologna – ha detto che assomiglia a Jovanotti da vecchio.

Almeno la metà della corrispondenza raccolta nel libro è inedita in Italia. La curatrice dell’opera, Alice Farina, ha anche tradotto, con Giuliana De Florio ed Elena Freda Piredda, questo straordinario “romanzo di una vita”. Al Fatto racconta della fatica del lavoro editoriale: “Abbiamo iniziato nel 2015. Cinque anni di lavoro di ricerca fonti, traduzione ed editing per consegnare ai lettori italiani, all’uomo comune, non un saggio universitario o un’edizione critica, ma il romanzo di un’anima, da leggere come un’appassionante autobiografia”.

Secondo la curatrice quello che ne esce è un Dostoevskij inaspettato, una vera epifania. Soprattutto le prime lettere. “Leggiamo quanto scrive al fratello maggiore l’allora diciassettenne scrittore russo”, suggerisce Farina. Eccone uno stralcio: “Ma vedere solo il rigido involucro sotto al quale languisce l’universo e sapere che basterebbe una sola esplosione di volontà per distruggerlo, per fondersi con l’eterno, saperlo e vivere come l’ultima delle creature… È terribile! Com’è pusillanime l’uomo! Amleto! Amleto!”. E nella stessa lettera, che è anche un breve racconto di formazione di un adolescente, non mancano i riferimenti alle letture e ai maestri: “Ti vanti di aver letto molto… Ma ti prego di non pensare che io provi invidia. A Peterhof ho letto almeno quanto te: tutto Hoffmann in russo e in tedesco, praticamente tutto Balzac (Balzac è grande! I suoi personaggi sono il prodotto di una mente universale! Non uno spirito del tempo, ma il travaglio di interi millenni ha preparato un epilogo del genere nell’animo umano). Il Faust e le poesie minori di Goethe. E poi anche Victor Hugo…”.

Quando penso all’attualità della letteratura russa mi viene in mente una scena di Boris il film, in cui René Ferretti, alias Francesco Pannofino, si trova a colloquio con uno sceneggiatore per un film che sta preparando, La Casta, e questo sceneggiatore, parlando mentre controlla ansiosamente dalla finestra la sua auto parcheggiata a Roma in seconda fila, gli consiglia di fare attenzione alla realtà: la narrazione deve essere reale, perché se non è reale il pubblico se ne accorge. Così gli intima: “Rileggiti ČCechov!”. Il regista Ferretti/Pannofino ribatte subito che lui immagina qualcosa di più attuale per il suo film. Lo sceneggiatore risponde lapidario che niente è più attuale di Cechov. “Ecco”, chiude Farina, “si può dire altrettanto in questo caso, ossia che niente è più attuale di Dostoevskij, come provano anche la lettura di queste sorprendenti lettere, che mettono al centro di tutto la realtà e l’uomo”.

Dagli abissi dell’introspezione dell’io, come nel resoconto banale della vita di tutti i giorni. Il risultato finale è quello di un romanzo in cinquecento lettere completamente immerso nella realtà, del mondo e dell’anima.

“The Stand”: ormai viviamo tutti dentro un incubo di Stephen King

Grazie al Covid-19 la nuova serie tv ispirata al romanzo post-apocalittico/horror The Stand (L’ombra dello scorpione) che Stephen King scrisse nel 1978 ci sembra un déjà-vu, paradossalmente tingendosi di un realismo ai limiti del documentaristico. E questo perché al centro del racconto c’è un mondo devastato dalla pandemia di un virus letale prodotto in laboratorio in costante mutazione, e dunque dal vaccino impossibile, e i cui unici sopravvissuti sono i pochi individui rimasti immuni. Il loro vocabolario è così simile alla nostra quotidianità da crearci sgomento (ormai viviamo dentro a un libro di Stephen King?), così come le loro inquietudini appartengono alla nostra ordinaria amministrazione, fatta eccezione per gli elementi soprannaturali incarnati da personaggi demoniaci – il mitico stregone di “kingiana” ricorrenza Randall Flagg, interpretato da Alexander Skarsgård – e salvifici – la 108enne santona Madre Abigail con il volto di Whoopi Goldberg. È lei, antica donna nera dalle lunghe trecce bianche, a dare una speranza ai resilienti/resistenti (The Stand infatti significa “La resistenza”) che si raggruppano nell’unica free zone degli Usa ormai sterminati.

