Pena di morte Papa Francesco l’ha abolita in Vaticano (il catechismo no)

Cara Redazione, sarebbe interessante se il Fatto, l’unico quotidiano che leggo sin dalla sua fondazione, potesse indagare su quanto segue. L’articolo 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica recita: “L’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani”. Oltre a essere un obbrobrio, è anche una palese sciocchezza parlare di legittima difesa nel caso della pena di morte, che è il più premeditato degli omicidi. Ma la cosa più interessante è che nel maggio del 2018 il Papa ha ordinato con un Rescriptum la modifica dell’articolo, con effetto immediato. Sta di fatto che a oggi, 7 gennaio 2021, l’articolo 2267 risulta ancora immodificato. Perché? Il Papa è al corrente che le sue disposizioni sono state disattese?

Ettore Vitale

 

Caro Ettore, la modifica dell’articolo 2267 del Catechismo della Chiesa cattolica sulla pena di morte è stata approvata da Papa Francesco l’11 maggio 2018 ed è entrata in vigore il 1° agosto successivo. Sul sito della Santa Sede, gestito dalla Segreteria di Stato vaticana, compare ancora, come specificato chiaramente, la versione non aggiornata dell’intero Catechismo, quella cioè approvata da san Giovanni Paolo II nel 1992. La formulazione attuale dell’articolo 2267 è la seguente: “Per molto tempo il ricorso alla pena di morte da parte della legittima autorità, dopo un processo regolare, fu ritenuta una risposta adeguata alla gravità di alcuni delitti e un mezzo accettabile, anche se estremo, per la tutela del bene comune. Oggi è sempre più viva la consapevolezza che la dignità della persona non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi. Inoltre, si è diffusa una nuova comprensione del senso delle sanzioni penali da parte dello Stato. Infine, sono stati messi a punto sistemi di detenzione più efficaci, che garantiscono la doverosa difesa dei cittadini ma, allo stesso tempo, non tolgono al reo in modo definitivo la possibilità di redimersi. Pertanto la Chiesa insegna, alla luce del Vangelo, che la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona, e si impegna con determinazione per la sua abolizione in tutto il mondo”.

Francesco Antonio Grana

“Ho fatto un sogno”: basta talk e interviste in ginocchio ai leader

Ci dev’essere in giro un altro virus, visto che è successo pure al sottoscritto, come ad Antonio Padellaro, Marco Travaglio e molti lettori, di fare un sogno, anche se di un genere leggermente diverso (ci sarà una variante!): un “sogno all’incontrario” come quelli di Paolo Rossi a Su la testa!, un programma cult della tv degli anni 90.

Ebbene l’altra notte, dopo l’ennesimo talk, ho sognato che i giornalisti dei telegiornali della Rai, stanchi di reggere il microfono per raccogliere, senza un ba né un ma, le dichiarazioni dei politici, si ribellavano ai direttori e allo scempio informativo reso al Paese dai loro tg, costringendoli ad abolire il “carosello” delle inutili figurine parlanti in coda alla cronaca politica. La sollevazione delle redazioni di Viale Mazzini provocava una identica ribellione a Mediaset sortendo anche qui una storica svolta: così come per incanto, al posto dei video su Fb o del parlato con sguardo in camera, pieni di frasi di circostanza e paracule strizzatine d’occhio, ricomparivano interviste vere e domande vere.

Come sempre succede in questi casi, l’azione dei giornalisti scatenava una serie di reazioni a catena. I primi a cadere erano i talk della sera. Come d’incanto i politici si vedevano rifiutare dai conduttori le domande concordate in anticipo alla maniera di Suarez, né potevano più mettere becco, come sempre avvenuto, sugli ospiti della puntata. Di fronte a questo sommovimento molti addetti stampa, i cui compiti erano proprio quelli di addomesticare le domande e dettare le regole d’ingaggio, perdevano il posto di lavoro: anche Rocco Casalino, che per consolarsi rientrava nella casa del Grande Fratello dopo vent’anni. A seguire cadeva pure Vespa: Porta a Porta per decisione dei vertici aziendali tornava a due serate come all’inizio, facendo spazio ai programmi di altri giornalisti più giovani. Venivano poi regolate le uscite promozionali dei suoi libri, contenute in una percentuale d’affollamento massima del 20% ogni ora. Subiva un drastico ridimensionamento anche il genere dell’“intervista da strada”, aggressiva, spesso silente, a volte importuna, sostituita da quelle alla Bernardo Iovene: intervistato da un lato, intervistatore con camera puntata dall’altro, secondo operatore a riprendere la scena, e poi domande, risposte e nessuna via di fuga. Questa mezza rivoluzione non lasciava impassibile nemmeno l’onorevole Anzaldi che chiedeva scusa all’opinione pubblica per non essersi accorto prima, quando le faceva Renzi, delle cose che adesso contestava quotidianamente agli altri. C’era rimasto particolarmente male per la sua ultima interpellanza sulle immagini del premier utilizzate nei tg Rai, che lui ipotizzava provenissero dalla stessa presidenza del Consiglio, perchè gli avevano fatto notare che era proprio il sistema usato da Renzi: a sua parziale discolpa Anzaldi ammetteva di essersi distratto.

