Recovery, oggi la resa dei conti L’assist del Colle sul rimpastone

Il governo non è ancora in piena crisi, ma di certo è già immerso in una palude profonda. Con Matteo Renzi sempre deciso a lasciarvi il nemico, Giuseppe Conte, su cui rovescia pesanti dubbi di connivenza con la gestione Trump per poi (ri)invitarlo a cedere la delega ai Servizi. Fino all’intimazione lanciata da Tg2 Post: “Il Recovery Plan? Chiediamo più soldi per la sanità, e vuol dire prendere il Mes”. Ma per il M5S il fondo salva Stati è inaccettabile. Così la paura del voto anticipato sale dentro la maggioranza. Anche se oggi, in una “giornata cruciale”, a sentire il segretario del Pd Nicola Zingaretti, il presidente del Consiglio vedrà se e quando si potrà tirare fuori dall’acquitrino.

Innanzitutto nella riunione dei capidelegazione convocata per le 18 da Conte, che avrà come tema il Recovery Fund. Di fatto il cuore della partita con i 209 miliardi che ha in pancia. E infatti il premier, come rivendicato già nel post di mercoledì, ha concesso molto ai partiti e specialmente a Italia Viva. Partendo dall’aumento dei fondi per la Sanità, saliti da 9 a 19,7 miliardi (soglia peraltro raggiunta soprattutto con uno spostamento di voci dalla digitalizzazione: uno degli escamotage trovati, così come i fondi europei del prossimo settennio integrati nel piano). Per passare al notevole incremento delle risorse per l’Alta velocità ferroviaria: un chiaro segnale a Renzi e al Pd, certo, ma anche al centrodestra.

Di sicuro la bozza trasmessa ieri pomeriggio ai partiti dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, sembra aver accontentato dem e grillini. Mentre i renziani continuano a seminare polemiche. Ieri mattina si erano lamentati per il mancato confronto sul testo con Gualtieri, che mercoledì aveva consultato Pd, LeU e M5S. E allora il ministro ha dovuto precisare che era stata Iv a rifiutare un incontro, spiegando di non voler discutere prima di avere ricevuto il nuovo testo. Ma nonostante i capricci, neanche da Iv possono negare che Conte abbia concesso, e parecchio. Anche se nella bozza non c’è neppure un accenno alla struttura di governance, altro punto potenzialmente esplosivo.

Di sicuro però non si può tirare avanti all’infinito. Lo pensa il Pd, che oggi nfarà il punto in una Direzione in cui verrà ribadita la linea “o Conte o il voto”. E soprattutto il premier, che ha convocato la capidelegazione anche e soprattutto per stanare i renziani. “Se andasse bene il tavolo, potremmo tenere il Consiglio dei ministri anche in nottata” ipotizzavano ieri fonti di maggioranza. Dipenderà da come va la riunione. E le premesse non sono eccellenti, leggendo le parole della renziana Teresa Bellanova al Tg4: “Se il presidente del Consiglio cercherà i Responsabili mi troverà al Senato a svolgere il mio ruolo di senatrice di opposizione”.

Un avvertimento, che conferma una sensazione molto diffusa ieri, ossia che Renzi tema il voto a Palazzo Madama sul Recovery. Un passaggio che Conte vuole comunque fare. Anche per provare a trasformare la “conta” sul suo governo in un verdetto sul piano di finanziamenti europei: se Renzi votasse contro, ragionano, si assumerebbe la responsabilità di una scelta così impopolare. E se invece arrivasse il sostegno dei Responsabili, è l’altro punto del ragionamento, non lo farebbero per sostenere il governo, ma in nome dell’unità nazionale. Anche perché il calendario scorre: se vogliamo l’anticipo sul Recovery, il piano va inviato ai primi di febbraio, non oltre. E manca meno di un mese.

In questo clima, il Quirinale prova a offrire un’ancora. Nel dettaglio, ha fatto sapere a Conte e ai leader di maggioranza che è pronto anche da accettare un rimpasto ampio, senza i paletti su alcuni ministeri che aveva posto settimane fa. A patto che si arrivi al Colle con un accordo ben definito. A quel punto, si proverà a varare un rimpasto senza passare per le rischiosissime dimissioni di Conte. Operazione complicata, ma non impossibile, sostengono fonti di governo. Però la strada è stretta. E dal Nazareno già mettono le mani avanti: “Se si vota, non è colpa nostra”.

Cassandro Ricciardi

Le interviste a getto continuo del professor Walter Ricciardi, “consigliere del ministro Speranza”, insidiano per frequenza e molestia quelle del professor Sabino Cassese, consulente di sé medesimo. È, il prof. Ricciardi, uno strano tipo di consigliere, perché non è mai d’accordo con chi dovrebbe consigliare. Al punto da autorizzare il sospetto che i consigliati non ascoltino mai i suoi consigli, o li ascoltino per fare il contrario (in entrambi i casi, non si spiega perché se lo tengano). Di solito i consulenti consigliano e poi tacciono. Invece il consulente Ricciardi, che è un po’ il Bartali della sanità (tutto sbagliato, tutto da rifare), parla con tutti e dappertutto, sempre per annunciare catastrofi, cataclismi e funerali, con una voluttà sepolcrale che fa apparire la buonanima di Ugo La Malfa un buontempone. Dipendesse da lui, saremmo sepolti vivi in casa come l’abate Faria almeno da marzo. Senza ora d’aria. Se il governo fa il lockdown, dice che non basta: ci vuole l’ergastolo. Se il governo fa le zone rosse, chiede perché ce n’è pure qualcuna gialla e arancione. Se il governo parte col vaccino facoltativo, lo vuole obbligatorio. A novembre voleva un lockdown bis e, siccome il governo non lo fece, vaticinò che ci saremmo finiti lo stesso riempiendo ospedali e terapie intensive. Invece in lockdown ci sono finite Berlino e Londra, e noi abbiamo ridotto i ricoveri ordinari da 35 a 23mila e in terapia intensiva da 3.900 a 2.300 senza il suo amato lockdown. A dicembre voleva riaprire le scuole a metà gennaio e ora che riaprono a metà gennaio dice che è folle (si riferiva a gennaio 2022). Forse pensa che gli studenti, se non vanno a scuola, si barrichino tutti in casa h24.