Prodotta da Cbs, con Benjamin Cavell a far da showrunner, è visibile in Italia per gli abbonati di Starzplay e si compone di 9 episodi che verranno licenziati gradualmente. Non si tratta del primo adattamento televisivo del romanzo (nel 1994 ci fu la prima miniserie scritta dallo stesso King, a cui seguì nel 2010 una versione a fumetti), ma in questo caso il finale differisce dall’opera letteraria ed è stato riscritto appositamente dall’autore. Da quanto finora è stato possibile visionare, la struttura narrativa contempla l’alternanza di flashback e flashforward sì da intensificare il disorientamento degli spettatori di fronte a una situazione ambientale tutt’altro che tranquillizzante. Le atmosfere, non a caso, rispecchiano l’inimitabile cifra del più grande autore contemporaneo del brivido.

 

Assane Diop, nome in codice “Lupin”

Da Giungla d’asfalto, uno dei primi heist movie della storia del cinema, famoso per aver lanciato la carriera di Marilyn Monroe, al successo planetario de La Casa di Carta. I ladri bucano lo schermo e non c’è da stupirsi che il più celebre fra i ladri della letteratura, quell’Arsenio Lupin inventato nel 1905 da Maurice Leblanc, abbia ispirato nel corso del 900 una decina fra film, serie tv e serie animate. Ora all’elenco se ne aggiunge una nuova, Lupin, disponibile da ieri su Netflix. Non l’ennesima trasposizione dei romanzi ma, come suggerisce il sottotitolo dei primi cinque episodi, Nell’ombra di Arsenio, un omaggio al ladro gentiluomo.

Ambientata nella Parigi di oggi, la serie segue le mosse dell’affascinante quanto enigmatico Assane Diop. Chi è davvero Assane, che l’ex compagna Claire dipinge come un padre assente? Presentato come un addetto alle pulizie del Louvre, nel giro di poche scene si trasforma in un piccolo delinquente indebitato fino al collo (Luis Perenna) e poi in un elegante e ricchissimo uomo d’affari (Paul Serinne). Tutte queste false identità hanno qualcosa in comune: rimescolando le lettere si ottiene sempre lo stesso nome, quello di Arsène Lupin.

La spiegazione emerge poco a poco. Attraverso i flashback lo spettatore scopre che il padre di Assane è morto suicida in carcere dopo aver rubato un prezioso collier; e che il ragazzo si è ritrovato da un giorno all’altro solo, con il romanzo Arsenio Lupin, ladro gentiluomo come unico ricordo del papà. Ecco perché oggi abita in una casa piena di travestimenti ed è abilissimo nei giochi di prestigio: Assane Diop vive nell’ombra del personaggio partorito dalla fantasia di Leblanc.

Il suo passato torna a galla quando il collier rubato dal padre, appartenuto un tempo a Maria Antonietta, viene messo all’asta. Assane elabora un piano perfetto per rubarlo e trovare finalmente una risposta alla domanda che lo assilla da 25 anni: suo papà era davvero un ladro oppure è stato incastrato? Per scoprirlo sarà costretto a usare tutte le sue abilità da trasformista, sostituirsi a un criminale in prigione e poi fingere il suicidio per uscire dal carcere. E siamo solo al secondo episodio…

