Gli studenti in piazza contro la serrata

Studenti in piazza contro la chiusura, studenti contro l’apertura (proclamato lo sciopero per lunedì), genitori che chiedono chiarezza e altri sicurezza: una parte della narrazione su quanto accaduto in questi giorni sullo slittamento della riapertura delle scuole superiori dice che la scelta sia stata fatta per dare una linea unitaria e fare ordine. Eppure, le proteste mostrano il contrario.

Si parte dalla Toscana, i cui piani di riapertura erano più che pronti. La manifestazione è stata organizzata davanti al liceo classico Galileo, vicino ai palazzi della Regione e promossa dal comitato Priorità della scuola. Altre erano a Prato, Pisa, Pontedera, Carrara e Massa. “Ciò che amareggia è che la scuola sia all’ultimo posto – ha spiegato Costanza Margiotta, docente universitaria –. La si condanna per i contagi prima di averla riaperta. Su di essa si gioca una crisi di sistema e una di governo: il cambiamento materiale della Costituzione riguardo al rapporto tra Stato e Regioni e un governo prigioniero delle Regioni che non è più in grado di assicurare l’istruzione”. Per poter sapere se è stato fatto abbastanza sulla ripartenza in sicurezza, è il concetto, bisogna riaprire e verificarlo. Si chiedono screening all’ingresso per tutti e continuativi: “La quarantena di una classe, nel caso si registri un positivo, significa che il sistema funziona”.

In Veneto, circa 900 genitori hanno inviato una lettera al governatore Luca Zaia: “I ragazzi delle scuole superiori – si legge – hanno interrotto il loro percorso nelle aule a febbraio 2020 e non hanno ancora potuto seriamente riprenderlo. Dopo un’estate sostanzialmente ‘normale’ che ha visto aperte anche le discoteche, dopo un periodo natalizio in cui si sono legittimamente privilegiate le attività commerciali, ci chiediamo se l’aumento dei contagi possa ancora essere fatto ricadere sulle scuole superiori, precludendo a tutti (didattica in presenza 0%) l’accesso alla scuola e al normale insegnamento, sul presupposto che si teme l’assembramento al di fuori degli istituti scolastici”.

A Roma, il presidio di studenti, genitori e insegnanti davanti al ministero dell’Istruzione è iniziato alle 8.30 del mattino e in giornata il direttore dell’Ufficio regionale del Lazio, Rocco Pinneri, ha smentito alcune notizie di stampa secondo cui avrebbe detto che tornare era pericoloso: “Sarebbe ingeneroso nei confronti del grande lavoro svolto dalle scuole, dal sistema sanitario e quello del trasporto. Abbiamo riorganizzato gli orari proprio per far sì che gli studenti delle superiori arrivino a scuola viaggiando su mezzi sicuri. E arrivati a scuola troveranno le condizioni – distanza e mascherine – che da settembre stanno garantendo la sicurezza degli studenti più piccini”.

A Bologna, davanti ai licei Galvani e Righi hanno protestato i genitori con striscioni e cartelli e gli studenti, alcuni anche con il computer per seguire la didattica a distanza, per chiedere la ripresa delle lezioni in presenza e la riapertura delle scuole superiori. Le richieste sono indirizzate “prima di tutto al presidente della Regione Stefano Bonaccini. Aveva detto che sarebbe stato tutto pronto per gennaio e che era stato messo a punto anche il piano per il trasporto scolastico, invece le famiglie non sanno ancora niente”.

Presidi anche in Campania, dove ieri un papà “Sì-Dad” ha detto di aver ricevuto una “ombrellata” dai manifestanti.

Da lunedì tornano i colori Nove regioni sono a rischio

Lo spettro di una terza ondata si sta materializzando, ma se il vaccino sarà l’arma vincente ci sono anche buone notizie. La campagna vaccinale – infatti – sembra procedere a dovere: “Dopo medici e infermieri e personale Rsa – ha detto ieri il Commissario all’Emergenza Domenico Arcuri – confidiamo già a febbraio di vaccinare le persone con più di 80 anni, circa 4 milioni. Poi toccherà a operatori servizi pubblici essenziali, personale docente e non docente, forze dell’ordine, il personale del trasporto pubblico locale, il personale carcerario e detenuti”. L’Italia si conferma seconda in Ue dopo la Germania per numero di dosi somministrate (ottava nel mondo) e seconda dietro alla Danimarca per percentuale di popolazione raggiunta (0,54%). Alle 20 di ieri sera risultavano vaccinate 379.910 persone: “Abbiamo distribuito 919.425 vaccini, quasi un milione, su tutto il territorio nei 294 punti di somministrazione – aggiunge Arcuri –. Per questa prima fase ci siamo dati l’obiettivo di somministrarne almeno 65-67 mila al giorno”.