Pagherei un capitale per assistere a un dialogo fra il consigliere Ricciardi e il consigliato Speranza. Ma anche per seguire il nostro Cassandro nella sua vita quotidiana. La mattina esce di casa, anzi dal feretro, in gramaglie e ammonisce il lattaio: “Ha saputo? Andrà tutto male”. Poi passa dal fruttivendolo: “Si ricordi che deve morire”. E, al barista appena uscito dal Covid, rammenta: “Io gliel’avevo detto, anzi vedrà che il virus ritorna”. Ieri era di turno sul Messaggero e piangeva perché “le limitazioni del governo non basteranno, i contagi cresceranno”, “la politica non decide” (come vuole lui), bisogna fare “come l’Australia e la Nuova Zelanda” (e pazienza se quelle sono isole e soprattutto sono in piena estate). Insomma, ci vuole “un lockdown vero”, anche se in Germania e Gran Bretagna che ne fanno uno dopo l’altro non funziona. Ma solo perché lo fanno sempre “troppo tardi” e non quando lo dice lui. Però deve pure capirli: se non se lo fila il governo di cui è consulente, possibile mai che gli diano retta quelli del resto del mondo?

J’accuse di Camille: “Duhamel pedofilo, da patrigno stuprò il mio fratellino”

Sono i primi anni 80, nella Parigi bene e intellettuale di Saint-Germain-des-Près. Una sera un uomo, un noto accademico, entra nella camera del figliastro. Victor, nome di fantasia, è solo un ragazzino di 14 anni quando subisce i primi abusi che andranno avanti per almeno due anni. Confida il suo orribile segreto alla sorella gemella e si fa promettere di non rivelarlo mai, per il bene di tutti.

È una brutta storia di incesto e di tabù che emerge alla luce del giorno più di trent’anni dopo i fatti. La racconta oggi la sorella di quel ragazzino: “Victor mi chiese di raggiungerlo nella sua stanza. Era dopo la prima volta. Mi disse: ‘Siamo partiti per il fine settimana, ricordi? Lui è venuto nel mio letto e mi ha detto: ‘Ti faccio vedere come si fa. Lo fanno tutti’. E ha cominciato ad accarezzarmi, poi, sai…’”. Camille Kouchner è l’autrice di La familia grande, un libro-verità che esce oggi, edito da Seuil, e sta sconvolgendo la Francia così come l’anno scorso il volume di Vanessa Springora, Le Consentement, che rivelò il passato pedofilo dello scrittore Gabriel Matzneff e l’omertà di chi sapeva.

45 anni, avvocato, docente di Diritto privato, l’autrice è figlia di Bernard Kouchner, ex ministro degli Esteri e co-fondatore di Medici senza Frontiere, e di Evelyne Pisier, figura della sinistra francese, morta nel 2017. Quando i genitori si separano, lei, il fratello gemello, otto anni, e il maggiore Julien, crescono con la madre e il secondo marito, un uomo molto noto e di potere: Olivier Duhamel, politologo e costituzionalista, autore di molti libri, ex deputato europeo (1997-2004) e figura mediatica, conduttore e commentatore politico alla radio e in tv. Le Monde ha ricordato anche che era tra i pochi fortunati ad aver celebrato la vittoria al primo turno delle Presidenziali di Macron in una brasserie di Parigi. Dopo le accuse di incesto, Duhamel si è dimesso da tutte le sue funzioni e un’inchiesta è stata aperta dalla Procura di Parigi, anche se i fatti ormai sono prescritti. “Non potevo più tacere”, ha detto Camille Kouchner che denuncia oggi l’uomo che ha “amato come un padre”: “Mi portava a casa dei suoi amici, mi presentava come sua figlia. Mi incoraggiava, mi rassicurava, mi dava fiducia”. L’autrice racconta di sentire ancora i passi del patrigno nel corridoio e la porta della camera del fratello che si chiudeva dietro di lui: “Per tutti questi anni non ho solo taciuto, l’ho protetto. A causa dell’alcolismo in cui era caduta mia madre, era lui che organizzava le nostre vacanze, che ci portava al cinema, che mi ha iniziato al diritto”.

