La crisi fredda: Biden ferma l’impeachment, Trump si scusa a metà

Il 20 gennaio, gli Usa avranno un nuovo presidente, Joe Biden, e una nuova Amministrazione. Ormai lo ammette persino Donald Trump, che però fa sapere che lui non andrà alla cerimonia d’insediamento del rivale. È invece, pronto a esserci Mike Pence, se gli arriva l’invito: il presidente e il suo vice non si parlano, dopo che Pence ha formalmente proclamato Biden eletto nella plenaria del Congresso all’alba di giovedì. Il presidente sobillatore rinuncia al weekend a Camp David: vuole stare alla Casa Bianca e badare a che non lo facciano fuori con il XXV emendamento alla Costituzione. Corre, però, pochi rischi: Biden è infatti contrario a iniziative d’impeachment o per rimuoverlo.

In un video, Trump, che resta bandito da Facebook, ma ritrova l’account Twitter, si dice scioccato dalla violenza in Campidoglio, lancia un appello alla riconciliazione e afferma che suo obiettivo ora “è assicurare una transizione dei poteri tranquilla e ordinata”. Chiede, dunque, al suo staff di nomina politica di dimettersi entro il 20 gennaio. “È tempo di raffreddare gli animi e di ripristinare la calma – dice il presidente ‘faccia di bronzo’ –. Bisogna tornare alla normalità dell’America”. E, rivolto ai protagonisti degli incidenti da lui aizzati, dice: “Voi non rappresentate il nostro Paese… Chi ha infranto la legge pagherà”. Appena 24 ore prima li aveva definiti, nonostante tutto, “brave persone” e aveva loro detto “vi voglio bene”. L’esodo di funzionari e politici dalla Casa Bianca e dalla squadra di governo di Trump s’ingrossa: oltre al ministro dei Trasporti Elaine Chao, se ne va quello dell’Istruzione Betsy DeVos. Lascia con effetto dal 16 dicembre anche Steven A. Sund, il capo della polizia del Campidoglio, come chiesto dalla Pelosi. E pure l’avvocato della Casa Bianca, Pat Cipollone, pensa di mollare, mentre l’ex Segretario alla Giustizia, William Barr, già eclissatosi, dice: “Trump ha tradito la sua missione”. Ma la galassia che sostiene Trump, ‘rednecks’ e suprematisti, fondamentalisti e anti-governo, non è d’accordo: sui social circolano versioni ‘assolutorie’ del presidente. Ad alzare l’asta, ormai, resta solo l’arci-nemica di Trump, la speaker della Camera, Nancy Pelosi, che, col blando sostegno del leader dei Democratici al Senato Chuck Schumer, annuncia l’impeachment se Trump non si dimetterà “immediatamente”. La Pelosi paventa che il magnate, con i codici nucleari, possa combinare altri guai.

Minaccia spuntata, perché di qui al 20 gennaio il tempo per l’impeachment non c’è. Alle dimissioni, con il passaggio dei poteri a Pence, Trump potrebbe pensare solo se gliene venisse una grazia presidenziale preventiva, per metterlo al riparo dagli strali della giustizia a fine mandato: difficile che accada. In alternativa, starebbe pensando di trasferirsi all’estero prima che Biden giuri: la Scozia era un’ipotesi, ma la premier Nicola Sturgeon non ce lo vuole.

Si è intanto aggravato il bilancio degli incidenti: cinque i morti nella presa del Campidoglio. È deceduto anche un agente della polizia del Congresso per le ferite subìte: Brian Sicknick, 40 anni, in servizio da 12. I facinorosi per i loro compagni, sono “eroi”, mentre Trump ora “è un traditore”. Intanto è stato arrestato il sostenitore che si è seduto alla scrivania di Pelosi, Richard Barnett, accusato di condotta disordinata e furto di proprietà pubblica. Molti ultrà che hanno girato per ore senza maschera per le aule del Capitol fotografandosi l’un l’altro e postando gli scatti sui profili social sono stati identificati e in molti hanno già perso il lavoro. La Procura della Capitale pensa ad accuse per sedizione per i cento arrestati con pene fino a 20 anni. Nessun ruolo ha avuto invece Antifa, il movimento della sinistra antifascista e antagonista, secondo la polizia che smentisce le voci circolate sui media di destra.

