I dem scelgono: “Non faremo il governissimo”

“Conte è un punto di equilibrio, se si toglie il premier si rotola verso le elezioni”. E ancora: “Governissimo? Io avrei grande imbarazzo, non credo che si diminuisca la confusione mettendosi con Salvini e la Meloni”. È Andrea Orlando, vicesegretario Pd, a dare la linea. Che si muove intorno a due pilastri. Uno: non esistono altre maggioranze, oltre a quella attuale. Due: non esiste altro premier, oltre a Giuseppe Conte. E quindi, i dem non sono disponibili a nessun governo di larghe intese, di salute pubblica, di scopo, o che dir si voglia. E neanche a prendere in considerazione l’idea di sostituire questo premier. Non perché vada tutto bene, ma perché non c’è un’altra personalità davvero spendibile per i giallorossi: né Dario Franceschini o Lorenzo Guerini, che non potrebbero essere accettati da M5s; nè Luigi Di Maio, meno forte di Conte.

Martedì sera c’è stato l’ufficio politico dei dem: oltre a Nicola Zingaretti e a Orlando, hanno partecipato gli stessi Franceschini e Guerini, non solo nelle vesti di ministri, ma in quella di capi delle correnti maggiori del partito. E Paola De Micheli, come coordinatrice della mozione Zingaretti al congresso, i capigruppo, Graziano Delrio e Andrea Marcucci.

Più passano i giorni, più il rischio che la crisi si trascini e si scivoli verso soluzioni improponibili per i dem aumenta. L’iniziativa politica in questa fase è stata confusa: prima il Pd ha mandato Renzi avanti, poi la situazione è sfuggita di mano. Dopodiché, il partito si è esibito in valutazioni come “né con Renzi, né con Conte”. Per trovarsi messo di fatto all’angolo, rispetto ai due che hanno il pallino in mano. Senza trovare una voce e una strategia unica, tra governisti, tentati dal voto e viceversa tentati dall’entrata nell’esecutivo. A questo punto i dem sembrano aver scelto la strada.

Con Renzi ci parla prima di tutto Franceschini, ma anche Zingaretti e Orlando. Nella loro veste di mediatori, gli stanno offrendo di tutto. D’accordo con Conte, che ieri ha esplicitato le sue aperture. Dunque, le modifiche al Recovery Plan (a partire dai 9 miliardi in più per la sanità, un terzo del Mes), la cessione della delega ai Servizi segreti da parte del premier. E poi, la revisione degli assetti di governo. Si sta lavorando sia sulla possibilità di allargare il governo (inserendo prima di tutto un ministro per la gestione del Recovery Plan), sia su un rimpasto più sostanzioso. Per Iv ci sarebbe un ministero in più. In cima alla lista, il Mit. Ma se Renzi dovesse insistere, anche la Difesa, con Guerini spostato al Viminale. Nelle valutazioni non secondarie che si fanno in casa dem in queste ore, c’è anche il fatto che Ettore Rosato e Maria Elena Boschi, davanti alla prospettiva di entrare nell’esecutivo, sarebbero meno inclini a seguirlo sulla strada di una crisi senza sbocchi certi. Il Pd non è chiuso nemmeno davanti all’ipotesi di un governo dei leader, nel caso Renzi si decidesse a entrare. Però, fino a ieri, l’ex premier continuava – nei colloqui privati – a chiedere la crisi. Ovvero le dimissioni di Conte. Il Pd non è contrario neanche di fronte a questa ipotesi. Ma non si fida. E dunque, per arrivarci ci vorrebbe un’intervista chiara di Renzi che dà il via al Conte ter, annunciandone le basi programmatiche, oppure un accordo scritto. Tra le difficoltà, c’è anche il fatto che Conte non chiama Renzi e che un incontro tra leader non è possibile, a meno che l’accordo non sia già blindato. Altrimenti, diventerebbe la rappresentazione del fallimento. Il timore resta quello che il leader di Iv sia disposto a tutto pur di far saltare Conte. Mentre gioca su altri tavoli. Anche per questo, il Pd si è deciso a ribadire la strada delle urne. Il rischio di trovarsi incastrato in un governo di tutti esiste.

E in casa dem sanno che Sergio Mattarella potrebbe dare il via a un governo elettorale, che porti il Paese al voto non in piena pandemia, ma prima dell’estate. Come sanno che Conte può alla fine scegliere la conta in Senato. Un’opzione che al Nazareno non piace. Così come piace l’idea di un esecutivo con i Responsabili, in sostituzione di Iv. Ma la storia si fa giorno per giorno. E se davvero ne arrivassero a sufficienza, chi sa. Di certo, se questa crisi si risolve, il Pd cercherà dei “puntelli” per evitare che Renzi rigiochi la stessa partita.

Conte apre al rimpasto: “Ma poi basta”. Renzi, solito doppio gioco

Il presidente tende la mano al nemico che vuole la sua gola. Gli offre dritto il rimpasto, assicurando “il rafforzamento della squadra di governo”. Rivendica le robuste modifiche al Recovery Plan e ne ventila altre. E promette: “Non è mai venuta meno e mai verrà meno da me l’apertura al confronto e all’ascolto delle forze che sostengono il governo”. Il segnale di Giuseppe Conte a Matteo Renzi arriva ieri pomeriggio tramite post, dopo giorni di tattico silenzio. E pare il limite massimo a cui l’avvocato può spingersi. “Più di questo oggettivamente non si può, così abbiamo tolto a Renzi ogni pretesto per andare alla crisi” riassume una fonte di governo molto vicina al presidente del Consiglio.