La verità comincia a circolare sin dal 2008: “Molto presto, il microcosmo di Saint-Germain-des-Prés è stato informato. Molti sapevano e la maggior parte ha fatto finta di niente. A sinistra e nell’alta borghesia i panni sporchi si lavano in famiglia”. Nel suo testo si rivolge direttamente al patrigno: “Adesso te lo spiego – scrive –, a te, che parli alla radio, dispensi le tue analisi agli studenti e ti pavoneggi in tv. Adesso ti spiego che avresti almeno potuto scusarti. Prendere coscienza e preoccuparti. Te lo spiego – insiste –, a te che dici che siamo tuoi figli. Quando un adolescente dice di sì alla persona che lo ha cresciuto, si tratta di incesto. Dice di sì perché ha fiducia in te e nella tua educazione di merda. Quando hai deciso di approfittarne si chiama stupro, lo capisci? Perché, in realtà, in quel momento, il ragazzino non riuscirà a dirti di no. Avrà solo voglia di farti piacere e di scoprire. A forza il ragazzino continuerà a dirti di sì per negare l’orrore, comincerà a dirsi che è colpa sua, che se l’è cercata. Sarà il tuo trionfo”.

Ma cosa fannoi musei? Poco, a parte Zoom e bilanci

All’inizio era un fiorire di Zoom e dirette Facebook. Collegamenti da casa e video girati con il cellulare. Le Gallerie degli Uffizi in testa, con una profusione di video e un canale TikTok. Nel corso dell’anno la presenza online dei musei si è consolidata e tanti, da Brera al Museo Egizio di Torino al Maxxi di Roma, fino ai più piccoli, hanno costruito un palinsesto di contenuti digitali per tenere vivo il rapporto con l’esterno. Ma il digitale non è tutto. I musei sono spazi fisici, e le porte chiuse possono voler dire tempo in più per ristrutturare, conservare, catalogare, progettare nuovi percorsi. Così ha fatto il Louvre di Parigi che ha perso i due terzi del pubblico (per lo più turisti stranieri) ma ha investito in laboratori di restauro. In Italia, già prima della pandemia la forma non era smagliante. Stando ai dati Istat 2019, il 36,3% dei visitatori si concentrava nei venti musei più visitati, che erano spesso gli stessi a beneficiare di più fondi statali e altri introiti da donazioni e vendita di servizi. Solo il 30% aveva un sito, solo il 48% i social.

Oltre all’online, come hanno lavorato i musei italiani durante nel 2020? Una manutenzione straordinaria (statue, pavimenti…) è stata fatta dal Palazzo Ducale di Genova. Possibile, spiega la direttrice Serena Bertolucci, grazie a personale tecnico in house: “Vengo dai musei di Stato e posso dire che altrove non si sarebbe potuto fare quello che abbiamo fatto noi”. Quando ha potuto riaprire, il Ducale ha lanciato i “5 minuti con Monet”. Una visita individuale a uno dei capolavori della serie delle Ninfee: sold out e 20 mila ingressi (uno ogni 5 minuti). Al Museo Archeologico di Taranto la chiusura ha lasciato più spazio per il catalogo. Si sono inseriti nuovi pezzi nel format delle “visite ai reperti mai visti”. Ma se il MArTa se l’è passata meglio di altri è anche perché ha realizzato un progetto di tour 3D, che da solo ha permesso di vendere 13 mila ingressi virtuali: “Il progetto di museo digitale è iniziato già nel 2016, capisco che altri musei abbiano avuto più difficoltà”, dice la direttrice Eva Degl’Innocenti. Altrove, i Civici di Reggio Emilia hanno costruito progetti didattici per portare il museo nelle scuole. Sulla formazione ha investito anche il Parco Archeologico di Paestum, e il direttore Gabriel Zuchtriegel parla di “un anno di attività fervente” negli scavi.

A Venezia, invece, la Fondazione Musei Civici terrà le porte chiuse fino ad aprile, nonostante gli oltre 7 milioni di aiuti ministeriali e un bilancio in attivo. Decisione del sindaco: meglio risparmiare fino al ritorno dei turisti. “Così si cancellano per mesi tutte le attività di conservazione e catalogazione, con i dipendenti in cassa integrazione”, denuncia Monica Sambo, consigliera comunale. Marzio Cresci dell’Associazione dei Piccoli Musei. conferma che la seconda parte dell’anno è stata dura. L’Apm ha creato la campagna #chiusimanonfermi e rilanciato la presenza dei piccoli musei con una biblioteca digitale condivisa.

La presenza social dei musei è raddoppiata, ma data la carenza di personale e l’impossibilità di utilizzare volontari (il 65% dei musei ne faceva uso, dato Istat) in pochi casi si è riusciti a offrire servizi online di alta qualità. Un sondaggio di Confcommercio ha rilevato che solo il 4% degli intervistati aveva usufruito di visite digitali durante il lockdown. E quanto alla seconda parte dell’anno: le ricerche Google mostrano che parole chiave come “visita virtuale” o “museo virtuale” dopo un picco a marzo erano già in disgrazia a maggio. Un museo chiuso può fare tante cose, ma per allestire attività straordinarie di catalogazione, conservazione, restauro o riallestimento, servono personale e competenze. Ma a maggio la Direzione Generale Musei parlava in un documento di “gravissima carenza di personale”, generalizzata.

E i fondi? Nei musei statali i fondi ministeriali sono andati per lo più a ripianare le perdite dei concessionari di servizi, mentre i musei civici sono dipesi dalla disponibilità e dai bilanci delle amministrazioni comunali. 19 milioni di euro vanno per la “Netflix della cultura”, 2 per i piccoli musei. Nulla per l’assunzione di esperti informatici, divulgatori, restauratori, catalogatori extra che avrebbero permesso di sfruttare al meglio i mesi di chiusura.

