Affaire mascherine: “C’ho il numero di Arcuri, vinciamo”

“Io c’ho il numero di Arcuri… La gara la vinciamo noi, qualità prezzo… mi hai capito. Possiamo fare 60 milioni in quattro giorni”. Dopo l’affare da 1 miliardo e 251 milioni e l’arrivo in Italia di 801 milioni di mascherine dalla Cina, il trader ecuadoriano Jorge Solis a ottobre aveva fiutato il business dei tamponi rapidi antigenici. Ma voleva tenere fuori i “soci” con cui aveva concluso la prima maxi-consegna di marzo, ovvero il titolare della Sunsky srl, Andrea Tommasi, il suo “partner delle mascherine” (come etichettato dallo stesso Tommasi in una conversazione) e il banchiere sammarinese Daniele Guidi, e il mediatore Mario Benotti, tutti indagati dalla Procura di Roma per traffico di influenze. Emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali effettuate dal Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza sugli indagati.

Le indagini vertono sulla natura delle provvigioni. La consegna aveva fruttato 59 milioni alla Sunsky e 12 milioni alla Microproduct Srl di Benotti. La Sunsky ha poi pagato 3,8 milioni alla società di Solis. Per i magistrati, le forniture sarebbero state “intermediate illecitamente da Benotti, che ha concretamente sfruttato la personale conoscenza” del commissario governativo Domenico Arcuri – non indagato – senza che lo stesso ne fosse al corrente, “facendosene retribuire, in modo occulto e non giustificato da esercizio di attività di mediazione professionale/istituzionale”. Il 26 ottobre 2020, Solis parla al telefono con Michele Casciani (non indagato), presidente della Igeam Srl e gli prospetta la possibilità di un altro affare con il governo. “Io ho avuto fortuna con lo Stato italiano – dice – a breve dovranno arrivare 60 milioni di test rapidi in tutta Italia”. Solis dice che “Andrea (Tommasi, ndr) e Mario (Benotti, ndr) non devono saperlo”. Le conversazioni rivelano anche altro. Come il tentativo di Tommasi, a fine novembre, di “mettere a posto i contratti”. La Sunsky aveva infatti pagato 53 mila euro ad Antonella Appulo, già collaboratrice dell’ex ministro Graziano Delrio. Il 20 novembre, Tommasi allerta il suo legale aziendale Georges Farse Khouzam: “Devi mettere a posto tutti i contratti… dei 50 mila”. Resta centrale Benotti, l’ex giornalista Rai “amico di Arcuri”, già collaboratore di Sandro Gozi quando era sottosegretario. Il 20 ottobre 2020 parla con Mauro Bonaretti (non indagato), componente della struttura commissariale. È “deluso” dal comportamento del suo “vecchio amico Domenico” (così lo definisce). “Di’ al commissario che vorrei venerarlo (ma forse si tratta di un errore di trascrizione, ndr)… sempre che abbia il piacere ancora di ricevere un vecchio amico”. “Lui era dispiaciuto di questa cosa… era come dire… protettivo”, gli risponde l’interlocutore, che poco prima aveva spiegato: “Domenico mi ha detto ‘voglio evitare che Mario si sporca’”. “Io quello che ho fatto per dargli una mano – dice Benotti – e le persone che ho mosso di fatto sono state le uniche che… che gli hanno portato a casa in anticipo di 6 mesi le cose di cui aveva bisogno”. Poi il giornalista aggiunge: “Mi spiace perché avevo organizzato due o tre cose per lui importanti… ma magari riesce ad andare lui alla Finmeccanica”. “Non credo”, replica Bonaretti. Venti giorni dopo, l’11 novembre, Benotti parla con la moglie Daniela Guarnieri. Probabilmente ha saputo dell’inchiesta. “Non vorrei che qualcuno mi avesse fatto il servizio, mi avesse sputtanato per qualcosa”. E poi le chiede: “A meno che non lo richiamo io ad Arcuri, che dici? Io voglio capire cosa succede”. Ma lei frena: “In questo momento devi stare buono”.

Agli atti anche le fatture degli acquisti effettuati dagli indagati una volta incassate le provvigioni. Beni di lusso, “beni rifugio” per i finanzieri; “normali sfizi di chi ha portato a termine l’affare della vita”, replicano i legali. Tommasi, ad esempio, ha versato 900 mila euro per saldare la barca che aveva acquistato in leasing e ha versato l’acconto per l’acquisto di una Lamborghini Urus. Benotti ha saldato alcune cartelle pregresse con il fisco per circa 500 mila euro. Solis ha acquistato un Rolex. Guidi invece ha speso migliaia di euro in beni di lusso Lvmh, il gruppo di moda che racchiude marchi come Louis Vuitton, Bulgari, Fendi e Moët Chandon.