Il fu rottamatore vede la mossa. E parlando al Tg3 alterna bastone e carota. “Se Conte è in grado di lavorare faccia, altrimenti toccherà ad altri” avverte, per poi scandire che “non esistono governi di scopo” e che “non esiste alcun rischio di voto anticipato”, tanto per calmare i suoi di Italia Viva, per cui le urne sarebbero il baratro. Ma Renzi lascia aperto anche qualche spiraglio: “Sul Recovery lo abbiamo detto: più investimenti e meno bonus. E da quello che si legge, il governo sembra aver cambiato idea, segno che forse le idee di Iv non erano così male”. Certo, “poi dalle parole bisognerà passare ai fatti”. Ma qualcosa forse si muove. E lo conferma la prima, rapidissima reazione di Iv al post di Conte: “La politica parla con atti e non su Facebook, ma il post sembra andare in una direzione che pare raccolga una serie di nostre richieste”.

Insomma, qualcosa si muove. Innanzitutto per la carta messa sul tavolo da Conte, dopo una mattinata di cattivi pensieri, con ambienti di Palazzo Chigi a ruminare preoccupazione: “Ogni giorno Renzi chiede una cosa in più”. Ma anche il capo di Iv sa che, senza Conte premier, la maggioranza non terrebbe. Esploderebbe il Movimento, innanzitutto. E anche il Pd avrebbe i suoi problemi. Ergo, quelle elezioni anticipate che nessuno vuole, e per primo Renzi, diventerebbero più di un residuale rischio. Però per arrivare a un punto di caduta bisogna fare ancora moltissima strada. Il primo a saperlo è Conte, che fa sapere: “A breve ci ritroveremo con tutte le forze di maggioranza per operare una sintesi complessiva sui progetti del Recovery”. Tra oggi e domani dovrà arrivare una riunione dei capi delegazione per fare il punto (ma ieri sera non era stata ancora convocato nulla). Tappa fondamentale per capire se e come si potrà arrivare al Consiglio dei ministri dove andrà approvato il piano. “Poi riattiveremo il confronto con il Parlamento e le opposizioni” ricorda il premier. Ossia, dalle Camere bisognerà comunque passare. Ma Conte per ora non vuole sfidare alla conta definitiva Renzi, che pure ieri sera l’ha evocata (“Conte ha detto che verrà in Senato e lo aspettiamo lì”). I famosi Responsabili latitano, prima di tutto perché il premier non li ha chiamati offrendo garanzie. Anche se una fonte di governo sostiene: “I responsabili per reggere ci sono, già oggi ne mancherebbero solo tre o quattro. Ma Conte non vuole ancora esporsi, perché la via maestra per lui è ricomporre questa maggioranza”. Certo, “se poi Renzi insistesse, allora sì che ci conteremmo”. Ma ora proveranno ancora a rimettere assieme i cocci. Conte, come il Pd, vorrebbe un rimpasto leggero, con qualche ministro e sottosegretario dimissionario da sostituire, schivando il pericoloso passaggio delle dimissioni preventive del premier: quasi un invito a colpire per Renzi. Ma il capo di Iv insiste per un Conte ter, con il premier dimissionario al Colle. A margine, i sussulti nel M5S. Luigi Di Maio ha teorizzato che se, del caso, si possono perdere anche uno o due ministeri, ma l’importante sarà avere ruoli di peso. Mentre in una riunione dei Direttivi, il reggente Vito Crimi ha evocato il voto anticipato. E poi c’è Beppe Grillo, che tifa per una resa dei conti con Renzi. Ieri lo ha chiarito con un post in cui cita un famoso discorso di Cicerone: “Fino a quando Catilina abuserai della nostra pazienza?”.

Ma molti hanno notato anche la pubblicazione sul blog di un post di Alessandro Di Battista, con cui mesi fa aveva litigato sul tema del capo politico. Un riavvicinamento che pare un altro segnale a Renzi. Tradotto, il Garante è pronto anche alle urne. Con Conte, e con Di Battista.

Stampa alla vaccinara

I nostri giornali preferiti ci avevano assicurato che i vaccini non sarebbero arrivati, anzi se era per questo neppure le siringhe, ed era tutto un “vaccini caos”, “vaccini flop”, “ritardo vaccini”, “piano vaccini inesistente”, “vaccini a rotelle”, “cacciate Arcuri”, “Italia ultima in Europa”, anzi nel mondo, anzi nella galassia. E da mesi e mesi, prim’ancora che arrivassero le prime dosi.

Corriere della Sera: “Il governo sui vaccini a rilento” (3.1).

Repubblica: “Vaccino, la falsa partenza. I ritardi dell’Italia” (30.12), “Vaccini, si va troppo piano” (2.1). “Vaccinazioni a rilento” (3.1).

Sole 24 Ore: “Basta errori e ritardi, serve il piano per i vaccini” (Fabio Tamburini, 24.11), “Piano tedesco pronto, Italia già in ritardo” (24.11), “Vaccini: l’Ue accelera, l’Italia insegue” (16.12), “Vaccini a rischio flop” (17.12).

Messaggero: “Frenata vaccini, Italia in ritardo” (12.12), “L’Italia è già in ritardo” (16.12), “Vaccini, l’Italia resta indietro” (29.12).

Stampa: “Ecco perché non funziona il piano Speranza” (Emma Bonino, 29.12), “La campagna di vaccinazioni non decolla” (31.12),“La vaccinazione in Italia non decolla” (2.1).

Manifesto: “Vaccino day: l’Europa parte insieme, ma l’Italia è indietro” (17.12), “Troppo piano” (30.12).

Giornale: “L’Italia parte già ultima” (15.12), “Vaccini, si finirà solo tra 18 mesi” (30.12), “Ennesimo flop. Arcuri ammette: il piano vaccini non c’è” (3.1). “Vaccini in ritardo, siamo pronti a collaborare” (S. B., 4.1).