La sezione italiana dell’International Council of Museums, in un comunicato, riconosce “i consistenti, meritori interventi di ristoro per i mancati introiti derivanti dai biglietti”, ma auspica la riapertura con una “strategia complessiva” di “rilancio del settore”. E sul digitale segnalava che serve “colmare il ritardo accumulato” nella digitalizzazione con un programma complessivo: “Il digitale non può limitarsi alla scelta di una piattaforma di distribuzione.

Alla domanda su cosa abbiano fatto i musei nell’anno della pandemia, un’operatrice di un museo statale fiorentino rispone così: “Chi aveva già pianificato delle ristrutturazioni le ha portate avanti, ma quanto ad attività straordinarie ci si è limitati a video semi-amatoriali pubblicati online. Con il personale, già carente, in smart working o cassa integrazione, come si possono condurre attività diverse dalle ordinarie?”. A ciò si aggiunge la difficoltà di programmazione dovuta al perdurare dell’incertezza. Nel 2020 i musei italiani hanno dimostrato che possono fare di più che un semplice servizio di accoglienza. Nel 2021 dovranno capire se saranno in condizione per riuscirci.

Vite straordinarie, Gaetano Salvemini che vinse sul sisma

Questa è la storia di un uomo che nasce nel 1873 a Molfetta. Studi in seminario, poi primo incarico di insegnamento a Palermo. Per due anni è docente a Faenza, poi a Lodi e a Firenze. Nel 1901, a 28 anni, diventa docente di Storia all’Università di Messina. E qui accade il terribile, il terribile che tanti riescono a schivare arrivando a consegnarsi alla morte senza che sia successo niente di particolare nella loro vita.

La mattina del 28 dicembre 1908, la terra trema per 37 secondi tra Messina e Reggio Calabria. Cadono le due città e i paesi vicini, cade anche la terra dentro il mare. Muoiono più di centomila persone. Per alcuni giorni di lui non si sa nulla, lo danno per morto. Arriva persino un telegramma di condoglianze al suocero da parte di Mussolini. Ma lui è vivo e due mesi dopo scrive a un amico “io mi sono messo al lavoro, e vedo con gioia e con terrore che mi interessa”, e prosegue: “Tutti pensano che io ne sia uscito, mi credono forte, e non pensano che io sono un poveretto”.

Salvemini ha perso la moglie, Maria Minervini, figlia di un ingegnere pugliese, e i suoi cinque figli, Filippo, Leonida, Corrado, Ugo ed Elena. Il terremoto gli ha portato via pure la sorella e tanti amici e colleghi. Gaetano si era sposato con Maria il 21 ottobre 1897: “Presi moglie con 25 lire in tasca, e fui felice, pur dovendo vivere con 150 lire al mese”.

Nella piccola Italia c’è sempre stata una grande distanza tra il centro e il margine. Ce lo segnala ogni volta la storia del ritardo nei soccorsi dopo il terremoto.

Il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, viene informato dai primi dispacci nella tarda mattinata del 28 dicembre, ma sottovaluta le proporzioni della catastrofe e le liquida come “l’ennesima fastidiosa lamentela meridionale per il crollo di qualche comignolo!”.

Salvemini sull’Avanti! così descrive il terremoto: “Ero in letto allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me, e un rumore sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia come ero, balzai dal letto, e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva. Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come in un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversato da rumori come di valanga e da urla di gente che precipitando moriva. Tutto disparve tranne il muro maestro ove si trovava la finestra alla cui m’ero avvinghiato con la frenesia della disperazione. Sotto di me – si deve pensare che ero al quarto piano – le macerie avevano fatto un cumulo tale che il mio urto fu meno forte di quanto poteva aspettarmi. Mi feci male, ma non mi uccisi”.

Le grandi tragedie ci mettono davanti a un bivio: andare avanti con più furore o abbandonarsi al lento suicidio del rancore verso la vita che ci può togliere tutto quello che ci è caro. Salvemini perse perfino gran parte dei suoi scritti storiografici. Solo al mondo, ricomincia a testa alta la sua attività di studioso e di attivista politico.

Nel 1910 ottiene la cattedra pisana di Storia moderna. In quegli anni toscani prova a superare in qualche modo lo strazio delle giornate passate a frugare tra le macerie per disseppellire i corpi dei familiari, uno strazio che puoi accantonare di giorno, riempiendolo di nuove faccende, ma che torna ogni notte in sogno fino alla fine della tua esistenza.

Nel 1916 approda all’Università di Firenze e nello stesso anno sposa Fernande Dauriac. Questa donna ha due figli, Jean e Margherita, e con loro Salvemini ritrova la paternità perduta, ma molti anni dopo avrà un grande e doloroso dissidio con Jean in seguito alla sua scelta di sposare la causa del nazismo, che lo renderà noto a tutti come il “Führer della stampa collaborazionista” in Francia.

Torniamo indietro, alla vita in salita e all’opposizione di Gaetano Salvemini. Si batte contro Giolitti e poi contro il fascismo: viene arrestato nel giugno del 1925. Usufruisce di un’amnistia e ad agosto si rifugia clandestinamente in Francia dove si ritrova coi fratelli Rosselli con i quali fonda il movimento Giustizia e libertà.