Oggi, intanto, l’Italia sarà ancora zona gialla. Nel weekend – come previsto – si andrà tutti in arancione. Da lunedì 11, poi, a ciascuno il suo colore sulla base del monitoraggio che oggi l’Istituto Superiore di Sanità renderà noto. Il territorio sarà diviso in fasce sulla base di una rimodulazione dei criteri di rischio: con indice Rt a 1 (non più 1.25) si entra in zona arancione (bar e ristoranti chiusi), a 1.25 (non più 1.5) in zona rossa (chiusi anche i negozi). Stabilite le fasce, si discuterà del nuovo Dpcm che dovrebbe entrare in vigore il 16 gennaio e che quasi certamente preveder la proroga dei divieti compreso quello di spostamento (salvo motivi di necessità) al di fuori dei confini della regione di residenza. Sarà mantenuto il coprifuoco alle 22, speranze di riapertura nulle per cinema, teatri e palestre, possibile proroga dell’obbligo di chiusura di bar e ristoranti (se non in zona arancione o rossa) entro le 18.

Al momento a rischiare il passaggio in zona arancione sono il Veneto (il cui indice Rt, come conferma il presidente della Regione, Luca Zaia, “è su un crinale di qualche decimale intorno all’1”), l’Emilia-Romagna (Rt a 1,05), Lombardia e Calabria (Rt superiore a 1 la scorsa settimana). Forte rischio anche per Basilicata e Puglia, Marche e Liguria al limite. Le altre Regioni dovrebbero rimanere gialle.

Ma c’è un altro parametro di cui bisognerà tenere conto. Nell’ultima settimana, infatti, sono tornati ad aumentare i ricoveri nei reparti Covid e in terapia intensiva e nella valutazione dei criteri entrerà anche la pressione sul sistema sanitario. Al 6 gennaio, secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari (Agenas) nove regioni (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Umbria e Veneto) e le due province autonome di Trento e Bolzano superano la soglia critica del 30% di posti occupati in terapia intensiva, sette (Emilia, Friuli, Lazio Liguria, Marche, Piemonte e Veneto) e le due province quella del 40% dei reparti ordinari.

La curva del contagio, intanto, non accenna a diminuire. È ancora presto per parlare di terza ondata, ma i sintomi non mancano. I casi Covid segnalati nelle ultime 24 ore sono stati 18.020 a fronte di 121.275 tamponi effettuati per un tasso di positività del 14,8%. I casi singoli testati, tuttavia, sono stati 53.423, il che porta il tasso di positività reale al 34,5%.

Sempre alto (414) il numero dei morti, il cui totale dall’inizio della pandemia sale a 77.291 vittime. Tornano a salire i ricoveri per Covid sia in terapia intensiva sia nei reparti ordinari. Secondo i dati del ministero della Salute, sono 2.587 i pazienti attualmente ricoverati in terapia intensiva, 16 più di martedì (+0,62%) tra ingressi e uscite: gli ingressi giornalieri sono stati 156. Nei reparti ordinari degli ospedali sono invece ricoverati in questo momento 23.291 pazienti, 117 in più delle precedenti 24 ore.

Numeri in linea con una tendenza settimanale in crescita. Secondo il report Gimbe, nella settimana dal 29 dicembre 2020 al 5 gennaio 2021si è registrato un incremento dei nuovi casi di Covid del 26,7% rispetto alla settimana precedente (114.132 contro 90.117), un’inversione della curva dopo sei settimane consecutive di calo, nonostante una diminuzione del 20,9% dei tamponi effettuati tra il 23 dicembre e il 5 gennaio rispetto ai 14 giorni precedenti (-464.284).

Fbi chiede aiuto. I neonazi fra visi vecchi e nuovi

Identificare tutti i responsabili dell’assalto a Capitol Hill. Questo l’intento dell’Fbi, che ieri ha chiesto pubblicamente aiuto ai cittadini americani, per avere indicazioni, video o filmati che li aiutino nell’inchiesta. In alcuni casi, però, i federali i nomi li hanno già. A riconoscere attraverso le foto apparse sui social alcuni esponenti dell’estrema destra americana sono stati anche i giornalisti che da anni si occupano di questo tema. Così è stato identificato Nick Ochs, fondatore della sezione delle Hawaii dei Proud Boys, che ha twittato una sua foto mentre fuma una sigaretta dentro al Campidoglio, oppure Nick Fuentes, negazionista dell’Olocausto e bandito da Youtube per incitamento all’odio, ora legato al “Groyper Army”, rete di suprematisti bianchi. Del campo neonazi fa parte anche Tim “Baked Alaska” Gionet, che per 25 minuti ha diffuso in live streaming i suoi movimenti dentro al Congresso. C’era anche Richard “Bigo” Barnett, leader di un gruppo pro armi a Gravette, in Arkansas, che si è fatto fotografare con i piedi sulla scrivania della presidente della Camera, Nancy Pelosi. E poi l’uomo con le corna, lo sciamano di QAnon, l’italo americano Jake Angeli. I federali sono stati attratti anche da un tizio con la maglietta “Camp Auschwitz“: lui ancora è senza nome.