Nei sogni le immagini, si sa, si susseguono frammentarie, ma dovevo essere ancora nel trip onirico perché a un certo punto Conte in conferenza stampa annunciava l’abolizione della Gasparri e una nuova legge di riforma della tv, mentre subito dopo compariva Santoro, ritornato in video a condurre un nuovo programma d’informazione, un fatto che mi faceva sentire di colpo più giovane. Mi risvegliavo così rinfrancato e pronto al nuovo giorno, non senza però che mi tornasse in mente che proprio uno dei collaboratori di questo giornale, Gad Lerner, durante la sua breve direzione del Tg1 aveva racchiuso, con innovativa provocazione, le stucchevoli allocuzioni dei politici ai tiggì nella sigla che si meritavano, quella del vecchio Carosello. Per poi abolirle completamente e sostituirle con delle vere interviste sul tema del giorno. Era il luglio del 2000, ma volendo si può fare anche oggi.

 

Piersanti Mattarella, 41 anni di omertà, ma pure di antimafia

Era appena uscito di casa per andare a Messa, quando una silenziosa mano assassina si avvicinò al finestrino della Fiat 132 e iniziò a fare fuoco verso il guidatore, con una Colt Cobra calibro 38 Special. La moglie Irma Chiazzese, al suo fianco, tentò di proteggerlo, rimanendo ferita di striscio a un mano. Nei sedili posteriori la madre e la figlia rimasero impietrite. Morì così mezz’ora dopo, in ospedale, la domenica dell’Epifania del 1980, il presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella, l’astro nascente della Democrazia Cristiana, che aveva cercato, percorrendo la via dell’intransigenza, di moralizzare, di rendere trasparente la gestione della vita politica in Sicilia e di aprire al Partito comunista il governo dell’isola, sulla scia di quanto aveva fatto Aldo Moro su scala nazionale, a sua volta rapito a Roma due anni prima, per essere ucciso il 9 maggio 1978.

Mattarella si era impegnato per sgretolare il sistema di potere politico-mafioso e il vasto raggio delle complicità che si irradiava sulla gestione degli appalti regionali per le opere pubbliche, che aveva in Salvo Lima e in Vito Ciancimino i massimi garanti. Prima di morire, aveva ordinato un’ispezione al Comune di Palermo su appalti di sei scuole comunali, aggiudicati al gruppo Spatola-Gambino-Inzerillo. Pochi mesi prima di essere trucidato, aveva rappresentato al ministro dell’Interno, Virginio Rognoni, il proposito di far pulizia, come ci ricordano gli appunti del diario del giudice istruttore Rocco Chinnici. Erano gli anni in cui i politici, che trescavano disinvoltamente con i mafiosi, erano convinti di appartenere a una classe di intoccabili. E un uomo come Mattarella, a Palermo, quando il nostro Paese era privo di una legislazione antimafia, aveva il destino segnato: la sua ascesa andava fermata e occorreva lanciare un segnale forte a quella parte della classe dirigente che aveva in animo di liberare la Sicilia dal giogo del sistema di potere mafioso.