Dopo un trasferimento in Inghilterra, nel 1934 approda negli Stati Uniti, va a insegnare ad Harvard e qui gli tocca imparare l’inglese a cinquant’anni per poter continuare il suo lavoro, per continuare la sua fuga da quella notte a Messina, da quei suoi cinque figli a cui forse non dedicò molto tempo, preso com’era dalla passione per i suoi studi e per le sue battaglie civili.

Torna in patria nel 1947 e riprende a combattere contro i dogmatismi clericali e comunisti, ma è una posizione che ha poco spazio. Muore a Sorrento il 6 settembre 1957.

Nell’Italia ciarliera e impaurita del 2020, forse è utile ricordare la vita fittissima di un uomo che ha saputo rispondere al dolore del caso con la passione della libertà: per lui “libertà significa il diritto di essere eretici, non conformisti di fronte alla cultura ufficiale”.

Una vita come la sua ci fa capire che siamo in uno spazio in cui si possono fare tante cose. Lui le ha fatte in 84 anni, ma si possono fare anche nei 53 di Pasolini o nei 35 di Mozart. Bisogna narrare la vita fitta che c’è stata un tempo, era fitta per ognuno, anche per quelli che non sono diventati famosi, la vita fitta di chi è emigrato o dei contadini rimasti nei loro paesi e che facevano tre ore al giorno solo per andare a piedi a zappare un pugno di terra.

Gaetano Salvemini spesso è citato per le sue idee politiche, ma andrebbe ricordato soprattutto per come è riuscito a vivere altri 43 anni dopo aver perso la sposa e i suoi cinque figli e sua sorella. La sua storia, prima ancora che le sue idee di storico, dovrebbe essere conosciuta da chi si ferma a volte davanti a ostacoli molto piccoli: siamo circondati da ammutinati per dolori che hanno solo immaginato, sconfitti da guerre che non hanno neppure combattuto. È volgare e mediocre una nazione che non sa dare fama durevole a persone come Salvemini. Lui ha combattuto idee che oggi hanno trovato nuovi figuranti, ma in fondo sono sempre le stesse, figlie di un Paese poco interessato agli spiriti liberi, ma solo alla manutenzione delle sue furbizie. Bisogna defurbizzare l’Italia, diceva Gianni Celati, uno che è andato via dalla patria di Dante perché non sopportava quello che siamo diventati.

Mps a Unicredit: regalo da 6 mld dallo Stato. E i titoli volano

Il ministero dell’Economia procede spedito nel tentativo di fondere Mps, nazionalizzata nel 2017 (e di cui ha il 64% del capitale) con Unicredit. In realtà, come noto, il Tesoro sta provando a regalare la banca senese con annessa cospicua dote pubblica. Come ha già riportato il Fatto, quest’ultima veleggia ormai verso i 6 miliardi complessivi tra incentivo fiscale inserito in manovra, amento di capitale, garanzie dai rischi legali pendenti su Mps e aiuti per gestire i tanti esuberi. Per venire incontro ai dubbi di Unicredit, si è aggiunto – come ha rivelato ieri la Reuters – anche un piano di cessione di 14 miliardi crediti deteriorati della banca milanese alla pubblica Amco, controllata proprio dal Tesoro.

Il ministero vuole accelerare e chiudere entro marzo, o comunque prima dell’estate, e proverà ad accontentare Unicredit. Come garante dell’operazione ha l’ex ministro Pier Carlo Padoan (che ha nazionalizzato Mps nel 2017), coopato nel cda della banca di cui diverrà presidente in primavera.

L’operazione non sembra ormai avere più ostacoli politici. E i rumors fanno volare i titoli in Borsa: Mps ha chiuso ieri a +3,6%; Unicredit a +6%.

Covid-19, Paypal e finanza: nuovo record per i Bitcoin

Parlare di Bitcoin è come scrivere ogni volta su un foglio bianco. Non c’è una storia lineare precedente, se non quella che riguarda la nascita e i primi passi della moneta virtuale: il suo valore sale e scende da decenni con una velocità ineguagliabile. Nessun titolo ha questo tipo di oscillazione. Per anni può moltiplicare il suo valore (anche del 1.000%), per altrettanti può tornare quasi a zero. Oggi, dopo un paio di anni di “pausa”, queste montagne russe hanno portato i bitcoin a toccare quota 35.842 dollari. Un nuovo record. La banca d’affari JP Morgan ha previsto che la criptovaluta possa toccare i 146mila dollari nel lungo termine.

Il rally è iniziato a ottobre, quando il circuito di pagamenti online Paypal ha annunciato che da quest’anno sarebbe “entrato nel mercato delle criptovalute”: significa non solo che le criptomonete potranno essere utilizzate per fare acquisti su Paypal, ma anche che i procedimenti di cambio e scambio diventeranno più semplici e meno tortuosi degli attuali, che hanno diversi intermediari e canali poco mainstream. A spingere la società guidata da Jack Dorsey a prendere questa decisione (Paypal è stata la prima ad abbandonare la Libra Association, il progetto della moneta digitale di Facebook) anche il rilascio, da parte del Dipartimento dei Servizi Finanziari di New York, di una Bitlicense, ovvero del permesso per scambiare e tenere nel portafoglio elettronico anche valute digitali.