A novembre sono saliti gli occupati

Almeno nel primo mese, il sistema a tre colori non pare aver avuto ripercussioni sui posti di lavoro. Anzi, a novembre abbiamo avuto un sorprendente (ma piccolo) recupero di una parte degli occupati persi nei mesi precedenti.

Il contatore dell’Istat segna +63 mila in confronto a ottobre, vale a dire una perdita di 301 mila unità rispetto ai livelli di febbraio 2020, prima dello scoppio della pandemia Covid.

I numeri diffusi ieri dall’Istituto di statistica erano attesi perché si riferiscono al momento in cui il Paese è stato diviso in zone – rosse, arancioni e gialle – con tanto di entrata in vigore del coprifuoco alle dieci di sera e di limitazioni estese all’attività di bar, ristoranti, palestre e attività ricettive in genere. Un colpo che preoccupava e preoccupa gli esercenti.

Sono dati mensili, oscillazioni da prendere con le pinze, ma non segnano il crollo pronosticato. Gli effetti dell’aumento di occupati, tuttavia, sono come al solito distribuiti in maniera diseguale: in sostanza, i precari continuano a restare a casa.

I dipendenti a tempo indeterminato sono saliti infatti di 73mila unità a novembre rispetto a ottobre. Questa volta il balzo in avanti è pure degli autonomi, che registrano un +29mila posizioni. Prosegue invece la discesa dei dipendenti a termine o precari, con un nuovo calo di 40mila posti. Qui probabilmente a influire è il blocco del turismo invernale, che in genere fa aumentare i contratti stagionali in questi mesi.

Portando lo sguardo indietro di un anno, i permanenti sono addirittura cresciuti di 123 mila, mentre i lavoratori a termine sono andati giù di 410 mila. È il chiaro effetto del blocco dei licenziamenti, introdotto il 17 marzo (retroattivo al 23 febbraio per quelli collettivi) e al momento previsto fino al 31 marzo. Le imprese mantengono gli addetti stabili grazie alla mole di cassa integrazione concessa dallo Stato, ma si liberano dei tempi determinati alla scadenza dei contratti.

C’è comunque ansia in vista della prossima primavera, quando l’emergenza sanitaria non sarà ancora finita ma lo scudo verrà meno. La ministra Nunzia Catalfo sta studiando un’ulteriore estensione – con annessi ammortizzatori sociali – per i settori maggiormente penalizzati dal Covid, mentre per l’industria si dovrebbe tornare al regime normale.

Sempre a novembre è diminuito anche il tasso di disoccupazione, arrivato all’8,9%. Non è detto che sia una buona notizia, perché quel valore misura il numero di persone che non hanno un lavoro ma stanno cercando di trovarlo. I dati mostrano che questo calo di disoccupati è dovuto per metà all’aumento dell’occupazione e per metà alla crescita dell’inattività. In pratica, complice probabilmente la recrudescenza del virus, in tanti si sono scoraggiati e hanno smesso di cercare un impiego.

La digital tax è già in vigore, ora gli Usa minacciano dazi

Era esattamente il giorno della Befana quando l’Office of the United States Trade Representative (UsTR), che risponde direttamente alla Casa Bianca, ha depositato un rapporto su un’indagine iniziata a giugno. Il titolo spiega tutto: “Report on Italy’s Digital Services Tax”, cioè Rapporto sulla tassa sui servizi digitali italiana, meglio nota come digital tax o web tax.

Capito il campo da gioco, forse saranno chiari anche i contenuti: a Washington quella tassa, che in Italia dovrebbe dar luogo ai primi adempimenti il 16 febbraio, non piace per niente. Donald Trump la considerava una specie di affronto alle imprese a stelle e strisce e, toni a parte, l’atteggiamento non dovrebbe cambiare granché con Joe Biden. La strada è già fissata proprio dal rapporto UsTR del 6 gennaio: dazi commerciali come ritorsione a una tassa che colpisce soprattutto le grandi imprese americane del web, da Google in giù (peraltro, l’Italia è da poco rientrata tra i Paesi sotto osservazione perché presunti “manipolatori di moneta” secondo gli Usa, speciale classifica guidata da anni da Cina e Germania).