Verità: “Tante chiacchiere, pochi vaccini. Prepariamoci al peggio” (29.12), “Ecco il piano vaccini che Arcuri non sa fare” (30.12), “I veri No Vax sono Conte e Arcuri. Gli altri Paesi corrono, qui se va bene ci vorranno 2 anni a immunizzare tutti” (31.12), “A Conte e Arcuri i No Vax fanno comodo” (Mario Giordano, 2.1).

Libero: “L’Italia ultima a fare i vaccini” (Vittorio Feltri, 16.12). “L’antidoto c’è per quasi tutti meno che per noi” (V.F., 18.12), “Casellati su Conte: ‘Fallisce sul vaccino’”, “La campagna vaccinale in Italia parte per finta” (19.12), “Da pandemia a pandemonio. Vaccinazioni a rilento. Arcuri, ecco chi è il regista del disastro” (30.12), “Smascherato: Speranza non vuol comperare i vaccini” (31.12), “Vaccino, siamo ultimi. Italia incapace di fare iniezioni. Israele va come un treno, bene tedeschi e danesi. Noi fanalino di coda”, “Italia col fiatone: superata da Oman e Polonia” (Renato Farina, 2.1), “Tutti i Paesi vaccinano. Noi no: colpa di Arcuri. Il nostro è il governo più imbranato” (3.1), “A questo ritmo saremo vaccinati tutti tra 23 anni. Disastro totale” (4.1).

Domani: “Il solito Arcuri cade sempre più in alto: ora pure il vaccino. Flop e promozioni” (12.11), “La differenza tra uno spot e un vero piano di vaccinazione di massa. Il solito Arcuri” (28.12), “Il piano vaccini è appena iniziato, ma è già sotto accusa” (4.1).

Anche i nostri editorialisti preferiti segnavano burrasca. Luca Ricolfi (Messaggero): “Se il sogno del vaccino alla fine non si avvera”. Antonio Scurati (Corriere): “Le già poche vaccinazioni procedono a rilento e senza certezze”. Carlo Verdelli (Corriere) tuonava contro questo che “non è un governo normale, non lo è mai stato”, infatti abbiamo “le più carenti provviste di vaccini e una delle più basse percentuali di vaccinati del mondo”. E grazie a chi? All’“onnipresente commissario a tutto, l’ineffabile Arcuri”, che è lì apposta per sbagliarle tutte. Inclusa la “falsa partenza” dei vaccini: “se l’obiettivo dichiarato è vaccinare 470mila persone alla settimana (in realtà quelle sono le dosi settimanali di Pfizer, cui ora si aggiungono Moderna e via via le altre, ma queste son cose che sanno solo i giornalisti normali, ndr), ci vorranno almeno due anni per coprire il 70% della popolazione”. Roba da grattarsi.
L’ultima speme erano i nostri twittaroli preferiti, quelli che a luglio e ottobre tuonavano contro le proroghe liberticide dello stato d’emergenza e ora vogliono più emergenza. Ma anch’essi ci sprofondavano nel più cupo sconforto. Pigi Battista controllava ogni due minuti le tabelle dei vaccini europei e scuoteva il capino sconsolato “Poco. Troppo poco. Pochissimo. Sbrigarsi, su”, “Disperazione vera. Sgomento” per l’“arroganza dell’incompetenza” di chi? Di Arcuri, of course. “Ma che vergogna!”, “Tornate a bordo! Sbrigarsi!”, “In Germania vaccinate 78.109, in Italia 9.803. In Germania sono bravi. Copiare!”. E giù scambi di cinguettii funerari con quegli allegroni di Burioni, Johnny Riotta, Crosetto e il commissario Jacoboni, che tumulava a piè fermo: “Conte cadrà per la disastrosa gestione del piano vaccini”, “Abbiamo un premier inadeguato, piano vaccini inesistente, struttura commissariale per l’emergenza grottesca”.

Non so voi, ma io stavo già telefonando a un amico russo per procurarmi uno Sputnik di straforo, quando ho notato un fatto bizzarro: Battista e il commissario Jacoboni, dal modello Germania, viravano all’improvviso sul modello Israele. Ohibò, mi son detto. E ho controllato le tabelle: l’Italia non è ultima in Europa per vaccini fatti, ma addirittura seconda. E tra domenica e martedì ha vaccinato 190mila persone, contro le 113mila della Germania. Pazienza, ragazzi, dài: per ora è andata così. Ma andrà peggio in futuro. Intanto pensavate fosse un ago, invece era una trave.

Classici della catastrofe e diari del lockdown: il Covid ha contagiato persino l’editoria

Il Covid si è preso anche i libri. Non solo per i festival annullati e le librerie chiuse per mesi, ma per il fragoroso ingresso del virus tra gli argomenti di pubblicazione. Lo ha scritto John Williams sul New York Times, parlando di Stati Uniti: lo shock pandemico ha dominato l’annata editoriale, oscurato solo da sprazzi di politica made in Usa, tra confessioni della nipote di Trump e la biografia di Obama. E in Italia cosa è successo?

Non c’è un editore che non abbia mandato in stampa qualcosa sul Covid: decine e decine i libri usciti. Nel tentativo di capirci qualcosa, l’ha fatta da padrone settore della non-fiction. I virologi Burioni e Ilaria Capua, divulgatori scientifici come Matteo Malvaldi o il matematico Adam Kucharski. Percorso con convinzione il filone della storia delle epidemie, che ha fatto rispolverare i libri di Richard Preston su Ebola, il saggio sulla Spagnola di Laura Spinney, il citatissimo Spillover di Quanmen. Più recente il Pandemie di Mark Honigsbaum. Hanno venduto bene.