Quarantuno anni dopo, quel delitto continua a essere avvolto da una cortina di ferro. Non conosciamo, infatti, il nome dell’esecutore materiale e dei registi occulti. Quel che è certo è che la via Libertà, dove Mattarella fu assassinato, rientra nel territorio del mandamento di Resuttana, governato da Francesco Madonia, che alcuni collaboratori di giustizia hanno accreditato di legami con esponenti dei Servizi segreti. Un processo tuttavia è stato celebrato: sono stati riconosciuti colpevoli, in via definitiva, quali mandanti, gli appartenenti alla cupola (Riina, Madonia e soci). Come assassini di Mattarella per anni furono indicati due neofascisti, Gilberto Cavallini e Valerio Fioravanti. Una pista nera, che portò Giovanni Falcone a emettere nei loro confronti mandati di cattura per omicidio e favoreggiamento. Si sospettò che avessero agito su espressa richiesta di Pippo Calò. Una pista che non trovò conferme. Permangono segreti rimasti non adeguatamente esplorati. Gli interrogativi – volti a scoprire se vi sia stato un interesse della politica collaterale a quello di cosa nostra – sono senza risposta.

Da quell’assassinio molte cose sono cambiate nel Paese. Una lunga scia di sangue di servitori dello Stato ed eventi stragisti hanno preceduto la celebrazione di grandi processi contro le cosche e le complicità politiche; è stata varata una efficacia legislazione antimafia; si è formata una coscienza antimafia in molti e oggi il fratello della vittima riveste la più alta carica dello Stato. Sono rimasti, però, Cosa Nostra, l’omertà, il reticolo delle sue relazioni politico-affaristiche e le infiltrazioni nella vita pubblica. Ma anche il valore della moralizzazione e la voglia di novità in politica voluti da Piersanti Mattarella: l’esempio della sua netta e coraggiosa presa di posizione costituisce una lezione di civiltà e di democrazia per le classi dirigenti del Paese.

 

Afghanistan, la guerra infinita: l’Italia se ne vada

In ogni occasione solenne Papa Francesco invoca, come da ragione indotta, la pace e deplora i tantissimi conflitti in atto nel mondo. Cita la Libia, la Siria, l’Iraq, la Somalia, lo Yemen, il Sudan, con un po’ più di prudenza la Palestina, e di recente il conflitto apertosi per il Nagorno Karabakh. Ma non nomina mai l’Afghanistan. Strano, perché la guerra all’Afghanistan, e non “in Afghanistan” come ipocritamente si dice, dura da 19 anni, da quando nel 2001 gli americani con i loro alleati occidentali invasero quel Paese ed è la più lunga guerra moderna. Come mai? Per dirla alla Marzullo, fatevi una domanda e datevi una risposta. La risposta è che i principali responsabili di quella guerra, che ha distrutto l’economia di un Paese già povero, la sua socialità, la sua cultura, la sua etica e fatto un numero incalcolabile di morti, incalcolabile perché mai calcolato nemmeno da alcuna organizzazione internazionale, siamo senza se e senza ma, noi occidentali.

Quella guerra aveva all’inizio una sua giustificazione: nel territorio dell’Afghanistan, governato allora dai Talebani, si trovava Bin Laden, considerato il responsabile dell’attentato alle Torri Gemelle, anche se in seguito è stato appurato senza ombra di dubbio che la dirigenza talebana nulla sapeva di quell’attentato e nulla c’entrava.

Adesso che gli americani, su iniziativa dell’infamato Trump, che non ci stava a spendere 45 miliardi l’anno per una guerra che, secondo gli stessi esperti del Pentagono, “non si può vincere”, si stanno ritirando, mentre noi italiani rimaniamo là non si capisce a far che, spendendo 6,3 miliardi l’anno con i quali non si risana un bilancio ma che, soprattutto in epoca di pandemia, sarebbero molto utili qui, come utili sarebbero gli 800 nostri militari che rimangono in quel Paese (domanda che ho posto tre volte al ministro degli Esteri Di Maio non con degli articoli, ma parlandogli vis-à-vis) la guerra, questa volta sì “in Afghanistan”, continua. Solo nel 2019/2020 i morti sono stati 34 mila. Chi si batte attualmente in Afghanistan? I Talebani contro il governo collaborazionista imposto dagli americani e il cosiddetto “esercito regolare”, ancora i Talebani contro l’Isis penetrato da cinque anni in quel Paese per responsabilità indiretta degli stessi occupanti che non hanno capito che Isis era il pericolo principale e hanno invece costretto i Talebani a battersi su due fronti (occupanti e Isis), e lo stesso Isis che gioca al macello colpendo indiscriminatamente i civili.