Bertolaso, l’ex Superman rinnegato pure in Umbria

Doveva essere l’uomo della provvidenza, il super consulente che, a detta della presidente leghista dell’Umbria Donatella Tesei, doveva rappresentare “una garanzia in tema di emergenze e di raccordo con la Protezione civile”. Insomma: Guido Bertolaso a novembre era sbarcato in Umbria – dopo le sue esperienze in Sicilia, Lombardia e Marche e le due astronavi a Milano Fiera e Civitanova Marche – come l’uomo del fare, prima per sconfiggere la seconda ondata di Covid-19 e poi per prevenire la terza. Peccato che, dopo la presentazione in pompa magna e qualche photo opportunity , Bertolaso sia sparito. Da inizio dicembre, quando era intervenuto “a titolo personale” al consiglio comunale di Spoleto, l’ex capo della protezione civile non si è più visto. E giovedì in Regione è stata istituita un’altra task force per la terza ondata in arrivo e il suo “piano di salvaguardia”, l’unica cosa prodotta della consulenza Bertolaso, è stato ignorato. Giovedì, per decidere il potenziamento dei posti letto, si sono riuniti la Presidente Tesei, l’assessore alla Sanità Luca Coletto e il dg Claudio Dario. Nessuna traccia di Bertolaso. Nella riunione con il commissario straordinario Domenico Arcuri è stato deciso di aumentare le terapie intensive di altri 44 posti per arrivare a 183 entro il 20 febbraio in quattro strutture pre-fabbricate da costruire fuori dagli ospedali di Perugia (10), Terni (12), Foligno (12) e Città di Castello (10). Il tutto costerà 8,2 milioni di euro coperti dai fondi del governo.

Insomma buone notizie per una regione che, dopo una prima ondata contenuta, è stata tra le più colpite della seconda, al terzo posto dall’1 ottobre al 20 dicembre tra le Regioni con il più alto tasso di mortalità (sei volte quelli della prima ondata). Il nuovo piano rinnega parte di quello di Bertolaso secondo cui i nuovi posti di terapia intensiva sarebbero stati inseriti nell’ospedale di Terni con una donazione della fondazione Cassa di Risparmio di Terni (Carit). Non sarà così: quei fondi, ha spiegato Tesei, saranno utilizzati “per altre finalità”. Quindi non solo il piano di Bertolaso – che prevedeva anche il trasferimento dei pazienti nell’astronave delle Marche – non è stato mai messo in pratica (“Sarà utilizzato solo in caso di emergenza” aveva detto il dg Dario) ma adesso la giunta Tesei lo cancella dopo averlo approvato con delibera di giunta del 4 novembre.

Nel frattempo si sono assottigliate anche le possibilità che sia Bertolaso il candidato del centrodestra a sindaco di Roma ,visto il veto posto da Giorgia Meloni (piace invece a Salvini e Sa B.). “Cercheremo una terza opzione” ha detto il leader della Lega. E la consulenza di Bertolaso in Regione Umbria può dirsi conclusa. “Bertolaso in Umbria è stato impalpabile – dice il consigliere regionale del M5S, Thomas De Luca – L’unico piano del super consulente è stato parlare del Covid Hospital di Civitanova Marche e mettere i malati umbri nelle tende, rimaste per fortuna quasi sempre vuote, con temperature proibitive”. E se è vero che Bertolaso era consulente a costo zero, presto arriveranno gli scontrini dei rimborsi spese: “Vogliamo vederci chiaro – conclude De Luca – e presenteremo un accesso agli atti per avere conto dei rimborsi”.

L’indice di contagio torna sopra 1. E 5 Regioni vanno in “arancione”

La situazione non è drammatica come in Gran Bretagna, dove ieri hanno contato oltre 68 mila nuovi casi (certo, con più test) e il record di morti, 1.325 in ventiquattr’ore. Solo a Londra sono ricoverate oltre settemila persone, il sindaco Sadiq Khan parla di epidemia “fuori controllo”. In Germania 31.849 contagi rilevati e 1.188 decessi, anche lì un record. E in Italia il monitoraggio settimanale del ministero della Salute e dell’Istituto superiore di sanità ha confermato ieri il “peggioramento generale della situazione epidemiologica”. L’indice di trasmissione del virus Rt, aumenta per la quarta settimana e per la prima volta dopo sei supera 1 (1,03 tra il 15 e il 28 dicembre 2020): significa che l’epidemia è tornata a crescere.

Da lunedì, dopo il weekend che sarà “arancione” per tutti, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Calabria e Sicilia (25 milioni di abitanti in tutto) resteranno “arancioni” almeno fino al 15 gennaio, quando scadrà il Dpcm in vigore e il governo dovrà farne un altro. Quindi bar e ristoranti chiusi (salvo asporto) e divieto di uscire dal Comune di residenza, oltre al coprifuoco alle 22 che vale anche nelle Regioni “gialle”.

