Fusione tra Fca e Psa: ora Jeep è strategica, Lancia è da pensione

“Insieme siamo più forti e pronti a investire. Prevediamo che Stellantis possa diventare il terzo costruttore mondiale in termini di fatturato”: è così che Carlos Tavares parla del colosso dell’auto nato dalla fusione di Fca e Psa. A dirigerne le operazioni sarà il manager portoghese, mentre John Elkann sarà presidente. La fusione verrà perfezionata il 16 gennaio, con la negoziazione delle azioni ordinarie in programma per lunedì 18 gennaio a Milano e Parigi.

Il nuovo gigante (400 mila dipendenti) punta, nel post pandemia, al traguardo delle 8 milioni di auto prodotte all’anno e a un fatturato da oltre 180 miliardi di euro. Target primario è massimizzare le sinergie su piattaforme costruttive, tecnologie e acquisti, con risparmi per almeno 5 miliardi di euro all’anno, di cui l’80% a partire dal 2024. Stellantis dovrà pure armonizzare i 12 marchi che la compongono: alcuni sono in salute e pronti a crescere ulteriormente, come Jeep e Peugeot. Specialmente il primo sarà la locomotiva del business: è forte in America e Europa e dotato di una gamma di suv – i veicoli più richiesti – di tutte le taglie. Prima del Covid, Jeep si era stabilizzata su volumi di vendita annui attorno al milione e mezzo di unità, con la prospettiva di potersi spingersi oltre i 2 milioni. Oggi produce in Usa, Messico, Italia, Brasile, Cina e India: a questi Paesi, dal 2022, si aggiungerà la Polonia, dove è in programma la fabbricazione di un modello entry-level compatto. Da definire, invece, il ruolo del brand Fiat, solido in Europa e America Latina (ma non negli Usa e assente in Cina), continenti in cui possiede molteplici stabilimenti. Certo è che il matrimonio coi francesi è non meno che indispensabile per la sopravvivenza della marca (e, più in generale, del gruppo Fca), dotata di una gamma di modelli ormai obsoleti, visti gli scarsi investimenti in architetture costruttive e tecnologie elettrificate. Esattamente la merce che porta in dote Psa.

Più cupo il destino di Dodge e Chrysler, brand legati al mercato Usa, poco green e trendy. A rischio pensionamento anche Lancia, che oggi può contare solo su Ypsilon. Urgono piani di rilancio per DS, Alfa Romeo e Maserati, che guardano al mercato premium e luxury ad alta redditività.

Cosa ne viene in tasca a Psa? Un biglietto per il mercato americano che potrebbe risolvere alla compagnia transalpina il problema di essere troppo Europa-centrica. Mentre Fca macina affari oltreoceano, con Jeep e Ram. La fusione, quindi, garantirebbe un buon bilanciamento geografico delle attività. Rimane, però, il problema della Cina, dove né Fca né Psa toccano palla, per il momento.

Sciascia, silenzi e fumo. A cent’anni dalla nascita

Era intenso di memoria, fulmineo negli intrecci, esatto nella scrittura. Leonardo Sciascia è stato un uomo di inchiostro e di silenzi. D’inchiostro perché la sua vita ha coinciso con la sua opera, magnificamente battuta a macchina con due dita e cento sigarette alla volta. E di silenzi, perché è lì che abitava durante i lunghi itinerari della mente – impegnato a illuminare indizi e a fabbricare trame – che fosse in lenta passeggiata, tra le ombre in giallo del suo paese, Racalmuto, o tra quelle più lunghe e nere della grande storia italiana: la miseria dei vinti, il potere e i suoi segreti, la chiesa e i suoi inganni, la mafia, il terrorismo, le tragedie nazionali di Aldo Moro (schierandosi dalla sua parte, contro il partito della fermezza) ed Enzo Tortora (credendo alla sua innocenza, contro l’imbroglio dei giudici, la gogna dei media), i nodi scorsoi della giustizia. Compresa la ricorrente polemica sui “Professionisti dell’antimafia”, articolo uscito sul Corriere della Sera, anno 1987, e che generò equivoci, nemici, strumentalizzazioni, perché conteneva una verità semplice, ma urticante, e cioè che tanti magistrati, tanti politici, “dediti all’eroismo che non costa nulla”, usavano lo schermo dell’antimafia per fare carriera. Scrisse nel suo ultimo libro A futura memoria: “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte, prima con coloro che non credevano o non volevano credere all’esistenza della mafia. E ora con coloro che non vedono altro che mafia”.

La sua opera-mondo ha radici in quella Sicilia remota dove nacque, anno 1921, provincia agricola di Agrigento, padre impiegato, madre casalinga, le magistrali a Caltanissetta, per pochi anni maestro elementare. Per tutti gli altri, compresi quelli passati in Sellerio a selezionare libri altrui per la sua collana “Memoria”, maestro dello sguardo.

Sciascia è stato il più solitario tra gli scrittori in pubblico. E insieme il più privato tra i saggisti. Corsaro più di Pasolini che pure ammirava: “Sono d’accordo con Pasolini, sempre, anche quando ha torto”.