Cavalieri oscuri, Joker e Caimani: l’assalto è film e tv

Déjà-vu. Chiunque abbia seguito sulla Cnn o altrove la presa di Capitol Hill per mano dei trumpiani, non si sarà sottratto alla domanda: ma non l’avevamo già visto? E dove l’avevamo già visto? Che sia la realtà a riprodurre il cinema, e non più viceversa, è ormai assodato, però in tempo di sale chiuse causa pandemia la Settima Arte a Washington DC s’è concessa una bella rivincita in contumacia: immaginifica e profetica, tant’è. L’orda che ha colpito al cuore la democrazia americana non è un originale, bensì una copia, chiamata a replicare il prototipo cinematografico. La stampante 3D della realtà ci ha sbattuto in faccia un già visto, che oggi equivale a già vissuto, sicché nemmeno per un secondo abbiamo dubitato di che cosa stessimo vedendo, al massimo di dove lo stessimo vedendo: non Netflix, ma Cnn, appunto. Se per gli aerei nelle Torri dell’11 settembre confidammo “dev’essere un film che non ho visto” e chiedemmo rifugio alla sospensione dell’incredulità prescritta dal cinema, dieci anni più tardi di fronte al Campidoglio invaso ci siamo interrogati semplicemente sul titolo: qual è? Perché l’agenda politica forse ancora, ma la nostra enciclopedia audiovisiva non s’è più fatta sorprendere, e nemmeno un po’: l’accozzaglia di QAnon e Proud Boys, fascisti, negazionisti e influencer dei Capitol riots era stata anticipata iconograficamente dal Bane (Tom Hardy) di The Dark Knight Rises, il capitolo conclusivo (2012) della trilogia del Cavaliere oscuro di Christopher Nolan, e inverata ideologicamente dal Joker di Todd Phillips, con il clown di Joaquin Phoenix che catalizzava la rivolta. Ricordiamo tutti Bane prendere manu paramilitari l’icastica Gotham, ricordiamo tutti la Warner Bros. costretta a specificare che il “Joker non sostiene alcun genere di violenza nel mondo reale”: ebbene, ora dei cattivi di Batman abbiamo anche il documentario, diretto da Trump. Più che conoscere qualcosa, in quelle immagini televisive abbiamo riconosciuto qualcuno. Che eccede il comparto strettamente cinematografico, anche quello zombiano di Romero e undead vari, o strettamente seriale, per esempio Designated Survivor con il presidente per caso Kiefer Sutherland e il Campidoglio fatto saltare in aria (a proposito, occhio al 20 gennaio, l’Inauguration Day di Joe Biden…), e prende ispirazione ovunque: dallo sciamano di QAnon Jake Angeli, che conciato da Space Cowboy ha richiesto al suo modello Jamiroquai una smentita: “Tranquilli, non ero io”, a vari emuli più o meno involontari dei Village People. Attacco al Potere – Olympus Has Fallen con Gerard Butler o se preferite La notte del giudizio, la saga distopica di James DeMonaco che per il sequel del 2016 s’era scelta un sottotitolo che oggi viene benissimo: Election Year, con Sfogo violentissimo a Washington DC. Sarebbe però limitante circoscrivere pertinenza e preveggenza all’audiovisivo americano, basti pensare a Enrico Mentana che durante la diretta su La7 scambia una sequenza del film Project X – Una festa che spacca (2012) per live footage degli scontri o, e qui non si scherza, al Caimano di Nanni Moretti. Dicono Trump seguisse i riot in tv dallo Studio Ovale, invece il Berlusconi incarnato dal regista stesso usciva di scena in automobile con i bagliori della rivolta popolare sullo sfondo. Tot capita tot sequentiae, ma un unico, lungo film. Che sa di profezia.

I freak in difesa di Trump lo stregone

Jul Thompson ha viaggiato in pullman da Buffalo a Washington D.C. È partita la notte, percorrendo strade ghiacciate, con una ventina di sostenitori del presidente. Questa volta il marito Rus non l’ha accompagnata. Con Rus, Jul ha creato il Tea Party di Buffalo e poi un gruppo, Buffalo Monticello, che lei definisce “la casa dei conservatori”. Rus e Jul sono titolari di una piccola azienda che produce betoniere.

Hanno sei figli, sei nipoti, vanno tutte le domeniche a messa al Bible Fellowship Center di Grand Island e credono che Joe Biden abbia rubato le elezioni. “Perché non ci hanno permesso di portare le prove dei brogli in tribunale?” chiede Jul. Lei non è tra quelli che hanno fatto irruzione al Congresso, ma non ci trova niente di strano: “Stuzzica troppo a lungo l’orso e l’orso prima o poi si incazza”.