Come si esce da questa situazione? Con gli americani un accordo è stato trovato e gli yankee se ne stanno andando, ma resta lo spinoso problema del rapporto fra il governo di Kabul e i Talebani che controllano ormai quasi il 90% del Paese. Un dialogo fra queste forze sperequate è stato aperto da alcuni mesi a Doha in Qatar. Ma trovare un accordo è difficilissimo. Ashraf Ghani, l’attuale presidente dell’Afghanistan, e i suoi vogliono conservare il potere, ma i Talebani non potranno mai accettarlo, non hanno combattuto vent’anni, lasciando sul campo decine di migliaia di guerriglieri, per trovarsi punto e a capo, con sulla testa un governo collaborazionista come lo era quello di Najibullah alle dirette dipendenze dei sovietici. Nel 1996, quando il Mullah Omar conquistò il potere, fece giustiziare Najibullah e il giorno dopo concesse un’amnistia generale che rispettò per tutti gli anni del suo governo. Ma adesso la situazione è molto diversa. La vecchia generazione talebana che aveva contribuito a sconfiggere i sovietici, che aveva sconfitto e cacciato dal Paese i “signori della guerra”, Dostum, Hekmatyar, Ismael Khan, Massud, non c’è più. I suoi dirigenti sono morti in battaglia (solo Omar, stroncato da 25 anni di combattimenti vissuti in condizioni impossibili è morto, per tubercolosi, nel suo letto nel 2015). I nuovi Talebani, incarogniti da vent’anni di guerra, non hanno la saggezza né di Omar né del suo numero due Mansur ucciso da un drone americano. Se Ashraf Ghani e i suoi, la sua polizia corrotta, la sua magistratura corrotta, la sua pubblica amministrazione corrotta, non capiscono che devono cedere il passo in fretta, si profila in Afghanistan un bagno di sangue non diverso, anzi un po’ peggiore, di quello che ci fu in Italia dopo la fine della Seconda guerra mondiale (e infatti Togliatti, allora ministro della Giustizia, concesse saggiamente un’amnistia così come Omar aveva fatto nel 1996). Non credo che i Talebani si accaniranno contro i soldati dell’esercito “regolare” afghano, sono ragazzi come loro che si sono arruolati per disperazione, per avere un salario in un Paese che da povero era diventato poverissimo. Ai principali collaborazionisti non si darà requie. La soluzione sarebbe munirli di un salvacondotto in modo che possano riparare negli Stati Uniti o in qualche altro Paese loro amico come l’Iran sciita. Ma se le cose andranno in questo modo lo potremo sapere, sempre che Isis venga nel frattempo sconfitto, solo nei mesi e negli anni a venire.

 

Astrologi scettici, vampiri e ghiaccioli: 25 scuse per Conte sul Recovery

Entro aprile, il governo Conte dovrà inviare alla Commissione europea il Piano italiano per accedere ai 209 miliardi previsti dal Recovery Fund. “Se perderemo questa sfida avrete il diritto di mandarci a casa”, ha detto qualche mese fa il presidente del Consiglio. Nel caso non riuscisse a mantenere la promessa, ecco alcune ottime scuse con cui potrà giustificare il flop che i giornaloni annunciano da mesi, ed evitare il linciaggio da parte della folla inferocita:

1) Non è colpa mia, ma degli alleati di governo, e del fatto che non ho il 51 per cento, e dei paletti europei, e della pandemia in corso, e di Renzi che fa il cioccapiatti ogni due per tre.

2) I botti di Capodanno mi hanno disorientato.

3) Olivia a letto è insaziabile.

4) Bruno Vespa porta sfiga.

5) Casalino mi aveva detto che il capo del governo era lui.

6) Ogni volta che gli telefono per avere consigli, Dario Fo, un artista che ci fa tanto divertire, non si fa mai trovare.

7) La Commissione europea ha detto no perché temeva che spendessi tutti i soldi per un nuovo sigillo della Presidenza del Consiglio, stavolta grande come il Colosseo.

8) Sono ancora sconvolto dalla morte di Maradona.

9) Provateci voi a redigere un Piano per il Recovery Fund con la sinusite cronica.

10) I video di gattini su Instagram sono una droga!

11) Devo continuamente togliermi di dosso Casalino in calore.

12) Da quando promettere di redigere un Piano, e non farlo, è considerato un flop?