Per capire serve un piccolo riassunto. Di web tax si parla ormai da molti anni. Il motivo è molto semplice. Imprese che hanno ormai bilanci più grandi di quelli di molti Stati (Facebook, Google, Amazon, Apple, etc.) da anni scelgono sostanzialmente su un menu di sconti gentilmente concessi da vari Paesi come e dove pagare le tasse sui servizi che vendono in tutto il mondo: ogni anno enti di ricerca pubblici e istituzioni finanziarie private calcolano poi quante tasse hanno risparmiato le cosiddette OTT, Over The Top. Ne citiamo uno solo: secondo Mediobanca, le 25 imprese più grandi hanno pagato meno tasse sugli utili per 46 miliardi negli ultimi 5 anni. In Italia la situazione al 2019 era: 3,3 miliardi di euro di ricavi, 70 milioni di euro di tasse, il 2,1%.

Riassumendo moltissimo, dopo varie giravolte, Paesi come la Francia e l’Italia hanno deciso di varare leggi che intercettassero un po’ di quel fiume di denaro in uscita dai loro confini. La normativa italiana – che molti giudicano di difficile se non impossibile applicazione – prevede una tassa del 3% su alcuni servizi digitali per aziende che abbiano un fatturato superiore ai 750 milioni di euro nel mondo e con ricavi da servizi digitali realizzati in Italia non inferiori a 5,5 milioni: in sostanza, grandi aziende. Le attese di gettito sono di circa 700 milioni l’anno.

A seguito delle proteste Usa, però, l’Italia si è impegnata a sostituire la sua digital tax con quella in discussione all’Ocse. Problema: è bloccata dai veti degli Usa. Anche l’Unione europea aspetta l’Ocse, ma ha annunciato una proposta comunitaria entro la prima metà di quest’anno (non è la prima volta, però). E qui veniamo al report americano: “Sia le soglie di fatturato della digital tax che la selezione dei servizi coperti discriminano le aziende statunitensi interessate”; “43 aziende o gruppi potrebbero essere colpiti, di questi 27 sono statunitensi (62%), 3 italiani e gli altri 13 provenienti da altri Paesi”. E ancora: “La digital tax italiana prende di mira quei settori in cui le aziende americane sono dominanti, vale a dire l’internet advertising e le interfacce digitali, che comprendono marketplace online e alcuni servizi di sottoscrizione”. Riassumendo, “discrimina le società statunitensi, è in contrasto con i principi fiscali internazionali e ostacola o limita il commercio Usa”.

Indagini simili sono aperte o si sono concluse su Francia, Austria, Spagna, Regno Unito, Turchia e altri. Quando saranno terminate, sempre che la situazione all’Ocse non si sblocchi, Washington prenderà una decisione comune sulla base della “Section 301” del Trade Act del 1974, che riserva agli Usa la possibilità di “contrattaccare” con dazi o altre azioni se ritenga le sue imprese discriminate: l’alimentare, nel caso dell’Italia, è il settore più facilmente attaccabile.

Retromarcia Cisl: gli “shopper” bocciano il contratto, il sindacato non può firmarlo

Èstata immediata la bocciatura dell’accordo sul contratto collettivo degli shopper raggiunto pochi giorni fa tra la Fisascat Cisl e Assogrocery. A rispedire ai mittenti il testo – che manteneva il sistema dei pagamenti a cottimo, non prevedeva assunzione e concedeva tutele solo a certe condizioni – sono stati gli stessi lavoratori ai quali sarebbe stato applicato, cioè gli addetti alla spesa a domicilio di Everli (ex Supermercato24). In 2.956 sono stati interpellati e solo 881 hanno risposto dando mandato al sindacato di sottoscrivere il testo. Favorevoli sotto il 30%, dunque. La sigla Cisl del commercio ha dovuto chiedere all’associazione delle imprese di riaprire la trattativa.