Accanto a long form giornalistici, il genere “cronaca della pandemia” si è nutrito dei racconti dei medici. Si sono cercati i pareri di saggisti eccellenti: Zadie Smith, Noam Chomsky, il novantenne filosofo francese Alain Badiou. Di Slavoj Zizek si diceva avesse iniziato a scrivere di pandemia a febbraio e non si fosse più fermato. Per stare al passo, Ponte alle grazie ha avuto l’originale idea di pubblicare un ebook (titolo: Virus) in continuo aggiornamento fino a fine anno.

Per la narrativa è più complicato: un romanzo non si scrive in due mesi, anche se di lockdown. Gli editor ritengono che per capire se, e come, il Covid avrà influenzato l’immaginario letterario si dovrà aspettare. Anche perché (forse con la sola eccezione degli ironici Racconti contagiosi di Siegmund Ginzberg) la narrativa sembra ancora ferma allo stadio del “diario dello scrittore”. Va citato il caso di The end of October di Lawrence Wright, tradotto da Piemme (come Pandemia): thriller del 2019 che ha finito per godere della stessa fama del film Contagion di Soderbergh.

E mentre si discute se i romanzi d’ambientazione contemporanea debbano contemplare il Covid (non è arrogante scrivere di contatto fisico ignorando che è un anno che ce ne priviamo?), nei manoscritti cominciano a comparire mascherine e serate chiusi in casa. A guardare le previsioni editoriali, però, la tendenza sembra di lasciarsi il virus alle spalle. Si pregustano già le grandi uscite del 2021 (in parte recuperi) e si spera parlino d’altro.

Le idee pandemiche restano volentieri in un cassetto. Sperando di non doverle usare.

“Il debutto con Pelù? Un bagno di sudore, ma zero rimpianti”

Federico “Ghigo” Renzulli è uno dei chitarristi più rappresentativi del rock italiano, fondatore e unico membro fisso dei Litfiba, la più longeva rock band italiana. Nella sua recente autobiografia, 40 anni da Litfiba (Arcana), si mette a nudo, raccontando la storia della band, che è anche la sua.

Le sue radici musicali, punk, post-punk e new wave, risalgono alla sua esperienza londinese nel 1977, quando ha vissuto la nascente scena punk, facendo anche uso di droghe e vivendo negli squat. Rimpiange qualcosa di quella “vita spericolata”?

No. Ricordo quegli avvenimenti con estremo piacere, ma non rimpiango niente. Sono state esperienze forti e importanti per la mia formazione, che hanno contribuito a costruire la mia personalità odierna, in cui mi sento perfettamente realizzato.

Nel 1979 ha formato con Raf il suo primo gruppo ufficiale, i Cafè Caracas, con i quali ha suonato in apertura al concerto dei Clash il 1° giugno 1980 a Bologna. Che ricordo ha?

Dei Clash ricordo solo l’esibizione. Joe non l’ho mai conosciuto e l’ho visto solo da lontano, quando è salito sul palco. Ebbero un atteggiamento molto riservato e non socializzarono con nessuno.

Il 6 dicembre 1980 nascono ufficialmente i Litfiba con il primo concerto al Rokkoteca Brighton di Settignano, Firenze…

Il locale era piccolo e stracolmo di gente con un palco basso e minuscolo. Ricordo soprattutto l’energia della serata abbinata a un enorme bagno di sudore.

I Litfiba cominciarono a provare nella mitica cantina di via de’ Bardi n. 32 a Firenze, da cui il nome della band. Che fine ha fatto quel locale?

Il locale esiste sempre e fino a poco tempo fa c’era un gruppo che provava. Già da diversi anni è diventato un luogo di culto e di pellegrinaggio da parte di tutti i fan che regolarmente tappezzano la facciata esterna di scritte e murale.

Uno dei vostri storici batteristi era Ringo De Palma, purtroppo prematuramente scomparso nel 1990…

Ho un dolce ricordo. Era dotato di una grande personalità artistica, allegra, solare, creativa e sensibile. Quando c’era malumore nella band bastava una sua battuta e gli animi si rasserenavano.

Uno dei membri fondatori della band è stato Gianni Maroccolo, storico bassista dei Litfiba fino al 1990 (poi nei Cccp e nei Csi). Ha mai pensato di riformare il vecchio nucleo con Maroccolo e Aiazzi?

L’ho già fatto nel 2013 per l’avventura Trilogia 1983-1989 e spero che le nostre energie ritrovino ancora la quadratura giusta per poterlo rifare.

Il suo rapporto con Piero Pelù ha fatto affiorare contrasti e divergenze che hanno portato alla rottura: Pelù ha un’anima più pop, lei invece è ancora legato alle vecchie radici rock. È ancora così?

Direi ancora di più. Il rock è uno stile di vita e un modo di essere, sicuramente un po’ in declino, visto il generale appiattimento di pensiero causato dalla Rete. Ma la voglia di essere fuori dagli schemi e di pensare con la propria testa è sempre forte, viva e vegeta.

No.Vox è il suo nuovo progetto musicale, aperto a sperimentazioni strumentali, in cui mette insieme le sue radici e passioni. Come intende svilupparlo e in che modo può interagire con la musica dei Litfiba?

No.Vox è un nuovo progetto artistico a 360 gradi, destinato a svilupparsi nel tempo. Non ha impedimenti temporali, dato che la musica strumentale si può suonare nei teatri e non c’è alcun problema con i Litfiba, poiché i due progetti non sono assolutamente concorrenziali.

L’ultimo album dei Litfiba, Eutòpia, è uscito nel 2016. Sta scrivendo altro con la band?

I Litfiba attualmente sono in pausa. Sono un compositore e il materiale che compongo si divide in due categorie ben distinte: quello adatto ad essere strumentale, che verrà utilizzato nel progetto No.Vox e quello adatto all’inserimento di un cantante, che per ora rimane in magazzino e che verrà utilizzato per i Litfiba o per ulteriori progetti con altri interpreti.