Storie comuni di vittime delle “ingiustizie”

Ogni storia è storia individuale, ma una cosa di sicuro Jul e Rus condividono con altri milioni di conservatori americani: il senso profondo di essere vittime di un torto, di un’ingiustizia, di un furto di vita. Il sentimento, negli anni, ha trovato nemici sempre nuovi: Wall Street, i professori di Harvard, le élite della East Coast, la Cina, i liberal media, il gender, Mark Zuckerberg e il terrorismo islamico. Ora il nemico assume le sembianze del Congresso, del patto tra Mitch McConnell e Chuck Schumer per far fuori Trump e cancellare il voto di milioni di patrioti. A nulla valgono i fatti: e cioè che i nove giudici della Corte Suprema (tra cui sei conservatori) hanno rigettato la tesi dei brogli; che Trump ha perso sessanta cause presso tribunali statali e federali; che decine di funzionari, democratici e repubblicani, hanno ratificato il voto nei loro Stati. A nulla serve il racconto della realtà perché Jul, Rus e altri milioni di americani continueranno comunque a sentirsi vittime di un torto. Il furto delle loro vite si incarna oggi nel furto delle elezioni.

La galassia suprematista

Tra le migliaia di sostenitori di Trump che sono calati su Washington e che hanno dato l’assalto al Congresso – profanando il simbolo più alto della democrazia americana – ci sono per l’appunto tante storie, motivi, interessi. I più facili da capire sono quelli della galassia di gruppi della destra suprematista, razzista, neonazista che ha tratto alimento dai quattro anni di presidenza Trump. Ad assediare il Congresso, a farsi selfie con gli agenti di polizia e a urlare slogan sulle elezioni truccate c’erano i Proud Boys, c’erano i suprematisti bianchi della “Groyper Army”, c’erano gli ascoltatori dei podcast del commentatore di estrema destra Nick Fuentes, c’erano le milizie dei Three Percenters e degli Oath Keepers, i “patrioti” che vogliono difendere i buoni americani da soprusi e angherie del governo federale. È un mondo rimasto per anni ai margini della politica ufficiale, fatto spesso di freak solitari e dispersi per le immense pianure americane, che come in un puzzle folle e sconclusionato metteva insieme tanti pezzi di storia e mitologia americana: istinti individualisti, religione, conquista della frontiera, suprematismi vari. A questo mondo Donald Trump ha dato voce e legittimità politica. Questa gente che Trump ha liberato da scantinati oscuri e province lontane, facendone protagonista del discorso pubblico.

Già nel 2016 l‘occhiolino al Ku Klux Klan

L’operazione è iniziata quasi subito, ai tempi della campagna presidenziale del 2016, quando il futuro presidente ritwittava le immagini di George Lincoln Rockwell, il fondatore dell’American Nazi Party, e incassava l’appoggio del capo del Ku Klux Klan, David Duke, secondo cui “votare contro Trump è votare contro la propria eredità razziale”.

Per la destra radicale americana Trump è stato l’apprendista stregone, colui che ha liberato istinti a lungo repressi e li ha fatti vivere e prosperare. Essere presenti alla fine politica del presidente, così come si era presenti alla sua nascita, è un modo per ribadire la propria esistenza, per dire che niente e nessuno potrà più oscurare la presenza di questa gente. “È solo l’inizio”, ha spiegato a una radio americana un membro della neonazista “New Jersey European Heritage Association”. “Si può essere disgustati, ma non si può essere sorpresi da quello che è successo a Washington” ha commentato Amy Spitalnick, direttrice di un gruppo che monitora l’estrema destra. In altre parole: il “mostro” che ha dato l’assalto a deputati e senatori è cresciuto in mezzo a noi, ha prosperato tra le ambiguità della politica e ora potrà difficilmente essere ricacciato negli scantinati. La “morte” politica di Trump è la sua vita.

Resta una domanda. Ma gli altri? Tutti quelli che con suprematisti e neonazisti non hanno niente a che fare? Gente come Jul e Rus Thompson insomma, che non odia gli stranieri, che non pensa che i bianchi siano meglio dei neri, che va in chiesa e non spacca i vetri del Congresso, ma che è comunque affascinata dalle tesi di QAnon, convinta in fondo che Trump in questi anni abbia combattuto il deep state e una cabala di satanisti e trafficanti di bambini. Che ci facevano a Washington? E qual è la ragione della fascinazione che il presidente ha in questi anni esercitato su di loro? La risposta di Jul, già rientrata a Buffalo, è secca: “Donald Trump è stato un’ancora”, spiega. Un’ancora, probabilmente, cui aggrapparsi nei piccoli naufragi personali e in quelli più vasti e collettivi: il lavoro che cambia, la Main Street che non si riconosce più, i vicini di cui non si capisce l’inglese.

Di questa America dispersa, incerta, disperatamente ancorata a Donald Trump è in fondo emblema Ashli Babbitt, la donna uccisa mentre protestava dentro al Congresso.

Ashli, una vita normale dall’Air Force a Qanon

Aveva passato 14 anni nell’Air Force e sul suo account Twitter scriveva di adorare “il mio ragazzo, il mio cane e soprattutto il mio Paese”. Era partita da San Diego, racconta il marito, perché si sentiva una patriota e una buona americana. In effetti non c’è nulla, nella sua vita, che possa far dubitare della “normalità” di patriota americana. Eppure Ashli sui social postava i messaggi di Qanon e credeva che il Covid fosse una cospirazione del governo federale.