Non tutte hanno Rt, che è calcolato sui soli sintomatici, sopra 1. In Veneto è 0,97 nel valore puntuale al 22 dicembre (1 la media su 14 giorni) ma preoccupa l’incidenza: 927 casi ogni 100 mila abitanti negli ultimi 14 giorni fino al 3 gennaio, poco meno del Regno Unito e il triplo della media italiana (313 fino al 3 gennaio contro i 305 fino al 27 dicembre). L’Emilia-Romagna è all’1,05 (media su 14 giorni 1,07) con un’incidenza di 459 nuovi casi per 100 mila abitanti nelle ultime due settimane, la Lombardia all’1,27 (media 1,22) e si salva dal ritorno in zona “rossa” solo perché il valore minimo è 1,24 e non 1,25, la Calabria all’1,14 (media 1,14), la Sicilia all’1,04 (media 1,03). Ma anche in Puglia Rt è a 1, in Sardegna a 1,02, in Umbria a 1,01, in Molise addirittura a 1,27 ma con valori minimi inferiori a 1. E comunque anche Lazio, Marche, Friuli-Venezia Giulia, Trento, Bolzano e Piemonte sono considerati a rischio “alto” per i segnali di sovraccarico negli ospedali e per l’aumento del rapporto tra positivi e tamponi. I letti occupati nelle terapie intensive sono di nuovo sopra la soglia del 30 per cento. Ieri sono stati notificati altri 17.533 nuovi contagi (rapporto positivi/tamponi al 12,5 per cento, al 15 sulle persone testate) e 620 morti, per una media settimanale di decessi che si conferma in lieve crescita. Altre 187 persone sono entrate nelle terapie intensive contro le 156 di giovedì.

Peraltro il report settimanale sottolinea la “diffusa difficoltà nella tempestività dell’invio dei dati” da parte delle Regioni che “può portare – scrive la cabina di regia – a una possibile sottostima della velocità di trasmissione e dell’incidenza”. Venerdì prossimo capiremo meglio come sono andate le cose nel periodo festivo, ha spiegato il presidente dell’Iss, professor Silvio Brusaferro. Poi il governo deciderà le nuove misure. Intanto uno studio sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) afferma che fino al 30 settembre si è infettato circa il 4,8 per cento degli italiani, oltre 2,8 milioni di persone e cioè 9 volte i casi rilevati a quella data.

C’è grande preoccupazione per la variante inglese e quella sudafricana, una circolare del ministero invita tutti i centri regionali a sequenziare il più possibile il virus per comprenderne la reale portata, sia pure confermando che per ora non ci sono prove della maggior gravità della malattia, né di una resistenza ai vaccini. Un’altra circolare definisce i casi in cui i tamponi molecolari possono essere sostituiti dagli antigenici, meglio se di ultima generazione: anche questi test saranno conteggiati nei bollettini.

Le buone notizie vengono dalle vaccinazioni: ieri alle 21 siamo arrivati a 455 mila somministrazioni, per un paio di giorni abbiamo superato la Germania. La commissione Ue ha confermato l’acquisto di 300 milioni di dosi supplementari Pfizer Biontech: l’Italia ne avrà il 13,46 per cento, aspettando AstraZeneca. Intanto c’è Moderna: 85 per cento di efficacia sugli over 65, ha detto il professor Franco Locatelli del Consiglio superiore di Sanità.

Il “caso Barr”: una polemica ammuffita su Servizi e Usa

Tra le richieste di Matteo Renzi a Giuseppe Conte – e su cui non sembra disposto a fare un passo indietro – c’è quella di cedere la delega ai Servizi segreti. E per farlo giovedì fonti di Italia Viva hanno preso a pretesto il tentato golpe a Capitol Hill per ritirare fuori il cosiddetto “caso Barr” su cui il premier dovrebbe “fare chiarezza”.

Renzi e i suoi fanno riferimento a due incontri a Roma – il 15 agosto e il 27 settembre 2019 – tra il ministro della Giustizia americano William Barr e i vertici dei servizi segreti italiani. Barr stava cercando prove per screditare il lavoro del procuratore Robert Mueller che per un anno aveva indagato su un possibile complotto ordito dal comitato elettorale di Donald Trump e dal Cremlino contro Hillary Clinton, all’origine del cosiddetto Russiagate. Barr era venuto in Italia per raccogliere informazioni su Josph Mifsud, il professore della Link Campus che aveva rivelato a George Papadopoulos – consigliere di Trump – l’esistenza di “migliaia di email imbarazzanti sulla Clinton”. Prima si erano incontrati Barr e il capo del Dis, Gennaro Vecchione, e poi, oltre a loro, il procuratore John Durhan e i direttori dell’Aise Luciano Carta e Mario Parente dell’Aisi.