Insofferente al tempo immobile della Sicilia, non amava Verga, il fatalista, ma Vitaliano Brancati, che considerava il suo maestro, insieme con il Manzoni dei Promessi Sposi, il suo romanzo di formazione, per la lingua, per i destini imprigionati dalla Storia, per il disperante finale in cui è don Abbondio a trionfare, per trasformismo e viltà.

Il suo agire era nella parola scritta. Nel ragionare sulla vita “che è fatta di tante delusioni, grandi e piccole”. Districandosi tra le maschere che vanno in scena ogni giorno nell’eterno teatro pirandelliano dell’assurdo.

La politica, per Sciascia era “la naturale conseguenza della scrittura”. E anche in quella sua solitaria navigazione civile, Sciascia fu eccentrico: indipendente nelle file del Partito comunista, eletto consigliere a Palermo, dimissionario dopo tre anni per incompatibilità al compromesso storico e alla disciplina di partito. Libero e libertario anche tra le file dei radicali di Pannella, che frequentò per una intera legislatura, 1979-83, prima di ritirarsi, con disincanto, anche da lì, dal Parlamento dei pupi, degli “impiegati d’ordine”, delle “anime morte che fanno numero, senza mai un pensiero proprio”, dei retori, degli imbecilli.

Venendo dai dialoghi di Diderot e dalla scienza di Tocqueville, pensava che lo Stato si incarnasse nella Costituzione. E che la Costituzione fosse stata imprigionata dalla partitocrazia che aveva inghiottito i tre separati poteri della buona democrazia. Scrisse: “I partiti fanno le leggi, le fanno eseguire, le fanno giudicare”. E sono gli alfabeti della letteratura la luce capace di svelare gli inganni perpetui del potere. Perché è sempre il potere, declinato nella sua Sicilia come metafora e come monito, il vero protagonista della sua meticolosa radiografia, narrata in cento racconti, articoli, testi teatrali, saggi. Il potere della chiesa, a partire dai suoi primi libri: Le parrocchie di Regalpetra, Morte dell’inquisitore. Dei partiti politici, come in Todo modo. Della macchina giudiziaria, come nel Contesto e in Porte aperte. Della ragione di Stato, come ne L’affaire Moro. E naturalmente il potere della mafia che ne Il giorno della civetta raccontò per primo, anno 1961, nel modo più memorabile: “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia – dice nel finale uno dei personaggi –. Gli scienziati dicono che la linea della palma… viene su verso il nord di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su per l’Italia. Ed è già oltre Roma”.

Ebbe una infinità di lettori. Qualche amico – Bufalino prima di tutti –, molti nemici. Scrisse: “Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di avere scherzato su Stalin; i clericali di essere senza un Dio”.

Sulla lastra bianca del cimitero dove è sepolto, anno 1989, scelse un congedo speciale: “Ci ricorderemo di questo pianeta”. Vale specialmente se letto al contrario, perché Sciascia fu uomo d’altro secolo, ma anche del prossimo venturo.

“Chi in Calabria sa, ora parli: datemi il corpo di mia madre”

Ci sono storie che sembrano richiamarsi l’una con l’altra. Parlano di terra. Di sangue. Di famiglia. Raccontano di luoghi sconosciuti, almeno ai più, e impastati di ’ndrangheta. Parola derivata, ricordava Corrado Stajano, da andragathos: in grecanico, l’uomo coraggioso, valoroso. L’onorata società della Calabria. Di valoroso, oggi, in Calabria non ci sono solo loro. Ci sono giovani – molte donne – come Federica, 21 anni, figlia di Maria Chindamo scomparsa cinque anni fa. Maria non è stata mai trovata. L’ultimo segno della sua presenza è il sangue nella sua auto bianca, lasciata con lo sportello aperto e il motore acceso, nel mezzo dei terreni di famiglia, il 6 maggio di cinque anni fa. A Limbadi, Vibo Valentia. Poi più niente. Né una telefonata per chiedere un eventuale riscatto, né un corpo su cui piangere. Come una persona che non merita di essere ricordata. Come non fosse proprio mai esistita.

Federica, cosa ricordi di quel 6 maggio?

Era iniziato come un giorno qualunque. Non andai a scuola quella mattina, avevo avuto la febbre. Vedo mia mamma sulla porta di casa: mi manda un bacio, io torno a dormire. Alle 7.20 chiama nonna Pina. ‘Sai dov’è tua madre?’ ‘’No, perché?’, chiesi io. Dopo chiamò zio Vincenzo, il fratello di mia madre. Non capivo. Poi arrivarono i carabinieri. Avevo 15 anni. ‘Hanno trovato la macchina di mamma, il motore acceso, c’è sangue. Mamma non c’è’, mi disse mio zio. Non sapevo come sentirmi. Non ci credevo.

Avevi notato qualcosa di strano nei giorni prima?

Era tutto tranquillo. Niente che potesse farci pensare a una cosa del genere. Io quel giorno ero sicura – mi proteggevo, penso – che entro la sera tutto si sarebbe risolto. Non è stato così.

Tua madre è scomparsa nel maggio 2016. A maggio di un anno prima tuo padre si tolse la vita.