In pochi giorni, il valore è passato dai 9mila ai 12mila dollari di ottobre, ai 15mila di metà novembre, ai 20mila circa di dicembre fino a quelli attuali. Secondo alcuni analisti, un altro motivo del balzo è dovuto all’euforia che l’andamento ha generato sui mercati finanziari, alle prese con la recessione causata dalla pandemia. Con i beni rifugio come i rendimenti dei bond vicini allo zero – è la teoria –, molti investitori scommettono su asset più rischiosi nella speranza di guadagni facili. E il bitcoin resta uno degli asset più rischiosi sui mercati dei capitali con un valore di mercato di 362 miliardi di dollari rispetto agli 11.900 miliardi dell’oro. Come se non bastasse, due settimane fa, Coinbase, una delle maggiori piattaforme di scambio di criptovalute, ha depositato in via riservata alla Sec (la Consob americana) la documentazione per lo sbarco in Borsa in quello che sarebbe il primo test ufficiale a Wall Street per le valute digitali. Secondo le ultime rilevazioni, Coinbase varrebbe almeno otto miliardi di dollari.

Slegati da qualsiasi asset materiale, i bitcoin restano comunque pura speculazione per tutti coloro a cui poco interessa il progetto originario (e rivoluzionario) della moneta sicura, che non ha bisogno di banche e che si “auto-certifica” grazie a una rete basata sugli utenti (la cosiddetta blockchain). Sui siti di trading online si possono comprare e vendere criptomonete con estrema semplicità ormai da anni, da quando la corsa all’oro virtuale ha visto il suo primo boom, nel 2017 e da quando anche le regole fiscali hanno stabilito la tassazione sulle plusvalenze. Le piattaforme si sono dovute anche adeguare alle direttive sull’antiriciclaggio.

Nonostante questo, però, nel tempo si sono moltiplicate sia le truffe (ce ne sono migliaia all’ordine del giorno) sia gli appelli per il ricorso dei bitcoin da parte delle mafie. La tracciabilità delle movimentazioni, per quanto non impossibile, è estremamente complicata. Nella presentazione di un rapporto sulle infiltrazioni in Toscana, il procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, qualche settimana fa ha dedicato attenzione anche a questo fenomeno: “Non dobbiamo trascurare il mondo della valuta virtuale, dei bitcoin – ha detto parlando anche dell’aumento dei rischi durante questa pandemia –. I finanzieri e tecnici informatici che lavorano per le mafie sono già avanti: gran parte del riciclaggio passa attraverso questi canali e noi su questo siamo abbastanza in ritardo”.

Carceri, sciopero senza buonsenso

Quando sento parlare di sciopero della fame, il pensiero corre a persone disposte a mettere a rischio la propria vita per difendere, in modo non violento, principi che ritengono fondamentali.

Il Mahatma Ghandi scelse la non violenza come metodo di lotta politica contro il dominio britannico in India, in coerenza con il suo insegnamento secondo il quale occhio per occhio rende tutto il mondo cieco. Altri, appartenenti a organizzazioni che avevano fatto uso della violenza (come l’I.R.A.), ricorsero allo sciopero della fame da detenuti, chiedendo lo status di prigionieri di guerra. L’atteggiamento britannico fu molto diverso: nel caso di Ghandi, le autorità non volevano rischiare che morisse in carcere; alcuni detenuti irlandesi, a fronte dell’intransigenza inglese, a partire da Bobby Sands morirono in carcere. In entrambi i casi, si trattava di cose terribilmente serie.

Non credo che lo sciopero della fame a staffetta possa essere paragonato a quelle tragedie del XX secolo e neppure credo che i valori in gioco siano paragonabili. Come ci informa il Riformista del 2 dicembre 2020, nel caso dello sciopero della fame a staffetta, si protesta contro il sovraffollamento delle carceri, nel momento in cui il numero dei detenuti in Italia è il più basso da molti anni. In un’intervista, Sandro Veronesi spiega (ed è il titolo del pezzo) che il governo è troppo debole per far votare un’amnistia, “ma liberarli si può”.

Premetto che sono d’accordo sul fatto che la civiltà di un Paese si misura anche da come vengono trattati i detenuti, ma sembra che la soluzione proposta sia quella di “liberarli”. Quasi tutte le opinioni sono rispettabili, ma si dovrebbe pur tener conto dei dati di fatto e della coerenza.

Cominciamo dai fatti: secondo i dati del ministero della Giustizia, al 31 dicembre 2020 nelle carceri italiane erano detenuti 53.364 uomini e 2.255 donne per un totale di 55.619 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 50.562 posti. Una nota ricorda però che i posti sono calcolati sulla base del criterio di 9 mq per il primo detenuto più 5 mq per gli altri (lo stesso per cui in Italia viene concessa l’abitabilità alle abitazioni civili; una superficie più elevata della media europea). La popolazione italiana al 1° gennaio 2020 era di 60.317.000 persone, quindi la proporzione di detenuti sulla popolazione è di 92,2 ogni centomila persone. Nel Consiglio d’Europa (organizzazione più ampia dell’Unione europea, che conta 47 Stati) la media è di 123,7 ogni 100 mila abitanti. Quindi l’Italia non ha più detenuti di altri Paesi, ad esempio in Francia sono 103,5; in Gran Bretagna 142,4; in Spagna 126,7 sempre ogni 100.000 abitanti (fonte: Euronews).

Eppure, ragionando come se il numero di detenuti fosse una variabile indipendente, non si chiede (ammesso che il sovraffollamento ci sia e a tacere del fatto che in Italia esistono organizzazioni criminali di particolare virulenza, oltre a un elevato numero di detenuti stranieri che non si riescono a rimpatriare) l’aumento dei posti-carcere, ma di liberare i detenuti. Trovando altri modi se, essendo il governo debole (ma si dovrebbe parlare di maggioranza in Parlamento), non si può approvare un’amnistia.