Creata da George Kay e François Uzan, Lupin vede alla regia Louis Leterrier, già dietro la cinepresa del film Now You See Me – I maghi del crimine. E un po’ di magia c’è anche qui: come farebbe Assane, altrimenti, ad anticipare tutte le mosse della polizia? Il novello ladro gentiluomo preferisce muoversi in solitaria, ma i suoi piani magistrali che prevedono ogni imprevisto somigliano a quelli del Professore de La Casa di Carta. L’effetto sorpresa, una volta che lo spettatore capisce il trucco, è garantito. Avrete capito che Lupin è una specie di one man show che per funzionare ha bisogno di un protagonista in grado di caricarsi tutta la serie sulle spalle. Su chi puntare? Gli showrunner hanno scelto Omar Sy, il gigante del film Quasi amici. Scelta controversa, quella di un Lupin nero, che in Francia ha fatto storcere più di un naso ma che si è rivelata azzeccatissima: sia perché Sy è molto bravo nel rendere credibili anche le trasformazioni più incredibili; sia perché il colore della pelle diventa il peccato originale – il padre di Assane, un immigrato dal Senegal, è facile preda di chi lo vuole incastrare – e quindi il motore di ogni azione del protagonista.

Accanto a Omar Sy c’è Ludivine Sagnier, già vista in The Young Pope/The New Pope nei panni della religiosissima Esther, che qui interpreta Claire. Per il resto il cast tutto transalpino non spicca per brillantezza, confermando l’impressione del one man show. Il personaggio di Arsenio Lupin nacque come risposta francese all’infallibile investigatore britannico Sherlock Holmes, creato a fine 800 da Arthur Conan Doyle. L’ultimo Lupin televisivo, per quanto visto finora, non è al livello dello Sherlock con Benedict Cumberbatch: ma i primi cinque episodi disponibili su Netflix, e soprattutto l’interpretazione del protagonista, promettono bene.

Siani lavora già al Natale 2021 con De Sica e la Leotta

Dopo l’ottimo successo personale nella serie The Undoing (su Sky con Hugh Grant e Nicole Kidman), Matilda De Angelis ha iniziato a Venezia le riprese del film anglo-canadese di Paula Ortiz Di là dal fiume e tra gli alberi. Nell’adattamento del romanzo di Ernest Hemingway, le vicende semi-autobiografiche di Richard Cantwell (Liev Schreiber), un ufficiale americano in servizio in Italia nel 1946, subito dopo la Seconda guerra mondiale.

Alessandro Siani ha iniziato a girare il suo quinto film da regista, Chi ha incastrato Babbo Natale? Ovvero, Babbo Abusivo, una nuova commedia nelle sale a fine 2021, di cui è anche il protagonista insieme a Christian De Sica e Diletta Leotta. La favola brillante prodotta da Indiana, Bartleby e Vision racconta le vicende della Wonderfast, azienda di consegna a domicilio più potente del mondo, che ricorda Amazon e che domina il mercato per tutto l’anno tranne che a Natale. Per far fallire Babbo Natale (De Sica) la multinazionale assolda il capo dei suoi elfi, convincendolo a infiltrare nella sua fabbrica il “re dei pacchi” Gerry Catalano (Siani).

L’attrice Susy Laude debutta alla regia dirigendo dal 18 gennaio a Roma e dintorni Tutti per Uma, una fiaba senza tempo in chiave di commedia, interpretata, tra gli altri, da Antonio Catania, Piero Sermonti, Lillo, Dino Abbrescia e dall’austriaca Laura Bilgeri. Scritto da Alessandro Barbani e prodotto da Camaleo e Vision, il film mostrerà le vicende di un nonno viticoltore (Antonio Catania) che vive in un casale con suo fratello (Lillo) e suo figlio (Sermonti), vedovo con due bambini, fino a quando l’arrivo di una principessa austriaca – sotto mentite spoglie – stravolgerà la vita di tutti, compresa quella del cattivo di turno (Abbrescia).

