Il piccolo Faisal ha quattro anni e arriva all’ospedale di Ullevål che sembra dormire. Il bimbo non si sveglia, ha una gravissima emorragia cerebrale. Faisal è pachistano e il papà è un bullo trentenne dal collo taurino. Urla. Al medico che non può farlo entrare durante la Tac, grida: “Maledetto razzista”. L’uomo dice che il figlioletto è caduto dall’albero. Non è vero. Il bambino ha lividi ovunque. Violenza paterna. Faisal muore e il padre va nella stanza per la preghiera, all’interno dell’ospedale. Dopo un po’ lo trovano morto. È stato ucciso.
Oslo, ai giorni nostri. Il medico che ha tentato di salvare Faisal è Haavard, borghese benestante. È sposato con Clara, brillante funzionaria del ministero della Giustizia che sta scrivendo una proposta di legge che obbliga gli enti pubblici a denunciare le violenze sui minori. La coppia ha due gemelli e il loro rapporto è da separati in casa. Haavard ha una relazione con Sabiya, collega pachistana. Clara si dedica solo al lavoro e soprattutto cela indicibili segreti familiari, simboleggiati dal fiordo natìo nella Norvegia occidentale. E quando Haavard va a un seminario fuori Oslo insieme con l’amante, ecco che nel loro albergo viene ammazzata una donna di origini iraniane, sospettata di violenze sulla figlioletta. Strane coincidenze. Fiordo profondo di Ruth Lillegraven (traduzione di Andrea Romanzi), poetessa e scrittrice per bambini, abbina l’antica tradizione sociale e politica del giallo scandinavo con lo psicothriller coniugale, un classico di questi anni. Il romanzo ha principalmente tre “io narranti”: Haavard, Clara e suo padre Leif. Il contesto è quello di un Paese che da storico modello progressista di welfare e integrazione si è riscoperto populista e di destra, con gang di ragazzi migranti che bullizzano i loro coetanei autoctoni e ministri che ragionano con la pancia, in base ai sondaggi e agli umori dei loro elettori.