Qui veniamo alla mancanza di coerenza. Quando fu approvato il codice di procedura penale oggi vigente, coloro che avevano perplessità su una normativa che rendendo in generale non utilizzabili gli elementi acquisiti nella fase delle indagini e imponendo la reiterazione delle prove in dibattimento, avrebbe determinato, nell’ipotesi migliore, la triplicazione della durata dei processi. La risposta dei sostenitori del codice fu che ci sarebbero stati pochi dibattimenti in quanto la maggior parte dei procedimenti sarebbero stati definiti con patteggiamento o rito abbreviato. Citavano l’esempio degli Stati Uniti d’America dove solo il 4% dei procedimenti viene celebrato con il rito che si era voluto copiare. L’ovvia obiezione fu che in uno Stato dove, in cinquant’anni, c’erano stati 35 provvedimenti di amnistia e indulto, non si vedeva perché qualcuno dovesse patteggiare o chiedere il giudizio abbreviato, quando bastava aspettare per evitare ogni pena. Fu cambiata la Costituzione e introdotta una maggioranza qualificata per varare provvedimenti di clemenza (tuttavia alcuni provvedimenti di amnistia e indulto furono approvati). I riti alternativi tuttavia non sono decollati. La percentuale di processi dibattimentali che si celebrarono con rito ordinario coprì nel 2008 il 90,6% dei casi mentre il 9,4% si svolsero con riti alternativi: 5,4% con rito abbreviato, 4% con patteggiamento (Fonte Astrid-online.it, ricerca dell’Unione Camere Penali ed Eurispes). La ragione è che, alla luce della durata dei processi (conseguente al nuovo rito), da un lato la prescrizione ha sostituito l’amnistia (infatti i sostenitori dell’amnistia protestano anche contro la modifica della prescrizione) e che vi è la possibilità di differire l’esecuzione della pena a tempi migliori con impugnazioni in percentuali sconosciute in altri Stati. Quando si copia qualcosa da altri sistemi, bisognerebbe valutare il contesto in cui quegli istituti sono inseriti: di fronte alla straordinaria (rispetto ai nostri parametri) severità dei giudici statunitensi e del loro ordinamento processuale, ben si comprende perché pochissimi scelgano di andare a processo con giuria. Per fare un esempio, Bernard Madoff, che realizzò una serie di truffe , negli Usa fu condannato a 150 anni di carcere, che sta scontando; in Italia, dato il numero di vittime da esaminare, avrebbe certamente beneficiato della prescrizione.

C’è chi sostiene che la pena non svolge in realtà alcuna effettiva deterrenza, per cui si potrebbe anche abolire il carcere, ma chiediamoci come mai, invece, la pena detentiva sia applicata in tutto il mondo. In ogni caso, la valutazione va effettuata per tipi di reato e di autori degli stessi: i colletti bianchi sono attenti al calcolo costi/benefici (ce ne sono pochissimi in carcere: 230 in Italia, 7555 in Germania).

Più in generale, in un mondo dove le frontiere sono sempre più facilmente transitabili, il tasso di repressione concreta applicato in uno Stato non può essere troppo diverso da quello applicato in altri Stati, perché se è molto più alto si esporta criminalità, se è molto più basso si importa criminalità. Mi sembra puro buon senso.

Potrei iniziare uno sciopero della fame a staffetta per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul buon senso.

 

Variante inglese, misure inutili

Il vaccino anti Covid (o anti SarsCoV2?) ha conquistato la scena e sembra che il virus non interessi più. Forse è la regola della comunicazione. La novità soppianta il vecchio, anche se il virus sembra mostrare un vigore giovanile. Ecco allora a rivitalizzare l’argomento, la notizia della “variante inglese”. Il 19 dicembre è letteralmente esplosa la notizia che in Uk e in Irlanda si è palesata una forma variante di SarsCoV2, di tale pericolosità da far prendere in poche ore la decisione di chiudere i voli con le terre “infette” (ordinanza del ministero della Salute). Migliaia di italiani bivaccano negli aeroporti londinesi. I giornali e le tv trasmettono senza sosta notizie su questo “terribile” nuovo virus che sembra responsabile di disastri inauditi. Immediatamente i laboratori di riferimento vengono invitati a sequenziare i virus isolati da soggetti provenienti dal Regno Unito negli ultimi 14 gg (più di 1.000 euro per virus sequenziato!). Pochi si fermano a pensare o si documentano. Di mutanti un virus a Rna ne produce a migliaia. La cosiddetta variante Uk, unitamente ad altre tre o quattro che appaiono più importanti, sono conosciute dallo scorso settembre. Chi fa scattare l’allarme non è uno scienziato, ma Boris Johnson che convoca una conferenza stampa per dichiarare che la variante in oggetto è la causa della impennata di contagi nel suo Paese. Come se fosse così semplice rilevare un nesso di causa-effetto tra una variante virale e un fenomeno osservato. Eppure alcuni governi si lasciano abbagliare dalla notizia. Chiudere le frontiere è una misura che si è mostrata da tempo inutile, soprattutto quando si vuole limitare un fenomeno che esiste da mesi. La notizia sembra sgonfiarsi, ma ecco che arrivano la variante bresciana e quella sudafricana. Fortunatamente nessuno ha chiesto di chiudere i confini con la provincia di Brescia, mentre l’Africa sembra troppo lontana per minacciarci.