“Fauci? Bravo… ma come attore”: il virus, che ridere

Sono bastati sei giorni, allorché all’Epifania l’orda trumpiana ha preso il Campidoglio di Washington, per capire che il vaccino sintetizzato dai creatori di Black Mirror, Charlie Brooker e Annabel Jones, non avrebbe funzionato. Poco male, perché Death to 2020, che trovate su Netflix, non è solo visione apotropaica, distopia documentaria o memento mori calendarizzato, bensì un divertente, sarcastico mockumentary, un finto documentario che scongiura il peggio e spergiura per il meglio.

Usi a sovvertire il qui e ora per distillarne l’essenza futuribile, surreale e, ahinoi, tanto apocalittica quanto verosimile, Brooker e Jones stavolta posano la penna e danno all’inventario annuale beneficio d’invenzione: il soggetto è il 2020, il trattamento è il 2020, al più loro ci hanno messo i dialoghi. Che invero non sono stati recepiti benissimo: recensioni per lo più tiepide, verve data per dispersa, stupore, negativo, in considerazione del carnet dei due, eccellente da Black Mirror a Wipe.

Be’, questi detrattori si meritano la vita che hanno avuto nel 2020: vorrebbero i botti, senza intendere che l’abbiamo fatto noi tutti il botto. Non è stato solo un anno di merda, siamo – absit iniuria verbis – degli uomini, e donne, di merda, e continueremo a esserlo, sempre più: ecco qui la (non-)distopia di Brooker e Jones, ecco che l’amaro lasciato in bocca ha richiamato il fiele critico.

Amalgama di informazione e satira narrato da Laurence Fishburne, Death to 2020 riserva il ruolo di protagonista al Covid-19, con ambientazione, e rendicontazione, prevalentemente anglosassone e focus sulle elezioni americane, la Megxit, l’assassinio di George Floyd e il movimento Black Lives Matter, Trump, le primarie democratiche, Joe Biden, lockdown, vaccino e compagnia pandemica.

Il tutto affidato a un coro tragicomico – soprattutto nelle previsioni per il 2021 – zeppo di star: Samuel L. Jackson affina acume e narcisismo di un reporter del (sedicente) New Yorkerly News; Hugh Grant, ciuffo vanesio e Negroni per assistente, è irresistibile nella boria ciarlatana dello storico Tennyson Foss, che tratta Game of Thrones e Star Wars alla stregua di eventi reali; Lisa Kudrow è una spassosa portavoce non ufficiale ultraconservatrice, che fa del negazionismo affermazione di sé; Tracey Ullman è una perfetta Regina Elisabetta; Cristin Milioti, deliziosa, una famigerata “Karen”, imbibita di fake news (“Il dottor Fauci è bravo, peccato sia un attore”) e razzismo; Diane Morgan, super, incarna la donna media, che, mollata dal fidanzato, si crea un disturbo dissociativo dell’identità per superare il lockdown, per poi scoprire di dover mantenere le distanze da ciascuna delle sue personalità multiple.

Insomma, si sono visti anni decisamente migliori, e film decisamente peggiori: morte al 2020, lunga vita a Brooker & Jones. E… non vediamo l’ora di Death to 2021.

 

Sequestro di Malavoglia e di altri inediti di Verga

Lettere, manoscritti, preziosissime bozze inedite, scambi epistolari privati con il fratello Pietro e con nobildonne che – scegliendo di non sposarsi mai – amava corteggiare. Materiale che si pensava perduto o del quale addirittura s’ignorava l’esistenza. Documenti cui si aggiungono pregiati esemplari del suo secondo amore artistico: la fotografia. In un armadio di un seminterrato dell’Università di Pavia ci sono due scatoloni, sotto sequestro dell’autorità giudiziaria ormai da quasi 8 anni, contenenti prezioso materiale inedito realizzato da Giovanni Verga, uno dei più importanti scrittori italiani di sempre e padre del Verismo.