Gli incontri erano avvenuti su autorizzazione di Conte che ha la delega ai servizi. Il 23 ottobre 2019 il premier aveva riferito al Copasir dicendo di non aver mai parlato con Barr né con Trump di questa faccenda e che il rifiuto avrebbe “recato un danno alla nostra intelligence, oltre a produrre una grave slealtà nei confronti di un alleato storico”. Inoltre, aveva dato il via libera “per chiarire che la nostra intelligence era estranea a questa vicenda”. Versione confermata da Vecchione. Non è mai stata trovata una prova del coinvolgimento dell’Italia in questa vicenda.

Le “valigie pronte” da un mese: tutti i penultimatum Iv

La storia politica italiana, si sa, è ricca di penultimatum. Dalle continue minacce di Bettino Craxi a Ciriaco De Mita ai tempi del pentapartito, a quelle di Gianfranco Fini contro il celodurismo di Umberto Bossi durante i governi Berlusconi, fino ai lunghi sei mesi con cui Clemente Mastella fece traballare il governo Prodi-2 annunciando – e puntualmente ritirando – le dimissioni (e ci volle un’inchiesta giudiziaria per lasciare a inizio 2008). Ma i “penultimatum” di Matteo Renzi ormai sono un genere letterario. Sia perché ogni volta sono legati a un tema diverso, sia perché durano così a lungo perché hanno un unico obiettivo: sfiancare e battere per sfinimento l’avversario, in questo caso il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. E così oggi compie un mese da quando il senatore di Scandicci ha minacciato di ritirare per la prima volta le due ministre di Iv, Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, e il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, aprendo ufficialmente la crisi di governo.

La prima provocazione era arrivata un mese fa, il 9 dicembre durante il discorso di Renzi in Senato sulla riforma del Mes in cui aveva attaccato a testa bassa il premier aprendo la verifica di governo: “A chi dei suoi collaboratori chiama le redazioni per dire che noi vogliamo qualche poltrona, le comunico che ce ne sono tre a sua disposizione in più” aveva attaccato Renzi tra gli applausi dei senatori di Italia Viva e di molti del centrodestra. Da allora, solo l’ex premier ha minacciato di far dimettere Bonetti e Bellanova altre 13 volte in altrettante interviste. Il 15 dicembre al Tg5: “Farà dimettere le sue ministre?”. Risposta: “Nel caso in cui non ci mettiamo d’accordo non mi faccio comprare per qualche poltrona”. Il 18 dicembre al Corriere: “Italia Viva saluta tutti e toglie il disturbo”. E così via fino alla presentazione del piano “Ciao” il 28 dicembre in cui minacciava di “ritirare le ministre lasciando il governo” fino all’intervista al Messaggero del 2 gennaio in cui si diceva pronto a “passare all’opposizione”. Ancora ieri a Stasera Italia: “Non è una questione di posti, noi le poltrone le lasciamo”. Il tutto condito dalla retorica delle ministre Bonetti e Bellanova che hanno ripetuto pubblicamente di essere “pronte a lasciare” e sempre “con la valigia in mano”. Non solo: Renzi ogni volta apriva un nuovo fronte contro il premier: prima, a inizio dicembre, la governance sul Recovery Fund, a Natale il Mes, poi i soldi stanziati per Sanità e Turismo nel piano Ue, a inizio anno la giustizia, le infrastrutture e i servizi segreti. Ma la scadenza dei penultimatum per far dimettere le ministre si aggiornava di giorno in giorno: dal 28 dicembre al 2, al 3, al 4, al 6, al 7 gennaio. Ma niente. Dopo un mese sono ancora al loro posto.

Inoltre nella comunicazione di Renzi c’è una frase che ricorre più di ogni altra, per provare a far ingoiare la crisi di governo ai cittadini: “Non ci importa delle poltrone ma delle idee” continua a ripetere l’ex premier. Tant’è che a inizio dicembre aveva dato l’ordine ai suoi parlamentari: “Chi parla di rimpasto lo faccio nero”. Peccato che nel frattempo, nelle trattative sotterranee, Renzi stia cercando di ottenere ogni carica possibile all’interno del governo se non per se stesso per Maria Elena Boschi o Ettore Rosato: il ministero della Difesa, gli Esteri, il Lavoro, le Infrastrutture fino alla delega ai Servizi segreti. Magari sperando di diventare nel 2022 Segretario generale della Nato. Alla faccia dei “contenuti”.