13) Non ho fatto in tempo a scriverlo perché quest’estate ho mangiato un ghiacciolo troppo velocemente e mi è venuta una fitta dolorosa alla radice del naso che è ancora lì.

14) Accusate me? Come se qualcuno di voi avesse mai scritto un Piano per il Recovery Fund!

15) Non riesco a smettere di ridere ogni volta che Nicola Savino mi imita a Radio Deejay.

16) Ursula von der Leyen mi fa paura. L’avete guardata bene? Non mi stupirei se fosse un vampiro.

17) In Consiglio dei ministri resto sempre ipnotizzato dalla somiglianza fra Lucia Azzolina e Sabina Guzzanti.

18) Scrivere un Piano per il Recovery Fund? L’oroscopo di Paolo Fox diceva di non farlo.

19) Io dico che scriverò un Piano per il Recovery Fund e voi mi prendete alla lettera? Era quella che Paul Ricoeur definirebbe “una metafora”.

20) Volevo scriverlo, ma mai che si trovi una biro quando ti serve. Non è forse vero, gente?

21) Difficile concentrarsi su un Piano quando hai fantasie erotiche sulla Bellanova.

22) Prima devo fare una legge che renda deducibile il papà di Olivia.

23) Ho detto che avrei scritto un Piano per il Recovery Fund? Intendevo dire che avrei creato un super servizio segreto.

24) Sono solo un pupazzo nelle mani della Troika.

25) Recovery Fund? Quale Recovery Fund?

 

Il Pd ha l’arte di stare a galla senza far nulla

Un lettore si è offeso perché ieri, in tv, a L’aria che tira ho detto che la strategia del Pd è quella del “morto a galla”. Mi viene perciò richiesto maggiore rispetto per il partito che (riassumo) tiene in vita i valori della sinistra, e che (riassumo) fa da argine al populismo più becero. Concordo, e a dimostrazione che l’immagine adoperata non era affatto denigratoria, suggerisco la lettura in Internet dei numerosi apprezzamenti per questa tecnica di galleggiamento. Che “non è per tutti, richiede la capacità di non avere paura dell’acqua e di rilassarsi completamente, il corpo e la mente abbandonati tra le onde”. E poi, aggiungerei, con la corrente adatta si può lo stesso procedere verso la meta senza per questo sollevare fastidiosi spruzzi.

Del resto, sul Foglio di ieri, quotidiano non certo animato da pregiudizio verso i dem, Salvatore Merlo a proposito di Nicola Zingaretti scrive di un “galleggiatore da palude”, che “rifugge dall’azione, perché l’azione provoca attrito e l’attrito conduce al pericolo”. A parte che la palude fa venire in mente gli alligatori, non posso fare mia la cattiveria secondo cui il segretario “vuole sconfiggere Conte con Renzi, e poi, vuole anche sconfiggere Renzi con Conte”.

No, credo piuttosto che l’attuale condizione del Pd sia paragonabile a quella di chi, dopo aver subito un forte e prolungato trauma psichico (per esempio la possessione da parte di Matteo Renzi), segua le raccomandazioni del medico specialista: niente emozioni, molto riposo e una minestrina la sera.

Se dal Nazareno non esce uno spiffero è dunque perché tutti bisbigliano come a Villa Serena, tanto che l’esponente più ardimentoso, il vicesegretario Andrea Orlando, a un giornalista che gli chiedeva della crisi di governo, ha sussurrato: “Se c’è volontà politica le formule si trovano”. Sembra però che subito dopo si sia molto raccomandato con l’autore dello scoop con un io non le ho detto niente. A smentire la leggenda di queste acque chete ci sarebbe Dario Franceschini, che nei retroscena dei giornali emerge sempre come un tipo piuttosto agitato, uno che alla mattina si scontra con Renzi, al pomeriggio alterca con la collega Azzolina, e alla sera complotta per sostituire Conte. A noi risulta, al contrario, che lo schivo ministro dei Beni culturali, nonché affermato scrittore, presenzi alle riunioni di governo immerso negli appunti della sua prossima fatica dal titolo: Io non sono cattivo, è che mi disegnano così.