Il secondo sesso nazista

Un cazzo ebreo, titolo. Ma non lasciamoci distrarre dal “cazzo”; qui quello che conta è l’“ebreo”, uno per tutti il dottor Seligman che, “in quanto ebreo, andrà senza dubbio in paradiso”. È a lui che si confida la svalvolata e geniale protagonista del romanzo: un flusso di coscienza di cento pagine e poco più, chiacchierato e applaudito caso editoriale all’ultima Fiera di Francoforte e “libro dell’anno 2020” per il Times Literary Supplement.

Ne è autrice una giovane esordiente tedesca, Katharina Volckmer, classe 1987, di stanza a Londra dove lavora per un’agenzia letteraria. The Appointment: Or, the Story of a Jewish Cook (Grasset & Fasquelle) è in corso di traduzione in dodici Paesi e domani esce in libreria in Italia (con un po’ d’anticipo rispetto al Giorno della Memoria) – col titolo accorciato a Un cazzo ebreo – grazie ai tipi della Nave di Teseo e con la traduzione di Chiara Spaziani. Attenzione, se ordinate sul censore Amazon, chiedete pudicamente Un ca**o ebreo.

Siamo alle altezze del Lamento del prepuzio, ma al contrario: quello della Volckmer è il lamento delle Schamlippen, “che in tedesco quelle labbra lì sono chiamate ‘labbra della vergogna’”, i genitali di una giovane donna che mai si è sentita a proprio agio nel suo corpo, e nel suo sesso biologico. Oltretutto, per lei il mondo è retto da una dittatura del fallo, che “tiene sempre viva la distinzione tra chi ha un cazzo e chi no”; invece – lamenta la paziente sul lettino del medico – “dovremmo bandire l’arma (il pene, ndr) e non la ferita (la vagina, ndr)”.

Chi parla al dottor Seligman è senza nome, ma ha voce potente, come di rado si legge nella narrativa contemporanea: è un mostro questa ragazza; “un gatto che abbaia”; una “tragedia nel corpo femminile”. Ma l’eco di questa voce – che blatera di piselli e sex toys, rapporti orali e sodomia – è ancor più dolente e spettrale: nazismo, sterminio, colpe, vittime. D’altronde, l’aveva già intuito Houellebecq il rapporto incestuoso tra amplessi e lunghi coltelli: “Giovinezza, bellezza, forza: i criteri dell’amore fisico sono gli stessi del nazismo”. Ecco dunque questo vertiginoso e surreale intreccio tra ginecologia e Olocausto: dissacrante e ironico, ma mai volgare o irrispettoso. È delle più “Benevole” Katharina e ha lo humour di certa letteratura ebraico-americana, da Bellow in giù.

Costruito geometricamente come un monologo teatrale, come una confessione delittuosa, come un giallo malizioso, il romanzo va letto d’un fiato e non spoilerato, rincorrendo i sogni e le fantasie sessuali della narratrice su Hitler e i suoi progetti di acquistare “un robot personale da scoparsi”, creatole apposta dal dottor Shimada in Giappone. Della donna si sa poco: è tedesca, figlia di cattolici, ha appena perso il lavoro e contemporaneamente ricevuto l’eredità del nonno defunto. Di solito apprezza e ricerca “l’igiene dell’amore”, anche nei cessi pubblici; ha un ex amante, tale K, un fratello mai nato, Emil, una madre vanitosa e iper-femminile e un padre malato, venditore porta a porta in pensione, abituato a recarsi annualmente alla “conferenza sulle lavatrici” di Norimberga: “Tutto”, in quella città, “pur di far dimenticare alla gente l’altro evento che era solito svolgersi lì e le famose leggi”.

Costa caro fare i conti con la Germania: l’“Heimat”, la patria, odora sempre di sangue, anche a chilometri di distanza, in quella Londra in cui la protagonista cerca rifugio e aiuto – consolazione, forse – da parte dell’ebreo Seligman. Ma come può “de-nazificarsi” un popolo che “non è mai stato in lutto”? Meglio crogiolarsi nelle illusioni adolescenziali: “Quando ero più giovane pensavo sempre che il solo modo per superare davvero l’Olocausto sarebbe stato amare un ebreo”. Superare, però, è impossibile per chi non è “mai stato veramente capace di comprendere quello che abbiamo fatto, dottor Seligman”. Viceversa, “la conoscenza rende le persone brutte” e i carnefici carnefici; così, alla fine, la narratrice sceglie di sapere, e di cambiare, convinta com’è del potere catartico del suo nuovo scintillante “cazzo ebreo”.

La tregua fra Tripoli e Haftar solo a parole: scontri a Sabha

Se sia un fuoco fatuo o se invece si tratti dell’inizio di una nuova fase della guerra civile libica in grado di far saltare la tregua permanente stabilita lo scorso ottobre a Ginevra sotto le insegne delle Nazioni Unite, lo si saprà a breve. Un fatto però è sicuro: i violenti scontri armati di questi giorni tra le fazioni libiche rivali del generale Khalifa Haftar e del premier tripolino Fayez al-Sarraj nella città sud-occidentale di Sabha non fanno ben sperare sull’esito del processo in corso per formare un governo di transizione in vista delle elezioni generali fissate per la fine del 2021. Gli scontri sarebbero scoppiati dopo che le truppe governative hanno congestionato il traffico davanti alla base dell’Esercito nazionale libico (LNA) di Haftar. I combattimenti sono terminati quando le forze dell’Esercito nazionale libico sono riuscite a prendere il controllo del quartier generale del Governo di Accordo Nazionale (GNA). Le milizie di Haftar controllano la maggior parte del sud-ovest della Libia, ma alcuni gruppi tribali armati sono rimasti fedeli al GNA.