Dal Financial Times a El País, la stampa estera contro Matteo

“Il bel mezzo di una pandemia globale e di una brutale recessione potrebbe non sembrare il momento più opportuno per provare a far cadere il governo. A meno che tu non sia Matteo Renzi”. Nelle prime righe del pezzo di due giorni fa del Financial Times, quotidiano economico del Regno Unito tra i più letti e autorevoli del mondo, c’è tutta la percezione dei giornali esteri rispetto alla crisi di governo minacciata da Italia Viva nelle ultime settimane.

Una rassegna stampa delle principali testate straniere conferma infatti l’impressione del Financial Times: brigare per mandare a casa l’esecutivo non è affatto una buona idea. Nelle mosse dell’ex rottamatore, il quotidiano britannico vede solo interessi personali: “Conte rappresenta un ostacolo alle rinnovate ambizioni politiche di Renzi dopo la nascita del suo nuovo piccolo partito derivato dal Pd”.

In Francia a occuparsi di noi è Les Echos: “Nuovo duello tra Giuseppe Conte e un Matteo. Non più Matteo Salvini, che ha provocato la crisi politica nel 2019, ma Matteo Renzi”. A scrivere il pezzo è Olivier Tosseri: “Qualche errore Conte lo ha commesso – dice al Fatto il giornalista francese – ma allo stesso tempo Renzi lo conosciamo tutti e sappiamo che politico è. Questo non è il momento per scatenare una crisi”.

La sensazione di Tosseri è che, alla fine, quello di Italia Viva possa rivelarsi un bluff: “Credo che Renzi si sia mosso solo per ottenere qualcosa in più al tavolo del governo. Anche perché molti dei suoi sparirebbero dal Parlamento in caso di elezioni”. Impietoso è pure Politico.eu, dorso europeo dell’omonima testata americana: “Le lotte intestine nel mezzo di una pandemia probabilmente faranno infuriare gli italiani, proprio mentre sono alle prese con una seconda ondata che ha visto il Paese tornare il peggiore in Europa per numero di morti”. A dispetto della versione renziana – secondo cui a muovere la crisi sono i temi e non le poltrone –, Politico ne fa un discorso ben più pragmatico: “L’obiettivo a lungo termine di Renzi è di posizionarsi al centro, diventando l’ago della bilancia di qualsiasi governo, magari sbarazzandosi di Conte”.

Gavin Jones, corrispondente da Roma per Reuters, dà un’interpretazione simile: “Renzi dice che sta facendo politica, ma a me evoca l’espressione inglese playing politics, cioè ‘giocare con la politica’. Descrive chi agisce in modo cinico e spregiudicato per un vantaggio politico o personale, invece che per il bene comune”. Di certo c’è che far cadere Conte adesso sarebbe un rischio: “Una crisi in questa situazione mi sembra assurda. Trovo difficile giustificare la posizione di Renzi, anche perché spazia da una questione all’altra: Mes, servizi segreti, giustizia, Recovery”.

I toni non cambiano se si va in Germania. Handelsblatt, che si occupa soprattutto di economia e finanza, nell’edizione cartacea definisce Renzi “il disturbatore d’Italia”. Online non va molto meglio: “Renzi spielt mit dem feuer”, ovvero “Renzi gioca col fuoco”. Nel pezzo si sottolinea ancora come il contesto renda fuori luogo la crisi: “Con le sue minacce e i suoi ultimatum, il 45enne potrebbe portare il suo Paese alle urne in mezzo a una pandemia che continua a fare più di 300 vittime al giorno”. Stando in Germania, il quotidiano Die Welt insiste: “L’Italia ha bisogno di un nuovo governo nel bel mezzo della peggiore crisi degli ultimi decenni?”.

Per non dire di Daniel Verdù su El País, forse il più noto quotidiano spagnolo: “Gli scienziati avvertono sui rischi di una imminente terza ondata, ma la politica resta immersa nella telenovela scaturita dalla minaccia di Matteo Renzi di far cadere il governo”. In un altro articolo, Verdù parla anche di “crisi irresponsabile in un momento di estrema fragilità”. A Renzi e soci non resta allora che aggrapparsi ad Abc, lo stesso giornale spagnolo che qualche mese fa sventolò presunti documenti segreti per dimostrare un finanziamento milionario del governo venezuelano al M5S. Oggi, Abc la vede a modo suo: “Draghi, el mejor remedio italiano contra la crisis”. La traduzione, in questo caso, appare superflua.