Questa sorta di referendum si è peraltro svolto con una modalità inusuale. Gli shopper, infatti, sono stati contattati direttamente dall’azienda Everli, che ha inviato loro una email con in allegato la sintesi dell’intesa elaborata dalla Fisascat Cisl. Non è stato il sindacato a consultare i lavoratori attraverso i metodi tradizionali, come assemblee e comunicazioni interne, ma l’azienda stessa che così – in sostanza – ha fatto scouting di iscritti in favore della Fisascat, la quale non contava tessere tra gli shopper fino a pochi giorni fa. Le proteste della Nidil Cgil e di Deliverance Milano hanno funzionato e l’operazione non è riuscita: “Avremmo siglato l’intesa – ha spiegato il segretario Vincenzo Dell’Orefice – unicamente con il benestare del 50% più uno”. Ora bisognerà rinegoziarlo, evidentemente con condizioni al rialzo.

Quello venuto fuori dagli incontri degli scorsi giorni ricalcava con piccole correzioni il modello già finora imposto da Everli. Gli shopper sarebbero rimasti autonomi, non avrebbero avuto stipendi orari né altri diritti tipici del lavoro dipendente e sarebbero state mantenute le retribuzioni “a incarico”. Inoltre, il contratto avrebbe legittimato il cosiddetto algoritmo “reputazionale”: proprio quel meccanismo che, come ha detto pochi giorni fa il Tribunale di Bologna, discrimina chi sciopera o si ammala. Il sistema incentivante inserito, infatti, prevedeva “un accesso anticipato al sistema di prenotazione degli slot e/o una priorità nella distribuzione delle proposte d’incarico in base a uno o più indicatori”; tra questi, “il numero di disponibilità manifestate” e “le proposte di incarico accettate ed eseguite”. Insomma, un premio per i più fedeli e laboriosi, con il rischio di penalizzare chi salta turni per fare sciopero. Oltre a queste, veniva introdotto un curioso criterio di tutela della maternità: l’indennità nei giorni di riposo per gravidanza era concessa solo alle shopper che avevano svolto almeno 500 incarichi prima di rimanere incinte.

Napoli, si apre maxi voragine nel parcheggio dell’Ospedale del Mare: poteva essere strage

“Il boato? Si è sentito fino a Barra”, dice un operaio dell’Ospedale del Mare, mentre guarda dall’alto del parcheggio i pilastri spezzati e sgretolati dentro la voragine. Barra confina con Ponticelli, periferia orientale di Napoli, a ridosso dei paesi vesuviani. Poco dopo le 6.30 di ieri mattina, nei palazzoni di edilizia popolare della ricostruzione post-terremoto 1980, si è pensato a un’esplosione. “Ha ceduto – spiega il comandante provinciale dei Vigili del Fuoco, Ennio Aquilino – un solaio che reggeva un terrapieno con la vasca di rilancio dell’acqua sanitaria e dell’impianto antincendio dell’Ospedale del Mare”. Inaugurato a fine 2016 tra molte polemiche e costato oltre 380 milioni, l’Ospedale del Mare serve un’utenza vastissima che copre parte di Napoli e l’area vesuviana. Accanto, tra il primo e il secondo lockdown, è stato realizzato un “Covid Hospital.” La causa più probabile – secondo i Vigili del Fuoco – sono le infiltrazioni dovute alla pioggia.

Visto l’orario, il parcheggio dell’ospedale era praticamente deserto e si è evitata la strage. Nessun morto e nessun ferito: le tre auto precipitate di sotto erano vuote.

Grandi manovre alla Gazzetta del Mezzogiorno

Grandi manovre intorno alla direzione della Gazzetta del Mezzogiorno, il quotidiano di Bari diffuso in Puglia e Basilicata. Dopo il fallimento delle due società “Mediterranea” (proprietaria della testata) ed “Edisud” (titolare della gestione), controllate entrambe dall’editore siciliano Mario Ciancio, il giornale in regime commissariale ha rischiato di interrompere le pubblicazioni. In attesa dell’asta che entro luglio dovrà assegnare la proprietà della testata, si sono aggiudicati la gara per la gestione del giornale i fratelli Sebastiano e Vito Ladisa, titolari di un gruppo barese di ristorazione con 4.000 dipendenti che fornisce 35 milioni di pasti al giorno (ministeri, enti pubblici, mense aziendali, ospedali, caserme e scuole).