La sua normalità, insomma, era anche la sua fede in una realtà deformata e parallela. Credeva, anche lei, che la vittoria di Joe Biden fosse un furto. L’unico furto, alla fine, è stato quello della sua vita.

Law & Order: quando la polizia tifa il tycoon

Sono milioni i tweet che i cittadini americani hanno postato sul comportamento della polizia durante l’invasione della sede del Congresso statunitense a Washington. La maggior parte accusa gli agenti mandati a difendere il cuore della democrazia americana dalla furia dei sostenitori di Trump – ormai una milizia di maschi e donne bianchi – di razzismo e comportamento partigiano e sovversivo. Dalle immagini in diretta diffuse da tutti i network televisivi del mondo, è emerso in maniera lampante il doppiopesismo della polizia, che ha permesso ai manifestanti, addirittura aprendo loro le transenne poste a difesa di Capitol Hill, non solo di far irruzione nelle sale del Congresso, ma di farlo anche se alcuni avessero con sé armi da fuoco e armi bianche.

Nonostante il ferimento e la morte di quattro manifestanti, forse da parte di alcuni poliziotti per difesa personale, la mitezza mostrata dalla polizia è stata criticata sia da analisti repubblicani sia pro Dem. “È inaccettabile il diverso trattamento fra i manifestanti di Black Lives Matter e i sostenitori di Trump” ha dichiarato Joe Biden definendo “terroristi domestici” i manifestanti che hanno attaccato il Congresso. Mentre la milizia bianca e descamisada di Trump veniva in seguito accompagnata con gentilezza dalla polizia fuori dal palazzo di Capitol Hill, a molti americani sono venute in mente le repressioni violente durante le proteste pacifiche contro l’orribile omicidio nel maggio scorso dell’afroamericano George Floyd perpetrato a Minneapolis da un agente bianco della polizia. Proteste condannate da Trump perché violente quando a essere violenta è stata la tattica delle forze dell’ordine sobillate da Trump che subito creò via twitter lo slogan: “Loro distruggono (le vetrine), noi spariamo”, intendendo con “noi” lui e le forze dell’ordine ormai trattate come parte della sua personale milizia. Quando, pochi giorni dopo l’omicidio Floyd, una vasta folla disarmata e pacifica si è assembrata ai cancelli della Casa Bianca per chiedere al Presidente di intervenire sulla polizia bianca, per tutta risposta The Donald ha ordinato alla polizia antisommossa di reagire senza mezzi termini. Risultato: spray al peperoncino, lacrimogeni, idranti e pallottole di gomma.

Foto e video dell’insurrezione armata di ieri sono stati condivisi e criticati anche dai membri di Adapt, un gruppo di difesa delle persone disabili, che furono presi per i capelli e trascinati a calci e pugni dalla polizia fuori dal prato del Campidoglio durante una protesta del 2017 in cui chiedevano assistenza sanitaria. Durante la campagna elettorale per le Presidenziali, il più grande sindacato di polizia degli Stati Uniti, che rappresenta oltre 355.000 agenti di polizia, ha comunicato ufficialmente il proprio sostegno al tycoon. “Il presidente Trump ha dimostrato più volte di supportare i nostri funzionari delle forze dell’ordine e di comprendere i problemi che i nostri membri affrontano ogni giorno”, ha affermato Patrick Yoes, presidente dell’Ordine Fraterno della Polizia (Fop), in un comunicato stampa. Anche al termine dell’ultima Convention Nazionale Repubblicana, Pat Lynch della Patrolmen Benevolent Association, il più grande sindacato di polizia di New York City, ha detto di volere nuovamente Trump alla presidenza.

Il “colpo” trumpista spacca i repubblicani, ma attrae la loro base

Lo stupore per quanto accaduto a Washington non può che destare stupore. Dopo quattro anni di presidenza Trump, demagogica ed esplosiva, e dopo l’accumularsi di forze organizzate, come il suprematismo bianco o il complottismo à la QAnon, eventi come quelli del 6 gennaio erano prevedibili. Per questo fa molto discutere il comportamento della polizia che con le manifestazioni dei Black Lives Matter, ha avuto sempre un altro metro di misura. Glenn Greenwald, giornalista di lunga esperienza, fa questa semplice considerazione: “Miliardi di dollari spesi in sicurezza fin dall’11 settembre mentre una manciata di manifestanti può irrompere in Campidoglio?”.