Il mese scorso le conclusioni del meeting organizzato a Tunisi dall’Onu a cui hanno preso parte i rappresentanti più importanti del governo di accordo nazionale basato a Tripoli, del parlamento di Tobruk e dell’entourage bengazino di Haftar avevano fatto esultare l’inviata Stephanie Williams. Tutti i partecipanti sembravano determinati a trovare una data per le consultazioni e a formare il nuovo esecutivo necessario a indire le consultazioni. Ma quest’ultima fase si sta rivelando, come prevedibile, la più complicata e Williams ha avvertito con disappunto che il tempo per stabilizzare la Libia sta finendo. Uno dei motivi principali che concorrono a fomentare il conflitto è la presenza – in violazione dell’embargo di armi straniere stabilito dall’Onu – di ancora migliaia di mercenari stranieri mandati dai vari paesi (Turchia, Egitto, Emirati, Arabia Saudita, Russia) che hanno trasformato questo conflitto regionale in una guerra per procura. E sono proprio i mercenari stranieri a tenere bloccata l’arteria che va da Misurata a Sirte, la città chiave per la tenuta di Haftar, essendo la porta che collega la Tripolitania alla Cirenaica e ai suoi pozzi petroliferi. La riapertura dipende anche dalla rimozione delle mine.

Assange, il rischio di finire negli Usa resta ancora alto

Potrà uscire dopo dieci anni? La decisione se concedere o meno il rilascio su cauzione di Julian Assange, dopo che lunedì il giudice inglese Vanessa Baraitser ha negato l’estradizione negli Stati Uniti, è attesa per oggi. Ma anche se Baraitser dovesse concedergli di lasciare la prigione di Belmarsh a Londra, la lotta contro l’estradizione negli Stati Uniti sarà lunga. Il fondatore di WikiLeaks potrebbe ritrovarsi a combattere fino alla Corte Suprema inglese e da lì alla Corte europea dei Diritti umani. Un documento esclusivo, ottenuto da chi scrive grazie a un battaglia legale con il Foia in Inghilterra, rivela, però, che potrebbe non essere scontato l’appello alla Corte europea di Assange prima di essere estradato.

Il file risale al dicembre 2011, quando Assange era indagato in Svezia per stupro, inchiesta ormai chiusa. Oggi l’unica imputazione sul fondatore di WikiLeaks è l’incriminazione da parte degli Usa per aver pubblicato i file segreti che rivelano crimini di guerra e torture. Negli usa Assange rischia una pena di 175 anni. Nel dicembre 2011, invece, era la Svezia che cercava di estradarlo per interrogarlo in merito alle accuse di stupro, che risalivano all’agosto 2010, neppure un mese dopo che WikiLeaks aveva iniziato a pubblicare quei file. Assange non si è mai rifiutato di essere interrogato dalle autorità svedesi: di fatto si era già sottoposto a un interrogatorio nell’agosto 2010 su ordine del procuratore Eva Finné, il primo magistrato assegnato all’indagine svedese, che chiuse l’inchiesta per stupro dopo appena cinque giorni che era stata aperta, derubricandola a molestie. Assange si era rifiutato di farsi estradare in Svezia solo per essere interrogato in qualità di indagato, convinto che l’estradizione in Svezia aprisse le porte a quella negli Stati Uniti. Nel dicembre 2011, il fondatore di WikiLeaks aveva appena ottenuto il diritto di appellarsi alla Corte Suprema inglese contro l’estradizione in Svezia. Il documento rivela che l’8 dicembre 2011 il membro svedese di Eurojust – l’agenzia per la cooperazione giudiziaria tra stati dell’Unione Europea – contattò il suo corrispettivo inglese, scrivendogli via email di essere ottimista sul fatto che la Corte Suprema di Londra avrebbe emesso un verdetto a favore della Svezia. “Per la mia esperienza in casi simili visti a Eurojust, è importante prenderlo [Julian Assange] nel momento più vicino possibile alla sentenza per evitare conflitti, visto che ci aspettiamo un appello alla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Dopo una finestra di dieci giorni non è più possibile avere misure coercitive conto Mr A.”. In altre parole, secondo quanto scriveva l’allora membro svedese di Eurojust, la Svezia puntava a estradarlo prima che potesse fare ricorso alla Corte europea. Gli Stati Uniti proveranno a fare lo stesso?

Pollard, da spia a candidato di Bibi

Quattro, quattro, uno. Potrebbe essere questo, parafrasando il calcio, lo schema di attacco della campagna elettorale di Benjamin Netanyahu per il voto di primavera. Quattro gli accordi di normalizzazione firmati con Paesi arabi o musulmani (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Sudan e Marocco), quattro i milioni di israeliani da vaccinare contro il Coronavirus entro le elezioni di marzo. E poi l’arrivo in Israele di Jonathan Pollard, la spia ebrea che rubava dati all’intelligence Usa per passarli al Mossad; dopo che era stato arrestato, nessun premier negli ultimi 30 anni era riuscito a ottenere il suo rilascio. Un successo che Bibi vuole sfruttare fino in fondo.