Dopo la separazione, cadde in depressione…

Le indagini all’inizio si sono concentrate sull’ipotesi di una vendetta di famiglia. Tua madre, dopo la morte di tuo padre, prese in mano i terreni di famiglia, lasciando il suo lavoro da commercialista. Le rivelazioni del pentito Emanuele Mancuso aprono però nuove piste.

Aspetto delle risposte, come tutta la mia famiglia.

In questi anni non hai mai perso fiducia nella giustizia?

Non l’ho persa, ma dopo cinque anni inizia a vacillare. Sono lunghi cinque anni di indagini. Sono stanca di aspettare.

Che impressione ti fa il pensiero – stando a quanto racconta Mancuso – che tua madre sia stata fatta sparire, sia stata sequestrata e uccisa?

‘Vittima di lupara rosa’… Non riesco a pensarlo. Non si può arrivare a descrivere un atto del genere. Non siamo nel Medioevo. Tanti mi chiedono: ‘Secondo te, perché?’. Ma nemmeno gli animali si comportano così. Non c’è un perché.

Hai deciso di studiare Giurisprudenza.

Sì, sono al secondo anno. Con mamma avevamo progettato tante cose… Mi aveva iscritto al concorso per entrare alla Nunziatella, la scuola militare. L’esame – caso della vita – venne fissato il 9 maggio. Mamma era scomparsa da tre giorni. Pensai di non presentarmi… Alla fine andai. L’esame non l’ho passato. Ma ci sono andata. Oggi spero di diventare un magistrato. E di tornare in Calabria.

Nonostante tutto sei molto legata alla tua terra.

Sono cresciuta a Rosarno, un posto non molto facile. Ma i miei genitori ci hanno dato quella ‘tranquillità’ che serve per vivere in un posto così. Non potevo andare ai compleanni di certi miei compagni, da piccola… col tempo ho capito perché. I miei genitori ci hanno insegnato a essere liberi in una terra che ancora sta lavorando sulla libertà.

Parli spesso di tua madre come di una donna libera.

Lei nella vita ha fatto scelte libere. Non si è mai preoccupata di quello che pensava la gente, del pari bruttu, come si dice giù. È stata sempre molto consapevole, e indipendente. E una donna così in una terra così può spaventare, può dare fastidio.

Se le indagini dovessero arrivare ad accertare il ruolo della ’ndrangheta…

Mi fa rabbia. La mia famiglia era una famiglia normale, lontana da tutti questi ambienti. Certe cose finché non le vivi non pensi ti possano riguardare… Ma in alcuni territori proprio il fatto di pensare che la mafia sia distante da te è la cosa peggiore. È come dire: non prendo posizione. E invece non si può stare nel mezzo. O si sta da una parte o dall’altra.

La Calabria è una terra senza speranza, che non crede nel proprio futuro?

Ci deve essere una rinascita. E ci sarà. Per questo è importante parlare di ’ndrangheta nelle scuole. Non ci è più consentito continuare così. E voglio fare un appello a chi ha commesso il crimine nei confronti di mia madre. Mia madre era una sorella, una figlia, una madre. Loro non hanno una figlia, una sorella, una mamma? Non hanno pensato a loro, mentre hanno fatto a pezzi la mia di famiglia? Chiedo a queste persone di mettersi una mano sulla coscienza a di aiutare a trovare la verità. Fatevi avanti.

Potrebbe essere un giovane come te, Emanuele Mancuso, figlio di un boss, a dare la svolta all’inchiesta. Passa anche da qui la rinascita di cui parli?

Sperare in noi giovani è l’unico modo per guardare avanti, per cercare di cambiare le cose. Se riesco – parlando, raccontando – a convincere o a far riflettere anche un solo ragazzo, ho vinto io.

Cosa ti hanno lasciato i tuoi genitori?

Il non scendere a compromessi. E l’amore, prima di tutto. In questi anni mi sono mancate le cose semplici. I Natali. I compleanni. Festeggiare la maturità…

E di tua madre cosa ti manca di più?

Semplicemente lei.

E se non si ritrovasse nemmeno più il suo corpo?

Sarebbe almeno una certezza, anche se terribile.

L’altro Stato chiamato “Sanpa”

Un fantasma si aggira per l’Italia del lockdown: il fantasma molto in carne e in molte ossa di Vincenzo Muccioli, protagonista della docuserie SanPa firmata da Gianluca Neri e prodotta da Netflix. È dai tempi di Romanzo Criminale (2008), pietra fondante delle serie Sky, che non si assisteva a un racconto televisivo capace di calamitare l’immaginario e l’inconscio collettivo; un successo tale che le ragioni del prodotto non bastano a spiegare. Eppure ci sono; SanPa è una serie contemporanea innanzitutto dal punto di vista formale, per la sua capacità di trasformare i frammenti di realtà in narrazione – tendenza presente anche in letteratura –, di tessere il materiale di repertorio e le interviste recenti in un unico ordito, un contrappunto passato-presente tecnicamente impossibile fino a oggi (per farlo, bisogna avere un passato a disposizione, negli archivi).