Renzi, guerra dei nervi a Conte: ancora minacce, tregua lontana

Poteva essere il giorno del giudizio, la resa dei conti. Ma Giuseppe Conte e Matteo Renzi non affondano, giocano di nervi, sperando entrambi che l’avversario ceda per stanchezza. E così nel tavolo di maggioranza di ieri sera sul Recovery Plan Italia Viva accusa e provoca, invoca il Mes e il Ponte di Messina: ma non strappa. Mentre Conte rilancia proponendo un patto di legislatura e tavoli di maggioranza. Con tanto di documento scritto da stilare. Mosse diverse per la stessa guerra di posizione, che si trascinerà fino alla prossima settimana, quando il Consiglio dei ministri dovrà arrivare. Il tema di fondo resta che Renzi vuole le dimissioni dell’avvocato per il Conte ter, e il premier non si fida. Soprattutto, Pd, M5S e Leu si compattano, accusando Iv di voler “commissariare il Cdm”, rinviando ancora sul Recovery. Per prendere tempo.

Nell’attesa, Conte si dedica ai rapporti internazionali. Importante la telefonata con Angela Merkel, che manifesta il pieno sostegno alla Commissione sui vaccini (dopo le polemiche sul fatto che la Germania aveva acquistato 30 milioni di dosi extra da Biontech-Pfizer rispetto all’accordo europeo), ma si parla anche del Recovery Fund. Soprattutto, si informa della situazione politica italiana, chiedendo al premier come vanno le cose. In mattinata invece la presidente della commissione europea Ursula Von Der Leyen aveva lodato il lavoro dell’Italia sul Recovery plan: “È in corso un negoziato molto buono con l’Italia come con tutti gli altri governi, ma nello specifico ci sono buoni progressi”. Nel pomeriggio, infine, Conte incontra il presidente libico, Serraj. Sullo sfondo, gli equilibri nel Mediterraneo con la nuova amministrazione degli Stati Uniti.

Nell’incontro centrale in serata con i capidelegazione, Conte allarga subito il campo: “Dobbiamo definire delle priorità per il prosieguo della legislatura, il Recovery non è lo strumento per definire tutte le quesitoni”. Invoca “quel patto di legislatura” di cui ieri avevano parlato in simultanea Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti. Perché l’obiettivo è “spegnere” Renzi con un accordo complessivo. Così Conte propone “dei tavoli di maggioranza”, da cui ricavare “un documento”. Ma Iv ha già un altro copione in testa, attaccare. Così ecco il capogruppo in Senato, Davide Faraone: “Se non fosse stato per noi settimane fa avremmo votato un pessimo testo” rivendica. Ma è solo l’antipasto. “Dove sono il Mes, spiegateci perché non si può attivare. E dov’è il Ponte di Messina?” chiede. Picchia su quei temi che Conte non può accettare, perché spaccherebbero i 5Stelle. Si lamenta: “Non abbiamo ancora i dettagli sul piano”. Chiede “se c’è ancora la fondazione sulla cybersicurezza”. Soprattutto, alza il tiro: “Vogliamo sapere se c’è ancora un governo”. E azzanna Gualtieri: “Sono state tolte risorse che avevamo chiesto, dal ministro sono arrivate provocazioni”.

Conte, il volto tirato , invita il ministro e i 5Stelle a non rispondere a tono. Si aspettava l’assalto, e la sua linea è non abboccare a provocazioni. Gualtieri assicura che le schede di dettaglio sul piano arriveranno “prima del Cdm” e che usare i soldi del Recovery per il Ponte di Messina è tecnicamente impossibile. Poi però perde la calma, e accusa i renziani di essere “sommari” e di non aver letto il piano. E Maria Elena Boschi gli replica così: “Sul piano vi risponderemo in via scritta dopo aver letto tutto, così non rischierete di interpretare male”. Il capodelegazione del M5S, Alfonso Bonafede, ricorda: “Dobbiamo approvare in fretta il piano, la gente ci chiede questo”. In serata, Renzi va a Stasera Italia per ribadire che “il governo è fermo” e soprattutto che “è meglio stare all’opposizione che non far nulla”. Convoca tra domenica e lunedì i parlamentari Iv su Zoom. Nelle prossime 48 ore si capirà se arriva il ritiro delle ministre. E se ci sarà lo show down.

Trumpusconi

Vedendo Trump che gridava ai brogli e non riconosceva la vittoria di Biden, a B. è venuto in mente qualcuno, ma senza ricordare chi. E, nel dubbio, ha inviato un articolo al Giornale di famiglia per dire che certe cose non si fanno: “È la fine peggiore. Noi liberali siamo un’altra cosa. Il voto va rispettato. Trump ha minato la democrazia Usa” per “non aver riconosciuto la vittoria di Biden”. Figurarsi la delusione di Trump, che ha copiato tutto da lui. Il quale, in 27 anni di malavita politica, non ha mai riconosciuto una sola vittoria avversaria, gridando regolarmente ai brogli. Se i suoi fan più pittoreschi non hanno mai invaso il Parlamento, è solo perché li stipendia lui nei suoi giornali e tv. Invece il resto della stampa se la prende con Salvini&Meloni (che hanno tanti difetti, ma non hanno mai negato la legittimità delle vittorie altrui). Nel 1994 B. vince: quindi elezioni regolari. Ma un anno dopo perde le Amministrative, ergo non vale: “La gente si è sbagliata, erano giusti gli exit-poll che mi davano vincente” (26.4.95). Nel ’96 stravince l’Ulivo di Prodi e lui strilla allo scippo: “Nel ’96 ci hanno tolto 1 milione e 705 mila schede” (6.4.2000). Anzi “1 milione e 171 mila schede” (14.4.2001).