Centinaia di pagine che nel 2013 i carabinieri della Sezione antiquariato del Reparto operativo Tutela del patrimonio culturale di Roma hanno portato via dall’abitazione romana che appartenne a Vito Perroni – sovrintendente ai tempi del fascismo – e sua sorella Lisa Perroni, fra le massime studiose di Verga e curatrice degli Studi Verghiani (Edizioni del Sud, 1929). Un ritrovamento finito per costare ad Angela Maria Perroni, oggi 84enne figlia di Vito e nipote di Lisa, un processo lungo 7 anni, concluso – fra accuse di ricettazione e appropriazione indebita – con l’assoluzione da tutte le imputazioni, tranne per quella di omessa denuncia di detenzione alla Sovrintendenza competente, condanna per altro già impugnata in appello dal suo legale, Valerio Cianciulli.

Fra il materiale custodito nel Centro Manoscritti dell’Università di Pavia, ciò che salta agli occhi è una bozza di alcuni capitoli de I Malavoglia, forse l’opera più conosciuta dello scrittore siciliano, pubblicata nel 1881. “Si tratta di alcuni stralci – spiega a Il Fatto l’avvocato Cianciulli –. Ci sono state decine di bozze dei Malavoglia prima della versione definitiva e non sappiamo a che punto del processo creativo dovesse essere arrivata questa. I testi sono battuti a macchina e su questi poi l’autore era intervenuto con appunti e correzioni, che però coincidono solo in parte con la stesura ufficiale”.

Il ritrovamento ha poi fatto emergere parte della corrispondenza con il fratello Pietro, fra il 1920 e il 1922 (data della sua morte), quando Verga venne nominato senatore del Regno. Si tratta di un periodo caldo per la politica italiana, con il fascismo che stava per prendere il potere e aveva attratto le simpatie di diversi intellettuali, fra cui proprio il letterato siciliano. “Da questo carteggio – racconta Cianciulli – emerge una forte critica alla classe politica con cui, suo malgrado, Verga si ritrovava ad avere a che fare in Parlamento. Da interventista quale si era rivelato agli albori della Prima guerra mondiale, si avvicinava al nazionalismo e guardava con curiosità il fascismo, in un momento in cui non era facile immaginare ciò che si sarebbe rivelato solo diversi anni dopo”.

Le lettere non erano indirizzate solo al fratello. Giovanni Verga amava corteggiare le donne. Nubili o sposate, nobili o popolane. Lettere spesso di fuoco, come quelle riservate alla contessa Dina Castellazzi, vedova del conte Alessandro Bruco di Cordevolo, molte delle quali presenti nell’archivio sequestrato ad Angela Perroni. L’altra “chicca” letteraria riguarda invece il manoscritto originale del primissimo romanzo di Verga, Amore e Patria, realizzato nel 1856, a soli 16 anni, pubblicato postumo nel 1929 proprio dalla zia della signora Angela, Lina Perroni. Infine, ecco riemergere traccia del secondo amore artistico dell’autore siciliano, la fotografia, praticata sin da ragazzo ma con maggiore applicazione solo in tarda età. “Negli scatoloni ci sono decine di scatti del Verga fotografo, ci si potrebbe anche realizzare una mostra”, azzarda Cianciulli.

Tutto questo materiale fu probabilmente selezionato negli anni 20 da Lina Perroni, parte – si suppone – di quello ricevuto per “motivi di studio” dal fratello Vito, su concessione degli eredi di Giovanni Verga e in particolare del figlio adottivo Giovannino. Negli anni 70 i Verga pretesero e ottennero la restituzione del materiale, poi ceduto alla Regione Sicilia.