La scelta del tema è altrettanto conseguente; se con Romanzo Criminale Sky intercettava l’onda lunga del fascino del male, Netflix preferisce le guardie ai ladri, e racconta l’Italia attraverso una storia che più italiana non si può. Vincenzo Muccioli, ovvero l’uomo forte, l’arcipadre, l’arcipadrone e l’arciprete che salva una generazione bruciata dall’eroina facendole amare quelle catene che dieci anni prima aveva giurato di spezzare. Un uomo che può allargarsi grazie all’assenza dello Stato, alle voragini del Servizio sanitario nazionale.

Si muove fuori dalle regole Muccioli, ma diventa un eroe del riflusso, di una classe politica neo proibizionista che riscrive le leggi sulla detenzione degli stupefacenti e si reca a omaggiarlo nel suo staterello extraterritoriale. Trent’anni dopo, quando ci proverà Mimmo Lucano con gli extracomunitari, scatteranno all’istante le manette. SanPa è uno scheletro che esce dall’armadio, si mette addosso un lenzuolo e passeggia per l’Italia del 2021 – l’Italia dei decreti di Salvini e dei tele-machi di Recalcati – come se fosse a casa sua.

Pci, il doppiofondo della storia

Nella nostra storia degli ultimi cento anni il Pci occupa una posizione probabilmente migliore di quella che lo stesso Pci si meriti. A esaltarne il ruolo sono infatti i limiti di un socialismo riformista eccessivamente schiacciato su un esasperato pragmatismo, incapace di suscitare passioni, lontano dalle pulsioni profonde che hanno segnato la politica del 900.

La capacità dei comunisti italiani di coinvolgere anche emotivamente le masse popolari li ha resi invece protagonisti della più significativa esperienza di alfabetizzazione politica di massa vissuta. Tutto questo è vero, ma non scalfisce il paradosso al quale è inchiodata la storia del Pci: ovunque è andato al potere, il comunismo ha prodotto regimi dispotici, in molti casi spietati; in Italia è stato, al contrario, un potente baluardo in difesa della libertà e della democrazia. È vero manca la controprova; mai potremmo sapere cosa sarebbe successo se i comunisti avessero vinto, nel 1948 ad esempio. Escludendo le soluzioni sanguinarie alla Pol Pot, avremmo avuto anche noi i gulag e il Kgb? È un interrogativo destinato a restare senza risposta anche perché le vicende italiane ci raccontano tutta un’altra storia. Il partito fu fondato a Livorno, il 21 gennaio 1921. Poco più di un anno dopo, il fascismo andò al potere e l’Italia visse sulla sua pelle l’incubo del totalitarismo novecentesco. Nel 1926, fu istituito il Tribunale speciale, la più potente macchina repressiva mai partorita dalle istituzioni italiane. Tra il 1926 e il 1943 (quando fu soppresso) furono deferiti al Tribunale Speciale 15.806 antifascisti (891 donne). Quasi altrettanti, 12.330, furono quelli inviati al confino (145 donne), mentre 160.000 furono “ammoniti” o sottoposti a “vigilanza speciale”. Quelli effettivamente processati furono 5.620 (124 donne), di cui 4.596 condannati. Di questi, tre quarti erano comunisti.

Questo dato è il primo che ci può aiutare a sciogliere il paradosso enunciato all’inizio.

Di fatto, contro la dittatura furono soprattutto i comunisti a battersi per la libertà e la democrazia, tenendo in piedi l’esiguo mondo della cospirazione antifascista, innervandolo con la loro tenacia e la loro fermezza morale.

Quando arrivò la Resistenza, furono ancora i comunisti la principale forza politica impegnata nella lotta armata contro i fascisti e i nazisti. Complessivamente, i partigiani combattenti riconosciuti in quanto tali alla fine della guerra furono 232.481; il 50% comunisti, il 20% giellisti, il resto divisi tra autonomi, socialisti, democristiani. Dalla Resistenza nacque la nostra Repubblica e scaturì la nostra Costituzione, senz’altro l’esperimento di democrazia più avanzato che l’Italia abbia conosciuto nei 160 anni della sua storia unitaria.

Una Costituzione che per essere attuata ebbe però bisogno di un lotta politica altrettanto aspra – ebbe anche i suoi morti – di quella armata condotta dai partigiani. E, negli anni 50, i comunisti si batterono contro quello che fu chiamato il “clericofascismo”, il tentativo della Chiesa di colonizzare lo spazio pubblico della neonata Repubblica, proponendo una concezione reazionaria della partecipazione politica unita a un esasperato dogmatismo religioso. Dopo i fatti del luglio ’60 e il rilancio dell’antifascismo, nell’Italia attraversata dalla radicalità del conflitto sociale fu ancora il Pci a mediare tra le istanze rivoluzionarie dei movimenti e le istituzioni, contribuendo a riassorbire i fermenti che agitavano il mondo giovanile e a consentire alla nostra democrazia di attraversare indenne gli anni della strategia della tensione e del terrorismo.

Fino agli anni 70 del Novecento, insomma, il Pci poteva legittimamente ostentare una serie di medaglie, ognuna delle quali aveva però il suo rovescio.