Per rilanciare il giornale, il loro primo obiettivo sarebbe sostituire il direttore, Giuseppe De Tomaso, sotto la cui guida la Gazzetta è precipitata da 50 mila a meno di 10 mila copie. Ma s’è scatenata la corsa alla successione, innescata dalle pressioni esterne. Finora è circolato il nome di Concita De Gregorio, collaboratrice di Repubblica, già direttrice de l’Unità, chiusa ormai dal 2017: è rimasta famosa, all’epoca della sua direzione, la campagna pubblicitaria che mostrava il “lato B” di una ragazza in hot pants con una copia del giornale fondato da Gramsci nella tasca posteriore. A favore della sua candidatura, si sarebbe pronunciato il sindaco di Bari, il renziano Antonio De Caro. A quanto pare, però, avrebbe ottenuto un aumento da Repubblica e si sarebbe chiamata fuori. In favore di Roberto Napoletano, ex direttore del Sole 24 Ore, coinvolto in un caso giudiziario per presunte irregolarità nei conti del gruppo e ora direttore del Quotidiano del Sud, si dice che sia intervenuto Luigi Abete, presidente della Bnl. Un altro nome è quello di Marco Demarco, già responsabile del Corriere del Mezzogiorno: la sua candidatura sarebbe sponsorizzata da ambienti Rai, dove i Ladisa gestiscono la mensa.

Il blob tossico del Trump attack

La tersa e scabra profezia di Marx – la Storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa – ha rintoccato la sua mezzanotte il 6 gennaio 2021 a Washington. A guardare le immagini dell’assalto a Capitol Hill, sede del governo degli Stati Uniti, sembrava si fossero dati convegno i detriti più eloquenti di un secolo di fantascienza, cinema (colto o B-movie), televisione, fumetto, intrattenimento e paccottiglia di Internet.

Un’esplosione semiotica, un trionfo di segni che si annichilivano nell’opposto della baldanza, in una realtà mortifera e parodica della libertà e dell’individualismo americano. Una processione di freak, che non nel corpo biologico, ma nel secondo corpo, quello “semiotico”, acquisito col latte di crescita della cultura pop americana e delle sue degenerazioni recenti, portavano addosso i segni di una volontaria cessione di sovranità personale a favore di un’immaginaria sovranità americana, bigotta e fondamentalista. Lo “sciamano” mezzo nudo con le corna vichinghe, i giovani conciati come i druidi dei videogame o in mimetica e sandali da trekking, donne e uomini “normali” in cui ogni segno dell’ordinarietà da fruitori di Tv del pomeriggio era esacerbato da un dettaglio iperrealista: la tenuta da tagliatore del prato della domenica arricchito dalla scritta “6MWE”, sigla nazista per Six Million Wasn’t Enough, sei milioni non è stato abbastanza, in riferimento all’Olocausto. Con buona pace dei trumpiani nel mondo, anche nostri, che hanno creduto all’elezione di Trump come a un trionfo dei popoli genuini contro le élite ipersofisticate.

Una simile guerriglia di segni s’era vista solo nei film ucronici hollywoodiani, che dell’America sono grottesca e dolorosa sineddoche, come si fosse aperto un varco tra realtà e finzione e ne fosse uscito un blob vischioso e inarrestabile. Non era una collettività: era una folla di individui legati da un patto tribale, sancito via social e ribadito dall’individuo totemico, Trump, capo del cosplay del complotto ai suoi danni.

Non portavano rivendicazioni politiche, ma l’affermazione ottusa di una “verità alternativa”: Trump ha vinto le elezioni. Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York e avvocato di Trump, mentre invitava la marmaglia a tornare a casa, ribadiva il loro “essere dalla parte giusta della Storia”. “Vi voglio bene”, ha detto Trump in video, mentre nei corridoi di casa sua, cuore della democrazia, bandiere mai sfilate dal 1800 venivano portate in giro per sfregio, e individui col berretto rosso di Make America great again sedevano sulla sedia del vicepresidente coi piedi sulla scrivania, scattando selfie sotto i ritratti dei Presidenti, armati, oltre che di armi vere, di smartphone, per moltiplicare l’oltraggio via social nella replicazione stolida e amorale dell’algoritmo.