L’obiettivo di Netanyahu è chiaro: avviare una legislazione per porre fine al suo processo o una grazia che gli consentirebbe di rimanere in carica. Fintanto che riuscirà a mantenere il Likud e i partiti ultraortodossi alla loro forza attuale nelle urne, avrebbe solo bisogno di prendere uno o due partner tra i partiti rivali per avere una coalizione di maggioranza. In alternativa, se non riesce a mettere insieme una maggioranza di almeno 61 seggi alla Knesset, può trascinare le cose come premier nell’attuale governo di transizione fino a quando non verranno indette altre elezioni e poi fino a quelle successive. Bibi in questo gioco è un maestro senza pari, per lui la situazione è grave, non seria. Per Gideon Sa’ar – l’ex ministro di Netanyahu che ora ha fondato un suo partito per sfidarlo – è improbabile prendere la leadership della destra, anche alleandosi con l’altro falco Naftali Bennett, i numeri non sarebbero sufficienti. L’opposizione di “centrosinistra” sta tentando di resuscitare una sorta di passato eroico immaginario associato al Mapai, il predecessore del Partito laburista, ora rappresentato da Ron Huldai – ex pilota di caccia, kibbutznik e sindaco della laica Tel Aviv – che ha appena lanciato il suo partito, Hayisraelim (Gli israeliani). Netanyahu ha poi aggiunto al suo bouquet elettorale la scorsa settimana anche Jonathan Pollard, l’ex spia percepito a destra come un eroe nazionale e una vittima del sistema giudiziario Usa. Una figura da spendere politicamente a piene mani in questa campagna elettorale. Pollard, 66 anni, e sua moglie Esther hanno volato dagli Usa su un jet privato di Sheldon Adelson, il re dei casinò di Las Vegas, amico personale del premier e proprietario del quotidiano israeliano Israel Hayom.

Netanyahu ha voluto tutta la scena, alla scaletta c’era solo lui. Pollard venne condannato negli Usa nel 1987 per spionaggio per conto di Israele a 30 anni quando prestava servizio come analista della US Navy.

Nonostante i continui appelli israeliani, la spia non venne mai perdonata e ha scontato l’intera pena, una vicenda che ha contribuito a mantenere so un clima di sospetto fra alleati. Nel 1984, Pollard e la sua allora fidanzata Anne Henderson si offrirono volontari come spie per Israele. Il colonnello Aviem Sela, un pilota dell’IAF che stava trascorrendo un anno sabbatico alla Columbia University, era la persona che collegava Pollard con Rafi Eitan (la spia che catturò Adolf Eichmann in Argentina nel 1960), allora capo del Lakam Scientific Liaison Bureau – unità di intelligence che raccoglieva informazioni tecniche e scientifiche, spesso legate al nucleare. Pollard per oltre un anno in cambio di decine di migliaia di dollari passò documenti classificati sullo sviluppo di armi chimiche in Iraq e Siria, foto satellitari della Tunisia – usate da Israele per bombardare nel 1985 il quartier generale dell’Olp, dove rimasero uccise 60 persone – informazioni sugli eserciti arabi e altro ancora. Nel 1985 Pollard usò il computer dell’ufficio per scaricare altri documenti riservati, i suoi supervisori si insospettirono e finì sotto sorveglianza. Quando si rese conto di essere stato smascherato, fuggì con la moglie nell’ambasciata israeliana a Washington. Ma su ordine di Eitan i due furono lasciati fuori dai cancelli. La coppia venne poi arrestata dall’Fbi. Uno smacco terribile per l’intelligence israeliana e per questo più tardi Eitan si dimise dal Mossad. Nessuno aveva pensato a un “piano” per esfiltrare Pollard se fosse stato scoperto, fu semplicemente abbandonato a se stesso. Anne Henderson Pollard fu condannata a 5 anni per favoreggiamento. I due divorziarono all’inizio degli anni 90, lui sposò Esther subito dopo, mentre era in prigione. Non è però tutto oro quel che luccica: durante le indagini è emerso che i Pollard avevano offerto i loro servizi, per soldi, anche a Sudafrica e Pakistan.

“Muccioli mi sequestrò. Ma non mi sarei salvato senza il suo coraggio”

Fabio Cantelli, scrittore e filosofo, è il protagonista più intenso della docu-serie Sanpa. Racconta i suoi 10 anni a San Patrignano con la gratitudine del sopravvissuto e la malinconia di chi ha dovuto imparare a vivere, dopo quegli anni accanto a Muccioli: “Entro a San Patrignano il 15 ottobre 1983 a 21 anni, dopo tre anni duri di tossicodipendenza”.

“Credo di essere stato l’unico tossico a essere partito subito dall’eroina in vena. Nell’82 iniziai con i furti e finii a San Vittore. Un magistrato mi disse: se fai un percorso di recupero ti faccio uscire.

E andasti da Muccioli?

No, a “Le Patriarche” in Francia, ma scappai. Mio padre adottivo, Alfio Cantelli, era un critico cinematografico del Giornale di Montanelli: chiese lui a Gian Marco Moratti di incontrarmi.

Accettò?

Sì, andai nella sede della Saras, in piazza San Babila. Non avevo mai incontrato un miliardario, mi trovai davanti questo uomo cordiale, gli raccontai il mio rapporto con l’eroina.

Cosa ti diceva?

Mi chiese: ‘Ma tu, i soldi per la roba, come li tiri su?’. Il fatto che avesse utilizzato il termine roba mi fece capire che conosceva il nostro gergo. Mi entusiasmai.

Che hai risposto?

Che proprio lì sotto in galleria c’era una boutique dove avevo rubato. Gli mostrai il gesto con cui mi mettevo il giubbotto sulla spalla quando entravo nei negozi per rubare. Era basito, ma ci siamo piaciuti.

Perché secondo te?

Credo ci considerassimo entrambi degli outsider. Io non mi sono mai ritenuto lo stereotipo del tossico, ero colto, amavo i libri, lui forse si sentiva una mosca bianca tra i miliardari.

Cioè?

Gian Marco, credo, viveva con un profondo senso di colpa il fatto di essere così spropositatamente ricco. Voleva restituire qualcosa. Sulla fascinazione che lui e Letizia provavano per Muccioli la mia idea è che fossero ammaliati dall’esuberanza vitale di Vincenzo. È l’animale dionisiaco che ti affascina, specie se non sei del tutto dentro la vita, come spesso capita ai ricchi.