Assange, niente libertà: “C’è il pericolo di fuga”

Non uscirà. Julian Assange rimarrà incarcerato nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, dopo che ieri mattina il giudice Vanessa Baraitser gli ha negato il rilascio su cauzione. Assange non ha più conosciuto la libertà dal 7 dicembre 2010. Da quella data in poi, ha trascorso un anno e mezzo agli arresti domiciliari con il braccialetto elettronico intorno alla caviglia, finché il 19 giugno 2012 è entrato nel- l’ambasciata dell’Ecuador a Londra e ci è rimasto confinato per sette anni, senza neppure un’ora d’aria al giorno, fino all’11 aprile 2019, quando è stato arrestato dalle autorità inglesi e trasferito nella prigione di Belmarsh, dove si trova da allora e dove rimarrà fino a quando gli Stati Uniti non avranno presentato l’appello contro l’estradizione negata. Un procedimento giudiziario questo che potrebbe andare avanti per anni e avere conseguenze devastanti sulle sue condizioni fisiche e mentali, considerando che è solo ed esclusivamente a causa di esse che appena due giorni fa il giudice Baraitser ha rigettato la richiesta. Quando ieri mattina è iniziata l’udienza per decidere il rilascio, la situazione di Assange è apparsa subito difficile.

Il fondatore di WikiLeaks non era presente, come invece lunedì scorso, quando era stato portato in aula dalla sua cella, curato, in giacca e cravatta, ma drammaticamente dimagrito e aveva ascoltato la sentenza con atteggiamento stoico, tradito solo dalle mani che si tormentava. L’avvocata Clair Dobbin, che nel procedimento di estradizione rappresenta gli Stati Uniti insieme con il collega James Lewis, ieri assente, ha elencato uno dopo l’altro gli argomenti legali contro il rilascio. Gelida e asettica – a differenza del collega Lewis che in più di un’occasione ha tradito la sua ostilità –, Dobbin ha argomentato che gli Stati Uniti ritengono reale il rischio che Assange possa scappare di nuovo, come fece nel 2012, quando si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador, e ha citato l’aiuto che Assange dette a Edward Snowden nella sua fuga; ha aggiunto che le sue condizioni di salute “non sono così gravi come la sua difesa le ha valutate”. Infine, ha contestato che il legame affettivo con la compagna, Stella Morris, da cui ha avuto due bambini – che sono piccoli e non vedono il padre da mesi, dopo che le visite in prigione sono state sospese a causa del Covid – sia profondo: “Non hanno mai vissuto insieme”, ha dichiarato Dobbin in aula, aggiungendo che l’offerta di asilo da parte del Messico conferma lo scenario che Julian Assange potrebbe di nuovo scappare rifugiandosi in un’ambasciata di un Paese amico. La difesa del fondatore di WikiLeaks, rappresentata dall’avvocato Edward Fitzgerald dello studio legale londinese Doughty Street Chambers, dove lavora anche Amal Clooney, ha rigettato tutte le argomentazioni insistendo sulle serie condizioni di salute di Julian Assange. Fitzgerald ha anche citato i dati sul dilagare del Covid a Belmarsh, su cui il giudice ha avuto da ridire. Chi scrive ha cercato per mesi di avere statistiche ufficiali dalle autorità inglesi: ce le hanno negate. Il giudice Baraitser ha rigettato la richiesta di rilascio su cauzione, ritenendo che Assange abbia “ancora un incentivo a sfuggire alla legge”.

L’avvocatessa della Georgia che ha portato i neri al voto

“Vincere i seggi al Senato per i Democratici è fondamentale, perché è così che avremo accesso all’assistenza sanitaria, è così che avremo accesso al lavoro, è così che avremo accesso alla giustizia. La mia responsabilità è quella di concentrarmi il più possibile solo su ciò che conta per ottenere questo traguardo”. Sono queste le parole con cui la politica afroamericana membro del Partito Democratico, Stacey Abrams, ha sollecitato i cittadini di colore della Georgia ad andare a votare al ballottaggio e optare per i suoi candidati senatori. Se con l’esito del ballottaggio la Georgia oggi sarà oggi tutta blu consegnando il Senato a Democratici, ciò è dovuto soprattutto all’afroamericana Stacey Abrams e alle tante donne di colore che ha ispirato a impegnarsi attivamente nelle ultime elezioni.