Dire “ci hanno rubato le elezioni, ma andate a casa” è stato come ridurre la manifestazione esteriore della follia lasciando inalterata la psicosi che la sottende e di cui la sua mitografia si alimenta. Il momento attuale è stato edificato in cinque anni di parossismo e post-verità. Il portavoce di Trump Sean Spicer accusò i media di aver truccato le foto della spianata del Lincoln Memorial al fine di mostrare come ci fosse meno gente che all’Inauguration Day di Obama, e la consulente Kellyanne Conway compì il capolavoro: quelle di Spicer non erano falsità, ma “alternative facts”, fatti non veri in questa dimensione ma verissimi in un’altra. Quale? Quella da cui sono usciti i protagonisti della disperata avventura a Capitol Hill. Un film di David Cronenberg del 1983, Videodrome, previde con cruda lucidità gli effetti del terrificante potere politico della “videocarne”. Allora era la Tv, con le sue propaggini VHS, a colonizzare le menti e i corpi dei telespettatori nella voluttà masochistica dell’allucinazione. Oggi è una combinazione di Tv via cavo, teorie complottiste, uso tossico dei social network, a operare la spaccatura del vero da cui sono fuoriuscite le contraddizioni dell’impero americano, che mentre “esportava la democrazia” e si immunizzava contro il nemico (l’Iraq, l’Afghanistan, il terrorismo, gli immigrati, l’Iran, la Cina, etc.), covava in seno il nemico interno. Il neoliberalismo aggressivo dell’impero nutriva, affamandoli, coloro che avrebbero oltraggiato le sue fondamenta, entrando come un coltello nel burro nel luogo di massima sicurezza. È allegorico che ciò sia accaduto pochi mesi dopo le manifestazioni di Black Lives Matter seguite all’uccisione di George Floyd da parte della polizia, che diedero occasione al dispositivo di protezione della Guardia Nazionale di dispiegarsi in tutta la sua brutalità. Oggi i video mostrano agenti armati in posa coi rivoltosi, nella selfocracy che tutto ricopre col suo manto di facezia e vanità, anche la tragedia.

Non la rivendicazione di diritti, ma la veridizione del delirio paranoide è la vera posta in gioco della violenza. Violenza non tanto fisica: alienati detentori di corpi apatici hanno forzato con indolenza le stanze del potere, soppesando i complementi d’arredo, sorridendo alle telecamere: una sedizione snervata, satolla. La violenza simbolica è un’angheria contro il principio di realtà. In questo quadro si è innestato il complottismo da Covid. L’assenza di mascherina sui volti è un distintivo più potente di qualunque orpello. Se il travestitismo grottesco è un modo per negare l’identità, perché pure questa è intesa come uno strumento del dominio, il no mask è uno sputo in faccia ai valori condivisi. Sono tutti cloni di Trump, gli effrattori, svuotati di sé, sue emanazioni.

Il movimento QAnon si fonda su un bug schizoide incistato nelle menti dei suoi adepti, vocianti nelle stanze del Congresso ridotto a sala hobby. Nel momento in cui si crede che esista un complotto planetario per diffondere un virus vero, o “narrare” un virus falso, allo scopo di controllare l’umanità mediante chip sottocutanei iniettati col vaccino in base a un progetto satanista portato avanti dalle élite politiche e finanziare (Clinton, Soros, Bill Gates) che si nutrono di sangue di bambini, si può ben assaltare la Casa Bianca e le sue adiacenze senza avere percezione della gravità irreversibile del gesto.

Questo neo-tribalismo ha rivelato l’esistenza di un mondo parallelo che d’ora in poi i governanti di tutto il mondo non possono ignorare, perché la viralità è la sua cifra. Hannah Arendt scrisse: “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali la distinzione tra realtà e finzione e tra vero e falso non esistono più”.

 

La finanziarizzazione di Elon Musk

Forse vi saràcapitato di leggere che, secondo il “Billionaire Index” di Bloomberg, l’imprenditore sudafricano Elon Musk è ormai l’uomo più ricco al mondo: con l’ultima impennata in Borsa della sua Tesla (auto elettriche) ha superato pure Jeff Bezos di Amazon, primo da oltre tre anni, ma recentemente impoverito da un divorzio da 60 miliardi di dollari o giù di lì. Problemi di eccessiva accumulazione non ce ne sono visto che metà dei soldi di Musk, dice lui, è destinata a risolvere i problemi della Terra e l’altra metà “a costruire una città auto-sufficiente su Marte per assicurare la continuità della vita, di tutte le specie, nel caso in cui la Terra venga colpita da una meteorite”.