Sul modello cospirativo proposto nella lotta contro il fascismo di Mussolini, ad esempio, gravava la plumbea cappa dello stalinismo: il settarismo, il “sospetto” assunto come norma anche nei rapporti umani e affettivi, i dissensi interni drammatizzati come sempre avviene nei gruppi fortemente centralizzati e con esasperati vincoli disciplinari, seminarono guasti che sarebbero durati nel tempo. Nel corso della Resistenza molte di queste caratteristiche si attenuarono ma restò intatta l’orgogliosa rivendicazione della propria diversità insieme a una spregiudicatezza tattica che legittimava ogni “svolta”, anche la più brusca. Nel segno di questa spregiudicatezza e degli ammiccamenti tattici alla Dc, anche nella lotta contro il clericofascismo riviste laiche come Il Ponte o Il Mondo si trovarono spesso isolate a sostenere battaglie come quelle per il controllo delle nascite, il divorzio, il riconoscimento dei figli illegittimi, le rivendicazioni degli omosessuali, il rifiuto di una morale sessuale grettamente puritana, con il Pci che ai diritti civili negava l’attenzione prestata ai diritti sociali.

Guardando agli aspetti positivi e negativi di una lunga storia si può dire che, fino alla fine degli anni 70, i rapporti del Pci con la sinistra italiana erano definiti da una sorta di oscillazione del pendolo. Nella fase acuta del conflitto sociale il partito, per legittimare la propria funzione, doveva normalizzarne la carica dirompente sfruttandone però la spinta per rafforzare il proprio ruolo istituzionale; nelle pause del conflitto, ma soprattutto dopo le sconfitte più rovinose, il suo compito era invece di sostituirsi ai movimenti, di surrogarne la mancanza di slancio, indicando una linea di continuità e di resistenza che permettesse di non smarrire il filo della speranza e della militanza. Anche durante il “lungo 68” c’era la sensazione diffusa che ci si potesse consentire qualsiasi “estremismo” perché poi, alla fine, comunque – anche dopo scontri furibondi – ci sarebbe stata la “mediazione” del Pci (e del sindacato per quanto riguarda le fabbriche) che dal tumulto ribollente della “contestazione” avrebbe poi estrapolato delle istanze in qualche modo compatibili con le regole del sistema politico.

Questo è stato il Pci e questo smise di essere quando – sotto la duplice spinta della “solidarietà nazionale” e della lotta al terrorismo – il partito si fece compiutamente “Stato”, ritirando la passerella gettata tra le istituzioni e i movimenti, rinchiudendosi nel “palazzo” e candidandosi a essere travolto, insieme agli altri, dalla grande slavina che sancì la fine della Prima Repubblica. Nel 1981, Enrico Berlinguer, nella sua intervista a Eugenio Scalfari sulla “questione morale” pronunciava un giudizio definitivo: “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela… gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi… hanno occupato lo Stato… gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università…”. Era esattamente così. E questo valeva anche per il Pci. Ben prima del crollo del Muro di Berlino.

 

Addio a Turani, penna frizzante che inventò la “razza padrona”

Il suo nome resterà per sempre legato a Razza Padrona: il libro – ma anche modo di dire – escogitato nel 1974 assieme a Eugenio Scalfari per raccontare la “borghesia di Stato” simboleggiata da Eugenio Cefis e dalla Montedison. In un intreccio di interessi politici, di lobby e di logge: a lungo non detti e, sino ad allora, indicibili. Forse resterà per sempre il mistero su chi possa vantarsi, tra i due, di aver inventato quel titolo strepitoso. Giuseppe Turani, detto Peppino, il fuoriclasse di un giornalismo economico non barboso e non tecnico, di una scrittura avvincente che divulgava capitalismo e industria come Gianni Brera faceva per il calcio o Natalia Aspesi fa per il cinema, se n’è andato ieri a quasi 80 anni dopo un intervento in ospedale.

Con Scalfari, aveva vissuto le avventure dell’Espresso prima e di Repubblica poi, ai tempi in cui quei giornali erano solo del loro direttore e del principe Carlo Caracciolo: certo non lontani da interessi e da protagonisti dell’economia (e soprattutto della Borsa), ma capaci di declinare un giornalismo spumeggiante e pronto a contraddire, se era giusto, le certezze e le posizioni del giorno prima.

Turani era stato davvero l’interprete, su quel fronte, della modernità di Repubblica: una cronaca economica non faticosa e capace di raccontare argomenti aridi. Poco “bocconiano”, come giornalista, nonostante la laurea conseguita nell’ateneo milanese. Una brillantezza culminata nel progetto di Affari&Finanza, la “madre di tutti gli inserti economici”, e poi nell’esperienza editoriale del suo Uomini&Business. Con, in mezzo, oltre 30 libri su personaggi come Agnelli, De Benedetti, Gardini. E incursioni, fughe e abbandoni – alla Rai, al Corriere della Sera, all’Europeo – ma poi altrettanti rientri a Repubblica . Un legame mai sciolto, neanche nella lontananza dell’ultimo periodo, costruita com’era sull’amicizia con Scalfari.