Nel 2001 rivince lui: nessun broglio. Ma a fine legislatura è sotto nei sondaggi: cambia la legge elettorale col Porcellum per ottenere almeno il pareggio e riattacca la guerra preventiva. “A sinistra ci sono dei professionisti dei brogli. Ci hanno sottratto 1 milione e 750 mila voti” (18.2.06). E invoca “gli osservatori dell’Onu per difenderci da questi signori esperti di brogli” (6.4.06). Il 10 aprile si vota: una notte di drammatica incertezza. Anziché presidiare il Viminale dove affluiscono i dati, il ministro forzista dell’Interno Beppe Pisanu fa la spola con Palazzo Grazioli, mentre Marco Minniti e altri Ds vanno e vengono dal Viminale per capire che accade. Su quella notte, si racconterà di tutto. Di certo c’è che Pisanu dice un no di troppo e rompe per sempre con B. L’11, finalmente, i risultati: l’Unione di Prodi ha vinto d’un soffio. B. chiama la piazza, poi la stampa: “Tanti brogli unidirezionali ai miei danni in tutta Italia. Ne ho parlato con Ciampi, cambieranno il risultato: schede non conformi, somme sbagliate, dati riportati male, schede trovate in giro evidentemente messe da parte. Ricontrollare i verbali di 60 mila sezioni”. Le stesse parole che 15 anni dopo userà Trump. E, come le sue, senza uno straccio di prova. Per un mese B. rimane asserragliato a Palazzo Chigi, senza sloggiare né riconoscere la sconfitta, per impedire a Ciampi di incaricare Prodi prima della scadenza del mandato e rinviare la nomina del nuovo premier al suo successore.

Eogni giorno spara cifre a caso: “1 milione di schede contestate”, “1 milione e 100 mila nulle”, “un calo del 60% nelle bianche” … Il Viminale parla di 43.028 schede contestate alla Camera e 39.822 al Senato. Cioè 82 mila schede in bilico, in grado di rovesciare la nuova maggioranza. Poi Pisanu ammette un piccolo “errore materiale”: i cervelloni del Viminale hanno sbadatamente “sommato le schede contestate alle nulle e alle bianche”. Le contestate alla Camera non erano 43 mila, ma 2.131; e al Senato non 39 mila, ma 3.135. La “svista” ha ventuplicato le contestazioni per Montecitorio e decuplicato quelle per Palazzo Madama. B. però continua imperterrito a non riconoscere la sconfitta. Nemmeno quando il 19 aprile la Cassazione mette fine alla querelle e divide le schede contestate fifty fifty tra Cdl e Unione e Prodi va al governo. B. grida all’“esecutivo illegittimo per le elezioni taroccate” e compra senatori per rovesciarlo. E per due anni invoca il “riconteggio delle schede” anche se è già stato fatto e gli ha dato torto (“ci han fregato almeno un voto per ognuno dei 60 mila seggi”).
Tira anche in ballo Pisanu: “Nel 2006 fu una notte di spogli e di brogli, i nostri tecnici ci hanno dato le prove. A mezzanotte il ministro dell’Interno venne da me e mi garantì la nostra vittoria con 100 mila voti in più alla Camera e 250 mila al Senato. Poi è successo qualcosa: l’appello di Fassino ai suoi rappresentanti nei seggi e la difficoltà nel ricevere i voti da Campania e Calabria, che dopo tre ore erano diversi, la Campania segnò la vittoria della sinistra” (10.4.07). “Ci hanno fregato un milione di voti” (30.8.07). Nel 2008 cade Prodi, si rivota e B. ricomincia: “Temiamo brogli ovunque: ci giunge notizia di 150.000 schede stampate in più in Argentina” (1.4.2008). Organizza “lezioni anti-brogli” ai suoi e distribuisce milioni di “normografi anti-brogli” agli elettori. Poi vince lui, dunque tutto regolare. Ma nel 2013 riecco la pippa del 2006. Stavolta Pisanu perde la pazienza: “Non è la prima volta che il presidente Berlusconi fornisce versioni fantasiose della notte elettorale del 2006. Ora basta. Nel 2006 nessuno delle migliaia di scrutatori e rappresentanti di lista berlusconiani sollevò un solo reclamo od obiezione in tutta Italia. Quello scrutinio fu assolutamente regolare, come poi confermò con voto unanime la giunta per le elezioni del Senato” (8.1.13). Stavolta per FI è una débâcle, ma il perchè è semplice: “I brogli della sinistra ci han portato via 1,6 milioni di voti” (17.12.13), per l’esattezza “23 voti a sezione” (3.5.15). E lo ripete a ogni pie’ sospinto nel 2016 e nel ‘17. Come si permette Trump di gridare ai brogli e di non riconoscere la vittoria dell’avversario? Non è liberale né democratico, suvvia.