Riassumiamo la notizia grazie al Sole 24 Ore: “Elon Musk è diventato l’uomo più ricco del mondo con un patrimonio di 188,5 miliardi di dollari (…) La ciliegina sulla torta per Musk arriva dopo un anno in cui la sua ricchezza è aumentata di 150 miliardi di dollari grazie al rally di Tesla in Borsa nel 2020 (+743%), sostenuto dagli utili della società segnati in diversi trimestri dell’anno scorso”. Nel dettaglio, gran parte del patrimonio di Musk è rappresentato da azioni e stock option Tesla, qualche miliarduccio da SpaceX (viaggi spaziali e, prima di arrivare su Marte, magari qualche commessa della Difesa statunitense) e gli spiccioli da case e altri beni.

Torniamo al Sole: l’enorme aumento di valore di Tesla è avvenuto “nonostante nello stesso anno del Covid abbia prodotto solo mezzo milione di auto elettriche rispetto ai milioni di veicoli usciti dalle fabbriche di Ford e General Motors”. Ecco Tesla – in leggero utile per la prima volta nella sua storia – capitalizza in Borsa oltre 27 volte i suoi ricavi e oltre sette volte Volkswagen che ha dieci volte i suoi ricavi e 25 volte i suoi utili. Quella quotazione, che è la celebrata ricchezza di Elon Musk, non esiste neanche come futura speranza di remunerazione per gli attuali azionisti: multipli che giustifichino quel prezzo sono impossibili. Ecco di cosa si parla quando si dice “finanziarizzazione dell’economia”, mentre se qualcuno se ne esce con “razionalità dei mercati” vi basterà salutare accampando un impegno urgente.

Covid-19, il rischio di un’“endemia”

Gli episodi pandemici sono tsunami che si abbattono periodicamente sull’umanità. Come le guerre, provocano cambiamenti epocali, deviano il corso della Storia. Solitamente, proprio come dopo gli eventi bellici, dopo le pandemie si assiste a una rinascita, a un vero e proprio riscatto generazionale. Ciò accade quando, spesso per cause inspiegabili, una pandemia finisce. Ben diverso è il fenomeno delle endemie, cioè quelle infezioni che non hanno ondate epidemiche con picchi di contagi e morti, ma sono caratterizzate dalla circolazione costante di un virus o batterio che è riuscito a introdursi nella popolazione. Una indesiderata convivenza. È accaduto nella Storia molto più frequentemente che per le pandemie. Ci sono microrganismi che riescono non solo a infettare l’uomo, ma anche ad adattarsi fino a conviverci. Sono infezioni con le quali si è costretti a vivere, impiegando misure che limitino il danno (spesso anche la morte), ma che gli consentano di continuare a vivere secondo quella normalità sociale, consolidata e conquistata nei secoli. Sono infezioni endemiche la malaria, la dengue e anche le infezioni da Coronavirus che conosciamo da molto tempo, prima della comparsa dell’ultimo (SarSCoV2). Fra le ipotesi da non scartare o che vorremmo scartare è che questa pandemia si trasformi in un’infezione endemica. È vero che le pandemie durano anche due o tre anni e che Covid-19 è relativamente giovane, ma è anche vero che, malgrado le misure di contenimento, non siamo riusciti a mutare il suo corso. Adesso c’è il vaccino, grande speranza. Dobbiamo però essere tutti consapevoli che non è una certezza. Non sappiamo ancora se l’immunità che ci conferirà sarà durevole. Lo spettro del virus a Rna resta in agguato, riportando alla mente i fallimenti avuti nella ricerca di altri vaccini (Hiv, Mers, SarS1, altri Coronavirus, ecc.) o vaccini con copertura limitata, come quello per l’influenza. Certamente se Covid-19 diventasse un’infezione endemica, sarebbe necessaria una serie di programmazioni non di poco conto. Siamo stati sorpresi dalla pandemia senza un piano pandemico, non vorrei che adesso non si stesse pensando (tutti gli scongiuri sono concessi) a un piano B nel caso ci si trovasse davanti a un’endemia