Sala & Calenda, due “rivoluzionari” in cachemire rosé

Abbiamo aspettato tanto, ma poi, quando si è deciso, è partito col botto: “Mi ricandido per fare una vera rivoluzione”: così dice Giuseppe Sala. La “rivoluzione” la vuole fare in compagnia di un altro noto bombarolo, Carlo Calenda, autoproposto sindaco della Capitale. “È certamente un candidato credibile per Roma”, ha dichiarato Sala. Me li vedo, i due “rivoluzionari”, a chiacchierare in cachemirino pastello davanti al caminetto con i potenti delle due città. “Ci vogliono persone competenti al governo, per gestire la crisi sanitaria”, disse Sala, stupito che non avessero chiamato lui, competente per definizione, così competente da aver detto che #milanononsiferma, così competente da averla poi fermata, Milano, per non aver saputo spargere un po’ di sale, Sala: sono bastati dieci centimetri di neve a fine dicembre.

“Rivoluzione!”: ormai si è messo a capo del soviet di Brera, Sala, e sta preparando “la discontinuità e il cambiamento”: “La discontinuità è la consapevolezza che non si possa solo subire l’impatto della pandemia. Il cambiamento è inteso come i grandi temi che innervano le metropoli, dall’equità sociale all’ambiente. Con il Covid sento nella gente un’ambizione diversa nella gestione della propria vita in città. Le città stanno pagando salato il prezzo della pandemia, ma i milanesi vogliono vivere a Milano, solo in maniera diversa. In particolare ho in mente la questione ambientale e la mobilità. E quindi due macrorivoluzioni. La prima sul trasporto pubblico urbano ed extra urbano puntando su mezzi meno inquinanti. La seconda è muoversi meno, ovvero tutti i servizi nel raggio di 15 minuti a piedi o in bici”. Vedremo. Intanto Milano, per due anni prima nella classifica della vivibilità in Italia, è precipitata al dodicesimo posto (per il Sole 24 Ore) o al quarantacinquesimo (per Italia Oggi). E le parole altisonanti (“rivoluzione!”) coprono uno smarrimento e una mancanza di prospettive disarmanti. A Milano nell’ ultimo anno i ricchi (pochi) sono diventati più ricchi e i poveri (tanti) sono diventati più poveri.

L’unica rivoluzione possibile è bloccare questa tendenza e cercare di invertirla. Provare a ridurre le disuguaglianze. Per quello che può fare un amministratore di città, si tratta – come va ripetendo il direttore di Arcipelago Milano, Luca Beltrami Gadola – di difendere i beni comuni che i cittadini affidano al loro sindaco affinché li tuteli, li accresca e li difenda. Sala in questi anni ha fatto il contrario: li ha privatizzati, venduti, a volte svenduti. I beni comuni di cui Milano è ricca sono il suo territorio e il suo ambiente. Ci sono almeno 3 milioni di metri quadrati di territorio che nei prossimi anni devono trovare un loro nuovo destino: i sette scali ferroviari, l’area dello stadio di San Siro e dei contigui spazi dell’ippica, la Piazza d’Armi, il quartiere Rubattino, oltre all’area ex Expo che Sala conosce bene. Sì: si potrebbe davvero fare una “rivoluzione”, mettendo queste aree a disposizione dei cittadini, con più parchi e più servizi; Milano potrebbe diventare la metropoli più verde d’Europa e la sua aria potrebbe diventare meno avvelenata. La “rivoluzione” di Sala è invece un esproprio: i milanesi sono espropriati dei loro beni comuni, affidati a Fs (gli scali), a Milan e Inter (San Siro), ai grandi operatori immobiliari, Coima, Lendlease, Hines, in alleanza con banche e assicurazioni (Axa). Altro che “rivoluzione”: Sala ha lavorato – e promette di lavorare in futuro – per rendere Milano più “attrattiva”: per attirare cioè capitali, specie esteri, spesso anonimi e chissà se puliti o sporchi. Una città in vendita. Ai milanesi, le briciole: bei luoghi dove andare a vedere come vivono i ricchi, e periferie che restano periferie per tornare a dormire dopo il lavoro, per chi ce l’ha.

 

Lettera da un bosco depresso: la Regione Lazio non mi tutela

Caro Direttore, le scrivo a nome di una faggeta depressa, che non è un bosco malinconico, ma una rara foresta sopravvissuta a quote più basse dopo l’ultima glaciazione.

Noi alberi abbiamo pensato di rivolgerci a lei dopo aver appreso una notizia terribile e del tutto inattesa: la Regione Lazio non ci tutela più, o peggio, fa finta di farlo. Ha infatti approvato una modifica alla legge che ci dichiarava intoccabili, stabilendo che adesso le faggete depresse vanno protette non più sotto gli 800 metri di quota, ma sotto i 300, dove si trovano soltanto piccoli e miracolosi relitti di faggeta. Capito la mossa? Si protegge una foresta dove non c’è, per lasciarla di fatto indifesa dove realmente dimora. Ah, se soltanto potessimo spezzar le radici e marciare verso il palazzo della Regione per chiedere conto di tanta vergogna! Ma non avevano i boschi nel cuore, questi politici? Annunciano verdi progetti, feste dell’albero… e poi la festa la vogliono fare a noi, alle poche foreste superstiti?