 

Fiat e Peugeot, il punto debole (in comune) si “chiama” Cina

Per il nuovo player mondiale dell’auto, Stellantis, sono diverse le sfide sul tavolo. Dal rilancio di marchi come Fiat, che paga decenni di non-investimenti sul prodotto che l’hanno lasciata indietro soprattutto sull’elettrificazione, a nuovi piani per Alfa Romeo e Maserati, fino alla sovracapacità produttiva degli impianti Fca in Europa. Passando per le pesanti incognite sul futuro di DS e, soprattutto, di Lancia, che pare abbandonata al suo destino.

C’è poi l’eccessiva dipendenza di Psa dal mercato del vecchio continente, dove realizza la maggioranza dei suoi profitti: situazione inversa rispetto a Fca, che ha invece gran parte del suo forziere in America.

La debolezza è nondimeno comune in Cina, dove entrambe le aziende si attestano sulle 100.000 vetture all’anno: un’inezia, considerato un mercato che nel 2020 ha fatto registrare oltre 25 milioni di immatricolazioni. E dove, tra l’altro, si combatterà la guerra sull’auto elettrica.

Ultima, ma non meno importante, la questione occupazionale: le annunciate “sinergie” potrebbero portare a tagli dei posti di lavoro. La politica francese ha sempre ritenuto strategico il comparto automotive domestico, al punto che lo Stato possedeva quote di Psa e ne possiederà di Stellantis (il 6,2%, tramite Bpifrance) ed è in grado di difendere i lavoratori. Non altrettanto è accaduto finora in Italia, anche se forse il vento sta cambiando: il viceministro dell’Economia Misiani ha aperto a una partecipazione statale in Stellantis, a determinate condizioni. Se fosse vero, sarebbe una buona notizia.

Il mercato è da crisi: -27,9% di vendite

L’annus horribilis dell’auto italiana si chiude con numeri inferiori alle previsioni: 1.381.496 immatricolazioni, ovvero un paio di decine di migliaia in meno rispetto a quanto preventivato qualche mese fa, durante il primo lockdown, nel caso fossero arrivati gli incentivi statali. Poi effettivamente concessi, ma che tuttavia hanno solo permesso di limitare i danni.

La débâcle era attesa, dunque. Anche se leggere che al consuntivo finale manca il -27,9% delle vendite fa un certo effetto, dopo anni di difficile ma relativa stabilità. Ai numeri di fine anno hanno contribuito anche quelli di un dicembre non certo all’altezza, in cui le registrazioni non hanno superato quota 119.454, ovvero il 15% in meno rispetto all’ultimo mese del 2019.

A causa della pandemia sono rimaste invendute nei piazzali 535.000 vetture, la gran parte delle quali sono mancate all’appello durante i mesi in cui le attività sono rimaste chiuse per l’emergenza sanitaria. Secondo le stime del Centro Studi Promotor, il fatturato del comparto automotive ha perso 12,17 miliardi di euro, ma anche le casse dello Stato ci hanno rimesso parecchio, perché il gettito IVA è diminuito di quasi 10 miliardi.

Come si diceva, dagli ecoincentivi è arrivato un certo aiuto, sebbene si siano esauriti in fretta. Ma fortunatamente sono stati riconfermati per l’anno appena iniziato: 420 milioni di euro, di cui 120 destinati alle automobili con emissioni di anidride carbonica fino a 60 g/km (i modelli 100% elettrici e ibridi ricaricabili, ovvero le plug-in hybrid), 250 milioni per le vetture con emissioni di CO2 comprese tra 61 e 135 g/km (ibridi mild e full, ma anche diverse auto a benzina e diesel di ultima generazione) e 50 milioni per i veicoli commerciali leggeri (di cui dieci riservati ai van elettrici). “Si tratta di un investimento i cui benefici vanno a vantaggio dell’occupazione, dell’ambiente e di uno dei settori industriali che più contribuisce al Pil del Paese”, ha fatto sapere il presidente dell’Unrae (Unione nazionale rappresentanti autoveicoli esteri), Michele Crisci.