Questi scatoloni, tuttavia, restarono chiusi per decenni in uno scaffale dello studio della casa romana di via Oslavia, dove Angela Perroni tornò a vivere negli anni 90 dopo il divorzio. Solo nel 2011 un’esperta amica della figlia di Angela mise mano al materiale e ne constatò il probabile valore, con la famiglia che decise di affidarlo a Christie’s per le valutazioni del caso. Fu l’importante casa d’aste con sede a Milano a segnalare il materiale alle autorità e ad aprire il caso giudiziario. “Oggi il materiale si trova in uno scantinato umido – attacca Cianciulli – e purtroppo vi rimarrà finché non sarà dissequestrato, forse dopo la sentenza d’Appello. Dovrebbe essere inaccessibile, ma io ho già contestato alcune pubblicazioni ispirate al contenuto degli scatoloni, impossibile da reperire altrove”.

Troppo poco e tardi? Eppure con il blocco. Facebook fa politica

La gravità dell’attacco dei dimostranti pro Trump a Capitol Hill ha innescato una serie di reazioni senza precedenti. Fra queste, la decisione da parte di Mark Zuckerberg di sospendere gli account Facebook e Instagram di Donald Trump “a tempo indefinito o almeno per le prossime due settimane”, cioè fino all’insediamento di Joe Biden il 20 gennaio, perché “crediamo che consentire al presidente di usare il nostro servizio fino ad allora sia un rischio troppo grande”. Per anni, Zuckerberg ha resistito alle richieste politiche o della società civile di censurare le esternazioni più estreme del Presidente, con due motivazioni che hanno via via perso significato. La prima è la reticenza di Zuck “a farsi arbitro della libertà di espressione, in particolare nel caso del Presidente degli Stati Uniti, le cui parole, per quanto distruttive, hanno valore per gli utenti di Facebook”. Nell’annunciare la sospensione, il capo di Fb spiega anche che “negli anni abbiamo consentito al Presidente di usare la nostra piattaforma entro i limiti delle nostre regole, e a volte abbiamo rimosso o contrassegnato i suoi post quando violavano le nostre linee guida”.

Questo è apertamente contestato da molti osservatori. I community standards che Fb si è dato, senza l’intervento di regolatori indipendenti, stabiliscono ad esempio che “su Facebook non sono consentiti discorsi di incitamento all’odio poiché creano un ambiente di intimidazione ed esclusione e, in alcuni casi, possono promuovere violenza reale”. Dal 2016, però, Fb ha introdotto l’eccezione della “notiziabilità”: gli standard comunitari non si applicano se i contenuti, di qualsiasi tenore, sono ritenuti di pubblico interesse. Una eccezione quasi sempre applicata ai politici. Altra eccezione clamorosa è quella di Steve Bannon, mai bandito da Facebook malgrado in diretta sul social abbia invocato la decapitazione di due alti funzionari del governo.

Non solo: Fb ha iniziato a contrassegnare i post di Trump solo dal luglio 2020, seguendo l’esempio di Twitter, e solo per informazioni inaccurate sulla campagna elettorale. Il bando temporaneo è considerato insufficiente dai critici più consapevoli di Big Tech, come Kara Swisher, editorialista del New York Times: “è una misura insufficiente che non impedirà a Trump di tornare a fomentare violenza appena esce dall’angoletto di questa punizione temporanea. Deve essere bandito in via permanente”. Per Shoshana Zuboff, docente emerita di sociologia alla Harvard Business School, autrice del libro Surveillance Capitalism: “Facebook e Twitter sono profondamente colpevoli. Devono vietargli in modo permanente l’accesso al flusso informativo globale”. La decisione di intervenire non è stata presa facilmente dalla leadership di Facebook. In una conferenza interna, Zuck ha definito gli eventi a Capitol Hill “atroci, una insurrezione violenta”. Ma non ha mai riconosciuto il ruolo di amplificatore e facilitatore che il suo social ha avuto in quella violenza, come sostiene un numero crescente di commentatori. E secondo BuzzFeed, i manager di Facebook sono intervenuti, mercoledì, per silenziare il dibattito fra i dipendenti, alcuni dei quali invocavano un bando immediato. Uno dei commenti, dopo la scelta di sospendere l’account: “Troppo poco, troppo tardi. Come possiamo congratularci con noi stessi per una decisione dell’ultimo minuto, da vigliacchi, che fiuta il mutamento dei venti della politica?”. Il riferimento è alla nuova Amministrazione Biden, che promette un approccio più severo verso gli eccessi di Big Tech, ora che Facebook e Google sono accusati di abuso di posizione dominante.