È un periodo tremendo per gli alberi italiani. Ogni vent’anni ci uccidono, perfino nelle aree protette. Montagne spogliate come campi di grano, una folla di schiavi che non sarà mai libera di diventare foresta. Perché una vera foresta è il traguardo di almeno un secolo di rispetto. Solo allora può divenire un universo stabile, a economia circolare. L’albero muore, ma la foresta è eterna, e non ha bisogno di alcuna manutenzione. Un gigante restituisce alla terra la sua energia, mentre un giovane sale a richiudere il tetto. È un mondo senza grandi squilibri che non siano la furia di un incendio o dell’uomo. La città perfetta, abitata da migliaia di piante e animali diversi. Una dispensa di biodiversità, parola che si contorce disgustata nella bocca dei “verdi per caso”, che confondono la foresta matura con un po’ d’alberi sparsi fra una scuola e il giardino comunale. Alcuni illusi affermano che se una persona pianta un albero crea un giardino, se mille persone lo fanno creano una foresta. Ma un acquario non è il mare. E in Italia, fra l’altro, di piantare nuovi alberi non ce n’è alcun bisogno, a meno che non si tratti di arredo urbano.

Da quando gli uomini hanno iniziato ad abbandonare le montagne, i boschi stanno recuperando terreno da soli; ci mettono un po’, ma alla fine arrivano, e senza l’aiuto di nessuno. Ma se a questi boschi non si dà il tempo di trasformarsi in foresta, le loro chiome non cattureranno l’anidride carbonica che potrebbero togliere, non produrranno l’ossigeno che potrebbero dare. E nemmeno la bellezza. Né saranno in grado di addomesticare un temporale in un tenue gocciolio, che dia all’acqua il tempo di intrufolarsi nelle vene delle montagne anziché scendere a valle come un treno impazzito.

Chi governa lo sa, ma lascia fare ugualmente, perché in caso di disastro ha già pronto il nuovo alibi globale: è colpa dei cambiamenti climatici, del cielo cattivo che lancia bombe di pioggia senza preavviso. Ma proprio per questo le chiome mature sono oggi ancor più necessarie! Aiutiamoci. Almeno nelle aree protette, sia concessa a ogni albero una divina vecchiaia. È giunto il tempo di nuove religioni e di antiche foreste. Saranno il più bel monumento che ogni Paese potrà possedere. Santuari infiniti, silenzi per diventare migliori.

*Insegnante, documentarista e autore di libri di letteratura naturalistica

 

I metodi sibillini e fascisti di Trump: calcoli e follia

La megalomania, cioè il culto della propria forza – sindrome da cui son posseduti tutti i leader populisti – contraddistingue anche il comunicato con cui Donald Trump si piega a promettere una “transizione ordinata verso il 20 gennaio”, dopo il fallimento della spallata golpista dell’Epifania. Solenne, tragico e minaccioso al tempo stesso, così egli manda a dire dal bunker della Casa Bianca: “È la fine del più grande mandato presidenziale della storia, ma è solo l’inizio della nostra lotta per fare l’America di nuovo grande”.

C’è del metodo in questa follia. Chi non ha paura delle parole, vi riconoscerà una moderna reincarnazione della malapianta fascista. Dalla benevolenza rivelata nel 2017 al raduno suprematista di Charlottesville, fino all’esaltazione dei cittadini che la scorsa estate impugnavano le armi contro il movimento “Black lives matter”, Trump ha innescato – pur di restare al potere – il detonatore di una nuova guerra civile americana. Il comizio incendiario da lui tenuto mercoledì di fronte ai manifestanti che si apprestavano a invadere il Campidoglio era l’ultimo atto di rivendicazione di tale strategia: l’estremo tentativo, per quanto disperato, di costringere l’establishment repubblicano, gli apparati di sicurezza e le forze armate a sottomettersi alla sua volontà, come per convenienza e viltà già fecero nel corso degli ultimi 4 anni. Intuiva il loro tremebondo distacco. Voleva scongiurare che Mike Pence si trasformasse nel suo Dino Grandi, e comunque voleva sottrarsi all’umiliazione patita da Mussolini abbandonato dai suoi nella lunga notte del Gran Consiglio. Il golpismo, così come il culto della forza, il ricorso alla manovalanza squadristica contro il tradimento dello stato maggiore, sono elementi connaturati alla tradizione della destra nazionalista illiberale. Questa è la ragione per cui Trump ha continuato a definire “patrioti” gli energumeni che bivaccavano nella sede della democrazia rappresentativo di cui lui avrebbe dovuto essere il primo custode e che invece maledice come grande inganno.