“Stampubblica” fa 45 anni, ma ha perso la memoria

 

“Quando infine misi in atto quel progetto mi domandai che cosa sarebbe stato di quei luoghi e della gente che li abitava nel momento in cui li avessi lasciati”

(da Il labirinto di Eugenio Scalfari, Rizzoli, 1998)

 

Ha poco da festeggiare un giornale che nei suoi primi quarant’anni di vita ha avuto due direttori e nell’ultimo quinquennio ne ha avuti addirittura tre. Parliamo, rispettivamente, della Repubblica diretta da Eugenio Scalfari ed Ezio Mauro e di “Stampubblica” diretta, nell’ordine, da Mario Calabresi, Carlo Verdelli e ora da Maurizio Molinari. Il prossimo 14 gennaio il quotidiano fondato da Scalfari nel 1976 intende celebrare il suo 45° compleanno, ma si tratta di un anniversario intermedio, a metà fra i quaranta e i cinquanta, evocato come un esorcismo alla ricerca di una memoria e di un’identità perdute. E per di più, in coincidenza con l’annuncio di un’altra uscita eccellente, come quella dello scrittore Roberto Saviano, l’autore di Gomorra.

Il passaggio fra i primi due direttori e gli ultimi tre ha segnato in realtà una frattura nella storia di quel giornale, provocata dal duplice cambio di proprietà: prima Carlo De Benedetti e poi la Fiat di Elkann-Agnelli, attraverso la maxi-fusione nel gruppo Gedi. Due padroni diversi, con origini e orientamenti diversi, accomunati però dal vizio oggettivo di non essere “editori puri” – cioè, senza interessi estranei da difendere – di una testata che all’origine aveva il crisma del Gruppo L’Espresso e della vecchia Mondadori. Fino a quando Carlo Caracciolo e lo stesso Scalfari sono rimasti al vertice, sono stati una garanzia per i loro giornalisti e i loro lettori; poi la situazione è andata progressivamente degenerando.

Non sorprende, perciò, che in occasione di questo 45° anniversario dimezzato, Repubblica vada alla ricerca della memoria perduta e si appelli alla figura patriarcale del Fondatore, prossimo ai 97 anni d’età, nel tentativo di ritrovare le proprie radici. Sorprende e colpisce, invece, l’infelice gaffe in cui l’attuale direttore ha coinvolto maldestramente l’illustre capostipite. In un lungo colloquio di tre pagine sul riformismo come “filo conduttore della storia nazionale”, pubblicato il 2 gennaio, Molinari è riuscito a far dire a Scalfari che “Berlinguer era morto” prima di Aldo Moro, rimuovendo poi il macroscopico errore nella seconda edizione del giornale.

Sappiamo bene, per esperienza, che nel nostro mestiere la fretta può indurre a commettere imprecisioni o inesattezze. Ma qui si tratta di due snodi storici della vita politica italiana, con al centro due personaggi collocati dall’intervistato nel loro giusto contesto. Ma anche ammesso e non concesso che il Fondatore avesse confuso due vicende, di cui è stato testimone e protagonista, qualsiasi intervistatore sarebbe dovuto saltare subito sulla sedia mentre registrava il dialogo o successivamente sulla poltrona mentre lo trascriveva sul computer. Evidentemente, la consuetudine di Molinari con la politica estera – quella che recentemente ha costretto anche una “grande firma” come Bernardo Valli a lasciare il giornale – gli ha offuscato nell’occasione la memoria e le idee.

Quanto all’identità, dopo le polemiche che avevano portato alle dimissioni del comitato di redazione, la direzione ha deciso che quando si scrive di Exor o Fca (ex Fiat), e magari ora anche di Stellantis, bisognerà dichiarare al lettore che si tratta di una finanziaria o di un gruppo industriale collegati a Gedi, e quindi alla proprietà che oggi controlla il quotidiano fondato da Scalfari. Per l’appunto. Ma più che una regola di trasparenza, nel nostro caso sembra una “regola d’ingaggio” per precostituirsi un alibi e salvarsi l’anima. Questo è il “riformismo” di marca Fiat.