I piccoli Donald dell’Est sono già pronti all’assalto

Trump, assediato in patria, se ne andrà. Tanti altri piccoli Trump d’Europa, invece, resteranno. Le bandiere dei confederati sventolano anche a Kiev, Varsavia, Belgrado, dove omaggiano ad alta voce le fiamme americane i ragazzi della destra violenta dell’Europa dell’est.

Serhiy Korotkikh, a capo del battaglione Azov, fondato quando la guerra nel Donbass è scoppiata e già bollato dal dipartimento Usa come “gruppo nazionalista che fomenta odio”, ha dichiarato il suo evviva per i white, i bianchi che riprendono il controllo: adesso anche noi sappiamo cosa fare, abbiamo anche noi delle possibilità”. L’assalto al Congresso americano provoca scosse sismiche nei lontanissimi Balcani. Tra proiettili, gas lacrimogeni e fiaccole, degli scontri a Washington sente profumo di “democrazia, verità e giustizia” il capo del partito nazionalista serbo Nikola Sandulovic. Lo Shtab Srbski, la squadra che fa da cassa di risonanza, ha riferito che ora “l’America ha bisogno di una dittatura”. Al re folle e ossigenato si resta fedeli fino all’ultimo respiro. Lo rimarrà, nonostante tutto, Nebojsa Medojevic, il leader dei pro-russi in Montenegro: non l’attacco alla Capitale, ma “la frode elettorale ha distrutto la democrazia” in America, Trump “ci difende dalle élite sataniste e pedofile” del Deep State, lo Stato profondo. Tamas Deutsch, dagli scranni del Parlamento europeo, esponente di Fidezs, partito di Viktor Orbán, ha scritto: “Prima c’era Black Lives Matter, le vite dei neri contano, ma ora niente conta: anarchia Usa”. La linea ufficiale del suo governo rimane la stessa: le ultime elezioni Usa sono “sospette e vergognose”, “la presidenza di Biden conduce già al caos”, mentre il premier di Budapest, proprio come il presidente serbo Aleksandr Vucic, non ha condannato pubblicamente l’assalto dei cospirazionisti alla sede del Congresso. Ieri il miliardario americano era il presidente-eroe dei populisti ungheresi, cechi e polacchi, oggi è vittima di se stesso e dei suoi “fanatici Maga”, Make America Great Again, slogan che tutti i leader nazionalisti hanno usato nelle rispettive declinazioni nazionali a est. Il premier Andrej Babis, tycoon noto sin dalla sua ascesa politica come il “Trump della Repubblica ceca”, ha fatto sparire foto e post che lo collegavano al Potus tanto pubblicamente osannato, prima e dopo la sua prima visita alla Casa Bianca nel 2019. Babis si è unito ieri al coro delle condanne degli altri capi di Stato dichiarando che c’è stato “un attacco senza precedenti alla democrazia” e subito dopo ha cambiato la sua immagine profilo sui social: da quella col cappellino rosso trumpiano alla foto-tessera con la mascherina anti- Covid19. L’ultimo dittatore d’Europa, accusato dalla stampa occidentale di violare i diritti umani dei manifestanti che scendono in piazza contro il suo regime, ha sorriso.

A Minsk il team di Lukashenko è intervenuto sul canale Telegram per dileggiare la terra a stelle e strisce pugnalata nel cuore del suo impero: gli scontri “non erano un’insurrezione, ma una protesta pacifica concessa dal Secondo emendamento americano, quelli sono attivisti che si battono per la democrazia”, quella che abbiamo visto mentre Washington bruciava in realtà “era un’escursione educativa con elementi interattivi”.