Resta il fatto che la “manciata” di manifestanti, variopinta e folkloristica, non sembra così isolata. Stando all’istituto YouGov, infatti, un elettore su cinque approva l’assalto al Congresso e tra i Repubblicani la percentuale sale al 45%. Sempre all’interno del partito del presidente uscente, il 68% non ritiene quanto avvenuto il 6 gennaio “un attacco alla democrazia”, percentuale che scende al 32% tra tutti gli elettori. I quali, comunque, in maggioranza, al 56%, ritengono che alle ultime elezioni ci sia stata una qualche forma di brogli. Infine, per quanto Trump confermi di essere in minoranza, come le recenti elezioni hanno dimostrato, il 42% degli elettori ritiene comunque che non debba abbandonare la carica e soprattutto lo pensano l’85% dei Repubblicani.

Il sondaggio ripropone un vecchio tema sulla capacità di comprensione, da parte delle èlite politiche, dei motivi che alimentano posizioni estremiste. Capacità finora mancata anche perché chi sommessamente chiede di interrogarsi sul ruolo delle disuguaglianze sociali viene prontamente bollato come populista oppure bacchettato dagli esegeti del liberismo, come accaduto a Fabrizio Barca che quelle domande si è posto. Così, gli ultimi quattro anni rischiano di andare sprecati proprio per l’indisponibilità a indagare le cause di tanta rabbia e violenza, di capire l’effetto esplosivo dell’incompiuta questione “razziale” troppo facilmente relegata a questione di violenza di piazza, o gli effetti pervasivi della grande crisi economica del 2008.

Joe Biden dovrebbe ripartire da qui, e per il momento sta cercando solo di offrire un profilo rassicurante e pacificatore. Ma la politica statunitense ha avuto il suo “choc” endogeno e si trova ora in un movimento impetuoso. Dal lato dei Dem, al momento, le posizioni sembrano fissate sulla richiesta al vicepresidente Mike Pence di attivare il 25° emendamento come proposto dal leader al Senato Chuck Schumer e dalla speaker della Camera, Nancy Pelosi. In prima fila su questa posizione ci sono poi le deputate della squad progressista come Alexandria Ocasio Ortez e Ilhar Omar che spingono per l’impeachment.

Ma l’osservato speciale resta il Gran Old Party su cui aleggia l’Opa di Trump. Figure di peso come lo stesso Pence, Mitch McConnell (leader al Senato) e Kevin McCarthy (leader alla House) hanno preso le distanze da Trump e lanciano chiari segnali ai Dem a “lavorare insieme”. Le dimissioni interne all’Amministrazione iniziano a farsi numerose (compresa Elaine Chao, Segretario ai Trasporti e moglie di Mitchell). Nel pentimento, tardivo, di una parte dei Repubblicani, oltre agli effetti del Mob, pesa anche il risultato in Georgia che ha ben rappresentato i danni delle posizioni estreme di Trump.

Potrebbe essere una disfatta soprattutto se si conferma l’ipotesi di un partito o una fazione di partito da parte di Trump. La partita si gioca nella società statunitense dove, a dispetto della “follia” compiuta a Washington mercoledì, il “presidente pazzo” può ancora giocare molte carte.

“Donald, sei fuori!” La tentazione dem: attuare il 25° emendamento

“L’attacco al Campidoglio del 6 gennaio è stato uno dei giorni più bui della storia americana”, un assalto alla nostra democrazia. E questo assalto è stato portato da Donald Trump, che non è al di sopra della legge”. Così ieri sera il presidente eletto Joe Biden si è espresso su quanto accaduto due giorni fa a Washington. “Ciò che è avvenuto è terrorismo interno”, ha proseguito Biden, aizzato dal fatto che “Trump ha tentato di usare una folla per mettere a tacere le voci di quasi 160 milioni di americani”. Fra i democratici, e persino fra alcuni repubblicani del Congresso, ora si fa strada l’ipotesi di far decadere il presidente Trump prima del 20 gennaio, per aver aizzato i suoi sostenitori nell’assalto a Capitol Hill. “Non può restare – dichiara la speaker della Camera, Nancy Pelosi riferendosi al presidente repubblicano – è pericoloso”. Ma è utile riavvolgere il nastro per capire come si è giunti a questa situazione.

Il day after

La paura d’un colpo di mano istituzionale inizia a mezzogiorno del 6 gennaio: “Avremo un presidente illegittimo, non possiamo permetterlo”, aizza Trump al comizio dinanzi ai suoi supporter. Quanti siano non è chiaro, la polizia non ha pensato a contarli. Alle 14.45 la seduta per la convalida dell’elezione di Biden viene sospesa, i deputati fatti evacuare da vie sicure, mentre a Capitol Hill i violenti scorrazzano per le stanze. Il caos dura fino alle 20, quando Capitol Hill viene ripreso dalla polizia che fa il bilancio: una cinquantina di arresti, una quindicina di feriti tra le forze dell’ordine, quattro morti fra cui una donna, Ashli Babbit, veterana dell’aeronautica che era fra i sostenitori di Trump. Alle 3 del 7 gennaio, il vicepresidente Mike Pence finalmente certifica la vittoria di Biden. La giornata di caos ha conseguenze. Lascia un ministro, Elaine Chao, Trasporti, la moglie di McConnell. E il ministro della Giustizia William Barr, appena dimessosi, dice: “Trump ha tradito la sua missione”. Un modo di tirare il fiato della democrazia americana e battere i record di Wall Street: è puntualmente avvenuto ieri, la finanza festeggia l’uscita di scena d’un personaggio imprevedibile.