 

Mail box

 

Più inchieste su survivor e suicidi : postatele su Fb

Mi chiamo Francesca, sono una studentessa di 21 anni appassionata di medicina, e soprattutto di psichiatria. Avete postato sui social un bellissimo articolo sul tema del suicidio. Parlava di prevenzione e di quanto sia importante tenere conto del crescente numero di survivor e suicidi, ma, sfortunatamente, questo articolo non ha superato la “soglia” dei social e non è più possibile rintracciarlo. Capisco che abbiate un codice giornalistico che impone attenzione nel trasmettere notizie sui suicidi e nell’occuparsi del tema, per scongiurare l’emulazione, ma c’è bisogno di un articolo così. Anzi di più articoli così. In attesa di una vostra gentile risposta, auguri di buon anno!

Francesca Marcantognini


Cara Francesca, grazie per averci scritto. Abbiamo pubblicato proprio un anno fa uno “Sherlock”, il nostro inserto investigativo, sulla strage silenziosa dei suicidi. Non tutti i post che facciamo sui nostri profili social rimandano a contenuti “free”, ma posso dirti che in questo caso, per scelta editoriale, è possibile leggere le diverse puntate dell’inchiesta sul nostro sito (e su www.amicidisalvataggio.it dell’associazione Alessandra Appiano). Avrai quindi facilità a rintracciare tutto. Continua a leggerci! Specie perché sei così giovane.

Maddalena Oliva

 

La querela di Boschi: una medaglia al merito

Ho letto della citazione in giudizio che la esimia Meb di Italia Morta avrebbe indirizzato a Travaglio per lo splendido articolo sui veri transfughi. Una medaglia di merito certamente. Travaglio sappia che io come gli altri lettori che hanno già scritto saremo sempre al suo fianco e sosterremo il nostro quotidiano con qualunque iniziativa.

Patrizia D’Ambrosia

 

Condividiamo l’appello di Libertà e giustizia

Cari amici del Fatto, non possiamo condividere l’appello di Libertà e giustizia? Avere migliaia di firme non potrebbero che dargli un peso maggiore. Siamo tutti preoccupati e temiamo il peggio…

Adriana Re

Cara Adriana, certo che possiamo: aderendo sul sito di Libertà e giustizia.
M. Trav.

 

Una proposta (disillusa) per chi cambia casacca

Penso che il più che legittimo invito richiamo alla coerenza di Travaglio non avrà alcun effetto sulle coscienze dei 48 Onorevoli e Senatori in questione, perché il “cambio di casacca” è ampiamente consentito (formalmente) dai regolamenti sui gruppi parlamentari. Costoro si celeranno dietro le “regole” che loro stessi (se onesti) avrebbero potuto cambiare. Sappiamo che le famose “correnti” della Dc in molti casi determinarono più danni che benefici ma in altri furono determinanti per soluzioni altrimenti non attuabili. Psichiatri per tutti?

Dario Vinci

 

Quanta verità nei pezzi di Daniela Ranieri

Da gentiluomo quale mi ritengo essere, ho il dovere di schierarmi senza alcuna esitazione dalla parte di una delle giornaliste del Fatto che più stimo, ovvero lei, se attaccata da una mediocre passante della politica italiana al soldo di Italia Viva; benché, se una volta mi sarei sentito in dovere di schiaffeggiare con il guanto bianco il cicisbeo della statista toscana, tal Renzi, allo scopo di impallinarlo all’alba in duello (e l’avrei spacciato con grande piacere), oggi debba farlo semplicemente schierandomi dalla parte sua: ha la mia totale solidarietà per il ridicolo attacco che le viene portato da Maria Elena Boschi con le sue querele, soprattutto perché l’ho capito anche io, poco pratico di diritto, che sono solo tentativi di mantenere la pistola puntata contro il Fatto, senza mai farla sparare perché in realtà è a salve. In pratica, tutta scena. Al di là delle fantasie venute fuori da qualche romanzo francese, mi viene soltanto da dire una cosa: anche se non ho modo di ricordarli, tanto tempo è passato, quegli articoli dovevano essere indubbiamente pieni di verità, tagliente e perciò dolorosa; è l’unica ragione per cui ha un senso che si ritengano ancora meritevoli di attenzione. Sento tintinnar di sciabole accompagnato da rosicar di denti. Per quanto riguarda la causa per l’editoriale di Travaglio dell’altro giorno, non val la pena nemmeno commentare una simile notizia: c’è della follia e della vera disperazione nel comportamento della Maria Antonietta di Montevarchi.

Giovanni Contreras

 

Diciamolo forte e chiaro: avanti Conte

Mi ritrovo pienamente con la vostra posizione sulla crisi di governo. Grazie per l’appello a scrivere ai transfughi di Italia Viva. Facciamoci sentire. Ma perché solo a loro? Perché non scrivere anche ai parlamentari del Pd per dire forte e chiaro che il governo deve andare avanti? #IoStoConConte.

Andrea Gallo

 

Rinnovo il mio sostegno anche per quest’anno

Stamattina ha rinnovato il mio sostegno al Fatto Quotidiano, e sono contento di averlo fatto. Grazie di esserci, avanti così.

Giuliano Checchi