Sotto la guida dell’avvocata 47enne, laureata alla prestigiosa Università di Yale, le neo attiviste hanno formato numerose organizzazioni di base con il compito dirimente di registrare negli elenchi pubblici i cittadini e le cittadine che intendevano votare dopo averli motivati porta a porta, spiegando loro l’importanza di ogni singolo voto. E infatti molte donne di colore sono state spinte dal carisma di Abrams a votare il ticket Joe Biden-Kamal Harris. La senatrice e vicepresidente eletta degli Stati Uniti, ha riconosciuto pubblicamente l’infaticabile lavoro di questa energica donna per portare alle urne l’elettorato femminile afroamericano e determinare il suo ingresso alla Casa Bianca. Linda Grant, che è stata osservatrice dei sondaggi elettorali, ha detto che il nome della signora Abrams è spesso invocato come sinonimo del verbo ‘fare’. Nel 2018 Abrams è riuscita a diventare la prima donna afroamericana a correre per i dem alla carica di governatore della Georgia, allora roccaforte repubblicana. Vinse il suo sfidante, Brian Kemp, segretario di Stato della Georgia da lungo tempo. Durante i suoi sei anni in carica, Kemp ha cancellato le registrazioni degli elettori per più di un milione di residenti a causa di un “errore.” Per rispondere a ciò che invece denunciava come “privazione del diritto di voto”, la battagliera rappresentante di opposizione del parlamento della Georgia e da anni membro del partito democratico fondò l’organizzazione Fair Fight Action proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sul furto di questo diritto. Tra un impegno politico e l’altro Abrams coltiva la passione della scrittura attraverso saggi ma anche romanzi dalla trama talvolta romantica. È però dal 2019 che Abrams è diventata una personalità politica conosciuta in tutti gli Stati Uniti. Due anni fa, infatti, fu la prima donna afroamericana a esprimere la risposta democratica al discorso sullo stato dell’Unione di Trump. Le elezioni presidenziali dell’anno scorso grazie alle sue “campagne di coinvolgimento” l’hanno lanciata nel firmamento politico e anche il 2021 si profila promettente. Il 1° gennaio Abrams ha scritto via Twitter che “la vittoria in Georgia di Biden è stata il risultato di un decennio di duro lavoro delle donne di colore”.

Vanita Gupta, presidente e ceo di The Leadership Conference on Civil and Human Rights ha attribuito ad Abrams il merito di aver abbattuto le barriere sociali ed etniche e costruito una coalizione multirazziale captando il cambiamento demografico nel sud dove sta aumentando significativamente la comunità latina. Abrams ha aumentato con gli anni la sua visibilità grazie anche al programma tv Own Spotlight: where do we go from here? e ha prodotto per la tv pubblica adattamenti di alcuni suoi racconti.

Il Reality Trump finisce in assedio al Campidoglio

Lo scenario è da guerra civile: la capitale federale blindata da polizia e guardia nazionale e centinaia di ‘trumpiani’ che aizzati dal presidente assediano il Campidoglio, gli danno l’assalto e vi si introducono, alcuni armati, inducendo parlamentari e funzionari ad evacuare due edifici e costringendo i parlamentari a sospendere i lavori. Le immagini tv mostrano agenti dell’Fbi con le armi in pugno nell’aula del Senato, un energumeno che si siede sullo scranno del presidente del Senato e un altro su quello della presidente della Camera; altri fatti sdraiare a terra nei corridoi con le mani sopra la testa; ci sarebbero diversi feriti: una donna e alcuni agenti.

Fatti senza precedenti a Washington. Il presidente eletto Joe Biden denuncia il presidente uscente Donald Trump per avere infiammato gli animi dei suoi sostenitori con ripetute false affermazioni sulle “elezioni rubate” e parla di minaccia senza precedenti alla democrazia negli Usa. E i media constatano l’inazione del presidente, che, dopo avere fomentato i suoi fan, si limita a un appello perché rispettino la polizia e le forze dell’ordine, che “sono dalla nostra parte”, senza però tutelare le Istituzioni. Poi, finalmente compare in televisione, dopo che Biden quasi gli ha ingiunto da farlo: “Andate a casa”, dice, insistendo, però, che le elezioni sono state rubate e criticando il suo vice Mike Pence per la mancanza di coraggio nel difenderlo.

Nelle strade di Washington giungono rinforzi dalla Virginia, a dare man forte ai 340 militari della Guardia Nazionale che affiancano la Metropolitan Police per mantenere l’ordine, dopo tafferugli la notte tra martedì e mercoledì, vicino alla Casa Bianca. Molte strade sono bloccate con mezzi pesanti, i controlli sono stringenti. Ma i manifestanti, spinti dalle parole incendiarie di Trump, premono all’ingresso dell’edificio del Congresso.