I social bloccati

Trump trangugia amaro la sconfitta. Privato degli account da Facebook e Twitter e gli altri social media ormai insofferenti dei suoi post incendiari, deve affidarsi a dichiarazioni della Casa Bianca: “Anche se sono totalmente in disaccordo con il risultato delle elezioni – afferma –, ci sarà una transizione ordinata verso il 20 gennaio”. E dice: “È la fine del più grande mandato presidenziale della storia, ma è solo l’inizio della nostra lotta per fare l’America di nuovo grande… Continueremo a batterci per far sì che solo i voti legali contino”.

Sbarazzarsi del magnate

Impeachment o 25° emendamento; i Democratici, ormai maggioranza alla Camera e al Senato, pensano, invece, a mandare via Trump in fretta: progetti probabilmente velleitari, a due settimane dalla fine del mandato. Ma il pensiero d’un capopopolo che se ne va in giro con le valigette nucleari non è rassicurante. Un’ipotesi è l’impeachment, già fallito un anno fa sul Kievgate: piace a Alexandria Ocasio-Cortez e all’ala democratica più radicale, ma non paiono esserci i tempi per attuarlo. Un’altra è il ricorso, assolutamente inedito in simili circostanze, al 25° emendamento della Costituzione, che prevede l’assunzione dei poteri da parte del vice se il presidente è rimosso dall’incarico, fra l’altro per incapacità manifesta. La procedura, però, richiede qualche tempo e l’avallo del Congresso, che non è acquisito, anche se le voci critiche fra i repubblicani sono autorevoli. Liz Cheney, figlia dell’ex vice di Bush jr. Dick, accusa Trump di avere acceso “il fiammifero dell’insurrezione”. Sulla mancata sicurezza di Capitol Hill, la sindaca di Washington, Muriel Bowser, evoca responsabilità federali. Intanto attorno al Campidoglio si innalzano recinzioni.

In fuga da Donald: Salvini rinnega l’amico e QAnon

Ora che Donald toglie del tutto la maschera, scoprendo il volto eversivo e delirante, la destra italiana prova a mettersi al riparo dalle macerie del trumpismo. Ma è una fuga tardiva e imbarazzata, dopo anni di tifo da stadio e tentativi di affiliazione. Silvio Berlusconi è quello che si smarca con più nettezza: “Aver suscitato, incoraggiato, evitato di condannare questo tipo di atteggiamenti – dice di Trump – è un comportamento che nessun leader politico dovrebbe permettersi in un Paese democratico”. Giorgia Meloni è molto a disagio e si produce in una spaventosa contorsione logica: “Mi auguro che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump” (per lei Donald non fomenta, pacifica). Ma il vero dramma è quello che sta vivendo Matteo Salvini. Il leghista è costretto a rinnegare il suo modello, il punto di riferimento mondiale del populismo di destra. “Io sostenevo le idee dei repubblicani e di Trump – ha detto in tv, su 7Gold, si noti l’uso del tempo imperfetto – ma un conto è il voto, un conto è entrare armati in Parlamento, quella è follia”.

Il problema è che i tratti folli del presidente americano e dei suoi sostenitori erano noti già prima di mercoledì, e Salvini li conosceva meglio di tutti. Il capo della Lega ha coltivato un rapporto decisamente ambiguo con la più radicale forma ideologica del trumpismo: il delirio complottista di QAnon, principio ispiratore delle falangi mascherate che hanno occupato il Campidoglio.

Il “capitano” ha sguazzato allegramente nel brodo pestilenziale delle teorie cospirative importate dall’America. Le quali sostengono – in breve – che il mondo sia dominato da una rete segreta di élite progressiste corrotte, sataniste e pedofile (da Bill Gates a Papa Francesco).

In Italia QAnon ha messo radici soprattutto durante i mesi del lockdown nei gruppi di negazionisti del Covid, no-mask e no-vax. L’episodio più esposto del rapporto tra Salvini e i qanonisti de noantri è il celebre convegno del Senato del 27 luglio (dopo la fine della prima ondata), quando l’ex ministro dell’Interno ha diviso la platea con i sostenitori di alcune delle più bizzarre teorie sulla pandemia (“Un progetto di governo mondiale”, “I vaccini sono eugenetica nazista, un piano di estinzione delle razze animali non desiderate”), rifiutandosi di indossare la mascherina anche di fronte alle sollecitazioni dei commessi.

I segnali inviati da Salvini alla platea complottista sono tanti, puntualmente rivendicati dai vari gruppi e account ispirati a QAnon in Italia. Il capo della Lega è stato anche l’unico politico italiano a congratularsi pubblicamente con Lauren Boebert, la prima repubblicana eletta al Congresso degli Stati Uniti sostenitrice di QAnon. Ed è riuscito anche nell’impresa di stipulare una “collaborazione politica” tra la Lega e il Partito Anti Islamizzazione di Alessandro Meluzzi, un altro apostolo ipermediatico dei deliri cospirativi importati dagli Usa. Come per “il golpe” di mercoledì, anche in questi casi il confine tra farsa e tragedia è sottile.