Il primo incontro con Muccioli?

Aveva degli occhi che trapassavano l’aria. Mi fece una radiografia e disse: ‘Se vieni, devi stare qui almeno due anni. E poi io ti farò studiare’. Capì cosa mi interessava. Entrai lì dopo due mesi.

Come andò?

Tra l’83 e l’84 scappai sei volte. Mia madre mi tese una trappola d’accordo con Muccioli. Mi chiese di andare a casa a Milano, io arrivai e mi trovai due marcantoni che di notte mi portarono a San Patrignano.

Un sequestro.

Sì. Mi misero in una casetta di cemento di tre metri per tre, e mi chiusero dentro.

Quanto sei rimasto?

Diciotto giorni con la doppia crisi di astinenza: eroina e cocaina. Tentai il suicidio. Non c’erano oggetti quindi sbattevo la testa contro la porta di ferro. Mi resi conto che il mio corpo facevo resistenza, non volevo morire soffrendo, avevo sofferto già troppo nell’anima. Se ci fosse stata una finestra mi sarei buttato.

Ti sei arreso?

Il quindicesimo giorno l’angoscia fu tale che mi abbandonai disteso sul pagliericcio, e nella disperazione mi pervase un senso di pace. Mi guardai dal di fuori per la prima volta e scorsi un esserino di 50 chili in mutande. Provai pena per me stesso.

La terapia lì dentro era Muccioli, quello è chiaro. Oltre a lui, cosa aiutava a liberarsi dalle sostanze?

Intanto non si usano sostanze, ma si viene usati delle sostanze, si viene ‘assunti dalle droghe’. E poi la droga è un mondo, non una cosa. Per liberartene devi costruirti un mondo alternativo, un presente. L’intuizione di Muccioli era: devono imparare un lavoro. Capiva la vocazione professionale, di me capì che dovevano studiare.

Un momento felice.

Il Natale del 1984. Ero ancora inquieto. Arrivai in ritardo in mensa per la cena natalizia, c’erano le ragazze vestite da angeli, un regalo per ognuno di noi della comunità, quando entrai mi sentii investito da un’onda di affetto: era un assembramento di naufraghi che si abbracciavano, felici di aver trovato la terraferma. Cominciai a piangere in maniera incontrollata. Avevo capito cosa fosse una comunità.

Quando hai capito che non lo era più?

Quando venni a sapere che ero sieropositivo da Vincenzo, dopo che me lo aveva nascosto per anni. E dopo l’omicidio di Maranzano. Conoscevo troppo bene Vincenzo: non era possibile che non l’avesse saputo subito.

Muccioli era a suo modo un ‘dipendente’?

Era governato dai suoi impulsi. Quando era a tavola e vedeva le piadine ne mangiava dieci. Era governato dal potere, dall’ambizione. Erano tutti ai suoi piedi.

Un aneddoto su Vincenzo e un politico?

In comunità venne Giorgio Almirante, poi mandò una lettera a Muccioli che iniziava così: ‘Ingegnere!’. Muccioli non era neppure laureato. Almirante tornò, continuava a chiamarlo ingegnere. Muccioli spiegò di non esserlo e Almirante rispose: ‘Lei è ingegnere: costruisce uomini!’. Ridemmo molto.

Era mai in soggezione?

No. Anche con Craxi aveva un rapporto paritario. Stimava molto Pannella.

Su quale terreno si incontravano?

Forse sul narcisismo.

San Patrignano è stato anche il luogo della macelleria, della violenza.

Ho capito cosa era successo quando ho letto I sommersi e i salvati di Primo Levi, con l’ebreo che i nazisti mettono a capo di un ghetto e che diventa un monarca terribile. Muccioli mise lì persone senza equilibrio che assieme ai loro sgherri furono usate per esercitare il potere in una comunità cresciuta troppo.

E quando il potere vacilla, Muccioli si eclissa.

L’ho conosciuto come un capitano Achab e alla fine l’ho visto trasfigurarsi in Benito Cereno, costretto a fingere davanti al mondo di essere ancora capitano di una nave che sente ormai soltanto come una minaccia. Non voleva essere ricordato come un patacca, splendida parola con cui a Rimini si designano i chiacchieroni vanagloriosi.

E poi ci fu la malattia.

Non ci fu detto nulla. Sparì per mesi, leggemmo che stava male nell’editoriale di Biagi. Forse avevano già deciso che il successore sarebbe stato il figlio, temevano che noi collaboratori fidati avremmo espresso perplessità.

Perché?

Perché Andrea ha le sue qualità, ma il carisma del padre non si inventa.

Ti saresti salvato senza San Patrignano?

So che i cultori del diritto inorridiranno, ma se non avessi trovato una persona col coraggio di commettere un sequestro, non sarei vivo. Poi, certo, la sopravvivenza non è vita. Il senso della vita non te lo dà San Patrignano. Ci si salva sempre da soli.

Cosa avresti detto al Muccioli che stava morendo?

Che avrebbe dovuto fidarsi di più di noi. Mi fa orrore la macchina burocratica che SanPa era diventata e questo immenso show-room che è oggi.

Sei tornato?

Nel 2000. Non era più il luogo che avevo conosciuto. Tutto pettinato, le aiuole, senza più l’anima sporca della comunità.

Perché SanPa sta avendo questo successo?

Perché è un lavoro straordinario. Perché racconta la complessità di quello che è stato. È come una tragedia di Shakespeare: c’è l’amore, c’è il potere, la morte, la vendetta, tutto l’umano. È un meraviglioso specchio per riconoscersi.