Appare evidente dall’esiguità del servizio d’ordine schierato a difesa del Campidoglio, nonché da numerosi filmati, che il tentativo insurrezionale del 6 gennaio a Washington ha goduto di scandalose connivenze negli apparati di sicurezza. Anche questo è un fenomeno tipico dei movimenti reazionari che fomentano il disordine per presentarsi come pugno di ferro necessario. Resta da vedere se il trumpismo nei prossimi anni troverà risorse mediatiche e finanziarie sufficienti a proliferare come contropotere eversivo in una società lacerata dal Covid e dalla crisi economica, assecondando i propositi del megalomane che si dichiara in disaccordo col risultato elettorale. Oggi ciò sembra improbabile. Anche i social network finalmente sembrano intenzionati a non fungere più da propagatori delle sue menzogne e del suo veleno. Ma la fragilità rivelata dalla democrazia americana, e la fatica con cui ha generato anticorpi per reagire alle smanie del megalomane, rappresentano un segnale preoccupante per tutto il mondo occidentale: il sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri e sulle garanzie liberali non ha solo nemici esterni ma comincia a andare stretto a troppi potentati che si coagulano al suo interno.

Oggi che Trump appare perdente, ne prendono con rammarico le distanze vari leader che avevano tratto vantaggio dal suo irresponsabile dilettantismo: dall’israeliano Netanyahu al britannico Johnson al brasiliano Bolsonaro, fino al saudita re Salman. La geopolitica li costringerà a riposizionarsi. Ma è l’intera galassia mondiale delle destre sovraniste, di matrice illiberale, che all’improvviso barcolla nel disorientamento. Esse si riconoscevano in pieno nel culto della forza di Trump, nella sua retorica plebea, nella sua spasmodica caccia al nemico interno, nel suo nazionalismo aggressivo. Già avevano opportunisticamente taciuto di fronte alle farneticanti contestazioni del risultato elettorale del 3 novembre scorso. Ora, per conservare credibilità democratica nei loro Paesi, dovrebbero prendere nettamente le distanze dal presidente uscente che promuove una rivolta pur di sovvertire il responso delle urne. Ma, guarda caso, non lo hanno ancora fatto.

Esemplare in tal senso è l’imbarazzo evidenziato nella drammatica nottata del 6 gennaio dai trumpiani di casa nostra: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Li abbiamo visti balbettare poche generiche parole di fronte al comportamento di Trump e all’assalto del Campidoglio da lui propiziato. Salvini è riuscito a dire solo che “la violenza non è mai la soluzione”. La Meloni, con ipocrita doppiezza, ha finto di individuare in Trump colui che invitava alla cessazione delle violenze, come se fossero avvenute contro la sua volontà: una doppiezza tipica della tradizione fascista, mai rinnegata.

 

Scorie nucleari. Perché si trovano quasi tutti al Sud i siti di smaltimento?

Gentile redazione, guardando la mappa pubblicata sul Fatto, si nota che la maggior parte dei 67 siti idonei per il deposito nucleare sono ubicati nella zona Sud e insulare d’Italia. Cioè nelle zone più povere del Paese e, a eccezione del Piemonte, vengono salvate tutte le zone del Nord-Est (neanche un sito), oltre all’Emilia-Romagna e a tutta la zona adriatica. In Puglia già vengono depositati altri rifiuti provenienti dal Nord: qui a Taranto vediamo transitare sulla tangenziale grossi camion coperti da grossi teloni che non permettono di vedere di cosa ci si “omaggia”. Come al solito, il Sud e le Isole vengono scelti sempre per essere zone da deposito di rifiuti di varia natura e di altri guai…

Vincenzo Frisenda

Gentile Vincenzo, i rifiuti nucleari di cui si parla sono la pesante eredità dell’esperienza chiusa con il referendum del 1987: di quella esperienza restano le centrali e gli impianti di fabbricazione del combustibile ancora da smantellare oltre che le scorie in essi prodotte. Ma non è tutto. Perché residui nucleari sono stati e sono prodotti anche da ospedali, industrie e laboratori di ricerca che negli anni hanno trovato ospitalità in depositi provvisori e in alcuni casi improvvisati. Qualche anno fa venne rivelato che ne esistevano circa 120, tra cui il Sicurad di Palermo, il Cemerad di Taranto, il Crad di Udine, il Gammaton di Como, il Controlsinic di Pavia… Ancora prima fece scalpore il caso di una cantina adibita a deposito nucleare in pieno centro a Castelmauro, in Molise: il suo proprietario aveva ottenuto sul finire degli anni 70 l’autorizzazione per la detenzione di sostanze radioattive e aveva pensato bene di custodirle in un luogo, al più, adatto per conservare vini o attrezzi. Questo per dire che la questione dei rifiuti nucleari è irrisolta da tempo. Nel 2003 il governo Berlusconi tirò fuori dal cilindro l’idea di costruire a Scanzano Jonico, in Basilicata, addirittura un deposito geologico, attirandosi i sospetti di voler procurare grandi guadagni per qualcuno con una scelta a ridotto impatto elettorale. Da allora si è ripartiti da zero virando sulla soluzione del deposito di superficie: le 67 aree individuate come potenzialmente idonee riguardano i Comuni di sette Regioni. Con cui ora sarà indispensabile avviare un confronto non di maniera.

Ilaria Proietti