Renzi “rivuole” gli 007, ma perde l’arma “destra”

Tra gli attacchi a Giuseppe Conte per i suoi rapporti con l’Amministrazione Trump e le penne un po’ abbacchiate dei populisti italiani, l’assalto al Congresso Usa ha più di una ricaduta sulla crisi politica nostrana. Tanto per cominciare, il governo di larghe intese, con tutti (o quasi tutti dentro), si allontana. E con questo il piano B di Matteo Renzi che non ha mai smesso di parlare con Matteo Salvini e di corteggiare FI e persino Fratelli d’Italia.

Ma Renzi, che si trova con un’arma spuntata, è deciso a cercare di volgere la situazione a suo vantaggio. E così sferra l’attacco finale a Giuseppe Conte, chiedendogli di nuovo di lasciare la delega ai servizi segreti nel nome della sicurezza nazionale.

Già da mercoledì sera i social renziani cominciano a condividere foto del premier italiano e di Donald Trump, mentre nelle chat gira il video in cui Conte sosteneva che il suo governo e l’Amministrazione Trump fossero uniti nel “cambiamento”. I renziani si scatenano quando Conte fa il suo tweet (“Seguo con grande preoccupazione quanto sta accadendo a Washington. La violenza è incompatibile con l’esercizio dei diritti politici e delle libertà democratiche. Confido nella solidità e nella forza delle Istituzioni degli Stati Uniti”). Ieri mattina il premier, dopo che il Congresso americano ha certificato la vittoria elettorale di Joe Biden, interviene di nuovo: “Non vediamo l’ora di lavorare assieme al presidente Biden e alla vicepresidente Kamala Harris per promuovere insieme un’agenda globale di crescita, sostenibilità e inclusione”. Renzi in serata ci va giù diritto: “È stato importante che anche Johnson, altro uomo di destra, abbia detto parole durissime come Merkel”. Cita Veltroni, che ha criticato la scelta di Conte di non citare Trump esplicitamente, condannando i fatti. E affonda: “Non è che se uno è amico di Trump non dice parole chiare”. Nel pomeriggio, fonti Iv tirano in ballo il caso Barr, chiedendo “chiarezza” su quanto accaduto nell’estate 2019, con le visite di William Barr, Attorney general di Trump, in Italia. E ancora: “I fatti di Washington testimoniano che la sicurezza nazionale è tema centrale. Conte nel commentare quei fatti non ha citato Trump”.

Il riferimento è alle due visite di Barr in Italia nel 2019 quando avrebbe chiesto agli 007 italiani assistenza per cercare elementi al fine di screditare le indagini condotte dal Fbi per conto del super procuratore Robert Mueller sul Russiagate. L’amministrazione Trump voleva approfondire la pista investigativa secondo la quale lo scandalo delle mail private “rubate” dai russi a Hillary Clinton e poi offerte all’entourage di Trump fosse una trappola ordita dai democratici americani. L’Italia era un tassello fondamentale perché a Roma scomparve il professor Joseph Misfud, l’innesco della prima inchiesta sul Russiagate.

Le richieste erano arrivate a Roma già a giugno 2019 per canali diplomatici. Entrambi gli incontri, uno il 15 agosto e uno il 27 settembre, si svolsero nella sede del Dis, guidato dal fedelissimo di Conte, Gennaro Vecchione. Al primo parteciparono Barr e Vecchione. Al secondo erano presenti, oltre a loro, il procuratore John Durhan, e i direttori delle agenzie operative, Mario Parente (Aisi) e Luciano Carta (Aise). Di fronte al Copasir, Conte tenne a precisare di non aver mai parlato, né dal vivo, né al telefono, con Barr. E sostenne che di fronte alla richiesta degli americani non si poteva dire di no, che non c’erano sospetti sugli 007 italiani e che alla fine la nostra intelligence risultò estranea agli eventi in questione.

Conte finisce nel mirino per i buoni rapporti con l’ ex presidente degli States, che durante il G7 di Biarritz gli fece un endorsement decisivo, chiamandolo “Giuseppi”. Ma il governo ha sempre tenuto rapporti istituzionali con gli Usa. Ieri fonti diplomatiche italiane fanno sapere che Biden e Harris hanno accolto con soddisfazione il messaggio del premier. Ma Renzi alza la posta della trattativa, cercando di porsi come l’uomo di Biden: che la delega ai Servizi venga data a uno dei collaboratori stretti del premier sembra non bastare. La crisi si fa sempre più buia, mentre Luigi Di Maio accetta di riferire in Parlamento sui fatti americani dopo la richiesta dei dem, Andrea Marcucci e Filippo Sensi.