Per il magnate presidente, è il giorno più nero: lui che vuole sempre vincere si trova cucita addosso l’etichetta di ‘looser’, perdente. Ma Trump non s’arrende né al diritto né all’evidenza: rilancia accuse di brogli e truffe, e arringa i suoi fan all’Ellipse, a sud della Casa Bianca, al raduno Save America.

Ai suoi sostenitori, che non sono una folla oceanica, Donald il perdente propina l’ultima fake news: “Se Mike Pence fa la cosa giusta, vinciamo le elezioni”, mettendo pressione sul suo vice perché ribalti nella plenaria del Congresso il risultato del voto. E bolla come “deboli” i repubblicani che intendono certificare la vittoria di Biden.

Pence presiede la riunione congiunta di Camera e Senato, che deve prendere atto del voto espresso il 14 dicembre dal Collegio elettorale: 306 per Biden e 232 per Trump. “Gli Stati – dice il magnate – vogliono correggere i loro suffragi che sanno essere basati su irregolarità e frodi. Tutto quello che Mike deve fare è rinviarli agli Stati, così VINCEREMO. Fallo Mike, è l’ora dell’estremo coraggio”.

Le possibilità di un colpo di mano istituzionale riposa sull’iniziativa di una dozzina di senatori, guidati dall’ex aspirante alla nomination Ted Cruz, e di decine di deputati repubblicani che contestano i voti nei sei Stati più contesi, quelli dove Trump ha invano presentato ricorsi, tutti respinti. Si comincia, in ordine alfabetico, dall’Arizona: quando viene annunciata la prima contestazione, l’applauso che l’accompagna dà una misura del sostegno alla mossa, largo, ma non maggioritario.

La procedura prevede che, se almeno un deputato e un senatore sollevano obiezioni ai voti espressi dal Collegio elettorale, il Congresso interrompa la plenaria e le Camere ne discutano separatamente per un massimo di 2 ore e poi votino. Per ribaltare il risultato dei Grandi Elettori occorre il consenso di entrambi i rami del Congresso e, dato che i democratici sono comunque maggioranza alla Camera, a prescindere dai risultati della Georgia, ogni contestazione sembra destinata al fallimento, ma creerà confusione e ritardi.

Dr Dre, genio dell’hip hop, ricoverato dopo un aneurisma

In un messaggio dal letto del Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, Dr. Dre rassicura amici e fan: “Sto bene e mi curano in modo eccellente”. Il rapper e produttore, 55 anni, ha avuto un aneurisma. È lucido, ma resta in ospedale per una serie di esami. “Sarò presto a casa”, dice.

Dre si trova nel mezzo di una lunga, faticosa causa legale con l’ex moglie Nicole, che gli chiede 2 milioni di dollari al mese per il mantenimento e 5 milioni per le spese legali sostenute.

Soldi, drammi familiari, il privato che si mescola continuamente al pubblico sono elementi che segnano da sempre Andre Romelle Young, il suo vero nome, nato in California e cresciuto da una nonna nel mezzo delle violenze di strada della Grande Los Angeles. È quel mondo fatto di gang, droga, lotta per la sopravvivenza che Dr. Dre, insieme agli altri artisti del West Coast Rap – da Eazy-E a Ice Cub a Tupac Shakur – ha messo in musica, creando uno dei più geniali esperimenti del Novecento artistico americano.

È un mondo che ha alla fine spezzato molti dei suoi protagonisti: dalla morte violenta e carica di misteri di Tupac alla condanna al carcere per Suge Knight. Dr. Dre è alla fine quello che del gruppo è riuscito a tenere la barra dritta, che agli anni difficili e intensi della giovinezza ha dato un esito di successo, di status e ricchezza. Nel 2018 era il secondo artista di hip-hop più ricco d’America, con un patrimonio personale di 800 milioni. Guai, cadute, drammi non l’hanno mai abbandonato. Nel 2008 il figlio Andre, 20 anni, moriva per una overdose di eroina. E sono tante le donne che l’hanno accusato di violenze e abusi. Nel 2015 a Rolling Stone, diceva: “Ho fatto molti fottuti errori nella vita. Ma ho pagato e al diavolo se li rifarei ancora”.